Il processo a Gesù Cristo 2

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D – Lo condanniamo noi (ebrei), ma ce lo dovete giustiziare voi (romani).

Altri pesanti indizi a carico dell’attendibilità storica di chi ha narrato gli eventi di quella vicenda riguardano il fatto che la tradizione spiega la consegna di Gesù a Pilato da parte degli ebrei con la scusa che questi ultimi non potessero eseguire le sentenze di morte. Come si fa a dire una cosa del genere?

1 – Erode ha eseguito centinaia di sentenze a carico di ebrei;

2 – la famosa adultera del brano “chi è senza peccato scagli la prima pietra” stava per essere lapidata dagli ebrei e si è potuta salvare solo grazie all’intervento di Gesù;

3 – San Paolo ha eseguito la condanna per lapidazione del primo martire cristiano, Santo Stefano (o comunque vi ha assistito);

4 – Giovanni il battista è stato giustiziato dagli ebrei;

5 – all’indomani della morte di Gesù i sinedriti minacciarono gli apostoli di condanna a morte;

6 – l’apostolo Giacomo è stato lapidato a Gerusalemme;

7 – lo stesso Gesù, a quanto dice il quarto Vangelo in diverse occasioni, aveva rischiato più volte di essere lapidato dagli ebrei …

Dobbiamo continuare?

E’ fin troppo evidente che le testimonianze delle esecuzioni fatte dagli ebrei sugli ebrei sono innumerevoli, e ce le fornisce lo stesso Vangelo; se non ché a proposito di Cristo si dice, improvvisamente ed inspiegabilmente, che gli ebrei non avevano la facoltà di fare esecuzioni capitali e che per questo dovettero consegnare il bestemmiatore Gesù nelle mani del boia romano.

Tutto questo testimonia una semplice verità: la disperata ed irrinunciabile necessità degli evangelisti di dimostrare che se Gesù è stato giustiziato dai romani con una tipica esecuzione romana, la crocifissione, questo lascia comunque i romani innocenti della sua morte e colpevolizza solo gli ebrei, che sarebbero stati i suoi unici veri nemici.

E – La responsabilità Cristiana nel sentimento antisemita

Basti pensare a quanto appare assurdo il prefetto Pilato nel momento in cui sembra supplicare il popolo di scegliere Gesù come beneficiario della liberazione, mentre la gente si ostina a gridare – Crocifiggilo! Crocifiggilo! – e preferisce la liberazione di un presunto brigante a quella dell’uomo che aveva restituito la vista ai ciechi e la salute ai lebbrosi.

Ma quanti cristiani si sono degnati di studiare attentamente il periodo storico in questione? Di appurare se esistesse o no questa presunta consuetudine di liberare un prigioniero in occasione della festa ebraica? Di leggere gli scritti degli storici ebrei Filone e Giuseppe, contemporanei di Gesù? I quali non hanno mai parlato di una simile consuetudine ed hanno sempre dipinto Pilato come un cinico e spietato amministratore che non si è mai preso la briga di chiedere permesso a nessuno e che, tantomeno, non si è mai sottomesso alle volontà popolari dei giudei ma, al contrario, che ha sempre governato con polso di ferro e con atroce spietatezza.

Nel caso di Gesù, invece, assistiamo ad un Pilato che insiste per liberare il giovane profeta ma, di fronte alla risolutezza del popolo inferocito, si dichiara sconfitto e annuncia candidamente: – Io me ne lavo le mani, non io, ma voi siete responsabili di questo sangue innocente! -. A questo punto, in bocca agli ebrei è messa una frase che è tutto un programma ideologico: – Il suo sangue ricada su noi e sui nostri figli! -, come se gli ebrei di quel tempo sapessero già del triste destino che incombeva sulla loro razza e avessero deciso di accettarlo: la terribile guerra contro i romani, la distruzione di Gerusalemme e del tempio, il massacro di centinaia di migliaia di loro, la diaspora, le persecuzioni da parte dei cristiani, la santa inquisizione, il marchio infamante di “perfidi giudei”, duemila anni di antisemitismo e tutto il resto…

Ecco dunque una drammatica conferma: chi ha scritto i quattro Vangeli che la Chiesa definisce canonici aveva senza ombra di dubbio una fissazione, quella di screditare la razza giudea e riempirla di infamia per avere voluto la morte del “figlio di Dio”, dando così una santa giustificazione alla storica ostilità di cui gli ebrei sono sempre stati vittime da parte dei cristiani.

Eppure, se c’è qualcuno a cui spetta l’infamia di avere voluto la morte di Gesù, ne siamo certi, non è agli ebrei ma ai romani, che a quel tempo avevano annesso la Palestina al loro impero e avevano sottomesso i suoi abitanti quali sudditi del potere imperiale. E che erano molto attenti a reprimere ogni movimento di liberazione nazional-religiosa, specialmente in un paese difficile da soggiogare; un paese nel quale, da secoli, le profezie parlavano di un Messia-Re, figlio di Davide, che avrebbe dovuto ripetere le gesta dell’antico sovrano che aveva creato il regno unito delle dodici tribù di Israele; un paese nel quale i movimenti messianici (i movimenti esseno-zeloti) si erano risvegliati come mai prima di allora.

F – Il Messia atteso?

Cos’è dunque che i redattori evangelici avrebbero voluto nascondere con la loro manipolazione storica? In questo, l’abbiamo capito, si nasconde la verità che cerchiamo. Essa consiste probabilmente nel fatto che il personaggio che Pilato aveva fatto catturare non ha mai avuto l’intenzione di fondare una religione diversa da quella a cui già apparteneva, non ha mai deciso di dichiarare annullato l’antico patto di Jahwéh col suo popolo, non ha mai predicato ai non circoncisi (ci sono almeno due passi delle scritture evangeliche in cui Gesù esprime in termini chiari ed espliciti la sua intenzione di non predicare per i non ebrei, ma solo per le cosiddette “…”pecore perdute della casa di Israele…” [Mt 10, 6] [vedi anche Mt 15, 21-28]); insomma egli è nato ebreo, come tale è cresciuto, è stato educato, ha vissuto, ha operato ed è morto, senza che il dubbio di cambiare fede o di inventarne un’altra lo abbia mai sfiorato.

Il Cristo (termine che traduce in lingua greca la parola aramaica Mashiha = Messia) è stato intenzionalmente preso di mira dai romani, da loro processato e giustiziato, perché i movimenti messianici del tempo (con tutta probabilità i movimenti di ispirazione essenica, se non gli Esseni stessi degli insediamenti di Kirbeth Qumran, autori dei famosi e controversi Manoscritti del Mar Morto) avevano individuato in lui il destinatario delle profezie messianiche: il santo del Signore, il figlio di Davide, l’unto di Jahwéh che avrebbe restituito la casa di Israele ai suoi figli, togliendola agli usurpatori pagani, alla odiata stirpe dei monarchi Erodiani e alla corrotta casta sacerdotale dei Sadducei. Un uomo così non poteva che finire i suoi giorni sul patibolo romano, la croce, con la scritta trilingue che così recitava: Wa Melek ha Yehudim – Basileus ton Ioudaion – Rex Iudaeorum, il cui significato è evidente: condannato perché colpevole contro l’autorità imperiale, avendo tentato di ristabilire la corona di Davide sul trono di Israele.

Infatti, mille anni avanti Cristo, il primo che aveva regnato sulle dodici tribù unite di Israele era stato proprio Davide ed aveva anche portato la capitale a Gerusalemme, dove sognava di edificare un gigantesco tempio al Signore (non fu lui a portare a compimento quest’opera, ma suo figlio Salomone). Davide fu dunque il primo Messia di Israele e agli ebrei non ripugna affatto l’idea che il Messia sia un personaggio che coniuga l’aspetto spirituale con quello politico, anzi, che sia addirittura un guerriero che combatte e sconfigge tutti i nemici della nazione di Dio.

Il termine Messia nasce dalla cerimonia caratteristica di investitura regale: l’unzione (Mashiha = Unto). Il re di Israele non aveva solo una dignità politica, doveva essere un “prediletto del Signore”, in quanto dotato di particolare devozione e fedeltà al Dio di Israele; egli riceveva dalla figura del sommo sacerdote l’olio consacrato e con questo era dichiarato “Unto del Signore”, ovverosia il rappresentante terreno di quella sovranità sulla nazione di Israele che spettava solo a Jahwèh.

G – Questo è l’Unto di Jahwè, il re di Israele.

Portiamo la nostra attenzione su un celebre passo della narrazione evangelica, che è alla base della una tipica ricorrenza detta “domenica delle Palme”: tutto il mondo cristiano, nella domenica che precede la Pasqua, ricorda l’ingresso di Gesù in Gerusalemme quando, avanzando in groppa ad un’asino, fu salutato dalla folla in un tripudio di Osanna. L’episodio è definito “ingresso messianico” e non potrebbe portare nome più appropriato. Infatti, se leggiamo attentamente il brano, nella versione di tutti e quattro gli evangelisti, troveremo parole dal significato più che inequivocabile: “Benedetto il regno che viene, del nostro padre Davide!” (Mc XI, 10), “Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore” (Lc XIX, 38), e ancora: “Il giorno seguente, la gran folla che era venuta per la festa, udito che Gesù veniva a Gerusalemme, prese dei rami di palme e uscì incontro a lui gridando: – Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele! Gesù, trovato un asinello, vi montò sopra, come sta scritto: Non temere, figlia di Sion! Ecco, il tuo re viene, seduto sopra un puledro d’asina” (Gv XII, 12-15). L’evangelista Giovanni fa esplicito riferimento ad una profezia della Bibbia (Zc IX, 9), che parla della venuta di un liberatore messianico: “Mi porrò come sentinella per la mia casa contro chi va e chi viene, non vi passerà più l’oppressore, perchè ora io stesso sorveglio con i miei occhi. Esulta grandemente figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina”.

Insomma, Gesù fu accolto da tutti come l’atteso liberatore, come il figlio di Davide, come il re di Israele, tutta la descrizione rivela non solo la dignità religiosa del personaggio ma, soprattutto la sua dignità politica; e se egli avesse voluto smentire questa interpretazione che il popolo dava alla sua venuta, se cioè egli avesse voluto precisare che la sua missione non aveva carattere politico, gli evangelisti non ci avrebbero raccontato che l’episodio si era svolto proprio come adempimento della profezia messianica di Zaccaria, con la scenografia del re in groppa all’asino; né avrebbero tanto insistito a definire Gesù come “figlio di Davide”, ovverosia confermando il suo pieno diritto alla corona di Israele in quanto appartenente alla dinastia dell’antico fondatore del regno.

Ma ecco un’altra importante dimostrazione della dignità politica di Gesù. Poco dopo l’ingresso messianico in Gerusalemme, che si svolse circa quattro giorni prima del suo arresto, Gesù partecipò ad un importante banchetto, offerto in suo onore nella casa di un fariseo di nome Simone.

Ne parlano tutti e quattro gli evangelisti, ma il testo che noi leggiamo, oggi, sembra voler minimizzare l’importanza del fatto se non, addirittura, camuffarne il significato. Infatti nel corso del banchetto, si verificò un episodio che ne turbò la serenità: una donna (che solo il quarto evangelista identifica nella persona di Maria di Betania, sorella di Lazzaro) giunse con un vaso di alabastro contenente una libbra di “olio profumato di vero nardo”.

Ora sarà bene far notare che una cosa simile rappresentava una vera ricchezza, qualcosa che oggi costerebbe molti milioni e che, a quel tempo, non poteva certo costituire un oggetto comune nelle mani di colei che la tradizione vuole farci apparire come una semplice popolana. Ciò non ostante Maria era attrezzata con quella preziosità, quindi si prese la briga di spezzare il vaso di alabastro e di spargere tutta quella essenza sul corpo di Gesù (sul suo capo e sui suoi piedi).

Ed ecco il momento cruciale dell’episodio: a quel gesto, improvvisamente, seguì una esagerata reazione di sdegno da parte di molti dei presenti:

– Ci furono alcuni che si sdegnarono fra di loro: – Perché tutto questo spreco di olio profumato?…

– ed erano infuriati contro di lei…

– allora Giuda Iscariota, uno dei dodici, si recò dai sommi sacerdoti per consegnare loro Gesù

– quelli all’udirlo si rallegrarono e promisero di dargli denaro…

(Mc XIV, 4- 11)

Un altro evangelista parla dello sdegno dello stesso padrone di casa, Simone. Insomma, tutti sono d’accordo nel testimoniare le conseguenze abbastanza gravi dell’intervento di Maria. Sembrerebbe persino che Giuda abbia maturato la sua precisa intenzione di tradire Gesù in seguito a questa malcapitata “unzione”. C’è addirittura un autore, di cui non faccio il nome per non suscitare polemiche personali, che alcuni anni fa ha pubblicato in Italia un libro sul personaggio di Giuda, opera che ha riscosso un certo successo editoriale e sul quale sono comparsi anche diversi commenti sui giornali, il quale sostiene la tesi che il traditore avrebbe deciso di mollare tutto perché con quella unzione certi suoi progetti sarebbero andati in fumo. L’autore dice che Giuda stava cercando di preparare una udienza per Gesù dal sommo sacerdote ma, una volta resosi impresentabile in quel modo, ovverosia unto di profumo come una cortigiana (ci sarebbero voluti alcuni giorni prima che egli potesse liberarsi dalla insistente fragranza del nardo), l’udienza non era più possibile e tutto il piano saltava in aria.

Naturalmente non ho parole per esprimere il mio stupore sul fatto che qualcuno possa seriamente pensare una cosa del genere né, tanto meno, ho parole per esprimere il mio disappunto sul fatto che tutti, da sempre, evitino sistematicamente di riconoscere le uniche ragioni verosimili di quello sdegno.

C’è un solo motivo serio che può avere prodotto l’agitazione dei presenti al banchetto, il loro sdegno e la decisione fatale di Giuda: Maria non aveva voluto compiere un semplice gesto di devozione esibendo lo spreco di un tale valore (…che si trovava nelle sue povere mani?), bensì tutta quella ricca ed aristocratica dotazione era stata preparata appositamente per l’uomo che poco prima aveva compiuto un plateale ingresso da re nella città santa, affinché dinanzi a tutti fosse ufficializzata la sua dignità messianica con una cerimonia di unzione, la tipica cerimonia di investitura regale: l’olio di nardo era per dichiarare la venuta del Messia di Israele!

Tutto ciò aveva provocato lo sdegno di quanti non erano disposti ad approvare questa attribuzione; di quanti temevano gli ideali dei movimenti Jahwisti e i pericoli delle loro ambizioni messianiche; di coloro che, farisei, sadducei ed erodiani, avevano trovato il loro modus vivendi nella Palestina sottomessa all’invasore pagano, e che vedevano i loro privilegi o il loro semplice quieto vivere messi a repentaglio dagli ardori del fondamentalismo esseno-zelota.

Ed è proprio perché Giuda rimase profondamente deluso dalla così grave mancanza di adesione agli ideali del movimento da parte del popolo di Gerusalemme, anzi dalla opposizione che le classi conservatrici avevano mostrato e che poteva facilmente tradursi nel pericolo concreto di finire, di lì a poco, sul patibolo romano per il reato di sedizione, che egli preferì assicurarsi una immunità come “pentito” e come “collaboratore”. Non si salvò comunque: dopo pochi giorni la spada dei partigiani di Jahwè lo raggiunse, probabilmente per mano dello stesso Simon Pietro, e i suoi visceri furono sparsi sul terreno a monito nei confronti di tutti i traditori della causa.

H – Paolo, inventore del Cristianesimo.

Poco dopo l’esecuzione dell’aspirante Messia, un certo Shaul, nativo di Tarso in Anatolia, ebreo della diaspora, avvezzo alla convivenza pacifica coi pagani e motivato più al compromesso coi non circoncisi che non allo scontro frontale, intuì che era a dir poco pericolosa l’interpretazione tradizionale e radicale delle profezie messianiche, secondo cui il conflitto diretto con una immane potenza come quella imperiale romana e coi suoi tirapiedi (la borghesia sacerdotale sadducea e la famiglia dei regnanti erodiani) si sarebbe risolto trionfalmente, non ostante la colossale disparità di forze, perchè aveva dalla sua parte l’appoggio di Jahwéh stesso. Shaul, che noi chiamiamo San Paolo, sapeva bene che i romani prima o poi si sarebbero spazientiti e sarebbero giunti alla decisione di risolvere nel modo più drastico il problema della indomabilità di questa piccola ma cocciuta provincia ribelle.

Lo pensavano anche i Sadducei i quali, tutto sommato, stavano proprio bene così come stavano, conniventi col potere dei dominatori stranieri, nonché ricchi sfondati e pieni d’autorità e di prestigio agli occhi dei cittadini di Israele. E’ proprio in un passo del Vangelo secondo Giovanni che compare questa frase: “…Se lo lasciamo fare così, tutti crederanno in lui e verranno i Romani e distruggeranno il nostro luogo santo e la nostra nazione – Ma uno di loro, di nome Caifa, che era sommo sacerdote in quell’anno, disse loro: – Voi non capite nulla, e non considerate come sia meglio che muoia un uomo solo per il popolo e non perisca la nazione intera -“. Avevano ragione i sacerdoti a pensarla in questo modo, dal momento che ciò che essi temevano, come conseguenza del fondamentalismo messianista, si avverò puntualmente quando, nel 70 dopo Cristo, i romani decisero di farla finita: massacrarono decine di migliaia di ebrei, distrussero Gerusalemme e saccheggiarono il tempio.

Condividendo dunque l’opinione dei conservatori giudei il fariseo Shaul fu, in un primo tempo, un accanito persecutore dei pericolosi seguaci della setta messianista (cioè dei cristiani); ma, in un secondo tempo, dovette rendersi conto che neanche questa strada sarebbe servita a frenare i fanatismi nazional-religiosi delle sette di ispirazione esseno-zelotica. Anche i nostri tempi moderni ci insegnano che non c’è arma di repressione che possa avere ragione dello spirito integralista di stampo etnico-religioso, un’attitudine al di là di ogni possibilità di controllo.

Così Shaul maturò il convincimento che contro i fondamentalismi etnico-religiosi non è utile opporre le armi o la forza, si rischia di ottenere l’effetto contrario; occorre combattere le idee con le idee. Infatti il fanatismo etnico-religioso soddisfa un’esigenza interiore che poggia le sue basi sul senso inconscio di identità e sull’orgoglio dei popoli, e l’unica cosa che possa competere con ciò è un’altra immagine interiore, un’altra idea capace di soddisfare le esigenze inconsce degli uomini dando loro un’identità e un senso di self-respect che non sia semplicemente quello tribale dell’appartenenza al gruppo.

Ebbene, l’unico modo per combattere la pericolosità della speranza di salvezza messianica di Israele era quella di creare un’altra speranza di salvezza messianica, ancora più grande, ancora più rispondente alle esigenze interiori: l’idea di una salvezza spirituale universale, di un messia che non dovesse riscattare solo la piccola casa di Israele dalla sua sottomissione all’invasore romano, ma una salvezza cosmopolita che dovesse riscattare tutto il genere umano, specialmente il povero, l’umile, l’oppresso, il debole, il malato, il sofferente, dalla sua sottomissione al male.

E fu così che Shaul inventò di sana pianta, sulle spoglie del vecchio messia, reale ma politicamente fallito, che continuava comunque a rinfocolare gli ardori e le speranze dei suoi irriducubili seguaci, e sui modelli dei Salvatori spirituali orientali, come il Soter dei Greci, il Saoshyant dei Persiani e il Buddha degli Indiani, la figura di un nuovo messia, immaginario ma vincente: Gesù Cristo il risorto. E’ stata la più geniale composizione teologica mai effettuata nella storia del genere umano; punto di convergenza sincretistica di numerose componenti religiose ebraiche, elleniche, persiane e indiane; destinato a diventare la guida spirituale dello sviluppo successivo di tutta la civiltà occidentale; capace (a differenza della sua controparte storicamente reale) di abbattere veramente l’impero pagano di Roma. Non era Shaul che si era convertito sulla via di Damasco, ma il cristianesimo, il quale aveva trovato una nuova dimensione capace di proiettarlo non verso il futuro di Israele, ma verso il futuro dell’umanità intera.

Compiuta questa revisione teologica ed ideologica, che evidentemente trovò molta più rispondenza popolare che non la fede originale dell’aspirante Messia di Israele e dei suoi seguaci, la casa di Israele e gli ebrei tradizionalisti (attaccati al loro ideale nazional-religioso) furono visti come una zavorra che impediva lo sviluppo del nuovo ideale cosmopolita del neocristianesimo paolino. Non solo, ma l’immagine dell’aspirante Messia storico e del suo sacrificio patriottico erano un’ostacolo all’immagine del Messia universale, apolitico, puramente spirituale, che prometteva una salvezza nel regno dei cieli, non nei regni della terra. I nuovi cristiani furono anche perseguitati dai Romani perché questi non potevano dimenticare che il Messia originale era stato un martire del movimento di liberazione, che avrebbe anche potuto contagiare con le sue idee le altre nazioni soggette all’impero.

E’ per questo motivo che gli evangelisti furono costretti a prendere le distanze dai Giudei e a trasformare la responsabilità Romana nella uccisione di Cristo in una responsabilità ebraica.

E’ per questo motivo che le narrazioni evangeliche sono piene di stratagemmi finalizzati ad adattare l’immagine del Messia guerriero degli Ebrei alla nuova teologia del Salvatore universale.

In questo modo e con queste finalità nacque il Vangelo.

Il processo a Gesù Cristo 2ultima modifica: 2010-10-29T18:29:00+02:00da meneziade
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