Vita di Gesù 12

Puget Pierre - Cristo morente sulla croce (particolare, Parigi, Louvre).jpgIl centurione di Cafarnao e la vedova di Naim

§ 336. Tanto Luca quanto Matteo mettono dopo il Discorso della montagna l’episodio del centurione di Cafarnao: la circostanza cro­nologica sembra dunque assicurata, ed essa insieme con le diver­genze interne basta a distinguere questo episodio dall’altro dell’im­piegato regio (§ 298), sebbene in realtà i due episodi abbiano vari tratti somiglianti. Poco dopo il Discorso, Gesù rientrò a Cafarnao, dov’era di guarnigione un centurione: probabilmente faceva parte delle truppe mercenarie del locale tetrarca Erode Antipa, non di qualche distaccamento romano. Era pagano ma ben disposto verso il giudaismo, tanto che aveva costruito a sue spese la sinagoga di Cafarnao (§ 285); la sua bontà di cuore è confermata anche dal fatto che aveva uno schiavo al quale era affezionatissimo, trattan­dolo più da figlio che da schiavo. Ora, questo schiavo si era am­malato e stava in punto di morte; il desolato centurione, che aveva certamente tentato tutte le cure ma invano, conosceva di fama Gesù, anzi proprio in quel giorno Cafarnao si doveva esser quasi svuotata perché molti si erano recati sulla vicina montagna ove il famoso taumaturgo teneva un gran discorso. Disperando dei medici, il centurione pensò spontaneamente al taumaturgo; ma non osava di proporgli il suo caso, anche perché non era stato in relazioni per­sonali con lui. Si rivolse allora a Giudei insigni del paese, affinché parlassero a Gesu’ del moribondo pregandolo di far qualcosa per lui. I Giudei fecero l’ambasciata e raccomandarono vivamente a Gesù il desiderio del centurione: E’ degno che tu gli conceda ciò: ama infatti la nostra nazione, e la sinagoga ti costruì (proprio) egli (Luca, 7, 15). Gesù, giudeo, fu accessibile a questa domanda giudaica: quel pa­gano era stato un benefattore anche di lui, perché della sinagoga di Cafarnao anche Gesù si era servito per pregare e predicare; sen­z’altro, quindi, s’avviò insieme con gli intercessori alla volta della casa del centurione. Ne era già in vista, quando fu incontrato da una seconda ambasceria inviatagli dal centurione. Costui sentiva una certa titubanza, motivata da scrupolo e da rispetto: la sua casa era pagana, cioè tale che un Giudeo osservante non avrebbe potuto entrarvi senza stimarsi contaminato; e il famoso Gesù non avrebbe sentito interiormente ripugnanza a tale ingresso, o almeno non ne avrebbe riportato esteriormente disonore presso i suoi cor­religionari? Perciò la nuova ambasceria avvertì delicatamente Gesù da parte del centurione: Signore, non ti disturbare! Non sono in­fatti degno che entri sotto il mio tetto; perciò neppure mi stimai degno di venire da te: ma comanda a parola, e sia sanato il mio servo! Anch’io, infatti, sono uomo ch’e’ messo sotto autorità, avendo sotto di me soldati, e dico a questo “Va’!” ed (egli) va, e ad un altro e Vieni! ed (egli) viene, ed al mio schiavo e Fa’ ciò! ed (egli lo) fa (Luca, 7, 6-8). Il centurione voleva giustificare la pro­pria deferenza verso Gesù col suo spirito soldatesco. Egli conosceva bene ciò che i Romani d’allora chiamavano l’imperium e noi oggi chiamiamo la disciplina militare, e l’esercitava sui propri soldati essendone sempre obbedito; Gesù quindi non si abbassasse fino a venire in casa sua, ma pronunziasse una sola parola d’imperium, e il suo comando sarebbe subito riconosciuto ed eseguito dalle forze della natura che opprimevano il moribondo. Udite tali cose, Gesu’ l’ammirò, e rivoltosi alla folla che lo seguiva disse: Vi dico, neppure in Israele trovai tanta fede! E subito la parola d’imperium aspet­tata dalla bocca di Gesù fu pronunziata, e il malato fu guarito all’istante. Ma nel racconto evangelico tutto ciò passa quasi in se conda linea, mentre in prima linea rimane la tanta fede.

§ 337. A questo episodio il solo Luca soggiunge quello di Naim. In greco il nome è Naim, e si è conservato in quello arabo odierno. Il villaggio è situato alle falde del Piccolo Hermon, a una dozzina di chilometri da Nazareth e a una cinquantina da Cafarnao per la strada odierna, e oggi consta di poche e miserabili case con nep­pure 200 abitanti tutti musulmani; ai tempi di Gesù era certo in condizioni migliori, ma era egualmente di poca ampiezza e sembra che avesse un’ unica porta nelle mura. A questa borgatuccia Gesù un giorno giunse accompagnato dai discepoli e da molta folla. Mentre egli stava per entrare nella porta delle mura, ecco uscirne un corteo funebre, indirizzato certamente a quel cimitero ch’è ancora oggi superstite a breve distanza dalle case e contiene antiche tombe scavate nella roccia. Portavano alla tomba un giovanetto; la madre del morto, ch’era vedova ed aveva quel solo figlio, seguiva la salma. Il caso era particolarmente pie­toso, e forse ciò spiega anche perché c’era molta lolla della città insieme con essa vedova (Luca, 7, 12): certamente tutti della bor­gata avevano risaputo della disgrazia e volevano condolersi con l’infelicissima madre. Di tutto il resto che Gesù vide in quest’incontro, non dice nulla il sapiente Luca; per lo scrittore medico il triste corteo si riassume tutto nella madre piangente, e Gesù non vede che lei: e vedutala, il Signore s’inteneri su di lei, e le disse “Non piangere!”. Queste due parole erano state certamente ripetute centinaia o migliaia di volte in quella giornata alla povera donna, ma rimanevano soltanto parole. Gesù andò oltre le parole; e avvicinandosi toccò la bara – i portatori allora si fermarono – e disse: e Giovanetto, dico a te, alzati! ». E il morto si alzò a sedere, e cominciò a parlare; e (Gesu’) lo dette alla sua mamma. La descrizione, come ognun vede, è quanto di più vivo ed imme­diato si possa immaginare; ha perfino il realismo di far notare come i portatori si fermassero sorpresi da quell’inaspettato intervento, e come il morto, tornato in vita ma sbalordito ben più dei portatori, per prima cosa si mettesse a sedere sulla bara, quasi per prendere tempo ad orientarsi e rendersi conto di quanto era successo. Se dunque si trattasse della descrizione d’un corteo nuziale qualsiasi, oppure d’una scena in cui Gesù semplicemente accarezzi bambini, nessun critico avrebbe trovato alcunché da ridire e tutti sarebbero stati d’accordo nell’accettare la narrazione tale quale, senza sco­prirvi dei sottintesi. Ma qui c’è di mezzo il morto che risuscita; ed ecco perciò che il testo di Luca è stato collocato insieme con le presunte allegorie del IV vangelo e considerato come un simbolo continuato: la madre vedova sarebbe Gerusalemme, il figlio unico sarebbe Israele, il quale è strappato dalla morte e restituito alla madre mercé la potenza di Gesù (Loisy). Basta però rileggere il testo di Luca per riscontrare se interpretazioni siffatte siano dettate da critica e storica, oppure da prevenzioni e filosofiche, e se que­ste prevenzioni rispettino l’indole della narrazione oppure la defor­mino totalmente.

Il messaggio di Giovanni il Batlista

§ 338. Frattanto nei sotterranei di Macheronte (§ 292) Giovanni fremeva come leone racchiuso. Quanto più il tempo passava e la prigionia si prolungava, tanto più il suo spirito si struggeva di vi­brante attesa: egli era nato e vissuto per essere il precursore del Messia, e non aveva sottratto un sol giorno della sua esistenza a quella missione; ma adesso che la sua esistenza da un giorno all’al­tro poteva esser troncata dalla prepotenza degli uomini, egli ancora non vedeva coronata la sua missione da una palese e solenne mani­festazione del Messia. Questa ansiosa aspettativa era grave al pri­gioniero ben più dell’estenuante inerzia a cui era condannato e ben più della spada di Erode Antipa che gli roteava sulla testa. La segregazione non era però totale: il tiranno, che nutriva per Giovanni una superstiziosa venerazione (§ 17), gli permetteva di ricevere nella prigione i suoi discepoli rimastigli attaccati anche dopo la cornparsa in pubblico di Gesù, per il quale del resto taluni di essi nutrivano una certa avversione (§§ 291, 307). Mediante le notizie che riceveva da questi visitatori, il prigioniero seguiva i pro­gressi che faceva il ministero di Gesù e i fatti straordinari che l’ac­compagnavano; ma quelle notizie, se rinsaldavano sempre più nel suo spirito l’opinione ch’egli aveva di Gesù e che aveva pure espres­sa pubblicamente, aumentavano sempre più la sua ansiosa aspetta­tiva. I visitatori gli annunziavano che il nuovo Rabbi operava mira­coli, si’, ma giammai in nessuna occasione si era proclamato Messia, anzi redargniva severamente coloro che lo proclamavano tale e fug­giva ogni occasione a che le turbe facessero ciò (§ 300); è anche molto probabile che i visitatori, riferendogli questo, se ne compia­cessero nella gelosia che nutrivano per Gesù insieme con l’affetto per Giovanni. Il prigioniero invece ne doveva essere accorato: forse si domandava se il suo ufficio di precursore era totalmente termi­nato, e se egli pur dalla prigione non dovesse ancora compiere qual­che cosa per far riconoscere Gesù come Messia. Perché dunque il figlio di Maria tardava tanto a proclamarsi Messia? Solo con questa solenne proclamazione l’ufficio di lui, Giovanni, si sarebbe concluso per sempre, mentre senza di essa egli sarebbe rimasto il precursore di uno che in realtà non compariva. Eppure oramai egli era tagliato fuori dalla vita del popolo, e da un momento all’altro poteva anche partire da questo mondo, senza aver la consolazione di vedere che il popolo accorreva compatto al Messia da lui additato, anzi ve­dendo che perfino i suoi propri discepoli sentivano una certa ripulsa per Gesù. Che poteva fare egli ancora dalla prigione? Come sospin­gere Gesù all’attesa proclamazione, e come insieme sospingere verso Gesù i suoi propri discepoli?

§ 339. Un giorno il prigioniero prese la sua risoluzione. Da Ma­cheronte egli inviò due suoi discepoli a Gesù con l’incarico di ri­volgergli questa domanda: Sei tu il Veniente, o (bisogna) che aspet­tiamo un altro? (Luca, 1,19-20). L’espressione il Veniente designava per i Giudei un “termine fisso d’eterno consiglio”, cioè quel Messia che “doveva venire” (§§ 213, 296, 374, 505), di cui gli antichi profeti erano stati lontani araldi e Giovanni il Bat­tista si era presentato quale immediato precursore. La domanda perciò costringeva ad una precisa dichiarazione sia Gesù che la riceveva, sia i discepoli di Giovanni che la rivolgevano: Gesù non poteva negare in pubblico quella sua qualità di cui Gio­vanni era assolutamente certo; i discepoli interroganti, udendo an­che dalla bocca di Gesù quella stessa affermazione che a suo riguar­do avevano udita dalla bocca del venerato Giovanni, non potevano esitare ad abbandonare la loro diffidenza verso Gesù e ad aderire a lui. D’altra parte la domanda, pur essendo così contingente, aveva un’intonazione generica: era in sostanza la medesima domanda che i maggiorenti di Gerusalemme avevano rivolta alcuni mesi prima al­lo stesso Giovanni (§ 277). La risposta di Gesù fu diversa da quella aspettata: egli non pro­nunziò il “no” ch’era impossibile, ma neppure pronunziò il chiaro ed esplicito “si” che Giovanni aveva tentato di provocare. Quando i due inviati esposero la domanda a Gesù, egli in quell’ora curò molti da malattie e infermità e spiriti maligni, e a molti ciechi fece grazia di vedere; poi rispondendo disse a quelli: Andate ad annunziare a Giovanni le cose che vedeste e udiste: “Ciechi vedono, zoppi camminano, lebbrosi sono mondati, e sordi odono, morti ri­sorgono, poveri ricevono la buona novella”: ed e’ beato colui che non si scandalizzi in me (Luca, 7, 21-23). In conclusione, invece di rispondere con parole Gesù rispondeva con fatti, i quali valevano a dimostrare se egli era o no il Veniente Messia. Ma i fatti mira­colosi presenti si richiamavano a parole profetiche passate, perché già da Isaia era stato annunziato che ai tempi messianici i ciechi avrebbero visto, i sordi udito, gli zoppi camminato (Isaia, 29, 18; 35, 5-6), e i poveri avrebbero ricevuto la buona novella (Is., 61, I); se dunque Gesù avverava con le sue opere le profezie messianiche, le stesse opere lo proclamavano Messia. Tuttavia, questa esplicita proclamazione dalla bocca sua non uscì. L’inaspettata risposta fu certo riportata al prigioniero, ma non ci è riferito che impressione facesse su lui. E’ ben possibile che Gio­vanni avesse preferito sentirsi riportare come Gesù si fosse procla­mato apertamente e sonoramente Messia, e come a quella procla­mazione tutti i Giudei di Palestina e di fuori fossero accorsi osan­nanti al loro re: molto più tardi gli stessi discepoli di Gesù, edotti per lunghi mesi alla scuola di lui, s’aspetteranno ancora qualcosa di simile. Se questa fu realmente l’aspettativa di Giovanni, biso­gnerebbe applicare anche a lui l’osservazione che lo stesso Luca fa sui genitori di Gesù, i quali non capirono la parola che pronunziò loro (§ 262); Giovanni non avrebbe capito la risposta di Gesù per varie possibili ragioni, fra cui quella di non sapere che Gesù se­guiva una linea di manifestazione graduale della propria messiani­cità per motivi altamente spirituali (§ 300 segg.).

§ 340. L’onorevole provocazione di Giovanni, sebbene non assecon­data, fu gradita da Gesù. Per mostrare che il precursore non era certamente uno di coloro che si sarebbero scandalizzati di lui, Gesù dopo la partenza dei due invitati fece il più alto elogio di Giovanni proclamandolo piu’ che profeta, a nessuno inferiore fra i nati di donna, e infine precursore del Messia conforme alla profezia di Ma­lachia, 3, 1. Senonché, mentre la povera gente e i pubblicani avevano accolto la predicazione di Giovanni ed accettato il suo batte­simo, la massima parte degli Scribi e dei Farisei era rimasta retriva rendendo vano il consiglio d’Iddio a loro riguardo (Luca, 7, 30). Perciò Gesù soggiunse una similitudine: A chi dunque rassomiglierò gli uomini di questa generazione, e a chi sono somiglianti? Sono somiglianti a quei ragazzetti che stanno nella piazza, e si apostro fano tra di loro dicendo: ”Il flauto vi sonammo e non ballaste! – Lamentele facemmo e non piangeste!”. La similitudine è presa dagli usi di quei tempi sociali, perciò anche i cortei nuziali e quelli funebri: nel primo caso, alcuni sonavano o fingevano sonate flauti, mentre gli altri dovevano ballare come se fossero gli “amici dello sposo” (§ 281); nel secondo caso, gli uni imitavano le manifestazioni di cordoglio fatte dalle lamentatrici di professione ch’erano chiamate ai funerali, e gli altri dovevano piangere come se fossero i parenti del defunto. Tuttavia spesso il giuoco non riusciva bene, perché il gruppo di ragazzi che doveva o ballare o piangere non faceva con diligenza la sua parte, e allora sorgevano recriminazioni e apostrofi interminabili. L’applicazione della similitudine fu fatta da Gesù stesso, che pro­seguì: E’ venuto infatti Giovanni il Battista non mangiando pane né bevendo vino, e dite: “Ha un demonio”; è venuto il figlio dell’uomo mangiando e bevendo, e dite: “Ecco un uomo mangiatore e bevitor di vino, amico di pubblicani e peccatori” (Luca, 7, 33-34). I Farisei non avevano accettato la predicazione di Giovanni per­ché, oltre il resto, egli era troppo rigoroso e austero, tanto da sem­brare un fanatico spiritato (anche oggi gli Arabi chiamerebbero un uomo siffatto un magnun, ossia posseduto dal ginn,”spirito fol­letto”; ma ecco che, comparso Gesù, anche la sua predicazione era respinta col pretesto ch’egli mangiava come tutti gli uomini, lasciava mangiare i suoi discepoli quando avevano fame (§§ 307-308), e trattava con pubblicani e peccatori. Cosicché, o si sonasse il flauto o si alzassero lamenti funebri, il giuoco non riusciva mai bene con i Farisei, ma perché essi appunto non volevano farlo riuscir bene. Eppure sarebbe riuscito egualmente, perché la Sapienza (di­vina) fu riconosciuta giusta da tutti i suoi figli (in Matteo, 11, 19, greco: dalle sue opere).

La peccatrice innominata

§ 341. A questo punto il solo Luca, lo scriba mansuetudinis Chriti secondo la definizione dell’Alighieri (§ 138), narra un episodio che dimostra quella mansuetudine. I Farisei continuano a sorvegliare Gesù; ma non è necessario che la sorveglianza abbia sempre un aspetto aggressivo, anzi talvolta è maniera più astuta darle un sembiante amichevole. Per questa ragione un Fariseo, dal nome comunissimo di Simone, invita Gesù a pranzo: il luogo non è nominato, ma doveva essere una borgata della Galilea. Il pranzo, secondo l’uso del tempo, è tenuto in una stanza con nel mezzo una tavola a semicerchio: nell’interno del se­micerchio s’aggirano i servi con le vivande, e i convitati stanno in piccoli divani che sono disposti radialmente all’esterno del semicer­chio; quindi ogni convitato è sdraiato sul suo divano in modo da appoggiarsi su un gomito e da avere il busto vicino alla tavola, mentre i suoi piedi rimangono un po’ fuori del divano e lontani dalla tavola. Il pranzo offerto da Simone ha vari convitati, e probabilmente non è stato imbandito apposta per Gesù: tuttavia Simone ha colto l’oc­casione per invitare anche l’indomito predicatore e studiarselo comodamente da vicino nella sincerità che suscitano i fumi d’un con­vito; ad ogni modo a Gesù, convocato più a un esame che a un convito, sono negati i complimenti riserbati ordinariamente a un invitato insigne, quali la lavanda dei piedi appena entrato, l’ab­braccio e il bacio da parte del padrone di casa, lo spruzzo di pro­fumi sulla testa prima di mettersi a tavola. Gesù nota queste negate attenzioni, ma non dice nulla e si mette a tavola con gli altri. Ma ecco che, nel colmo del convito, entra nella stanza una donna: confusa tra i familiari che servono, ella non parla a nessuno, va difilata al divano di Gesù, s’inginocchia all’esterno nella parte più lontana dalla tavola, e lì scoppia in pianto. Le sue lacrime sono così abbondanti che rigano i piedi di Gesù: ella però non vuole che quei piedi rimangano rigati dai segni del dolore, ma trovandosi nell’im­previsto e non avendo con sé un panno per asciugarli, per maggior deferenza scioglie i suoi capelli e cosi asciuga quei piedi; poi li ba­cia e ribacia, poi ancora li spruzza col profumo d’un vasetto d’a­labastro che ha portato con sé per ungere la testa della persona venerata (§ 501). Tutto avviene senza una parola da parte della donna o di Gesù. Solo un sottile sorriso illumina la faccia di Si­mone: l’esaminatore ha già giudicato l’esaminando e l’ha riprovato. Simone infatti a quella vista ragiona dentro di sé: Costui, se fosse profeta, saprebbe chi e che razza di donna e’ colei che lo tocca: e infatti una peccatrice! (Luca, 7, 39). Per i Farisei peccatrice aveva un significato vario: po­teva designare tanto una donna di perversi costumi, quanto una donna che non osservava le prescrizioni farisaiche; nel Talmud è equiparata a una peccatrice anche la moglie che dia a mangiare a suo marito cibi di cui non sia stata pagata la decima. Seguendo una via di mezzo, si potrà supporre che la donna introdottasi nel convito di Simone fosse una persona di riputazione dubbia, giacché se fosse stata una vera meretrice ben difficilmente i familiari del Fariseo l’avrebbero lasciata penetrare dentro la casa: lo scandalo, davanti ai convitati, sarebbe stato troppo grave. L’ignota donna certamente già conosceva Gesù almeno di vista: l’aveva udito par­lare in pubblico, aveva ascoltato dalla sua bocca quelle parole che richiamavano inesorabilmente tutti a “cambiamento di mente” (§ 335) ma nello stesso tempo sonavano così benigne e conforte­voli ai più traviati ed abietti; ella ne era stata dapprima sconvolta e atterrata nell’abiettezza della sua vita, poi sentendosi risollevata e sorretta dalla misericordiosa speranza diffusa nel suo cuore in virtù di quelle stesse parole, aveva fermamente creduto in una vita nuova, e al momento d’iniziarla si era presentata al suo rigenera­tore per esprimergli i propri sentimenti in maniera squisitamente femminea.

§ 342. Il sottile sorriso beffardo di Simone forse fu notato da Gesù, il suo occulto pensiero di riprovazione certamente fu letto dal ri­provato, che perciò gli rivolse pacatamente la parola: Simone, ho qualche cosa da dirti! – E l’altro, condiscendente: Maestro, dì pu­re! – Gesù allora: Ci fu una volta un creditore che doveva riscuo­tere da un debitore la somma di 500 denari e da un altro una som­ma dieci volte minore, cioè soltanto 50 denari; ma poiché nessuno dei due debitori era in grado di pagare e il creditore era un uomo di buon cuore, rimise ad ambedue i loro debiti rispettivi. Di questi debitori condonati chi credi tu, Simone, che sarà più grato e più affezionato al generoso creditore? – Simone rispose: M’immagino che sarà colui al quale è stato condonato di più. – La risposta era tanto elementare quanto giusta. Gesù allora replicò: Vedi questa donna? Entrai in casa tua, acqua ai miei piedi non desti: costei invece mi bagnò con le lacrime i piedi ed asciugò con i suoi capelli. Bacio non mi desti: costei invece, da quando entrai, non cessava di baciarmi i piedi. Con olio la mia testa non ungesti: costei invece con unguento mi unse i piedi. In grazia di che, ti dico, sono rimessi i peccati di lei i quali (sono) molti perché amò molto; a chi invece poco si rimette, poco ama (Luca, 7, 44-47). Non sono mancati i mestieranti della logica che hanno scoperto una conclusione illogica nel ragionamento di Gesù: la conclusione legittima, in armonia con la parabola dei due debitori, sarebbe stata che la peccatrice doveva amare di più perché di più le era stato condonato. Senonché l’obiezione suppone che Gesù avesse voglia d’insegnare la maniera di fare i compassati sillogismi “in forma”, sostituendosi nel mestiere ad Aristotile: ma Gesù aveva altro da fare, e ragionava seguendo la logica pratica di tutti gli uomini, che spessissimo saltano alla conclusione tralasciando talune premesse facilmente comprensibili. Nel caso nostro, la peccatrice conseguì la molta remissione perché amò molto, ma se amò molto la ragione a sua volta è che ella ricercò e quasi prevenne la molta remissione: l’amore fu unico, e dapprima spinse la peccatrice a cercar la remissione e ne fu causa, poi la confermò nella remissione e ne fu effetto, come fu effetto della remissione nel debitore della para­bola. Le due conseguenze si richiamano a vicenda, e Gesù senza limitarsi alla conseguenza che sarebbe scaturita a rigore dalla para­bola insiste piuttosto sull’altra, giacché parlava a Simone il quale da buon Fariseo aveva poco di esteriore da farsi perdonare ma aveva anche poco amore interiore. Ora, per Gesù, ostacolo ad en­trare nel regno di Dio erano certamente i peccati, ma questi pote­vano esser sempre perdonati: ostacolo insuperabile era invece la mancanza di spinta ad entrare, la mancanza d’amore. Un Fariseo, posto anche sulla soglia del regno, difficilmente vi sarebbe entrato perché era soddisfatto di se stesso e gli mancava la spinta a fare i due o tre passi per entrare; una meretrice invece, quando si fosse accorta di ciò che era, avrebbe avuto ribrezzo di se stessa e avrebbe corso le mille miglia per entrare nel regno, sospinta nella sua corsa dall’amore. Amore pondus e amore pra’mium, come rifletterà più tardi l’esperto Agostino. Del resto Gesù, recandosi in casa di Simone, aveva veramente do­nato molto, pur essendone contraccambiato male dal Fariseo; la donna invece aveva ricercato ella stessa Gesù offrendogli ogni prova di devozione, e con ciò aveva donato molto, pur non essendo stata prevenuta apparentemente da Gesù. Di qui la sua ampia retribu­zione; la quale, inoltre, servirà a confermarla sempre più nel suo amore. Terminato il ragionamento a Simone, Gesù si rivolse alla donna e le disse: Ti sono rimessi i peccati. Come rimanesse Simone non sappiamo; ci è riferito soltanto che gli altri convitati, della tempra di Simone, cominciarono a dire dentro di sé: Chi e costui che ri­mette pure i peccati? La stessa riflessione era stata fatta dai Farisei presenti alla scena del paralitico calato dal soffitto (§ 305), e allora Gesù aveva chiuso loro la bocca con un miracolo; questa volta il miracolo non fu compiuto, perché Gesù non aveva alcun motivo di compierne uno ogni qual volta delle oche messesi a far da guardiane ad un presunto campidoglio d’ortodossia avessero cominciato a gracchiare. Preferì invece confermare la donna nella sua nuova via, e le disse: La fede tua ti ha salvata: va’ in pace! Pace e amore erano la stessa cosa.

Ministero spicciolo

§ 343. Subito dopo il racconto del convito di Simone, Luca sog­giunge: E avvenne in seguito, ed egli viaggiava per città e borgate predicando e annunziando la buona novella del regno d’Iddio, e i dodici con lui (Luca, 8, 1). Queste parole possono valere come un generico riassunto dell’operosità spie­gata da Gesù in Galilea nel restante di questo tempo, fino alla se­conda Pasqua del suo ministero pubblico. Quell’operosità dovette essere intensa, benché forse non molto varia, e probabilmente la primitiva catechesi della Chiesa ne raccontava episodi più numerosi dei pochi trasmessi fino a noi. Fu una vita da missionario ambu­lante, per cui Gesù si trasferiva da regione a regione e da borgata a borgata, predicando in pubblico ed in privato, nelle sinagoghe e nelle case, e confermando le sue predicazioni con miracoli; natu­ralmente le turbe accorrevano a lui attratte, non soltanto dall’effi­cacia dei suoi insegnamenti, ma anche più dall’utilità immediata dei miracoli. Gesù non era solo: aveva con sé un gruppetto di persone a lui devote, e anche un codazzo mutevole di gente animata da altri sentimenti. Fra le persone a lui devote erano in primo luogo i dodici Apostoli da lui scelti, che erano suoi abituali cooperatori nel ministero e for­se solo saltuariamente e per poco tempo si allontanavano da lui; vi erano certamente anche altri discepoli, sebbene non Apostoli, le­gati da particolare affetto al maestro. Ma in quella vita di conti­nua peregrinazione il gruppetto di Gesù e dei suoi cooperatori ave­va bisogno di qualche assistenza materiale per le esigenze impe­riose della vita, tanto più che l’incessante ministero non doveva lasciar loro il tempo di provvedersi da essi stessi, né si poteva pre­tendere che una ventina e forse più di persone trovasse vitto e al­loggio, sempre gratuiti e pronti, in qualunque misero villaggio della Galilea. Per questa ragione, subito dopo la precedente notizia, l’ac­corto Luca ci comunica che insieme a Gesù e i dodici erano anche talune donne ch’erano state curate da spiriti maligni e infermità, Maria quella chiamata Magdalena dalla quale erano usciti sette demonii, e Giovanna moglie di Chuza sovrintendente di Erode, e Susanna e molte altre, le quali ministravano ad essi dalle loro pro­prie sostanze. Già osservammo che queste donne dovettero essere, più tardi, fonti di notizie per l’evangelista (§ 142); qui egli ci dice ch’esse erano anche le solerti massaie del gruppetto di Gesù, e la cosa appare naturalissima: non è però necessario credere che tutte sempre seguissero Gesù nelle sue continue peregrinazioni, ma basterà supporre che fra di esse fosse in uso una specie di organizzato avvi­cendamento per provvedere ai bisogni dei missionari, assistendoli a proprie spese e spesso anche servendoli di persona. Queste donne erano state curate da spiriti maligni e infermità per opera di Gesù: dunque la gratitudine le aveva spinte ad incaricarsi di un’opera particolarmente appropriata a donne, quale il governo materiale di una specie di famiglia. I mezzi per fronteggiare le spese – che del resto certamente non erano gravi – non dovevano difettare: Giovanna, come moglie di un sovrintendente di Erode (Antipa), era senza dubbio facoltosa, e forse anche altre erano ben provviste: le meno fornite di beni materiali avranno supplito spe­cialmente con l’opera personale. Delle donne qui mentovate, Giovanna e Susanna sono ricordate dal solo Luca, Maria la Magdalena anche dagli altri evangelisti. Il suo appellativo di Magdalena la designa come originaria di Magdala, cioè Tarichea (§ 303), sulla riva occidentale del lago, e quindi na­tiva della Galilea e non della Giudea; se poi è detto che da essa erano usciti sette demonii, ciò significa soltanto ch’era stata liberata per opera di Gesù da qualche potente ossessione diabolica, mentre non avrebbe il minimo fondamento nelle narrazioni evangeliche sup­porre che ella fosse stata in precedenza una donna di mala vita e tanto meno l’innominata peccatrice del convito di Simone (§ 341).

§ 344. Ma, oltre a questo gruppo di gente fedele, ronzava attorno a Gesù anche un codazzo di persone in parte nettamente ostili, quali i Farisei, in parte diffidenti o almeno dubbiose e incerte. Su queste ultime ci informa incidentalmente una breve notizia di Marco (3, 20-21). Durante una peregrinazione avvenuta in questo tempo, pro­babilmente in qualche borgata della zona tra Cafarnao e Nazareth, Gesù viene ad una casa, e di nuovo si raduna folla, tanto che essi (Gesù e i discepoli) non potevano neppure prender cibo; era dunque una delle solite affluenze di popolo, ma questa volta anche più in­comoda per la ristrettezza di spazio. Ora, tali abituali affluenze, e anche l’operosità infaticabile di Gesu’, avevano richiamato l’atten­zione pure delle persone neutrali e indifferenti, che non sentivano né l’affetto dei discepoli né l’astio dei Farisei; tali persone avevano anche espresso il loro giudizio su Gesù, e dicevanoEfuori di sé” Questa espressione, pur non escludendo un senso dispregiativo, non lo include per necessità affatto: poteva essere fuori di sé tanto un uomo, psichicamente anormale, quanto un uomo normalissimo ma tutto preso da un entusiasmo sapiente e santo (cfr. Il Cor., 5, 13). Cotesti neutrali e indifferenti si erano cavati d’impaccio giudicando Gesù in maniera ambigua e riferendosi solo a ciò che appariva pa­lesemente al di fuori, cioè alla sua incessante operosità missionaria che presupponeva uno stato d’animo fuor dell’ordinario: ma sulla vera indole di quello stato d’animo essi non avevano dato alcun giu­dizio. L’ambigua sentenza era giunta alle orecchie dei parenti di Gesù, e saputo che proprio allora egli si trovava come assediato in quella casa, i suoi uscirono per impadronirsi di lui, poiché dicevano “E’ fuori di sé”. L’espressione i suoi designa cer­tamente la parentela di Gesù, di cui già sappiamo che taluni erano sfavorevoli a lui (§ 264); ma ciò non basta per riferire necessaria­mente a costoro la sentenza “È fuori di sé”, perché il verbo reg­gente dicevano può benissimo valere per un impersonale (si diceva, la gente diceva) come si ritrova altre volte in Marco (3, 30; ecc.). Inoltre, da chiunque fosse stato espresso quel giudizio, la venuta dei parenti aveva secondo ogni verosimiglianza uno scopo amichevole e benigno: essi accorrevano, non già per legare e portar via Gesù come pazzo, bensì per indurlo a moderarsi nel suo entu­siasmo missionario, a prendersi cura della sua persona, a fare insom­ma una vita comoda e normale tra i suoi al riparo dalle minacce dei Farisei. Ma, anche sotto tale luce benigna, quei parenti di Gesù figuravano egualmente come eroi della mediocrità, i quali non sapevano capa­citarsi che quel loro singolare congiunto, ignaro di scuole e d’acca­demie, si fosse messo in testa di prender di petto i Farisei e di scon­volgere la Galilea, invece di starsene tranquillo e pacifico a casa sua.

§ 345. Gesù, giudicato fuori di sé, risponde precisamente come era stato giudicato, cioè da persona totalmente dedicata a un’altissima idea morale. Alla precedente notizia Marco fa segnire la discussione con i Farisei su Beelzebul scacciator di demonii (§ 444), ma subito appresso riporta nuovamente in iscena i parenti di Gesù insieme con sua madre Maria: tutto induce a credere che le due comparse dei parenti si riferiscano a due momenti successivi dello stesso fatto sto­rico. Gesù, pertanto, è tuttora assediato dalla folla nella casa, quando gli si annunzia che sua madre con i suoi “fratelli” stanno fuori desiderosi di parlargli e senza poter entrare. Dunque gli eroi della mediocrità, per meglio riuscire e per far più colpo, avevano contato anche sull’autorità di Maria, dimostratasi cosi efficace fin dalle nozze di Cana (§ 283). Il che non significa però che Maria assentisse ai loro propositi: se ella venne con loro, fu in parte perché una donna in Palestina ben difficilmente poteva sottrarsi alle decisioni prese da capi di parentela che presumessero agire per il decoro del casato o in favore di un consanguineo, e in parte perché poteva aver molte ragioni personali per rivedere il peregrinante suo figlio, e anche per esser presente come moderatrice quando i parenti lo avessero incon­trato. All’annunzio della visita, Gesù rispese che sua madre e i suoi fratelli erano tutti coloro che ascoltavano e praticavano la volontà di Dio, e con un gesto accennò agli uditori che gli si assiepavano attorno. Probabilmente, a questa risposta, gli eroi della mediocrità compresero subito che non c’era niente da fare, e ripeterono anch’es­si: È fuori di sé. Maria, a sua volta, dovette ritrovare gran somi­glianza fra questa risposta e quella già avuta dal dodicenne suo liglio nel Tempio (§ 262), e perciò ella depose anche la nuova risposta nel forziere del suo cuore per esservi custodita insieme con altre (§ 142).

La tempesta sedata e l’energumeno di Gerasa

§ 346. Di questa uniforrne operosità nella Galilea ci sono traman­dati soltanto pochi fatti particolari. In questo periodo certamente cadde la giornata dedicata da Gesù all’insegnamento per mezzo di parabole, della quale tuttavia è più opportuno trattare a parte, stac­candola dal suo inquadramento cronologico (§ 360). Altri episodi tramandati sono i seguenti. Forse la sera stessa della giornata delle parabole (cfr. Marco 4, 35) Gesù, che aveva parlato alle turbe sulla riva occidentale del lago di Tiberiade, salì in barca con i discepoli e comandò loro di passare alla riva opposta. La partenza, a quanto sembra, fu improvvisa ed affrettata: forse, ancora una volta, Gesù voleva sottrarsi alle fervo­rose dimostrazioni della folla che l’aveva ascoltato. La traversata è di pochi chilometri (§ 376) ma può esser pericolosa, specialmente se compiuta sul far della notte come quella volta, a causa dei venti freddi che si scaricano giù improvvisamente dal sovrastante nevoso Hermon e suscitano tempeste violentissime per quel lago e per le fragili imbarcazioni che lo percorrono. Così avvenne in quella serata. Gesù, stanco della faticosa giornata, si distese a poppa della barca e s’addorrnentò: Marco (4, 38), che più volte avrà udito il racconto dalla bocca di Pietro, menziona anche il cuscino su cui Gesù ap­poggiò la sua testa, il piccolo cuscino di cui erano provviste le più umili barche; inoltre, il solo Marco ricorda che altre barche accom­pagnavano quella di Gesù. Ad un tratto un turbine violento s’ab­batte sul lago, e ben presto la barca di Gesù è in pericolo e fa ac­qua; i barcaioli tentano manovrare, ma tutto è inutile e da un momento all’altro può esser la fine. Frattanto Gesù continua a dormire a poppa della squassata navicella. Dante, alla prima visione sovrumana che ebbe nel Purgatorio, scorse un vasello snelletto e leggiero guidato da un angelo; da poppa stava il celestial nocchiero, ma stava eretto e vigile con l’ale sue… dritte verso il cielo. Al contrario, a poppa di quella barchetta del lago, Gesù era disteso e dormiva, sembrava estraneo a quanto accadeva all’intorno, e nell’oscurità della notte lo si sarebbe scambiato per un ammasso di cordami o per una vela deposta e ripiegata. I discepoli non si spiegano quel sonno tra tutta quella furia degli elementi, e stanno ansiosi fra il desiderio di non disturbarlo e lo spavento della catastrofe imminente, fra il rispetto per il maestro e l’abitudine di ricorrere fiduciosi a lui. Ma, passato ancora del tempo, si convincono che oramai non si può più titubare: bisogna senz’altro svegliare ed avvisare il maestro, affinché pure egli provveda in qualche maniera alla propria salvezza. Gli si fanno perciò dappresso gridando: Mae­stro, siamo perduti! Sàlvaci! Gesù si sveglia: insieme col turbamento degli elementi egli nota il turbamento dei cuori. Voltatosi allora al turbine, comanda impe­rioso: Taci! Fa’ silenzio! – Voltatosi quindi ai cuori esclama misericordioso: Che paura avete? Gente di poca fede! – Il turbamento degli elementi cessa ad un tratto, e si fa gran bonaccia. Il turba­mento dei cuori è sostituito da un altro d’altro genere, ché i presenti si dànno a riflettere: E chi è dunque costui, che perfino il vento e il mare gli obbediscono? Per i razionalisti il miracolo, naturalmente, è fittizio. I seguaci del­l’antico Paulus (§ 198) lo spiegheranno forse immaginando che sulla barca di Gesù stessero deposti molti otri d’olio, e l’esperto maestro ad un certo punto li facesse svuotare nel lago in modo da calmarne le onde; i moderni mitologi, invece, penseranno che si tratti di una pura allegoria. Una volta tanto con i mitologi concordano in parte gli studiosi spiritualisti, in quanto anche costoro trovano nella nar­razione un significato allegorico ma insieme con quello storico. Ambedue reali furono la tempesta e la bonaccia che avvennero attonno a quella barca: ma compiendo quel miracolo Gesù venne a prealombrare altre tempeste e altre bonacce che da secoli si avvicendano attorno a un’altra barca, non di legno ma non meno reale e storica, e i cui protagonisti sono gli stessi di quella notte là sul lago di Tiberiade. Da poppa stava il celestial nocchiero. Questa volta l’interpretazione allegorica non è un postulato filosofico, come abitualmente presso i mitologi, ma è fondata su fatti storici che ognu­no può riscontrare e che uno storico non deve fingere d’ignorare.

§ 347. Con quella bonaccia presto si toccò terra e si sbarcò. La riva raggiunta fu certamente quella orientale del lago, circa dirim­petto a Cafarnao o a Magdala, ma il suo nome varia presso i Sinot­tici; Matteo la chiama regione dei Gada reni, Marco dei Geraseni, Luca dei Gergeseni o piu’ probabilmente dei Geraseni. I Gli appel­lativi da prendersi in considerazione, dei Gadareni e dei Geraseni, si riferiscono rispettivamente alle due città di Gadara e di Gerasa, che appartenevano ambedue alla Decapoli di là dal Giordano (§ 4); tuttavia ambedue erano situate a sud del lago e, specialmente Gerasa, assai lontane da esso, cosicché è difficile che i rispettivi terri­tori s’estendessero fin sulla sponda del lago dandole il proprio nome. Limitandosi pertanto agli appellativi derivati da Gadara e da Gera­sa, non è impossibile che i rivieraschi a occidente del lago designas­sero le opposte rive col nome delle città piu’ celebri nella cui direzione essi guardavano: questi appellativi geografici di direzione non sono rari negli usi paesani. Tuttavia la spiegazione dell’apparente incongruenza può forse esser suggerita dal terzo appellativo dei Ger­geseni, meno autorevole sotto l’aspetto documentario ma più racco­mandato dai riscontri archeologici (§ 348). Giunto pertanto Gesù col suo seguito a oriente del lago, uno dei giorni seguenti alla notte dell’approdo, avvenne un fatto che è nar­rato da tutti e tre i Sinottici, nella maniera più breve da Matteo, nella più ampia da Marco: tuttavia il riassunto di Matteo fornisce una particolarità non trasmessa dagli altri due Sinottici, cioè che del fatto furono attori due indemoniati, e non già uno solo come nsul­terebbe da Marco e da Luca. Certamente il fatto è il medesimo, e questa differente maniera di narrarlo è un bell’esempio della man­canza di servilismo letterario presso gli evangelisti (§ 122) e della loro particolare maniera di trattare gli argomenti: Marco e Luca si accentrano sull’attore principale e neppure ricordano quello se­condario; Matteo, sebbene più ristretto, li ricorda ambedue. Lo stesso avverrà nuovamente nel caso dei ciechi di Gerico (§ 497). A Gesù, dunque, si fece incontro un indemoniato. Era un essere sel­vaggio e imbestialito, che aveva scelto la sua dimora abituale fra im­pure tombe e s’aggirava in quella zona tutto nudo; dotato di forza mostruosa, aveva sempre spezzato funi e catene con cui avevano tentato più volte di legarlo, tratto tratto gridava furiosamente o si percoteva con sassi, e ispirava tanto terrore che nella zona ove egli si aggirava nessuno più voleva passare. Quando costui ebbe scorto Gesù da lontano, gli corse incontro, ma invece di aggredirlo si pro­strò davanti a lui urlando: Che c’e’ fra me e te; (cfr. § 283), Gesu’ figlio d’iddio altissimo? Ti scongiuro per iddio, non mi tormentare! (Marco, 5, 7). Aveva pariato l’uomo imbestialito, ma la risposta di Gesù s’indirizzò a colui che stava dentro l’uomo ad imbestialirlo. Disse infatti Gesù: Esci, spirito impuro, dall’uomo! Più che un comando, le parole furono un annunzio; Gesù infatti interrogò, subito appresso, l’imbestialente: Che nome hai? E quello: il nome mio e’ “Legione”, perché siamo molti. La parola non risonava allora in Palestina e fuori senza suscitare un ar­cano sbigottimento; quella moltitudine d’armati fusi in compattezza mirabile a formare un travolgente congegno guerresco sembrava un’istituzione sovrumana, e più tardi Vegezio, ripetendo certamente idee anteriori a lui, parlerà di istituzione divina: non tantum huma­no consilio, sed etiam divinitatis instinctu legiones a Romanis arbi­tror constitutas (Vegezio, lì, 21). Ai tempi di Gesù la romana legione variava dai 5000 ai 6000 uomini: ma qui l’interpellato impiega cer­tamente la parola per alludere in maniera generica a una moltitu­dine grande e compatta.

§ 348. Fatta questa confessione, la moltitudine degli interpellati si raccomandava molto a lui, a Gesù, affinché non li inviasse fuori della regione, intendendo certamente la circostante regione: ma questo punto di partenza è sostituito presso Luca (8, 31) col punto d’arrivo, perché ivi si dice che la raccomandazione era di non in­viarli nell’abisso. La raccomandazione fu rincalzata da una propo­sta concreta: era la’ verso il monte un grosso branco di porci che pascolava; e (quelli) si raccomandavano a lui dicendo: Màndaci nei porci, affinché entriamo in essi! Ed (egli lo) permise loro. E usciti, gli spiriti impuri entrarono nei porci, e il branco si slanciò giu’ per il precipizio nel mare – circa duemila – e affogarono nel mare. La presenza di un branco di porci conferma che si era fuori del terri­torio giudaico, perché nella vera Palestina per le note prescrizioni della Legge non si allevavano quegli animali impuri: i quali perciò qui appaiono come asilo ricercato dagli spiriti impuri, costretti ad uscire dall’uomo. Visto ciò ch’era successo, i pastori dei porci se la dettero a gambe, corsero nella città vicina a narrare il fatto e a giustificarsi del danno subito presso i padroni del branco. Dalla città si venne a riscontrare la realtà degli avvenimenti: si trovò che quel notissimò energumeno, già cosi feroce e imbestialito, stava adesso vicino a Gesù ma tranquillo, seduto, vestito e sano di mente; inter­rogati poi i testimoni si riseppe per filo e per segno com’erano andate le cose. Quegli Ellenisti accorsi non dubitarono minimamente del portento, anzi appunto perché lo credettero pienamente miracoloso s’impensierirono per il futuro: da uomini pratici ed economici quali erano, pensarono che con un taumaturgo di quella forza in giro per i loro territori non si sapeva mai quel che potesse succedere; perciò, rivoltisi a Gesù, cominciarono a raccomandargli di partir­sene dai loro confini. Gesù acconsentì e si avviò verso la barca; l’in­demoniato guarito voleva che l’accogliesse al suo seguito, ma Gesù gli prescrisse di tornare in seno alla propria famiglia e di far cono­scere il beneficio ricevuto da Dio. Il beneficato obbedì, e se n’andò e cominciò ad annunziare nella Deca poli quanto Gesu’ gli fece, e tutti ammiravano. Il riconoscimento del luogo ove avvenne il fatto è oggi seriamente probabile. Sulla riva orientale del lago, quasi dirimpetto a Magdala, si estende la zona dell’antica città di Hippos, ove in realtà le colline digradano a qualche distanza dalle acque del lago; tuttavia, a set­tentrione di questa zona, sbocca il wadi es-Samak che è chiuso a sud da un piccolo promontorio alto qualche centinaio di metri e cosi dirupato sull’acqua che ai suoi piedi resta una spiaggia di poche decine di passi; varie caverne, aperte nei fianchi del promontorio, hanno tutto l’aspetto di essere state in antico tombe. Geologicamente dunque lo scenario corrisponde, giacché il promontorio sarebbe il precipizio da cui si gettarono i porci andando per il loro impeto a finire nell’acqua, e le tombe sarebbero l’abituale dimora dell’indemoniato. Ma forse c’è anche una corrispondenza onomastica: presso lo sbocco del wadi es-Samak è situato un villaggio chiamato oggi dagli Arabi Korsi, ma che ha ricevuto il suo nome da un abitato più antico che ai tempi dei Bizantini era chiamato Kopa e situato circa un chilo­metro più ad oriente. Ora, se si hanno presenti le facili oscillazioni di pronunzia di un dato nome lungo i secoli – oscillazioni tanto abi­tuali che, oggi stesso, Korsi è pronunziato da quei del luogo anche Kersa o Ghersa – si comprende come Origene riavvicinasse il Kersa o il Ghersa da lui uditi pronunziare, al Gergesa e ai Gergeseni del­l’Antico Testamento (§ 347, nota) e li sostituisse con questi nomi cre­dendo di appoggiarsi su una tradizione locale; senonché mentre la tradizione era buona come quella odierna, la sostituzione era arbi­traria. Si avrebbe così non solo la corrispondenza geologica, ma an­che quella toponomastica, giacché l’antica Korsi sarebbe la città donde uscirono gli abitanti per pregare Gesù d’allontanarsi; essendo però un nome poco o punto noto, sarebbe stato sottoposto dai copisti o dai traduttori dei testi evangelici a quelle variazioni con cui e giunto fino a noi.

La figlia di Jairo. La donna con profluvio di sangue. Idue ciechi

§ 349. Ripassato il lago, Gesù tornò a Cafarnao ove l’accolse la folla perché tutti l’aspettavano (Luca, 8, 40). Più ansiosamente forse di tutti l’aspettava un Giudeo di riguardo, archisinagogo (§ 64), di nome Jairo; costui, saputo che Gesù è arrivato, corre e cade ai piedi di lui e si raccomanda molto a lui dicendo: La figliolina mia è agli estremi! Vieni dunque, imponi le mani su lei, affinché sia salva e viva! (Marco, 5, 22-23.) Il racconto di Luca non è altrettan­to vivido, ma aggiunge il particolare che la moribonda fanciulla era unigenita e di circa dodici anni. Gesù senz’altro s’avvia insieme con l’angosciatissimo padre, ed è seguito naturalmente da molta folla che si accalca attorno al tau­maturgo: chi lo sospinge, chi l’acclama, chi lo supplica, chi gli ba­cia le vesti, chi tenta d’aprirgli un varco. Nell’avanzarsi in questa maniera, a un tratto Gesù si ferma, si rivolge, e guardando attorno domanda: Chi mi ha toccato? – A quella inaspettata domanda tutti rimangono perplessi, non sapendo che cosa veramente intenda egli dire. Pietro e i discepoli che sono presenti esprimono a parole la ragione della perplessità: Maestro, le folle ti costringono ed oppri­mono! (Luca, 9, 45). Ma la spiegazione di Pietro non spiega nulla; il maestro replica ch’egli ha sentito uscir da sé potenza al toccamento speciale di qualcuno. Ecco infatti che una povera donnetta, tutta tremante, viene a prostrarsi davanti a Gesù e narra alla folla quant’è avvenuto. La donna soffriva di perdite di sangue da dodici anni e molto aveva sofferto da parte di molti medici, e dopo aver consumato tutte le sue sostanze non aveva tratto alcun giovamento, ma piuttosto era andata peggio; questa franca informazione di Marco è pudicamente accorciata dal medico Luca, e noi già sappiamo perché (§137). Veramente i rimedi contro questo incomodo erano molti, e i rab­bini che spesso facevano anche da medici ci hanno conservato una buona lista di opportune ricette (ar. Shabbath, 110 a). Ad esempio, un rimedio molto efficace era quello di far sedere la donna malata alla biforcazione d’una strada facendole tenere in mano un bicchie­re di vino; qualcuno, a un tratto, venendole di soppiatto alle spal­le, doveva gridarle che cessasse il profluvio di sangue. Un rimedio poi assolutamente decisivo era quello di prendere un granello d’orzo trovato nello stabbio di un mulo bianco: prendendolo per un giorno il profluvio sarebbe cessato per due giorni, prendendolo per due gior­ni sarebbe céssato per tre giorni, e prendendolo per tre giorni si sarebbe ottenuta la guarigione completa e per sempre. Altre ricette richiedevano impiego di droghe rare e costose, e quindi grandi spese da parte della malata. La donna ricorsa a Gesù le aveva forse sperimentate tutte, giacché aveva consumato tutte le sue sostanze, ma rimanendole egualmente il suo incomodo. Perduta ogni fede nelle medicine, la malata trovò la sua medicina nella fede. Quel Gesù di cui tanto si parlava in quei luoghi era certamente in grado di guarirla; ella concepì di ciò tanta fede, che andava ripetendo a se stessa Se (io) tocchi an­che sol le vesti di lui sarò salva; non pretendeva la fiduciosa di toc­care proprio la persona del taumaturgo, ma solo la sua veste, o an­che solo quell’orlatura o frangia (ebr. sisith, plurale s.isùjoth; gr. Vulgata, fimbria: Matteo, 9, 20) che ogni Israelita os­servante doveva portare ai quattro angoli del suo mantello conforme alle prescrizioni della Legge (Numeri, 15, 38 segg.; Deuteron., 22, 12). Sorretta da tale fede, la donna aveva toccato nascostamente quell’orlatura della veste di Gesù e all’istante si era sentita guarita. Il medico, a guarigione ottenuta, approvò la medicina scelta dalla malata, perché voltatosi a lei le disse: Figlia, la tua fede ti ha sal­vata. Va’ in pace, e sii guarita dal tuo male!

§ 350. L’incidente della donna era chiuso e Gesù avrebbe potuto riprendere il cammino verso la casa di Jairo, ma ecco che appunto da quella casa si viene ad annunziare al povero padre Tua figlia è morta; non disturbare piu’ il maestro! Gesù ode l’annunzio, e quasi proseguendo il discorso sulla fede fatto alla donna, soggiunge al padre: Non temere! Soltanto credi, e sara’ salva! La casa della morta è presto raggiunta, ma Gesù non permette di entrare se non ai di­scepoli prediletti, Pietro, Giacomo e Giovanni, e ai genitori della morta; si sono già adunati flautisti e lamentatrici, di prammatica nelle adunanze funebri, ma Gesù dice che la loro presenza è inutile: Che strepitate e piangete? La fanciullina non morì ma dorme. Gli accorsi trovano che lo scherzo è di cattivo gusto vicino a un cada­vere, e rispondono con scherni. I genitori stanno come trasognati fra la realtà dei fatti e le ferme parole dell’invocato taumaturgo; Gesù li spinge insieme con i tre discepoli dentro la camera della morta, dopo che ne sono usciti tutti gli estranei. Là dentro stanno cinque uomini imbambolati; oltre ad essi c’è uno che non è più uomo, e uno che è più che uomo. Dal di fuori giunge il brusìo con­fuso della folla. Il più che uomo si avvicina a chi non è più uomo, gli prende la mano già fredda e pronunzia due sole parole; il disce­polo del testimonio Pietro ci ha conservato nel suo suono origina­rio queste due parole, ch’egli avrà udite ripetute tante volte dal suo maestro: Telita qumi, cioè Ragazza sorgi! – E’ L’effetto di queste due parole è descritto così dall’evangelista medico: E ritornò lo spirito di lei, e si levò all’istante, e (Gesu’) ordinò che le fosse dato da man­giare. E rimasero fuor di sé i genitori di lei; ma egli prescrisse loro di non dire a nessuno l’accaduto. Questa prescrizione era conforme alla norma seguita da Gesù, che già rilevammo (§ 300); ma quei rasserenati genitori, con tutta la loro buona volontà, avranno potuto osservarla solo in minima parte, giacché troppo eloquentemente par­lava la stessa presenza in casa di quella figliuola, che tutti avevano vista partire per l’oltretomba e poi a un tratto ne era ritornata: tanto è vero che il pratico Matteo conclude il racconto dicendo che uscì la fama di questo (avvenimento) in tutta quella regione. Che fine avrà fatto la fanciulla risuscitata? Avendo dodici anni, era in età da marito (§ 231); forse poco dopo si sarà maritata, avrà poi avuto figli e nepoti, ma alla fine ritornò stabilmente in quell’ol­tretomba già da lei visitato per poco tempo. Su questo bel caso scritti apocrifi e leggende tardive pare che non abbiano fantasticato, mentre invece si ricamò attorno alla donna dal profluvio di sangue. Negli apocrifi Atti di Pilato, VII, la donna è chiamata Veronica (§ 193). Secondo una voce riportata da Eusebio (Hist. eccì., vii, 18) era una pagana nativa di Panion, ossia Cesarea di Fi­lippo (§ 395 segg.), e tornata in patria fece erigere alla porta di casa sua un monumento di bronzo raffigurante lei stessa inginocchia­ta davanti a Gesù: ai piedi di Gesù spuntava una pianta esotica, che guariva ogni sorta di malattie; Eusebio vide sul posto il gruppo e afferma soltanto: Dicono che questa statua riproduca l’immagine di Gesu’. E’ molto probabile che il gruppo originariamente rappre­sentasse qualche divinità pagana curatrice di morbi, e che più tardi la leggenda cristiana la interpretasse come dice Eusebio; secondo una notizia di Sozomeno, il gruppo sarebbe poi stato abbattuto da Giuliano l’Apostata.

§ 351. Con la donna guarita e la fanciulla risuscitata gli insegna­menti taumaturgici della fede non erano finiti. A Gesù uscito dalla casa di Jairo tennero dietro due ciechi, due di quegli infelici di cui doveva abbondare la Palestina antica non meno dell’odierna: an­cora oggi, del resto, in Palestina i ciechi spesso s’uniscono a coppia per aiutarsi bene o male fra loro, e mostrano come tutti gli altri mendicanti quella tenacia nel chiedere mostrata da questi due. Al sentir raccontare i recentissimi miracoli, nei due brillò un lume di speranza e fattisi accompagnare presso Gesù si dettero. a seguirlo gridando con immutabile costanza: Abbi pieta di noi’ figlio di David! Data la norma prudenziale seguita da Gesù (§ 300), quell’appellativo non poteva tornargli per allora gradito, perché era un appellativo messianico che designava usualmente il grande Atteso, e perciò era anche più pericoloso in quell’effervescenza suscitata fra il popolo dai miracoli. Gesù non si ferma né si rivolge a quell’in­cessante grido, ma non per questo il grido cessa; Gesù infine entra nella casa ove dimora, certamente a Cafarnao, e i due lo seguono anche dentro casa. Tutto sommato, la tenacia dei due ciechi era fede, precisamente quella fede poco prima lodata e raccomandata da Gesù alla donna malata e a Jairo; inoltre, nell’interno d’una casa l’appellativo mes­sianico non era più pericoloso, cosicché Gesù entrò in discussione con i due imploranti. Ma la prima e forse l’unica domanda fu sulla fede: Avete fede che posso far ciò? I due ciechi naturalmente ti­spondono: Si, Signore! Allora Gesù toccò loro gli occhi, dicendo: Secondo la vostra fede avvenga a voi. E i due videro. Allora Gesù comandò con somma energia – l’evangelista usa la parola fremette, (Matteo, 9, 30) – di non parlare con nessuno del fatto; ma quelli, usciti di là con la luce negh occhi e nel cuore, ne par­larono in tutta la regione. Fu una vera disobbedienza? Vari studiosi protestanti l’hanno stimata tale; antichi Padri l’hanno giudicata un incoercibile moto di gratitudine. Forse gli antichi conoscevano il cuore umano meglio dei moderni.

Invio dei dodici Apostoli

§ 352. Fra questi episodi staccati continuava la generica operosità di Gesù in tutta la Galilea, quale è già stata riassunta da Luca (§ 343). Ma nel frattempo l’affluenza della gente era cresciuta, e nonostante la cooperazione dei dodici le cure crescevano a dismi­sura; e Gesù vedendo le folle s’impietosì per essi, perché erano di­sfatti e abbattuti come pecore non aventi pastore (cfr. Numeri, 27, 17). Allora dice ai suoi discepoli: “La messe (è) bensì molta, ma gli operai pochi; pregate dunque il signore della messe, affinché invii operai nella sua messe”. E chiamati dappresso i dodici discepoli suoi, dette ad essi autorita sugli spiriti impuri, si da scacciarli via e da curare ogni malattia e ogni languore (Matteo, 9, 36; 10, 1). Investiti perciò di tale autorità, i dodici furono inviati da soli senza maestro, come squadra volante, per una missione particolare e con norme ben precise. La missione consisteva nell’annunziare che si era avvicinato il regno di Dio, come già aveva fatto Giovanni il Battista e fino allora anche Gesù; ma la squadra volante era inviata in zone ancora non rag­giunte. Tuttavia fu prescritto che queste zone appartenessero al territorio d’Israele, perché ad Israele prima di tutte le altre genti era stata promessa la “buona novella” della salvezza dagli antichi Profeti; i dodici quindi non s’incamminassero verso i paesi dei Gen­tili né dei Samaritani, ma piuttosto si rivolgessero alle pecore sban­date del casato d’Israele. A dimostrare poi la verità del loro an­nunzio, e in forza dell’autorità testé ricevuta, essi dovevano curare infermi, mondare lebbrosi, scacciare demonii, e perfino risuscitare morti. Era insomma la missione di Gesù la quale passava da uno solo a dodici, ma per lo stesso scopo e con gli stessi metodi. Anche le norme pratiche erano le stesse seguite fino allora da Gesù, e si possono riassumere in una totale noncuranza degli argomenti po­litici, dei mezzi finanziari, delle preoccupazioni economiche. L’annunzio del regno di Dio doveva ignorare affatto i regni umani, non avendo alcuna connessione con essi. Le finanze spirituali da cui era accreditato il regno di Dio erano i mezzi dimostrativi della sua solvibilità, cioè curare infermi, mondare lebbrosi, scacciare demonii, risuscitare morti; ma siccome i banchieri a cui era stato affidato questo credito lo avevano ricevuto senza pagamento, così dovevano comunicarlo senza pagamento: gra­tuitamente riceveste, gratuitamente date (Matteo, 10, 8). Le preoccupazioni economiche erano egualmente proibite agli an­nunziatori del regno di Dio, salvo per quello che era rigorosamente indispensabile. Infine, gli annunziatori dovevano mettersi in giro a due a due, come già usavano fare i messi del Sinedrio, sia per assistenza sia per sor­veglianza reciproca, e nelle loro peregrinazioni si dovevano distin­guere dagli altri viandanti per varie ragioni.

§ 353. I soliti viandanti, in primo luogo, si servivano possibilmente dell’asino, classico mezzo di trasporto in Oriente; ad ogni modo all’atto della partenza si provvedevano di cibarie, di monete d’oro e d’argento riposte nella cintura o nel turbante, di una seconda tu­nica per proteggersi meglio dal freddo o cambiarsi dopo un acquaz­zone, di accurati e solidi calzari per reggere bene sulle strade sca­brose, di un nodoso bastone in forma di mazza per difendersi in pericolosi incontri, di una bisaccia da viaggio ove si mettevano altre minute provviste o anche ciò che per caso si veniva acquistando lungo il cammino. Questa bisaccia era importante soprattutto per coloro che viaggiavano a scopo di questue religiose, perché tali questue fruttavano bene in Oriente anche presso i pagani: un’iscri­zione greca trovata nella zona orientale dell’Hermon (§ 1) ricorda come un certo Lucio di Aqraba, che andava in giro questuando a nome della dea sira Atargate, riportasse a casa da ogni suo viaggio settanta bisacce ricolme. Ebbene, appunto la mancanza di tutti questi amminicoli doveva distinguere da tutti gli altri viandanti i dodici inviati da Gesù: Non vi procurate oro né argento né (spic­cioli di) rame nelle vostre cinture, non bisaccia da viaggio né due tuniche né calzari né bastone (Matteo, 10, 9-10). A queste prescri­zioni Marco (6, 8-9) aggiunge quella di non provvedersi di cibarie (pane), ma in cambio permette di portare sandali e anche di recare il bastone soltanto. Neppure dell’alloggio dovevano preoccuparsi i dodici. Giunti che fossero ad un gruppo di case, si dovevano informare di qualche capo di famiglia degno e di buona fama, e poi rimanere in casa sua senza più cambiare. Il caravanserraglio (§ 242) col suo andirivieni era luogo inadatto per quegli araldi del regno di Dio, i quali si dove­vano occupare soltanto di affari spirituali, e in nessun modo di negozi politici o commerciali. Il loro prezioso tempo doveva esser impiegato tutto nella loro missione; quasi certamente anche a questi dodici, come più tardi ai settantadue discepoli (§ 437), fu proibito di perdere il loro tempo per “salutare” quanti incontrassero nel cammino (Luca, 10, 4). In Oriente il “saluto” fra viandanti, specialmente se s’incontra­vano in luoghi solitari, poteva prolungarsi per ore ed ore parlandosi di tutto un po’ in segno di confidenza e quasi per obbligo di buona creanza: anche oggi, del resto, il beduino che si presenta per la prima volta allo sportello d’una stazione ferroviaria si crede spesso obbligato a chieder dapprima al bigliettaio se sta bene di salute, se i figli crescono floridi, se il gregge o il raccolto sono sod­disfacenti, e solo dopo questi e altri segni di buona educazione do­manda il biglietto per il treno. Gli inviati del regno di Dio dove­vano fare a meno di siffatti convenevoli, valendo per loro la norma Maiora premunt. Se qualche borgata non avesse accolto gli inviati del regno o avesse prestato loro scarsa attenzione, essi dovevano allontanarsi senza ri­mostranze, ma nello stesso tempo attestare che la responsabilità del­l’allontanamento ricadeva su quella gente. A tale scopo dovevano compiere il gesto simbolico, appena usciti dalla borgata, di scuo­tere dai propri piedi la polvere raccolta in quel luogo: era co­me polvere di terra pagana, da non riportarsi sul sacro territorio d’Israele.

§ 354. Ricevute queste istruzioni, i dodici partirono per la missio­ne; è probabile che, nello stesso tempo ma separatamente da essi, partisse anche Gesù (cfr. Matteo, 11, 1). La missione non poté durare che poche settimane, sugli inizi dell’anno 29 (§ 355). Anche il suo risultato non ci viene comunicato; è detto solo in genere che i missionari predicando il “cambiamento di mente”, scacciavano via molti demonii e ungevano con olio molti malati e (li) guarivano (Marco, 6, 13). La loro predicazione del regno di Dio è dunque accompagnata, come presso Gesù, da segni miracolosi; come tali indubbiamente sono presentate le guarigioni qui accennate, pur es­sendo riconnesse con l’unzione d’olio. L’unzione d’olio aveva allora notevole importanza come medicamento usuale (§ 439); ma qui il contesto mostra chiaramente che il suo impiego non era quello fattone dalla terapia comune, bensì da una più alta e spirituale, che tutt’alpiù si serviva di quell’unzione come di simbolo materiale: analogamente l’usuale lavanda corporale era già stata impiegata da Giovanni, e anche dai discepoli di Gesù, per simboleggiare la mon­dezza spirituale del “cambiamento di mente” (§ 291). Più tardi, nel cristianesimo pienamente istituito, questa unzione d’olio sarà un rito particolare e stabile (Giacomo, 5, 14-15.)

Morte di Giovanni il Battista

§ 355. Verso il tempo della missione dei dodici avvenne l’uccisione di Giovanni, forse tra il febbraio e il marzo dell’anno 29. Se egli era stato chiuso in prigione verso il maggio del 28 (§ 292), erano già passati una decina di mesi; ma ne sarebbero passati molti di più, se non fosse avvenuto un caso imprevisto. Antipa, infatti, s’intrat­teneva volentieri col venerato prigioniero e non voleva in realtà la morte di lui (Marco, 6, 20, greco); la voleva invece Erodiade, l’uno e l’altra per i motivi che già sappiamo (§ 17). Nel contrasto fra i due, prevalse l’astuzia e il rancore femminile. Erodiade, che stava in agguato, colse per agire l’occasione in cui Antipa festeggiava il suo giorno genetliaco. La festa era solenne, e vi erano stati invitati i maggiorenti della corte e dell’intera tetrar­chia: tutta gente autorevole e denarosa, ma provinciale e ansiosis­sima di tenersi al corrente nel conoscere ed ammirare le ultime fi­nezze dell’alta società metropolitana. L’occasione era opportunissi­ma per Erodiade, giacché aveva sotto mano il mezzo per far rima­nere sbalorditi quei provincialoni e nello stesso tempo ottenere ciò che agognava: aveva presso di sé Salome, figlia del suo vero marito di Roma, la quale nell’alta società dell’Urbe aveva imparato a ballare stupendamente, ad eseguire danze tali di cui quella gente grossa non aveva neppur l’idea. La madre risvegliò l’amor proprio del­la ragazzetta, e la ragazzetta messa sul punto si comportò egre­giamente. Introdotta che fu nella sala del gran banchetto al momento buono, quando i fumi del vino e della lussuria avevano già annebbiato i cervelli, la ballerina con le sue gambe piroettanti e lanciate in aria in tutti i sensi suscitò fra quegli imbambolati un delirio. Antipa ne fu addirittura intenerito. Con simili spettacoli la sua corte dimo­strava di essere veramente up to date, aggiornata, e superiore alle altre corti orientali; soltanto in essa si davano esibizioni che appena nella corte del Palatino e in qualcuna delle più aristocratiche domus di Roma era possibile ammirare. L’infrollimento del monarca fu tanto, che fattasi venir dappresso la ballerina tuttora ansante e su­data le disse: Chiedimi quello che vuoi e te lo darò! E per mag­gior solennità aggiunse alla promessa un giuramento: Qualunque cosa (tu) mi chieda te la darò, fin la meta’ del mio regno! (Marco, 6, 23). Tra gli applausi frenetici dei convitati e le mirabolanti offerte del monarca la ballerina tornò ad essere inesperta fanciulletta, e si sa­rebbe forse smarrita: ma appunto questo momento delicato era già stato previsto dalla navigata madre, che le aveva dato consigli in proposito. Di quei saggi consigli materni si ricordò ella nel suo smar­rimento, e subito riavutasi attraversò di corsa la sala per andare a consultarsi da sua madre, che teneva banchetto nella sala riservata alle dame: Mamma, il re è disposto a darmi fin la metà del suo re­gno, e l’ha giurato pubblicamente. Che cosa chiederò? (Marco, 6, 24). La navigata femmina capi che il suo uomo era caduto in trap­pola, e quindi ch’ella aveva vinto. Rivolta allora alla ballerina, fra una carezza e l’altra, le disse recisamente: Lascia tutto il resto, che non conta, e chiedi una cosa sola: la testa di Giovanni il Battista (ivi). – L’adultera, per esser sicura nel suo adulterio, aveva bisogno dei servigi di una prosseneta e di un carnefice, ed affidava queste nuove incombenze all’inconscia sua figlia. Ancbe questa volta la ragazzetta si comportò egregiamente. Ed entrata subito in fretta dal re, chiese dicendo: « Voglio che all’istante (tu) mi dia sopra un vassoio la testa di Giovanni il Battista!”. E, (pur) divenuto affiittissimo il re per i giuramenti fatti e (per) i commensali, non volle dare a lei un rifiuto. E subito, inviato il re un boia, ordinò di portare la testa di lui. E (il boia) partitosi, lo decapitò nella prigione, e portò la testa di lui su un vassoio e la dette alla ragazzetta e la ragazzetta la dette a sua madre (Marco, 6, 25-28). L’afflizione del tetrarca, che si ritenne im­pegnato dal giuramento fatto in presenza dei convitati, non impedì che tutto si svolgesse con la massima naturalezza, come se si fosse trattato di accontentare il capriccio di una bambina che desidera un frutto maturo pendente da un albero: si manda un servo a staccare il frutto per porgerlo alla bambina, come allora si mandò il boia a tagliar la testa a Giovanni per porgerla alla ballerina. Dalle mani della ballerina, a cui non interessava affatto, quella testa ancora cal­da e grondante sangue passò nelle mani della madre, a cui interes­sava moltissimo: secondo una tardiva notizia data da S. Girolamo, l’adultera avrebbe sfogato il suo odio forando con uno stiletto la lingua di quella testa, come già aveva fatto Fulvia con la testa di Cicerone (Adv. Rufinum, in, 42). Più tardi i discepoli del martire riuscirono a ricuperare la salma, e le dettero sepoltura.

§ 356. Il luogo del martirio non è nominato dagli evangelisti, ma se­condo Flavio Giuseppe (Antichità giud., XVIII, 119) prigionia e mar­tirio avvennero a Macheronte. Ivi, dunque, si svolse anche l’infame banchetto: dalla narrazione evangelica, infatti, risulta chiaramente che il prigioniero stava a pochi passi dai banchettanti, cosicché la do­manda della ballerina poté essere appagata immediatamente. La cir­costanza non deve meravigliare: Macheronte era bensì una fortezza che faceva da baluardo contro gli Arabi Nabatei – anzi Plinio (Na­tur. hist., v, 16, 72) la chiamava la fortezza più agguerrita della Giu­dea, dopo Gerusalemme – ma era una di quelle costruzioni nello stesso tempo ben salde e ben comode che Erode il Grande aveva innalzato un po’ dappertutto nei suoi dominii; Giuseppe Flavio che la descrive a lungo (Guerra giud.,VIII, 165 segg.) dice, fra le altre cose, che Erode costrui nel mezzo del recinto fortificato una reggia suntuosa per grandezza e bellezza di appartamenti, fornendola anche di molte cisterne e di magazzini d’ogni genere. Vi si stava dunque benissimo, e proprio in quel tempo Antipa vi doveva rimaner volen­tieri per sorvegliare più da vicino gli Arabi Nabatei, con i quali era in rotta per il divorzio della sua legittima moglie (§17). Oggi il fortunato viaggiatore che riesce a spingersi fino al luogo di Macheronte non vi trova che desolazione e squallore. Dell’antica costruzione, circondata da una larghissima zona totalmente deserta, non resta che un cono mozzato alla cima e interrato; sulla vetta af­fiorano basamenti d’antiche torri; alla sua base si aprono ampie ca­verne, che sono forse le antiche cisterne della fortezza e oggi servono a ricoverare d’inverno greggi di beduini nomadi. In qualcuna di quelle caverne, o li dappresso, Giovanni il Battista stette rinchiuso per molti mesi aspettando. Improvvisamente una sera in quel sotterraneo, dopo che vi era giunto il prolungato frastuono d’un lontano tripudio, giunse anche un boia con una spada in mano. Il prigioniero capì, denudò e protese il collo; un lampeggio, un tonfo, e il figlio di Zacharia e di Elisabetta non era più. Oggi il solitario beduino a cui il viaggiatore si rivolge in quel deserto per essere indirizzato, addita da lontano il cono mozzato di Macheronte, e ne pronunzia con ribrezzo il nome arabo: al-Mashnaqa («luogo d’impiccagione », “patibolo“). Sembra che da quel cono, come da un vulcano, parta una vampa esiziale che faccia desolazio­ne all’intorno; la sagoma del cono si presenta proiettata all’ingiù, verso occidente, e le fa da sfondo il Mar Morto e la regione di Sodoma.

Gesu’ espulso da Nazareth

§ 357. Qualche tempo dopo giunsero ad Antipa notizie di Gesù, co­me di predicatore straordinario che commoveva i suoi sudditi della Galilea. Il ricordo di Giovanni il Battista era recente, come pure l’indole morale e l’attività del profeta testé morto erano somiglian­tissime a quelle del profeta nuovamente comparso: perciò il super­stizioso Antipa ne trasse la conclusione che Giovanni era risuscitato e riapparendo in forma di Gesù operava miracoli. Anche altri, del resto, erano di questa opinione scambiando l’annunziatore con l’an­nunziato; taluni invece preferivano riconoscere in Gesù o Elia o qual­cuno degli antichi profeti (Luca, 9, 7-8). Da quel giorno Antipa sentì la curiosità di vedere personalmente Gesù, per riscontrare forse quali precise fattezze avesse assunto il Giovanni risuscitato (ivi, 9). Gesù invece non aveva alcun desiderio d’incontrarsi con l’adultero assassino di Giovanni. Era circa il tempo dell’invio dei dodici, e men­tre i discepoli dovevano svolgere la loro missione in zona più am­pia Gesù si riserbò una zona più ristretta ma più ardua. Partito da Cafarnao dopo aver risuscitato la figlia di Jairo (cfr. Marco, 6, 1), Gesù volle fare un tentativo speciale e personale riguardo a Naza­reth, perché sapeva che nel villaggio dov’egli era cresciuto covavano forti risentimenti contro di lui. Da principio non era stato così, e a Gesù appena tornato dalla Giudea erano state fatte festose acco­glienze certamente anche a Nazareth (§ 299); ma poi l’umore di quei compaesani si era mutato. Vi doveva avere buona parte l’altezzosità di quei parenti che già vedemmo essere avversi a Gesù (§ 344); ma ciò che più profondamente aveva ferito l’amor proprio dei Nazaretani era la preferenza data da Gesù a Cafarnao, divenuta a un certo tempo sua dimora abituale (§ 285). Le rivalità paesane e la fierezza dei villaggi più meschini erano abi­tuali nell’antichità non meno di oggi; l’esclamazione dispregiativa di Nathanael appunto nei riguardi di Nazareth ne è una riprova (§ 279). I Nazaretani perciò non perdonavano a Gesù il pratico abban­dono del suo villaggio, tanto più che nella preferita Cafarnao egli aveva operato quei fatti straordinari di cui parlava tutta la Galilea. Mancavano forse a Nazareth malati da guarire, storpi da raddrizzare, ciechi da illuminare? Perché dunque privare la propria patria di tanti benefizi, che sarebbero insieme ridondati a maggior lustro del tanto disprezzato villaggio? Quest’acredine paesana doveva aver innalzato una barriera morale anche contro la predicazione di Gesù: giacché egli faceva a meno del suo paese, il paese faceva a meno della sua dottrina. Di qui il tentativo personale di Gesù riguardo a Nazareth. La sua dimora ivi dovette protrarsi alcuni giorni, in attesa dell’occasione propizia per ottenere buoni effetti; avrà egli alloggiato da sua madre, nella casetta da cui era uscito più d’un anno prima (§§ 270, 282). Ma l’atteggiamento dei compaesani si mostrò subito tale da dare po­co affidamento: se taluni lo accolsero cordialmente, se tutti indi­stintamente riparlarono dei miracoli da lui fatti poco prima nei paesi all’intorno e riconoscevano ch’egli predicava in maniera straordi­nana, molti al contrario si domandavano che motivo c’era di preti­dere per oro colato la sua dottrina. Non era egli forse il figlio di Giuseppe il carpentiere? Sua madre non era quella Maria che tutti conoscevano? E i suoi fratelli non era­no Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sorelle non erano no­tissime in paese? (§ 264). Tutta gente comune, che non s’alzava d’un palmo sopra il livello comune. Donde aveva egli attinto, dunque, la sua dottrina? Non poteva essere tutto effetto dell’impressionabilità di chi non lo conosceva e non lo aveva visto, come essi di Nazareth, prima bambino e poi fanciullo e poi ragazzo e poi giovane come tutti gli altri? Restavano i miracoli; ma anche su questi c’era da discutere. Chi sa far miracoli, li fa dappertutto, in patria e fuori, fra amici e fra sco­nosciuti: anzi, se è ammissibile una preferenza, questa sarà riser­vata alla patria e agli amici. E invece quello strano Nazaretano pro­prio a Nazareth non operava miracoli; faceva davvero la figura di un medico chè sa curare gli estranei, ma non è capace di curare nè i suoi familiari né se stesso.

§ 358. Il paragone trovò fortuna in paese, e passò di bocca in bocca con la petulanza dei piccoli villaggi. I più focosi trovarono anche maniera di spiattellarlo apertamente a Gesù: Medico! Cura te stesso! Quante cose udimmo avvenute a Cafarnao, fa’ anche qui nella patria tua! (Luca, 4, 23). Gesù rispondeva cercando d’illuminare e di convincere, e insieme ammoniva che nessun profeta è accetto in pa­tria sua. Fece egli anche miracoli curando infermi, ma pochi di numero, non già perché il paese si chiamava Nazareth invece di Cafarnao, ma per l’incredulità loro (Matteo, 13, 58): mancava infatti ciò che poco prima, nella giornata della fede, aveva trionfato con la figlia di Jairo, con la donna dal profluvio di sangue e con i due ciechi (§ 349 segg.). L’urto finale avvenne quando Gesù tentò la prova solenne e. quasi ufficiale per scuotere i suoi compaesani, e fu nell’adunanza sinagogale del sabbato, forse l’unico sabbato di quel soggiorno. All’adunanza abituale gli oppositori di Gesù si dovettero recare con intenzioni di sfida; c’era vento di battaglia, Gesù non sarebbe mancato all’adu­nanza e quella era una buona congiuntura per venire ad una totale spiegazione con lui e metterlo alle strette. Gesù infatti intervenne, e l’adunanza si svolse regolarmente secondo le norme che già esaminammo (§ 66 segg.). Quella volta il discorso istruttivo, che si teneva dopo la lettura dei « Profeti », fu fatto da Gesù: non è arrischiato supporre che l’archisinagogo, dirigente la funzione, invitasse a tenere discorso appunto il tanto discusso com­paesano per dargli agio di esporre il suo pensiero. Recatosi pertanto Gesù sul pulpito destinato all’oratore, gli fu porto il libro del pro­feta Isaia, e aperto il libro trovò il luogo dove stava scritto: “Lo spirito del Signore su me: perciò mi unse per dar la buona novella ai poveri, mi ha inviato ad annunziare a prigionieri liberazione ed a ciechi vista, a rinviare in liberazione piagati, ad annunziare annata accetta al Signore”. E ripiegato il libro, resolo al ministro, sedette; e gli occhi di tutti, nella sinagoga, erano intenti a lui. Co­minciò pertanto col dire ad essi: Oggi si e’ adempiuta questa scrit­tura (ch’e’ risonata) nelle vostre orecchie (Luca, 4, 17-21). Questo fu l’inizio del discorso di Gesù, ma purtroppo il restante non ci è con­servato. Certamente l’oratore applicò ampiamente a se stesso il passo letto, dimostrando con appelli alle sue opere come egli avverasse in pieno l’antica profezia mediante l’annunzio della « buona novella ». La dimostrazione fu efficace e l’oratore anche quella volta apparve come avente autorità (§ 209), cosicché tutti rimasero ammirati; senonché alla radice stessa dell’ammirazione stava il fomite dello scan­dalo. Non era costui l’umile figlio del carpentiere? Se aveva opera­to altrove tanti miracoli, da lui stesso citati nel discorso, perché non li operava anche li fra i suoi compaesani? Le domande, solo ripensate dentro la sinagoga, furono ripetute ad alta voce al di fuori dopo la funzione. Si discusse pro e contro, fra gli uditori; si abbordò di­rettamente l’oratore; lo si invitò ancora una volta a rispondere alle cruciali domande, ricordandosi sopràttutto di essere Nazaretano. Vo­leva egli guadagnare veramente i compaesani alle sue dottrine? Eb­bene operasse, lì, sulla pubblica piazza, miracoli dimostrativi, e allora si che tutti si sarebbero dati anima e corpo a lui Medico! Cura te stesso! La risposta di Gesù fu la stessa dei giorni precedenti: badassero a non render vero anche per Nazareth il principio che nessun profeta è accetto in patria sua; per lui, Gesù, Nazareth valeva quanto Cafar­nao e quanto ogni altra borgata israelita, ma qualora egli fosse stato respinto da una di esse aveva ben maniera di rivolgersi altrove; ai tempi del profeta Elia vivevano molte vedove in Israele, eppure il profeta fu inviato da Dio ad una vedova non israelita; e al tempo del profeta Eliseo vivevano molti lebbrosi in Israele, eppure il profeta fu inviato da Dio al lebbroso Naaman ch’era siro (Luca, 4, 25-27).

§ 359. La risposta di Gesù era un ammonimento, ma dai suoi maldi­sposti interlocutori fu interpretata come una provocazione dispregiaiva. Dunque, egli dichiarava esplicitamente di non aver bisogno di Nazareth e d’esser pronto a preferirle qualunque altro paese, anche fuori d’israele! Donde tanta albagia nel figlio del carpentiere? Im­parasse una buona volta la gratitudine per il luogo che l’aveva alle­vato! Se egli aveva ripudiato Nazareth, Nazareth doveva ripudiare lui! Allontanarlo immediatamente da Nazareth bisognava, e allonta­narlo in maniera tale che gli togliesse per sempre la voglia di ri­tornare.’ Il furore divampò a un tratto, come avviene sempre fra turbe ec­citate. Si stava ancora discutendo là nei pressi della sinagoga, quando si saranno levate grida contro l’indegno Nazaretano: Fuori di qui il tracotante! A morte il traditore! – I pochi favorevoli a Gesù si saran­no pavidamente allontanati; gli altri lo scacciarono fuori della città e lo condussero fino a un ciglio del monte su cui stava costruita la loro città, in modo da precipitarlo giu’. Ma egli, passando attraverso in mezzo ad essi, se ne andava (Luca, 4, 29-30). Perché il progetto non fu condotto a termine? Non ci vien detto. Forse all’ultimo momento i paesani favorevoli a Gesù, ripreso un po’ di coraggio, saranno intervenuti ad impedire in qualche maniera l’odioso delitto; forse gli stessi facinorosi, quando fu l’istante decisivo, saranno rientrati in sé, contentandosi della minaccia già avanzata; non è escluso, tuttavia, che la superiorità dominatrice mostrata in quella circostanza da Gesù soggiogasse i tumultuanti, sì che al mo­mento critico egli poté sottrarsi a loro. Neppure del preciso luogo, ove avvenne la minaccia, siamo informati. Si mostra oggi un picco chia­mato Gebel el-Qafse, che domina da più che 300 metri la sottostante vallata di Esdrelon e già nel Medioevo aveva ricevuto il nome di Saltus Domini, mentre oggi è designato di solito come il “Colle del precipizio”; ma il luogo ha il grave inconveniente di esser situato a circa 3 chilometri dall’antica Nazareth, distanza veramente eccessiva per una folla eccitata che si decida ad un’esecuzione sommaria. Nel­l’àmbito del villaggio non potevano mancare scoscendimenti di ter­reno, che si prestavano benissimo al violento progetto: si è quindi pensato, non senza verosimiglianza, a uno sbalzo di una decina di metri situato presso l’odierna chiesa dei Greci cattolici, la quale sa­rebbe sorta appunto presso il luogo già occupato dall’antica sinagoga. La pia riflessione cristiana ripensò più tardi anche a ciò che dovette provare Maria in questa occasione, e una cappella situata in direzione del Saltus Domini ricevette nel Medioevo il nome di Santa Maria del Tremore a ricordo del timore sofferto da Maria quando vide suo figlio in pericolo.

Vita di Gesù 12ultima modifica: 2010-09-01T16:41:00+02:00da meneziade
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