Vita di Gesù 5

caravaggio_sepoltura-cristo.jpgI VANGELI

105. La parola “evangelo” significò originariamente la ricom­pensa data a un messaggero che rechi una buona novella, o anche la buona novella in se stessa; il cristianesimo, fin dai suoi primi tempi, impiegò questa parola per designare la piu’ importante e preziosa “buona novella”, quella annunziata da Gesù all’inizio del suo ministero, allorché venne Gesu’ nella Galilea annunziando la “buona novella” d’iddio e dicendo: Si è compiuto il tempo e si è avvicinato il regno d’iddio; pentitevi e credete nella “buona novella” (Marco, 1, 14-15). Quindi, la “buona novella” annunziata in principio da Gesù fu essenzialmente questa: Si e’ avvicinato il regno di Dio. Ma a questo primo annunzio segui uno sviluppo, il quale tradusse in atto il contenuto della “buona novella” mediante gli insegna­menti, la vita e la morte redentrice di Gesù. Quindi, a tutto questo complesso di fatti che costituivano la salvezza apprestata da Gesù al genere umano fu in seguito applicata la designazione di “buona novella”, in quanto era annunzio della salvezza già attuata e com­piuta. In questo senso S. Paolo si presenta come ministro… della “buona novella” (Colossesi, 1, 23; ecc.), in corrispondenza all’e­spressione usata dal suo discepolo Luca, che parla di inservienti della parola (Luca, 1, 2); egualmente in questo senso fu scritto in prin­cipio ad uno dei vangeli canonici: inizio della “buona novella”di Gesu’ Cristo (Marco, 1, 1).

§ 106. Quest’ultimo esempio già prelude ad un’applicazione ulte­riore che ricevette più tardi la parola. Per alcuni anni dopo la morte di Gesù la diffusione della “buona novella” avvenne in maniera esclusivamente orale; il quale metodo era quello stesso seguito da Gesù, che aveva soltanto parlato senza lasciare alcun scritto, ed era anche conforme a quello dei dottori giudaici contemporanei, le cui sentenze furono tramandate oralmente ancora per molto tempo fino a quando furono messe in iscritto neI Talmud (§ 87). Era il metodo chiamato dai cristiani “catechesi”, ossia “risonanza” perché con­sisteva nel “far risonare” (greco katecheo) la voce alla presenza dei discepoli; di guisa che il discepolo, che avesse compiuta la sua istru­zione, era il “risonato”, ossia il “catechizzato” (Galati, 6, 6; Luca, 1 4; Atti, 18, 25). Senonche la rapida e vasta diffusione della “buo­na novella” non poteva permettere, praticamente, che questa re­stasse affidata per lungo tempo soltanto alla viva voce. Lo sprigio­narsi della “buona novella” dalla Palestina e dal mondo giudaico; il suo penetrare in regioni d’altri linguaggi, come nella Siria, nell’Asia Minore e fino in Italia e a Roma; il suo irrompere nelle accademie e negli altri cenacoli del mondo greco­romano; e infine l’effettuarsi di questa avanzata trionfale nel giro di pochi anni, richiesero entro bre­ve tempo che la viva voce fosse corroborata dallo scritto per raggiun­gere più facilmente e più efficacemente nuove mete. Sappiamo infatti che, già lungo il sesto decennio del secolo I, circolavano scritti con­tenenti la “buona novella”, e che tali scritti erano molti (Luca, 1, 1-4). Questo nuovo sussidio, fornito al diffondersi del messaggio cristiano, fu come una seconda strada aperta parallelamente alla prima: da allora la “buona novella” s’avanzò su ambedue le stra­de, la catechesi risonante e la catechesi scritta. Ciò appunto spiega l’ulteriore applicazione che ricevette la parola. Da questo tempo “buona novella” fu, non soltanto l’annunzio del­la salvezza umana, ma anche lo scritto che conteneva quell’annun­zio: il contenente fu designato col nome del contenuto, cioè fu chiamato “vangelo”. Ad ogni modo, anche se la “buona novella” orale aveva perduto la sua sonorità materiale diventando vangelo scritto, l’una e l’altro rimanevano in sostanza una catechesi: non altramente le orationes di Cicerone, essenzialmente orali, rimasero orationes anche quando circolarono in iscritto.

§ 107. E’ però di somma importanza rilevare che la “buona no­vella” scritta non pretese mai né di soppiantare né di sostituire adeguatamente la “buona novella” orale; e ciò, oltreché per altre ragioni morali, anche perché la “buona novella” orale era molto ricca e conteneva assai più elementi di quella fissata in iscritto. Abbiamo su questo proposito una preziosa testimonianza di Papia di Jerapoli, il quale, scrivendo verso l’anno 120, afferma di aver ricer­cato ansiosamente ciò che avevano insegnato di viva voce gli Apo­stoli e gli altri discepoli immediati di Gesù, ch’egli nomina indivi­dualmente, apportando infine questa ragione: Giudicavo infatti che le cose contenute nei libri non mi avrebbero giovato tanto, quanto le cose (comunicate) da una voce viva e permanente (in Eusebio, Hist. eccl., III, 39, 4). E parlando di libri e di voce allude indub­biamente alle fonti della vita e della dottrina di Gesù, perché poco dopo tratta espressamente dei vangeli di Marco e di Matteo. Presso gli scrittori cristiani del secolo II l’uso del termine « vange­lo » è ancora promiscuo. Talvolta conserva il senso più antico, e perciò designa la « buona novella » in sé, ossia la salvezza umana operata da Gesù, come si ritrova ancora presso Ireneo (Adv. har., iv, 37, 4); ma già lo stesso Ireneo (ivi, III, lì, 8; ecc.); e anche prima di lui Giustino (Apol., I, 66), impiegano il termine per designare determinati scritti, cioè i nostri vangeli. Anche l’eretico Marcione, verso il 140, prefisse il titolo di « vangelo » al suo scritto derivato dal terzo dei vangeli canonici ed accomodato conforme alle dottrine di lui (Tertulliano, Adv. Marcion., iv, 2).

§ 108. Qual era il primo e principale argomento della catechesi, orale o scritta che fosse? Su ciò non può esservi dubbio. Se la fede cristiana aveva per suo fondamento la persona di Gesù, il primo passo sulla strada di questa fede doveva necessariamente essere la conoscenza dei fatti di Gesù; ci viene infatti attestato esplicitamente che si cominciava con l’istruirsi o con l’istruire sulle cose riguardo a Gesìi (Atti, 18, 25; cfr. 28, 31) come pure ci vengono occasional­mente comunicati brevi abbozzi di catechesi che comprendono ap­punto i fatti di Gesù (Atti, 1, 22; 2, 22 segg.; 10, 37 segg.). E in realtà un cristiano non sarebbe stato cristiano se non avesse saputo che cosa aveva fatto il Cristo, ossia Gesù, quali dottrine aveva insegnate, quali stabili riti aveva istituiti, quali prove avevano dimo­strato l’autorità della sua missione, insomma se non possedeva una notizia almeno sommaria della biografia di lui: senza questa notizia la « buona novella » non poteva diffondersi, giacché gli uomini co­me invocherebbero colui nel quale non credettero? e come crede­rebbero in colui che non udirono? e come udirebbero senza un ban­ditore? (Romani, 10, 14).

§ 109. Ora, fra i banditori orali della « buona novella » vi fu una classe speciale, a cui sembra che fosse affidata in modo particolare la missione di trasmettere la narrazione e testimonianza dei fatti di Gesù: per conseguenza questi particolari banditori furono desi­gnati, con termine spontaneo, come i « buoni-novellisti» ossia gli « evangelisti » (Efesi, 4, II; II Timoteo, 4, 5; Atti, 21, 8). Senza dubbio la catechesi in genere, che mirava alla edificazione e forma­zione spirituale dei credenti, era favorita indistintamente da tutti quei carismi di cui parla più volte S. Paolo esaltando la loro effi­cacia parenetica (I Cor., 12, 8-10. 28-30; 14, 26; Rom., 12, 6-8; ecc.); tuttavia il carisma dell’”evangelista”, insieme con quello del­l’”apostolo”, era all’avanguardia ed apriva la strada agli altri carismi, appunto perché gettava il primo seme della fede in Gesù e narrando la biografia di lui. Ecco pertanto come la missione degli « evangelisti » è descritta da Eusebio: Essi avevano il primo ordine nella successione degli apo­stoli. Essendo discepoli meravigliosi di tali maestri, essi costruivano sopra i fondamenti delle chiese che erano stati dapprima gettati in ogni luogo dagli apostoli, dilatando sempre piu’ il messaggio ) e disseminando la salutare semenza del regno dei cieli in largo su tutta la terra… Usciti di patria, compivano l’opera di evangelisti ansiosi di bandire il messaggio a coloro che non avevano udito affatto nulla della parola della fede e di trasmettere la scrit­tura dei divini vangeli. Essi, dopo aver gettato solo i fondamenti della fede in taluni luoghi stranieri, vi stabilivano altri pastori ai quali affidavano la cura di coloro ch’erano stati testé introdotti: di nuovo, poi, si trasferivano in altre contrade e nazioni con la grazia e cooperazione di Dio (Hist. eccl., III, 37). Questa descrizione è opportunamente provocata dalla menzione di Filippo, che è il solo « evangelista » nominato nel Nuovo Testamento (Atti, 21, 8) e che difatti aveva evangelizzato Samaria (Atti, 8, 5 segg.) e altre regioni (Atti, 8, 40).

§ 110. Con ciò siamo penetrati in quella miniera da cui estrassero i loro materiali quei molti scrittori che, come vedemmo sopra (§ 106), avevano composto narrazioni dei fatti di Gesù già nel sesto decen­nio del secolo I, e la cui opera fu o contemporanea o anche par­zialmente anteriore alla composizione dei vangeli canonici. Quella grande miniera comune si chiama « catechesi »; e la catechesi sen­za dubbio era sostanzialmente unica, sebbene potesse venir presen­tata sotto forme o tipi alquanto differenti che mettessero capo ai vari e più autorevoli banditori della «buona novella». D’altra parte la Chiesa primitiva non si è curata di tutti indistinta­mente i molti scritti apparsi lungo il secolo I, ma solo di quattro fra essi: degli altri si è disinteressata, e perciò sono andati perduti, men­tre i quattro prescelti divennero le quattro colonne basilari dell’edi­ficio della fede. Ad essi soli la Chiesa attribui un valore di storio­grafia ufficiale; in essi ella riconobbe l’ispirazione di Dio, e perciò li incluse nell’elenco di Scritture sacre chiamato Canone: sono ap­punto i quattro vangeli canonici, ossia le quattro « Buone novelle» del Nuovo Testamento. Ma la Chiesa non perse mai di vista l’o­rigine unitaria dei suoi quattro vangeli. Se gli scritti erano quattro, la fonte era una sola, cioè la catechesi. Onde, con perfetta aggiu­statezza storica, nel secolo Il Ireneo parla di un solo vangelo qua­driforme, come nel secolo seguente Origene afferma che il vangelo, certamente attraverso quattro, e’ uno solo, ai quali, ancora nel secolo IV, fa eco S. Agostino parlando dei quattro libri d’un solo vangel.

§ 111. E dell’antico sentimento della Chiesa circa questa comune origine dei quattro vangeli si ha una riprova nei titoli sotto cui essi sono giunti fino a noi. I titoli suonano in greco Marco, Luca, Giovanni, le quali espressioni si trovano trasportate di peso in latino da scrittori del secolo II, come Cipriano, e da antichi codici latini, ove si legge cata Matteo, cata Marco, ecc., pur conservandosi il significato originario di secondo Matteo, secondo Marco, ecc. Questi titoli non provengono certo dai rispet­tivi autori, benché designino coloro che secondo la tradizione erano gli autori; ad ogni modo negli antichi codici il titolo di Vangelo si trovava originariamente una sola volta, cioè in cima alla colle­zione di tutti e quattro insieme, mentre in cima ai singoli si trovava il rispettivo titolo di secondo Matteo, secondo Marco, ecc. Questa norma pratica fu dettata dall’idea che il Vangelo era in realtà uno solo, quello estratto dalla catechesi, sebbene tale unità apparisse sot­to quattro forme, quella secondo Matteo, quella secondo Marco, ecc. I precedenti rilievi sono della massima importanza per comprendere quale fosse per i cristiani la vera base su cui poggiava l’autorità storica dei vangeli. Quella base era l’autorità della Chiesa, della cui catechesi era genuino e diretto prodotto l’unico quadriforme van­gelo. I singoli autori delle quattro forme del vangelo in tanto vale­vano, in quanto erano rappresentanti della Chiesa, dalla cui autorità essi erano adombrati ma credendo ai quattro autori, il cristiano credeva in realtà all’unica Chiesa, mentre se attraverso ad essi il cristiano non fosse potuto giungere fino alla Chiesa, non avrebbe creduto al loro vangelo. Tutto ciò è espresso nitidamente da S. Agostino col suo celebre aforisma: Ego vero evangelio non crede­rem, nisi me catholic Ecclesia’ commoveret auctoritas (Contra epist. Manich., v, 6). In conclusione, il processo storico dell’origine dei vangeli fu il se­guente. La “buona novella” orale fu più antica e più ampia della « buona novella » scritta: l’uno e l’altra furono produzioni della Chiesa, e dall’autorità di questa furono adombrate. Il che equivale a dire che il vangelo scritto presuppone la Chiesa e si basa su essa.

§ 112. Questa conclusione è in assoluto contrasto con l’antico con­cetto che la Riforma luterana si fece dei vangeli canonici, e taluno potrebbe forse sospettare che sia una conclusione ispirata da mire polemiche più che fondata sulla pura documentazione storica. Se­nonché alla stessa conclusione sono giunti recentemente anche stu­diosi che, non solo non hanno alcuna preoccupazione di apologia cattolica, ma sono invece seguaci dei metodi più radicali e più de­molitori riguardo alla critica dei vangeli. Basterà riportare il giu­dizio di uno solo fra essi: In seguito alla fissazione del canone del Nuovo Testamento alla fine del secolo II si fini per dimenticare che i nostri Vangeli hanno una preistoria importantissima e che bisogna collocarli, non già all’inizio, ma al termine di un lungo processo anteriore. Perciò nella sua nozione della tradizione il cattolicismo si e’ sempre guardato da una considerazione esagerata ed esclusiva della lettera scritta… Con la Riforma il nostro concetto sull’origine dei Vangeli venne falsato. La Riforma tirò le ultime conseguenze dalla canonizzazione del Nuo­vo Testamento, facendo dell’ispirazione verbale il suo dogma essen­ziale. Mentre il cattolicismo non dimenticò mai completamente che la tradizione precede la Scrittura, i teologi sorti dalla Riforma non tennero piu’ alcun conto del fatto che, fra l’epoca in cui e’ vissuto Gesù e quella della composizione dei Vangeli, corre ”Vita di Ge­su’” scritta. E’ strano rilevare che proprio i teologi piu’ liberali della seconda metà del secolo XIX hanno subito inconsciamente l’influenza della teoria dell’ispirazione verbale, non badando che alla lettera scritta, senza preoccuparsi dell’importante periodo in cui il Vangelo non esisteva che sotto forma di parola viva; in Revue d’histoire et de philosophie relig., 1925, pagg. 459-460).

§ 113. Di quale ampiezza, e anche di quale particolare indole, fos­sero gli scritti andati perduti fra i molti che circolavano lungo il sesto decennio del secolo I, non possiamo dire con sicurezza. E’ ben verosimile che in massima parte fossero d’ampiezza assai limitata, minore anche di quella di Marco che è il più breve dei nostri van­geli. Quanto all’indole, dovevano essere di tipo vario: pur trattando tutti della vita di Gesù, taluni potevano occuparsi specialmente dei fatti, altri specialmente degli insegnamenti e delle parole; tra gli scritti sui fatti, chi prendeva di mira specialmente il ministero in Galilea, chi il ministero in Giudea, chi gli avvenimenti della passio­ne e morte, qualcuno anche i fatti dell’infanzia precedenti al ministero pubblico; tra gli scritti sugli insegnamenti, uno preferiva le parabole, un altro i comandamenti fondamentali della nuova Legge (quali si ritrovano nel Discorso della montagna), un terzo le profezie sulla fine di Gerusalemme e del mondo intero, e così’ di seguito. Riscontriamo, pertanto, che questi elementi sparsi si ritrovano tutti complessivamente nei nostri tre primi vangeli chiamati Sinottici (Gio­vanni, sotto questo aspetto, fa parte a sé), come pure troviamo che i Sinottici alla loro volta mostrano una trama generica comune. Le linee costanti di questa trama sono: il ministero di Giovanni il Bat­tista e il battesimo di Gesù; il ministero di Gesù in Galilea; il mi­nistero di Giudea; la passione, morte e resurrezione. A queste linee costanti può esser premessa la narrazione, più o meno ampia, dei fatti dell’infanzia, come in Matteo e Luca: ad ogni modo tale nar­razione serve quasi da preambolo alla trama costante, mentre il vero corpus del racconto comincia col ministero di Giovanni il Battista. Pronunciando queste parole (Atti, 1, 21-22), sembra che Pietro abbia delineato un programma generico; egli stesso mostra di attenersi a tale programma, giacché in un suo di­scorso segue sommariamente le quattro linee della suddetta trama, incipiens a Galilea post baptismum quod predicavit Joannes e fi­nendo con le apparizioni di Gesù dopo la resurrezione (Atti, 10, 37-41). Siffatta corrispondenza fra il programma e l’azione di Pietro (cfr. anche Atti, 2, 22-24), e inoltre il posto sovreminente da lui te­nuto fra i primissimi banditori della “buona novella”, rendono legittima la supposizione che appunto a Pietro risalga la trama di quella catechesi le cui linee generali si ritrovano complessivamente seguite dai nostri tre primi vangeli, come dovevano esser seguite isolatamente dal più dei molti scritti andati perduti. Chi fossero poi gli autori degli scritti perduti, noi non sappiamo affatto. Poterono benissimo appartenere al numero di coloro ch’e­rano insigniti dal carisma dell’”evangelista”; taluno poté anche es­sere testimone personale dei fatti narrati, in quanto era stato disce­polo immediato di Gesù morto un ventennio prima: tuttavia dal confronto di Luca, 1, 1 con 1, 2, sembra risultare una contrappo­sizione tra scrittori e testimoni, per cui i primi dipenderebbero dai secondi e non sarebbero – almeno nella maggioranza – testimoni essi stessi. Quanto agli autori dei vangeli canonici, e al tipo di catechesi da cui ciascuno di essi dipende, non resta che ricercare le testimonianze della tradizione, passando cosi dal periodo di preparazione a quello di composizione dei quattro vangeli.

Matteo

§ 114. Il primo vangelo è attribuito all’apostolo Matteo, chiamato anche Levi e già pubblicano (§ 306), da una costante tradizione che risale al principio del secolo II. Il già allegato Papia di Jerapoli, che verso l’anno 120 scrisse cinque libri di Spiegazione dei detti del Signore, affermava in essi che: Matteo in dialetto ebrai­ cocoordinò i detti ciascuno poi li interpretò com’era capace (in Eusebio, Hist. eccì., III, 39, 16). Altre testimo­nianze successive – quali quelle di Ireneo, di Tertulliano (Adv. Marcion., IV, 2), di Clemente Alessandrino (Stro mata, 1, 21), ecc. – confermano più o meno esplicitamente la no­tizia di Papia. E’ anche certo che tutta l’antichità cristiana, in una gran quantità di attestazioni che sarebbe inutile elencare, ha attri­buito a Matteo precisamente il primo dei nostri vangeli canonici e non un altro scritto. Che cosa esattamente afferma Papia dello scritto di Matteo? Egli dice che in esso Matteo coordinò i detti di Gesù: ossia che, non solo raccolse insieme i detti in questione. Gli antichi, infatti, badavano molto in un’opera letteraria all’”ordinamento”: secondo essi uno scrittore doveva in primo luogo provvedere al ritrovamento di un soggetto, quindi sottoporre il soggetto all’«ordinamento»; que­sto ordinamento, poi, non era sempre quello cronologico, bensì pres­so gli stessi storici era sovente l’ordinamento logico, fondato o sul­l’analogia delle varie trattazioni, o sulla congiunzione di causa ed effetto, o sull’unità di luogo e di persone, e simili. E che Papia abbia qui di mira questo ordinamento letterario, risulta da quanto egli ha detto immediatamente prima circa il vangelo di Marco (ci­teremo l’intero passo al § 128), ove afferma che Marco scrisse esat­tamente, ma non già con ordinamento; al contrario, nello scritto di Matteo egli ritrova con soddisfazione questo “ordinamen­to”.

§ 115. Ora, quali sono i detti contenuti nello scritto di Matteo? Etimologicamente il termine greco significa detti (sentenze, oracoli); ma particolarmente, presso scrittori giudei e cristiani, si­gnificava anche passi in genere della sacra Scrittura, che contenes­sero indifferentemente sia sentenze sia fatti. Papia stesso usa altrove il termine in questo secondo senso più ampio: nel già accennato passo ove parla del vangelo di Marco, dice che questo contiene le cose o pronunzsate o operate da Gesù; eppure, immediatamente appresso, egli designa questo complesso narrativo come detti di Gesù. Inoltre la stessa opera scritta da Papia era bensì intitolata Spiegazione dei detti del Si­gnore, ma dagli accenni e citazioni che ne rimangono risulta che essa trattava, oltreché delle sentenze, anche dei fatti di Gesù e del­l’età apostolica. Per conseguenza, non solo l’antichità cristiana, ma anche tutti gli studiosi indistintamente fino al secolo XIX inoltrato, ritennero che questi detti attribuiti da Papia a Matteo designino il primo dei nostri vangeli canonici: tanto più che di un’opera as­segnata a Matteo o ad altri Apostoli, conteneva solo sentenze di Gesù, non esiste né attestazione né traccia alcuna trasmessa dal­1’antichità. Se poi passiamo a confrontare questi dati, strettamente positivi, con il contenuto del nostro primo vangelo, troviamo una adeguata cor­rispondenza alle due caratteristiche rilevate da Papia: quella del­l’appellativo di detti, e quella dell’”ordinamento” letterario.

§ 116. E in primo luogo, fra i vangeli sinottici, Matteo è quello che concede il più ampio spazio alle parole di Gesù, le quali occu­pano circa tre quinti dell’intero scritto: perciò con particolare ra­gione esso poteva esser designato come una raccolta di detti, pur conservandosi a questa parola il significato usuale meno rigoroso che includeva anche la narrazione di fatti. Inoltre, la raccolta dei discorsi di Gesù ivi riferiti è stata ripartita in cinque gruppi, secondo quella norma di “ordinamento” lette­rario che stava a cuore a Papia. Il primo gruppo contiene ciò che si potrebbe definire lo statuto del regno fondato da Gesù, cioè il Discorso della montagna (Matteo, capp. 5-7); il secondo contiene le istruzioni date agli Apostoli per diffondere il regno (cap. 10); il terzo, le parabole del regno (cap. 13); il quarto, i requisiti morali per appartenere al regno (cap. 18); il quinto, il perfezionamento del regno e la sua consumazione nei fini estremi (capp. 23-25). Notevole è che ognuno di questi gruppi è preceduto da poche parole d’introduzione, ed è poi seguito da una conclusione, la quale tutte le volte è, con minime mutazioni, questa: E avvenne che, quando Gesu’ ebbe terminato o questi discorsi o queste parabole, ecc. (7, 28; 11, 1; 13, 53; 19, 1; 26, 1). Notevole è anche che siffatto “ordi­namento” in cinque gruppi, certamente non fortuito, corrisponde numericamente ai cinque libri in cui Papia aveva diviso la sua opera di Spiegazione dei detti del Signore; il che potrebbe far sospettare, benché la cosa non sia punto certa, che Papia avesse seguito nella sua opera l’”ordinamento” da lui segnalato nello scritto di Matteo, se in essa egli si era occupato soprattutto dei discorsi di Gesù.

§ 117. L’antico pubblicano Matteo, quando mise mano a questa sua opera, era certamente uomo abituato da gran tempo a scrivere, perché senza la quotidiana scrittura non avrebbe potuto nel passato tenere in bell’ordine nel suo tavolo da gabelliere le note dei paga­menti; al contrario gli altri Apostoli, sebbene non fossero privi di lettere, dovevano avere in genere più familiarità con remi e reti da pescatori che non con pergamene e calami da scrittori (salvo forse i due benestanti figli di Zebedeo), e ciò specialmente subito dopo la morte di Gesù quando iniziarono da soli la loro missione. Testi­moni oculari delle azioni di Gesù erano stati tutti egualmente, ma l’abilità scritturale di Matteo era un vantaggio tecnico su altri Apo­stoli, e questo dovette far sì che fosse assegnato di preferenza a lui l’incarico di mettere in iscritto la catechesi orale degli stessi Apo­stoli. Quando Matteo si mise all’opera è possibile, sebbene non dimo­strato, che già circolasse qualche scritto contenente detti o fatti di Gesù; ma anche se ciò potesse dimostrarsi, si tratterebbe certamente di saggi ancora scarsissimi sia per numero sia per contenuto, com­posti inoltre per iniziativa privata e privi d’ogni carattere ufficiale. Al contrario, l’incarico dato a Matteo rispondeva all’opportunità che la catechesi orale degli Apostoli fosse ampiamente e ufficial­mente riecheggiata in un documento scritto, ricevendone quel sus­sidio pratico che era richiesto, come vedemmo (§ 106), dalla cre­scente diffusione della buona novella. Il tipo di catechesi da met­tersi in iscritto non poté essere se non quello già collaudato dalla pratica della Chiesa, e le cui linee maestre erano state tracciate da chi aveva la sovreminenza sui banditori ufficiali della buona novel­la: fu perciò il tipo di catechesi che metteva capo a Pietro (§ 113), senza però escludere il sussidio di altri elementi provenienti dal col­legio apostolico che non entravano ordinariamente nel quadro di quella predominante catechesi. In conclusione lo scritto riassunse il pensiero dell’intero collegio apostolico, pur attenendosi alle linee principali della catechesi di Pietro.

§ 118. Un documento quale quello di Matteo, composto da un te­stimone dei fatti, garantito e sussidiato da altri testimoni, inquadrato entro le linee maestre di un insegnamento ufficiale, esteso su un’am­piezza che non fu mai più raggiunta da scritti dello stesso genere, era destinato immancabilmente ad acquistare un valore singolare. Troviamo infatti che il vangelo di Matteo, come ci viene presentato dalla concorde antichità quale primo in ordine di tempo, cosi è primo quantitativamente per impiego fattone fin dai primi tempi: basti ricordare che, da parte cattolica, Giustino martire a mezzo il secolo IIimpiega il nostro Matteo non meno di centosettanta volte, e che prima di lui gli antichissimi eretici Ebioniti impiegavano il solo vangelo di Matteo, a detta di Ireneo, ma probabilmente alterato.

§ 119. Tuttavia, da principio, all’impiego e all’ampia diffusione del­lo scritto di Matteo si opponeva il grave ostacolo della lingua in cui era stato composto. La notizia già comunicataci da Papia, che Mat­teo scrisse in dialetto ebraico – è in realtà confer­mata da altri antichi – quali Ireneo, Origene, Eusebio, Girolamo i quali egualmente parlano di lingua ebraica o paterna: quasi cer­tamente il termine ebraico designa qui l’aramaico (come nel con­temporaneo Flavio Giuseppe, Guerra giud., vi, 96; cfr. v, 272, 361; ecc.), giacché ai tempi di Matteo in Palestina si parlava aramaico; ad ogni modo, ebraico o aramaico che fosse, la lingua primitiva semitica era inaccessibile ai cristiani di stirpe non giudaica e anche a moltissimi altri provenienti dal giudaismo della Diaspora, i quali non conoscevano altro che il greco. Ma l’ostacolo fu superato, bene o inale, nella maniera accennata dallo stesso Papia: i detti, nel loro testo originale semitico, andarono in mano ai vari lettori e catechizzatori, ciascuno poi li inter­pretò com’era capace. Le quali parole lasciano intravedere un ampio lavorìo sorto ben presto attorno a un testo cosi opportuno e autorevole: alcuni catechizza­tori ne avranno tradotto oralmente, in maniera estemporanea, que­gli squarci che volta per volta occorrevano al loro ministero; altri avranno anche apprestato traduzioni scritte, e queste poterono essere sia parziali sia, più raramente, totali; non dovettero anche mancare scritti che, come la Spiegazione dello stesso Papia, erano piuttosto di esegesi illustrativa che di semplice traduzione. Ma l’osservazione di Papia, che ciascuno interpretò com’era capace, fa anche com­prendere che in tutto quel lavorio la buona volontà spesso non era accompagnata da un’adeguata perizia, soprattutto riguardo alla co­noscenza della lingua da cui si traduceva o anche in cui si tradu­ceva. E’ anche del tutto possibile che i molti, che nel sesto decennio del secolo I avevano gia scritto sui fatti di Gesù (§ 110), usufruissero ampiamente della composizione di Matteo, pur unendola con altri elementi desunti dalla tradizione di testimoni o di loro discepoli.

§ 120. Ma la Chiesa, che aveva adombrato della sua autorità la catechesi scritta in semitico da Matteo, dovette a un certo punto estendere la sua vigilante cura anche alle traduzioni del testo origi­nale, per timore che quell’autorità ufficiale fosse indebitamente in­vocata ad adombrare traduzioni che non meritavano tanto onore. Ciò che precisamente avvenisse non ci è noto, ma le conseguenze sono chiare ed eloquenti. Le traduzioni puramente orali ed estem­poranee dovettero sempre più diminuire, col diminuire dei catechizzatori ch’erano in grado di intendere l’originale semitico; le tradu­zioni scritte, parziali o totali che fossero, rimasero nell’ombra, cioè nell’uso privato e non ufficiale, e perciò destinate prima o dopo a perdersi. Una sola traduzione non andò perduta e giunse fino a noi, ma appunto perché fu adottata ufficialmente dalla Chiesa in sostituzione del troppo arduo testo semitico originale: è il testo greco del nostro Matteo canonico. Da chi sia stata fatta questa traduzione noi non sappiamo, come ai suoi tempi confessava di non saperlo S. Girolamo. Certamente fu oompiuta qualche decennio dopo ch’era apparso lo scritto di Matteo, quando cioè effondendosi sempre più il cristianesimo fuori della Palestina, diventava sempre meno usabile il testo originale semi­tico: risulta anche, da accurati raffronti letterari, che la traduzione fu compiuta dopo ch’erano apparsi gli altri due vangeli sinottici, delle cui espressioni letterarie essa risente. Il traduttore, infatti, non limitò il suo lavoro ad una semplice trasposizione delle parole da una lingua all’altra: bensi, oltre a ricercare una certa spigliatezza letteraria e quindi a non seguire servilmente la lettera anche per questa ragione, egli nello stesso tempo ebbe di mira la catechesi pratica. Poiché nel frattempo erano apparsi i due vangeli di Marco e di Luca, scritti originariamente in greco e rispecchianti in manie­ra più diretta le catechesi rispettivamente di Pietro e di Paolo, il traduttore li tenne sott’occhio durante il suo lavoro, e nel rendere il testo semitico si avvicinò per la scelta delle espressioni a quelle che trovava già impiegate in passi paralleli dei due nuovi vangeli greci: con ciò egli volle imprimere una certa uniformità letteraria a quei tre documenti, che rispecchiavano la catechesi fondamental­mente unica.

§ 121. La stessa mira della catechesi influì anche in altre maniere sulla traduzione. Trasportato in greco, lo scritto di Matteo allar­gava enormemente il suo campo d’azione e poteva raggiungere let­tori non giudei, cioè non abituati a idee ed espressioni tipicamente semitiche; d’altra parte il testo semitico di Matteo doveva avere (co­me risulta dal confronto con gli altri due Sinottici) talune espres­sioni che potevano o essere fraintese o suscitare meraviglia presso gli accennati lettori. Perciò il traduttore, per adattare meglio lo scritto al nuovo campo di catechesi, rimosse queste occasioni di errore e di meraviglia, e pur conservando il senso fondamentale attenuò la forza di certe frasi. Sembra anche probabile che egli abbia spostato taluni passi del testo originale raggruppandoli diffe­rentemente, conforme ai modelli di Marco o di Luca, ancora per­ché questo nuovo raggruppamento gli parve opportuno per l’uso catechetico. Questi criteri larghi non erano affatto inconciliabili con l’idea di «traduzione» presso gli Ebrei, come appare chiaramente da vari casi dell’Antico Testamento; per limitarsi al solo Ecclesiastico, le antiche versioni di questo libro fatte direttamente dal testo ebraico originale (sia esso, o no, quello ritrovato un quarantennio addietro) mostrano che i vari traduttori seguirono criteri d’una libertà estre­ma. Molto più discreto di essi fu invece il traduttore di Matteo; egli seguì criteri che, pur non essendo i rigorosi odierni, s’ispirano a quella libertà ch’era vantaggiosa allo scopo supremo della catechesi. Ma il fatto stesso che la Chiesa approvò e adottò la traduzione da lui apprestata, e che i più antichi scrittori ecclesiastici la impiega­rono come testo di vangelo canonico, dimostra che quella traduzione riproduceva in maniera “sostanzialmente identica” l’originale semitico. Troppo gelosa era la vigilanza della Chiesa per tollerare che il maestoso nome assegnato alla più antica e autorevole scrit­tura del suo insegnamento ufficiale, venisse attribuito a una tradu­zione che di quella scrittura fosse soltanto un evanescente simu­lacro; il rigore usato più tardi dalla stessa Chiesa contro gli scritti apocrifi, i quali parimenti si rifugiavano sotto gloriosi ma mentiti nomi e talvolta erano perfino libere rimanipolazioni di libri cano­nici, conferma la suddetta vigilanza abituale ed è una garanzia an­che per quanto riguarda la traduzione greca di Matteo. § 122. L’indipendenza da un servilismo verbale, testé rilevata nel traduttore di Matteo, offre anche occasione a metter bene in luce un principio importantissimo per l’interpretazione dei racconti evan­gelici in genere. Troviamo, cioè, che un’eguale indipendenza dal servilismo verbale è mantenuta dagli evangelisti stessi nelle loro nar­razioni, sì, da discordare verbalmente fra loro anche nel riferire testi rigorosamente fissati alla lettera ovvero parole di specialissimo valore dottrinale. Ad esempio, la tavoletta di condanna fatta apporre da Pilato sulla croce di Gesù recava senza dubbio un testo rigorosa­mente fissato alla lettera; eppure quest’unico testo è riportato con le seguenti divergenze verbali: Gesù1il Nazareno, il re dei Giudei (Giovanni, 19, 19); Costui e’ Gesù, il re dei Giudei (Matteo, 27, 37); Il re dei Giudei, costui (Luca, 23, 38); Il re dei Giudei (Marco, 15, 26). Più grave ancora è il caso dell’Eucaristia, istituita una sola volta da Gesù e con parole ben precise; eppure anche qui se con­frontiamo la materialità delle parole, riferite sia dai tre Sinottici sia da S. Paolo (I Corinti, Il), troviamo nette divergenze. Ora, tutto ciò dimostra che la preoccupazione della catechesi antica, e quindi anche degli evangelisti canonici che dipendono da essa, era la fe­deltà sostanziale non già quella grettamente verbale, e che essi ri­cercavano l’adesione alla verità del senso non già alla materialità della lettera. Il culto della lettera materiale apparirà solo 16 secoli più tardi, quando la Riforma protestante dimenticherà che i van­geli dipendono dalla catechesi e li giudicherà basati in maniera autonoma sulla pura lettera; ma gli evangelisti stessi, con la loro indipendenza della lettera, danno una formale smentita storica al giudizio della Riforma, e il traduttore greco di Matteo conferma questa smentita imitando gli evangelisti nella libertà verbale.

§ 123. Riguardo al tempo in cui Matteo scrisse in semitico il suo vangelo, abbiamo un solo argomento ben certe, ma oltre a questo soltanto delle probabilità. La certezza è data dalla uniforme e co­stante attestazione degli antichi documenti, secondo cui Matteo fu cronologicamente il prirno evangelista canonico: è quindi anteriore a Luca che fu scritto non dopo l’anno 62, come pure è anteriore a Marco scritto poco prima di Luca. Più in su di questo estremo li­mite abbiamo solo delle probabilità: se i molti che scrissero circa i fatti di Gesù lungo il sesto decennio trassero parecchio del loro ma­teriale dall’opera di Matteo, come sopra supponemmo (§ 119), questa autorevole fonte deve risalire ai primi anni di quel decennio, ossia circa al 50-55. A questa conclusione sembra opporsi il noto passo di Ireneo (Adv. haer., III, 1, 1), che nel testo greco (in Eusebio, Hist. eccl., V, 8, 2) suona letteralmente cosi: Matteo fra gli Ebrei nella propria lingua di essi produsse anche una scrittura di vangelo, evangelizzando Pie­tro e Paolo in Roma e fondando la chiesa; quindi, dopo la dipar­tita di costoro, Marco, il discepolo e l’interprete di Pietro, ci tra­smise anch’egli per iscritta le cose predicate da Pietro, ecc. Il tratto che riguarda Matteo contrappone la pubblicazione del suo scritto semitico alla evangelizzazione di Pietro e Paolo a Roma, e sembra ben supporre che i due fatti fossero contemporanei: quindi Matteo avrebbe scritto dopo l’inizio dell’anno 61, nel qual tempo Paolo giunse a Roma secondo il noto racconto degli Atti, 28, 14 segg. Si è tentato spiegare questo tratto supponendo che Ireneo non s’oc­cupi ivi della cronologia, ma solo contrapponga l’operosità anche letteraria di Matteo in Palestina a quella soltanto orale di Pietro e Paolo a Roma: tuttavia la spiegazione non ha persuaso, special­mente per le limitazioni cronologiche che seguono (dopo la dipar­tita di costoro; ecc). D’altra parte Ireneo, ottimo conoscitore del Nuovo Testamento e delle sue origini, non poteva ignorare che an­che prima dell’arrivo di Paolo esisteva a Roma una fiorente chiesa, come risulta sia dagli Atti (ivi) sia dall’anteriore lettera di Paolo ai Romani; perciò la menzione di Paolo, a proposito della fondazione della chiesa di Roma, non può essere interpretata nel senso di una rigorosa simultaneità cronologica. Ciò probabilmente offre la chiave di spiegazione. Ireneo, che abi­tualmente considera la chiesa di Roma come una fondazione col­lettiva di Pietro e di Paolo insieme, la ricorda come tale anche nel nostro passo, astraendo dalla esatta precedenza dell’uno sull’altro; egli perciò fissa la simultaneità cronologica tra la fondazione, presa in se stessa, e la composizione dello scritto di Matteo. In questa interpretazione il periodo degli anni 50-55, che assegnammo allo scritto di Matteo, sarebbe confermato, essendo appunto quello il periodo di pieno stabilimento e sviluppo della chiesa di Roma.

§ 124. L’esame interno dello scritto di Matteo conferma e schiari­sce le notizie trasmesse dalla tradizione. Minuziosi e lunghi confronti, fatti recentemente e che sarebbe qui fuor di luogo riprodurre, hanno messo in luce i molti elementi tipicamente semitici, sia stilistici sia lessicali, che sono passati dal testo originale nella versione greca. Principale fra tutti è l’espressione regno dei cieli, che si ritrova soltanto in Matteo e certamente riproduce alla lettera la formula usata da Gesù in aramaico: questa espressione era sorta per la preoccupazione rabbinica di evitare l’impiego del nome di Dio, ed era perciò una sostituzione dell’espressione equivalente regno di Dio, che è la sola usata dagli altri evangelisti.

§ 125. Che Matteo si rivolga a cristiani provenienti dal giudaismo, risulta anche dall’indole della sua trattazione. Senza dubbio la sua mira è storica, volendo egli riferire circa la dottrina e i fatti di Gesù; tuttavia egli fa ciò nel modo che gli appare più efficace ed appropriato per lettori che già ebbero fede in Mosè. Nel vangelo di Matteo, più che in ogni altro, Gesù appare come il Messia pro­messo nell’Antico Testamento e che ha realmente adempiuto in se stesso le profezie messianiche: di qui l’assidua cura dell’evangelista di concludere molte narrazioni con l’avvertimento che ciò anvenne affinché si adempisse quello ch’è detto, ecc., riferendosi a qualche passo dell’Antico Testamento (cfr. Matteo, 1, 22-23; 2, 15. 17.23; ecc.). Anche la dottrina di Gesù è presentata con riguardo speciale alle sue relazioni sia con l’Antico Testamento, sia con le dottrine e lo spirito dei predominanti Farisei. Riguardo all’Antico Testamento la nuova dottrina è, non già un’abrogazione, bensì un perfezionamento e una integrazione: solo Matteo riporta le affermazioni di Gesù ch’egli non sia venuto a disfare la Legge e i Profeti bensì a com­pierli e che non passi dalla Legge un solo jota o un apice fino a che tutto s’adempia (ivi, 5, 17-18). Riguardo alle dottrine dei Fari­sei, quella di Gesù è in antitesi perfetta: non soltanto la minaccia Guai a voi (Scribi e Farisei ipocriti!)… è ripetuta per ben sette volte in un solo capitolo (cap. 23; il vers. 14 è un riporto fatto da al­trove), ma in tutto il resto di questo vangelo l’abisso che separa le due dottrine è messo in luce più che negli altri Sinottici. Parimente soltanto Matteo fa notare che la missione personale di Gesù era rivolta direttamente alla sola nazione d’Israele (ivi, 15, 24; cfr. 1, 21), come pure che la missione preparatoria degli Apo­Istoli mirava al solo Israele con precisa esclusione dei pagani e dei Samaritani (ivi, 10, 5-6). Perfino la designazione dei pagani gentili, dell’Antico Testamento, risente ancora nelle espressioni di Matteo di quell’inveterato disprezzo che il giudaismo aveva decre­tato ai non giudei, per cui « gentile » era praticamente sinonimo dell’aborrito « pubblicano » (ivi, 5, 46-47; 18, 17) e la condizione di un gentile in confronto con quella di un giudeo era come quella di un cane di casa in confronto con quella di un figlio del padrone (ivi, 15, 24-27) le quali espressioni o saranno attenuate o scompa­riranno presso i successivi Sinottici, che s’indirizzeranno specialmen­te a cristiani provienti dal paganesimo. Tuttavia, oltrepassata questa scorza giudaica, il vangelo di Matteo si manifesta come rigorosamente universalistico: esso è, più che ogni altro, il Vangelo della Chiesa, come già apparve al Renan. La pa­rola « Chiesa » è impiegata, fra gli evangelisti, dal solo Matteo (16, 18; 18, 17); e questa istituzione di Gesù è, non già riservata ai soli Giudei, ma aperta a tutte le genti che vi accorreranno numerose dall’Oriente e dall’Occidente per assidersi a mensa insieme con Abra­mo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli (ivi, 8, 11), e i confini di questo regno saranno i confini stessi del mondo (ivi, 13, 38) anzi i pagani gentili sostituiranno praticamente gli Israeliti nel possesso del regno di Dio (ivi, 21, 43).

§ 126. L’ordine seguito da Matteo nella sua composizione è, come già sappiamo, l’«ordinamento» sistematico gradito da Papia (§ 114). Scrivendo per lettori educati nel giudaismo, e avendo a loro riguar­do uno scopo ben definito, Matteo subordina spesso a quell’«ordi­namento» la consecuzione cronologica, e ricorre a procedimenti letterari ch’erano comuni nelle scuole rabbiniche e miravano spe­cialmente a una utilità pratica mnemonica. Come egli raccoglie nei 5 grandi gruppi gia visti i detti di Gesu’ (§ 116), così altrove riunisce in gruppi di 5, o di 7 o di 10, ma soprattutto di 3, le sin­gole sentenze o i singoli fatti. Frequente è pure l’applicazione della legge del «parallelismo», fon­damentale nella poesia ebraica, e specialmente del «parallelismo antitetico», per cui a una data affermazione si fa seguire, a guisa di conferma, la negazione del suo contrario. L’intero Discorso della montagna (capp. 5-7), cioè proprio il primo dei 5 gruppi di detti, è tutto una concatenazione di tali procedimenti letterari (§ 320). Marco

§ 127. Il secondo vangelo è attribuito a Marco. Gli Atti parlano più volte di un Giovanni chiamato Marco (12, 12.25; 15, 37), la cui madre si chiamava Maria ed aveva una casa a Gerusalemme, come altrove si parla di un Giovanni (Atti, 13, 5.13), e di un Marco (ivi, 15, 39; Coloss., 4, 10; Filem., 24; I Pietro, 5, 13) in tutti e tre i casi deve ben trattarsi della stessa persona, essendo usanza comu­nissima presso i Giudei di quel tempo di assumere un nome greco-romano oltre a quello giudaico. E’ certo, poi, che a questo Giovanni Marco fu attribuito nell’antichità il secondo vangelo. La casa della madre di Marco, a Gerusalemme, era luogo d’adu­nanza per i cristiani della città; ivi anche si rifugiò Simone Pietro quando fu liberato miracolosamente dal carcere nell’anno 44. Mar­co era cugino dell’insigne Barnaba, e da esso e da Paolo insieme fu condotto ad Antiochia. Ma dai due si staccò Marco durante il primo viaggio missionario di Paolo, a Perge di Pamfilia, tornan­dosene a Gerusalemme. Il distacco dispiacque a Paolo, che nel suo secondo viaggio si rifiutò di condurre seco Marco, mentre il cugino Barnaba desiderava condurlo: perciò Barnaba a sua volta si staccò da Paolo, recandosi con Marco nell’isola di Cipro sua patria. La fermezza di Paolo non gli alienò però l’animo di Marco; una de­cina d’anni più tardi, verso il 61-62, Marco era di nuovo presso Paolo a Roma, e gli fu d’aiuto e di conforto mentre l’apostolo aspet­tava d’esser giudicato da Nerone (Coloss., 4, 10-11; Filem., 24). Fra gli anni 63 e 64 Marco era a Roma a fianco a Pietro, che trasmet­teva da Babilonia (Roma) i saluti del suo figlio Marco (i Pietro, 5, 13). Nell’anno 66 Marco era in Asia Minore, perché Paolo scriven­do da Roma a Timoteo in Efeso gli raccomandava: Prendi Marco e conducilo teco; mi e’ infatti utile per il ministero (II Timoteo, 4, 11). In questi dati, offerti dal Nuovo Testamento, le relazioni di Marco con Paolo sono più numerose e importanti delle sue relazioni con Pietro: tuttavia la concorde tradizione successiva mette in rilievo assai maggiore le relazioni di Marco con Pietro, mostrando con ciò che le proprie informazioni non dipendono dalle notizie occasionali del Nuovo Testamento. Se Pietro, in realtà, chiama Marco suo figlio è probabile che lo avesse battezzato: è anche molto verosimile che, per la famiglia di Marco, Pietro avesse una particolare affe­zione, giacché direttamente in casa di lui si rifugiò ancora sbalor­dito per la propria miracolosa liberazione dal carcere. Tuttavia que­ste notizie non alludono ad una qualsiasi collaborazione di Marco al ministero apostolico di Pietro; la quale, invece, è attestata fer­mamente dalla tradizione successiva, soprattutto riguardo alla com­posizione di uno scritto evangelico.

§ 128. Anche qui, come per il vangelo di Matteo, la testimonianza più antica e autorevole è offerta da Papia (§ 114), il quale scrive: Anche questo diceva il Presbitero: Marco, divenuto interprete di Pietro, scrisse esattamente, ma non già con ordina­mento quanto si ricordò delle cose o pronunziate o operate dal Signore. – Egli, infatti, nè udì il Si­gnore né fu al seguito di lui, bensi più tardi, come ho detto, di Pie­tro. Costui secondo le necessità faceva le istruzioni, ma non quasi mirando a fare una coordinazione dei detti del Signore; cosicché Marco non è incorso in alcun difetto, scrivendo talune cose cosi come si ricordò. Ad un solo punto egli fece atten­zione, a non tralasciare nulla di quelle cose che udì e a non mentire in nulla in esse. Questa testimo­nianza è più antica di Papia stesso, perché egli nel primo periodo cioè fino a pronunziate o operate dal Signore – riporta l’afferma­zione del Presbitero Giovanni. Se questo Giovanni sia l’Apostolo ed evangelista, ovvero sia una persona differente da lui, è questione qui secondaria (§ 158), giacché nel caso presente basta assicurarsi che la relativa affermazione risale al secolo I. E’ anche superfluo ricordare che le osservazioni già fatte (§ 114 segg.) a proposito di Matteo, circa il valore delle parole “ordinamento”, “coordinare” e “detti” pres­so Papia, conservano anche qui il loro pieno valore. In quale senso Marco divenne “interprete” di Pietro? La voce in sé può significare sia l’interprete delle parole, cioè il traduttore, sia più genericamente l’interprete del pensiero, cioè qua­si un amanuense o un segretario. Ambedue queste interpretazioni sono sostenibili, e di fatto sono state sostenute: del resto, ambedue possono corrispondere ad una realtà successiva, in quanto che Pietro – il quale nei primi anni del suo apostolato fuor dalla Palestina do­veva essere tuttora poco esperto nella lingua greca e ancor meno nella latina – poté servirsi di Marco dapprima come vero traduttore estemporaneo, e più tardi come amanuense e segretario. Lo scritto di Marco, secondo le affermazioni del Presbitero e di Papia, è dunque un’” esatta” copia della catechesi orale di Pietro: perciò anche è privo di “ordinamento”, perché Pietro parlava oc­casionalmente “secondo le necessità” degli ascoltatori, ma senza voler “fare una coordinazione”, né metodica né compiuta, delle cose “o pronunziate o operate” da Gesù.

§ 129. Questi dati si ritrovano tutti nel nostro vangelo di Marco. Esso si restringe entro i limiti che già riscontrammo esser abituali alla catechesi di Pietro (§ 113), perché comincia col battesimo di Gesù da parte di Giovanni il Battista e termina con le apparizioni di Gesù dopo la resurrezione (cfr. Atti, 10, 37-41). Inoltre, è uno scrit­to che non ha “ordinamento”, secondo il rilievo fatto dal Presbi­tero e poi confermato da Papia. Se il Presbitero è Giovanni l’evan­gelista, si può pensare che l’”ordinamento” mancante sia quello cro­nologico, giacché il vangelo di Giovanni è il più accurato dei quattro nel fissare la cronologia dei fatti di Gesù (§ 163), mentre in Marco la consecuzione cronologica è in realtà talvolta generica e talvolta mancante. Ma, qualunque sia il giudizio del Presbitero, Papia non può aver pensato che all’”ordinamento” logico, perché egli confrontan­do Marco con Matteo preferisce quest’ultimo, come già rilevammo, sebbene l’”ordinamento” di Matteo sia meno cronologico anche di quello di Marco. La spiegazione di questa mancanza d’”ordina­mento” è fornita dallo stesso Papia. Marco nel suo scritto ha se­guito la predicazione di Pietro; il quale, parlando occasionalmente, sceglieva alcuni temi isolati della sua abituale catechesi, e indiriz­zandosi a pagani preferiva ai discorsi di Gesù i fatti biografici di lui come più adatti a quegli uditori. E infatti Marco ha per buona par­te l’aspetto di una raccolta di aneddoti biografici, che corrispondono alle “talune cose” di cui, secondo Papia, l’autore si ricordava: mentre poi è privo degli ampi discorsi di Matteo, pur essendo desi­goato come una raccolta “non coordinata”.

§ 130. Le attestazioni successive confermano e precisano quella del Presbitero e di Papia. A mezzo il secolo II Giustino martire, citando una notizia ch’è particolare a questo vangelo (Marco, 3, 17), la dice contenuta nelle “Memorie “ dello stesso Pietro; la quale designazione non deve far pensare che Giustino si riferisca a qualche scritto apocrifo, del resto totalmente ignoto, bensi’ dimostra che egli ritiene lo scritto dell’”interprete” di Pietro come una fedele eco della catechesi di costui. Verso il 180 Ireneo, nel passo che già vedemmo (§ 123), attesta che Marco fu interprete di Pietro e scrisse secondo la pre­dicazione di lui. Verso il 200 Clemente Alessandrino aggiunge importanti particola­rità riguardo alle circostanze e al luogo in cui fu scritto questo van­gelo. Parlando dell’apostolato di Pietro a Roma, Eusebio dice: Le menti degli ascoltatori di Pietro furono illuminate da un raggio di pietà sì grande, che non giudicarono sufficiente contentarsi di una sola ascoltazione nè di una istruzione non scritta circa l’annunzio di­vino; bensì con esortazioni d’ogni genere insistettero presso Marco, di cui va in giro il vangelo e che era seguace di Pietro, affinché la­sciasse anche per iscritto una memoria dell’istruzione trasmessa loro a voce, e non cessarono fino a che quello ebbe com­piuto:così’ furono essi la cagione per cui fu scritto il vangelo chia­mato secondo Marco. Avendo poi risaputo l’accaduto l’apostolo (Pietro) – a quanto si dice – per una rivelazione fattagli dallo Spirito, si compiacque dello zelo di quei tali, e concesse lo scritto per la lettu­ra nelle adunanze. Clemente riferisce questo fatto nel sesto delle Ipotiposi, e una testimonianza conforme alla sua fa il vescovo di Jera poli chiamato Papia (Hist. eccl., Il, 15, 1-2). Lo stesso fatto è ripetuto dal medesimo Clemente in un altro frammento (Hypotyp. ad I Petri, 5, 14), ove si aggiunge solo il particolare che coloro che a Ro­ma indussero Marco a scrivere erano “cavalieri di Cesare”. Un ter­zo riassunto, sempre dalle ipotiposi, fa Eusebio: Inoltre in questi stessi libri Clemente espone, circa la serie dei vangeli, la tradizione degli antichi presbiteri, che e’ questa. Egli dice che sono stati scritti dapprima i vangeli che contengono le genealogie, e che quello se­condo Marco ha avuto la seguente origine. Avendo Pietro predicato pubblicamente a Roma la parola (di Dio) ed esposto il vangelo in virtu’ dello Spirito, i molti ch’erano stati presenti esortarono Marco, come colui che lo aveva seguito da gran tempo e si ricordava delle cose dette, di mettere in iscritto le cose pronunziate. Avendo fatto (ciò, Marco), consegnò il vangelo a quelli che l’avevano pregato. Pietro, risaputo ciò, non volle esplicitamente né impedire né incitare (Hist. eccl., VI, 14, 5-7). Come si vede, le tre attestazioni clementine concordano sul punto essenziale, che è di far comporre il vangelo di Marco a Roma come prodotto diretto della catechesi di Pietro. Molte altre sono le attestazioni successive che confermano questo punto essenziale, ma possono considerarsi superflue (Tertulliano, Adv. Marcion., IV, 5; Origene, in Eusebio, Hist. eccl., vi, 25; ecc.). E in­vece di speciale importanza la notizia, del tutto inaspettata, secondo cui Marco sarebbe stato cioè “dalle dita monche”; questo termine gli è applicato in greco da Ippolito e altrettanto fa in latino l’antico Prologo latino pre­messo al suo vangelo, aggiungendovi una spiegazione) nonché la solita conferma che Marco fu interprete di Pietro e che scrisse il suo vangelo in Italia. Questa notizia delle dita monche è dimostrata au­torevole dalla stessa sua stranezza: non c’era, infatti, alcun motivo per inventare arbitrariamente una particolarità fisica di questo ge­nere, che nel campo morale non ha alcun valore; la notizia invece, del tutto corrispondente alla realtà, deve provenire dai ceti del cri­stianesimo di Roma, a cui apparteneva anche Ippolito. Tale corri­spondenza geografica, sebbene a proposito di una minuzia, è elo­quente.

§ 131. Quanto al tempo in cui Marco scrisse il suo vangelo abbia­mo come argomento certo la quasi costante attestazione dell’anti­chità, secondo cui egli è cronologicamente il secondo evangelista, quindi anteriore a Luca: e ciò è confermato dalla critica odierna, che ammette concordemente che Marco sia stato conosciuto ed im­piegato da Luca. Perciò il secondo vangelo dovette essere scritto do­po l’anno 55, che già assegnammo come estremo limite inferiore di Matteo (§ 123), ma prima del 62, che è la data approssimativa di Luca (§ 139); nel periodo, dunque, fra gli anni 55 e 62 Marco dovet­te trovarsi a Roma insieme con Pietro. Ora, questa presenza di Marco a Roma è confermata, almeno nei suoi ultimi anni, dai pas­si già visti delle lettere di Paolo ai Colossesi e a Filemone, se tali let­tere furono scritte – come sommamente probabile – appunto verso gli anni 61-63 e precisamente da Roma. Che il vangelo di Marco possa assegnarsi a tale periodo, sembra im­pedirlo il già citato passo di Ireneo (§123), in cui si dice che dopo la di partita di costoro (cioè di Pietro e Paolo), Marco, il discepolo e l’inter prete di Pietro, ci trasmise anch’e gli per iscritto le cose predi­cate da Pietro. In questo passo il senso di dipartita (§ 403) è certamente quello di morte, e non di assenza per viaggio come ta­luni moderni hanno supposto: quindi bisognerebbe scendere a dopo l’anno 67 (o 64). Sarebbe anche artificioso e non persuasivo interpre­tare l’espressione ci trasmise, nel senso che, solo dopo la morte di Pietro e Paolo, Marco “pubblicò” e “divulgò” il suo scritto composto già prima: al contrario le varie attestazioni antiche, e specialmente quelle di Clemente Alessandrino, s’interpretano in maniera spontanea solo ritenendo che lo scritto di Marco circolasse subito appena finito. Se pertanto non si vuol supporre che Ireneo parli in maniera solo approssimativa senza insistere sulla concomi­tanza cronologica, come osservammo anche a proposito di Matteo, bisognerà respingere la sua affermazione (seppure è trasmessa bene dai manoscritti), essendo in manifesto contrasto con testimonianze storiche antiche e con osservazioni critiche moderne.

§ 132. L’esame interno dello scritto di Marco svela notevoli tracce della sua particolare origine. Brevissimo fra tutti i vangeli, esso ha appena una decima parte del suo contenuto che gli è propria, mentre i restanti nove decimi si ritrovano tutti negli altri due Sinottici. Il contenuto poi, cosi breve, è impiegato a narrare molti miracoli di Gesù, poche parabole, pochissimi discorsi. I miracoli narrati negli altri due Sinottici si ritro­vano tutti, salvo quattro, in Marco, ma esso per conto suo ne ag­giunge pure degli altri; per contrapposto non vi si ritrovano discorsi d’importanza fondamentale, quale il Discorso della montagna, come pure manca la cura, vivissima in Matteo, di far notare che in Gesù si sono adempiute le antiche profezie messianiche. La descrizione poi dei fatti è vivida, immediata, e scende a minuzie inaspettate che spesso mancano negli altri due Sinottici; ma anche qui, per contrapposto, la lingua greca è povera e grezza, il periodare disadorno e anche duro, i procedimenti stilistici elementari e uniformi. Sembra leggere la lettera di un intelligente campagnuolo ove questi descriva avvenimenti meravigliosi di cui sia stato testimone oculare: la descrizione di siffatto narratore risulterà tanto più vivida ed immediata, quanto più profonda è l’impressione ricevuta dagli avvenimenti e quanto più sono semplici e limitati gli accorgimenti letterari di cui il narratore dispone.

§ 133. Ebbene, questi rilievi quadrano perfettamente nella cornice offertaci dalla tradizione. Se Pietro aveva bisogno di Marco come di “interprete”, costui a sua volta non doveva essere niente più che un empirico nel campo d’idiomi stranieri, non già un fine letterato da tavolino, e neppure uno scrittore fornito dell’esperienza di un Luca o di un Paolo o dello stilizzatore della lettera agli Ebrei. Pietro dunque, nelle sue catechesi orali, aveva narrato con la semplice ma potente efficacia del testi­mone oculare: il suo interprete fissò in iscritto, con l’arte ingenua di cui disponeva, le narrazioni di lui. Pietro, inoltre, parlava in Roma, a uditori provenienti in maggioranza dal paganesimo, inesperti di dottrine e tradizioni ebraiche; e appunto per questo troviamo che in Marco Gesù è presentato, non tanto come il Messia atteso dagli Ebrei, quanto come il Figlio di Dio, signore taumaturgo della natura, dominatore delle potenze de­moniache: mentre, al contrario, sono tralasciate questioni dottrinali che avrebbero interessato particolarmente uditori giudei, quali quel­le sulle osservanze legali, sullo spirito dei Farisei, e simili. Vi si ri­portano, quasi per particolare riverenza, precise parole aramaiche pronunziate da Gesù, ma subito appresso sono tradotte in greco, com’era necessario per ascoltatori o lettori di Roma; per la stessa ragione sono spiegate particolari usanze giudaiche, come quella della lavanda delle mani prima dei pasti. Fiutando poi sagacemente, si percepisce nello scritto uno spiccato sentore di romanità: più frequenti che presso gli altri due Sinottici vi sono impiegati in greco vocaboli latini, come centurio (15, 39. 44), spiculator (6, 27), sextarius e altri; affiorano anche espressioni che sono più latine che greche, tanto da sembrare italianismi, come quella che letteralmente dice lo presero a vergate (mentre in Matteo, 26, 67, lo vergarono) e qualche altra. Né si giustificherebhero, se non perché indirizzate a lettori latini, precisazioni come queste due minuzzoli che è (un) quadrante, in cui si nomina la moneta romana equivalente alle due greche (12, 42); oppure dentro l’aula, che è (il) pretorio, in cui il preciso termine militare romano è soggiunto a quello greco che appare più generico (15, 16). Un tratto assai probabile di romanità si trova anche nell’episodio di Simone il Cireneo che aiutò Gesù a portare la croce: l’episodio è narrato anche dagli altri due Sinottici, ma il solo Marco aggiunge che Simone era il padre di Alessandro e di Rufo (15, 21). Perché questa inaspettata indicazione, se i due figli non sono mai più no­minati in tutti i vangeli? La spiegazione sembra offerta dalla chiu­sa della lettera di Paolo ai Romani, ove l’apostolo incarica di salu­tare, certamente in Roma, Rufo l’eletto nel Signore e la madre sua e mia (Rom., 16, 13). E’ chiaro che questo Rufo era persona insigne nella cristianità di Roma, e altrettanto la madre di lui, che Paolo venera al punto di chiamarla madre propria; ma anche la menzione di Rufo in Marco non si spiega se non perché riferita a persona no­tissima: è quindi del tutto spontaneo supporre che i due Rufi siano la stessa persona, tanto più che il nome di Rufo doveva essere ben raro a Gerusalemme, donde la persona proveniva (§ 604).

§ 134. Lo scritto di Marco, infine, ha un atteggiamento particolare di fronte alla persona di Pietro. Mentre in qualche episodio che lo riguarda ha talune notizie in più, come nella guarigione della suo­cera di lui (1, 29-31), giammai in nessun tratto lo adula, anzi tralascia fatti per lui onorifici narrati dagli altri Sinottici, quali di cam­minar sulle acque, il didramma trovato in bocca al pesce, e perfino il conferimento del primato. La ragione di questo atteggiamento, in conferma della tradizione, è che Pietro nelle sue catechesi orali non amava insistere su episodi onorifici a lui stesso, e il suo «interprete» ha fedelmente rispecchiato tale modestia nel suo proprio scritto. Ma esiste forse in questo scritto anche qualche allusione alla persona stessa di Marco? La tradizione antica s’accorda con Papia, al pas­so già visto (§ 128), nell’asserire che Marco non fu discepolo di Gesù: un paio di affermazioni contrarie (ad es. Epifanio, Haeres., XX, 4) rimangono solitarie e non autorevoli. Tuttavia questa tradi­zione non escluderebbe per se stessa che Marco, ancor giovanetto, abbia visto qualche volta di sfuggita Gesù, pur senza essere suo vero seguace: la circostanza già rilevata che la casa della madre di Marco era luogo d’adunanza per i cristiani di Gerusalemme, e che nell’anno 44 Pietro vi si rifugiò appena uscito di prigione (§127), fa supporre un’antica amicizia che poteva ben risalire a prima della morte di Gesù. Assicurata questa possibilità, entra in relazione con essa un singolare episodio della passione di Gesù, narrato dal solo Marco, episodio ben preciso anche nel suo arcano riserbo. Gabriele d’Annunzio ha scritto: Non avete mai pensato chi potesse mai essere quel giovine “amictus sindone su per nudo”, del quale parla il Vangelo di Marco? “E tutti, lasciatolo, se ne fuggirono. E un certo giovine lo seguitava, involto d’un panno lino sopra la car­ne ignuda, e i fanti lo presero. Ma egli, lasciato il panno, se ne fuggì da loro, ignudo”. Chi era quel tredicesimo apostolo, che aveva preso il luogo di Giuda nell’ora dello spavento e della grande angoscia?… Era vestito d’un vestimento leggero. Si fuggi ignudo. Nulla piu’ si seppe di lui nel mondo (in Contemplazione della morte, cap. XV aprile MCMXII). Quest’episodio (14, 51-52) è, storicamente, un masso erratico: non ha alcuna colleganza con gli altri fatti della passione, tanto che si potrebbe sopprimere senza alterare la narrazione complessiva. Eppure il narratore è bene informato: sa che quel giovanetto, risvegliato forse improvvisamente dal frastuono notturno, non ha fatto in tempo a gettarsi addosso neppure un mantello, e con la sola sindone s’è messo a seguire; infine, catturato, lascia la sindone in mano ai catturatori, e fugge nudo (§ 561). I discepoli di Gesù erano già fuggiti tutti, come ha detto il narratore poco prima: anche Pie­tro, l’informatore principale di Marco, già era fuggito e non era più sul posto. Chi era dunque quel giovanetto, unico testimone amico fra tanti nemici? Perché Marco, che sa tutto di lui, non lo nomina, e preferisce presentarlo con la faccia occultata da un arcano velo? Quel giovanetto, forse, era Marco stesso, come pensano molti stu­diosi modemi. Nella stessa guisa che Pietro nella sua catechesi na­scondeva fatti a sé onorifici, cosi anche Marco può aver velato qui la sua propria faccia, pur non volendo omettere del tutto questo epi­sodio che nel suo scritto poteva valere come simbolico signaculum in sigillo.

Luca

§ 135. Il terzo vangelo è attribuito a Luca: nome che forse è una abbrevazione di Lucano. Nel cristianesimo della prima generazione, Luca appare come un sa­tellite dell’astro di Paolo, che lo chiama il caro medico (Coloss., 4, 14). Originario d’Antiochia, non giudeo ma ellenista di stirpe e d’e­ducazione, Luca era entrato nel cristianesimo parecchio prima del­l’anno 50, sebbene certamente non fosse stato discepolo di Gesù e non l’avesse mai veduto. Poco dopo il 50 egli è a fianco a Paolo nel suo secondo viaggio missionario (Atti, 16, 10 segg.), probabilmente anche per prestare la sua opera di medico a causa della recente malattia dell’apostolo (cfr. Galati, 4, 13, con Atti, 16, 6); da quel tempo Luca riappare in quasi tutte le peregrinazioni di Paolo come l’ombra di lui, salvo un distacco probabilmente lungo dopo la co­mune permanenza a Filippi (cfr. Atti, 16, 40, con 20, 5). Ricongiun­tosi con Paolo di nuovo a Filippi durante il terzo viaggio dell’apo­stolo, verso il 57, lo accompagnò nel resto del viaggio fino a Geru­salemme (Atti, 21, 15). Durante il biennio passato da Paolo in prigione a Cesarea (anni 58-60), sembra che Luca non potesse restargli vicino; ma lo accompagnò amorevolmente nel suo viaggio a Roma, partecipando sulla stessa nave alle fortunose peripezie del passaggio (Atti, 27, 1 segg.). Nella prima prigionia dell’apostolo a Roma, Luca gli stava dappresso: più tardi, fedele fino alla morte, lo assisté an­che nella seconda prigionia romana meritandosi da Paolo, in quella lettera ch’è quasi il testamento del declinante apostolo, la commo­vente attestazione: Il solo Luca e’ con me (II Tim., 4, 11). Scrivendo ai Corinti, sul finire dell’anno 57, Paolo allude, senza nominarlo, ad un fratello la cui lode e’ nel vangelo per tutte le chiese (II’ Cor., 8, 18). Insieme con altri antichi, S. Girolamo stimò che questo inno­minato fratello sia appunto Luca, e soggiunge anche l’opinione di altri secondo i quali ogni volta che Paolo nelle sue let­tere dice “secondo il mio vangelo”, alluda al volume di Luca. Se quest’ultima opinone è del tutto infondata, la prima non è molto at­tendibile qualora si riferisca al vangelo scritto da Luca, essendo som­mamente improbabile che questo vangelo fosse già redatto quando Paolo scriveva la lettera in questione: tanto più che giammai altro­ve, nelle Lettere di Paolo, il termine “vangelo” designa un deter­minato scritto, ma solo l’annunzio della “buona novella” (§ 105 segg.). Al contrario, l’identificazione dell’ignoto fratello con Luca può avere un serio grado di probabilità, qualora nel “vangelo” attribui­togli si scorga, non già un determinato scritto, ma l’operosità di chi era “evangelista” nel senso primitivo che già vedemmo (§ 109), ossia propagatore orale della “buona novella”. In tal caso Luca, an­che prima di ricorrere alla scrittura, avrebbe diffuso largamente nel­le chiese dell’apostolato di Paolo una determinata catechesi orale; della quale, nel frattempo, lo stesso Luca riesaminava il contenuto diligentemente (cfr. Luca, 1, 3), per arricchirlo di altri elementi e disporlo in un conveniente “riordinamento” (cfr. in Luca, 1, 1), finché poi giudicò opportuno fissarlo in iscritto. Questa interpretazione appare tanto più verosimile, quanto più pro­babile risulta da recenti studi che Paolo stesso seguisse nel suo apostolato una determinata forma di catechesi, non soltanto orale, ma anche parzialmente scritta. Perciò il fedele Luca sarebbe giusta­mente il più insigne rappresentante, dopo Paolo, di questa catechesi, ossia sarebbe il fratello la cui lode é nella “buona novella” diffusa da Paolo in tutte le chiese da lui fondate.

§ 136. Comunque si giudichi questa ipotesi, a Luca è attribuito sia il terzo vangelo, che mostra spiccata affinità con gli scritti di Paolo, sia il libro degli Atti di (meglio che degli) Apostoli, che tratta in gran parte delle vicende di Paolo e contiene ampi tratti in cui il narratore parla in prima persona plurale, svelandosi perciò anch’egli presente alle vicende narrate. Tale attribuzione a Luca, confermata dall’identità di autore che risulta dai prologhi dei due scritti (cfr. Luca, 1, 1-4, con Atti, 1, 1-2), non solo è concorde presso gli antichi scrittori, ma trova consenzienti – cosa piuttosto rara – anche la massima parte dei più autorevoli studiosi moderni. Le testimonianze, tuttavia, sono posteriori a quelle riguardo a Mat­teo e a Marco, giacché non risalgono più in su della seconda metà inoltrata del secolo Il. Il cosiddetto Frammento Muratoriano, cioè un catalogo dei libri sacri ammessi dalla chiesa di Roma che fu com­posto verso l’anno 180 e scoperto da L. A. Muratori nella Biblioteca Ambrosiana di Milano, cosi si esprime nel suo orrido latino (qua e là corretto): Tertium evangelii librum secundum Lucam. Lucas iste medicus, post ascensum Christi cum eum Paulus quasi ut iuris stu­diosum secum adsumpsisset nomine suo cx opinione conscripsit; Do­minum tamen nec ipse vidit in carne, et ideo prout asse qui potuit, ita et a nativitate Johannis incepit dicere. – Verso lo stesso tempo, Ireneo afferma: Anche Luca, seguace di Paolo, compose in un libro il vangelo predicato da quello. Alla fine del secolo II risalgono anche i vari Prologhi, greci o latini, premessi al terzo vangelo, che vanno sempre più accrescendosi di no­tizie con lo scendere lungo i secoli, pur concordando nella sostanza; di questa può essere un saggio il prologo detto Monarchiano, che dice: Luca Siro, di nazione Antiocheno, medico di professione, discepolo degli Apostoli, piu’ tardi fu seguace di Paolo fino alla confessione (martirio) di lui servendo Dio senza delitto. Poiché, non avendo avu­to moglie mai né figli, di anni 74 (altri 84) morì in Bitinia (altri Beozia) pieno di Spirito santo. Costui, essendo già stati scritti i van­geli di Matteo in Giudea e di Marco in Italia, per impulso dello Spirito santo nelle parti di Acaia scrisse questo vangelo, mostrando anch’egli a principio che dapprima erano stati scritti gli altri; ecc. Le successive testimonianze non fanno che confermare questi punti principali (Tertulliano, Adv. Marcio n., jv, 5; Clemente Aless., Stro­mata, I, 21, 145; Origene, in Matt., toin. I, in Migne, Patr. Gr., 13, 830; ecc.): merita tuttavia di essere citato Eusebio, a guisa di ri­capitolatore della tradizione: Luca, ch’era per discendenza di Antio­chia e per arte medico, restò congiunto il piu’ a lungo con Paolo, ma anche con gli altri apostoli trattò non incidentalmente Della scienza di guarire le anime ch’e gli aveva appresa da costoro, ci lasciò la pro­va in due libri divinamente ispirati: (in primo luogo) il Vangelo, che egli attesta di aver composto secondo le cose che gli tramandarono coloro che dall’inizio furono testimoni oculari e inservienti della pa­rola, ed alle quali tutte egli dice pure di essere riandato appresso dal principio (cfr. Luca, 1, 1-4); e (in secondo luogo) gli Atti degli Apo­stoli, che egli coordinò per informazione non già di udito ma di ve­duta. Ha il suo peso anche la notizia dataci da Ireneo e da Tertulliano, secondo cui l’eretico Marcione, verso l’anno 140, accet­tava dei vangeli canonici solo quello di Luca, sebbene lo mutilasse adattandolo alle sue dottrine.

§ 137. Le qualità di Luca, ellenista, medico, discepolo di Paolo, si riscontrano abbastanza chiare nel suo vangelo. Il letterato ellenista appare fin dalle prime linee del suo primo scritto le quali, in contrasto con l’uso seguito in tutti gli altri libri del Nuovo Testamento ma conforme all’uso ellenistico, contengono un elaborato prologo questo, inoltre, mostra sorprendenti rassomi­glianze di espressioni e di ripartizioni col prologo che al suo libro Sulla materia medica premetteva quel Pedanio Dioscuride che era non solo collega per professione e contemporaneo per età con Luca, ma essendo nativo della regione di Tarso, era anche conterraneo di Paolo. Il greco di Luca, poi, non è certo quello classico dell’Attica, tuttavia mostra una raffinatezza non comune per uno scrittore elle­nistico: il lessico è ricco e spesso letterario, la frase di solito tornita e dignitosa, cosicché i moderni filologi, proclamando il suo stile su­periore a quello degli altri vangeli, concordano in sostanza con S. Girolamo per il quale Luca inter omnes evangelistas greci eruditis­simus fuit, quippe ut medicus. Non mancano tuttavia i semitismi di costruzione e anche di lessico; i quali sono numerosi specialmente nei due primi capitoli che contengono la narrazione dell’infanzia di Gesù, mostrandosi cosi ivi una più stretta dipendenza del narratore da documenti semitici relativi a quell’argomento. Che lo scrittore del terzo vangelo sia stato un medico, non si potreb­be certamente provare dal semplice esame del suo scritto: tuttavia parecchi sono i tratti che servono da ottima conferma alla primitiva tradizione che lo presenta qual medico. Pazienti ricerche moderne hanno segnalato numerosi termini tecnici impiegati da Luca che hanno riscontro negli scritti di Ippocrate, Dioscuride, Galeno e altri medici greci; è vero che siffatti termini possono riscontrarsi anche presso scrittori profani che affettino occasionalmente conoscenza di materie mediche (ad esempio, presso Luciano), ma il caso di Luca è diverso, giacché egli non aveva motivi particolari per introdurre quella terminologia tecnica nelle narrazioni comuni agli altri Sinot­tici, salvo la ragione d’essere egli stesso medico. Si può anche scoprire che una specie di “occhio clinico” guida il narratore in talune sue descrizioni, specialmente se si confrontino con quelle parallele di Marco: la semeiotica è curata in modo partico­lare nei racconti della suocera di Pietro malata (4, 38-39), dell’inde­moniato dei Geraseni (8, 27 segg.), della donna con profluvio di san­gue (8, 43 segg.), del giovanetto indemoniato (9, 38 segg.), della don­na ricurva (13, li segg.). Il solo Luca narra il sudore di sangue sof­ferto da Gesù nel Gethsemani (22, 44). Nel caso poi della donna con profluvio di sangue è palese in Luca una benigna preoccupazione pro domo sua in favore della classe dei medici; infatti Marco (5, 25-26) rudemente annunzia che la don­na era malata da dodici anni e molto aveva sofferto da parte di molti medici, e dopo aver consumato tutte le sue sostanze non aveva tratto alcun giovamento, ma piuttosto era andata peggio: Luca al con­trario (8, 43, testo greco) omette siffatte notizie, che non potevano esser gradite dai suoi colleghi di professione, e si limita a dire che la donna era malata da dodici anni, né era stata potuta curare da alcuno.

§ 138. Infine il calamo di Luca, più che quello degli altri evangeli­sti, si diletta a delineare Gesù come supremo medico, sia dei corpi sia delle anime. Luca solo lo fa chiamare dai suoi compaesani medico (4, 23) in atto di sfida: ma poco appresso. quasi in risposta alla sfida, ricorda che una potenza emanava da lui e medicava tutti (6,19; cfr. 5, 17). Spiritualmente, poi, il Gesù tratteggiato da Luca è il misericordioso curatore dell’umanità languente, il pio conforta­tore degli afflitti, il mansueto che perdona ai più traviati: onde con ogni appropriatezza storica Dante Alighieri definisce Luca, pur sen­za nominarlo, come lo scriba mansuetudinis Christi (De monarchia, I, 16). Non meno chiaramente appare nello scritto di Luca il discepolo di Paolo. Una specie di parentela spirituale riannoda il suo scritto con le Lettere di Paolo: molti vocaholi, circa un centinaio, si ritrovano soltanto presso Luca e presso Paolo in tutto il Nuovo Testamento; non rare sono anche frasi tipiche, particolari ai due autori. Ma, più che dalla veste letteraria, la parentela è dimostrata dal pensiero, che insiste sui grandi principii della catechesi di Paolo, quali l’uni­versalità della salvezza operata da Gesù, la “bontà e filantropia”(Tito, 3, 4) di lui, il pregio dell’umiltà e della povertà, la potenza della preghiera, il gaudio di spirito proprio ai fedeli, e altri. Certa­mente questi principii non sono espressi letteralmente conforme a parole di Paolo, giacché Luca non era riguardo a costui quell’e inter­prete che Marco era stato riguardo a Pietro; essi sono tuttavia i lu­minosi fari che dirigono la navigazione di Luca, secondo l’immagine usata già da Tertulliano che vide Luca e illuminato » da Paolo.

§ 139. Quando scrisse Luca il suo vangelo? Certamente dopo gli altri due Sinottici, come afferma la quasi costante tradizione antica che assegna Luca al terzo posto nella serie cronologica dei vangeli: dunque dopo Marco, che non è posteriore all’anno 61. D’altra par­te Luca ha scritto il vangelo prima degli Atti degli Apostoli, i quali nel prologo stesso si richiamano esplicitamente al precedente vangelo (Atti, 1, 1). Alla loro volta gli Atti, secondo ogni verosimiglianza e conforme al parere largamente predominante fra gli studiosi mo­derni, sembrano scritti avanti alla liberazione di Paolo dalla sua pri­ma prigionia romana (cfr. Atti, 28, 30), e quindi anche avanti alla grande persecuzione di Nerone del 64, cioè, tutto considerato, fra gli anni 63 e 64. Anteriore agli Atti, sebbene di poco tempo, sarebbe dunque il vangelo di Luca. E’ assai probabile che il vangelo ricevesse forma definitiva e vedesse la luce in Roma, piuttosto che in Acaia, o in Egitto, o altrove, come vorrebbero altre oscillanti tradizioni antiche. Pare certo, infatti, che Luca abbia conosciuto ed impiegato il vangelo di Marco, comparso a Roma poco prima che Luca vi giungesse insieme col prigioniero Paolo (cfr. Coloss., 4, 10. 14; Filem., 24). D’altra parte Luca da lungo tempo stava preparandosi alla composizione del suo vangelo e andava raccogliendo materiali per esso, come risulta dal prologo. La sua assistenza al venerato prigioniero, prolungatasi non meno d’un biennio, e la conoscenza del recente scritto di Marco cordialmente accolto dalla cristianità di Roma, dovettero essere due opportune occasioni per Luca onde colorire il suo antico disegno, spingendolo a scrivere in Roma stessa il suo vangelo.

§ 140. Luca indirizza il suo vangelo a una determinata persona, Teofilo, a cui in seguito indirizzerà anche gli Atti; era un attestato di deferenza dedicare uno scritto ad un uomo insigne, e l’uso sarà seguito un trentennio più tardi in Roma stessa anche da Flavio Giu­seppe, che dedicherà ad Epafrodito le sue Antichita giudaiche (1, 8) e il suo Contra Apionem. Il Teofilo di Luca è chiamato, che può equivalere al nostro “eccellentissimo” e designerebbe il grado insigne dell’uomo: ma altro non sappiamo di lui, nonostante le molte congetture antiche e moderne. Ad ogni mo­do, se lo scritto è dedicato a Teofilo, Luca scorge anche dietro a costui molti altri lettori ai quali egualmente s’indirizza. Il prologo a Teofilo, dando occasione a Luca d’esporre le circostan­ze, lo scopo e il metodo del suo scritto, è di sommo valore storico; si può ben chiamare il più importante documento che riguardi diretta­mente il periodo di composizione dei vangeli sinottici. E’ quindi op­portuno riportarlo per intero in traduzione che sia fedele, per quanto è possibile, anche etimologicamente (Luca, 1, 1-4): Poiché molti misero mano a riordinare una narra­zione circa i fatti compiutisi fra noi, secondo che tramandarono a noi coloro che dall’inizio furono testimoni oculari e inservienti della parola: parve bene anche a me, che sono riandato appresso dal principio (o anche da lungo tempo) a tutte le cose diligen­temente, scrivere a te secondo consecuzione, eccellentis­simo Teofilo, affinché tu riconosca la stabilita’ dei discorsi circa i quali fosti catechizzato. Non torniamo sopra alcune notizie che già estraemmo da questo passo: fra cui, che già prima di Luca molti avevano scritto sui fatti di Gesù; che siffatti scritti dipendevano dalla trasmissione orale dei testimoni oculari e degli inservienti della parola, ossia dalla primitiva catechesi della Chiesa (§ 106 segg.). Qui, come fatti nuovi, rileviamo che Teofilo già era stato edotto in quella catechesi, e forse in ma­niera compiuta (come sembra indicare 1’aoristo fosti catechizzato): e perciò, probabilmente, già era battezzato. Inoltre Luca, per for­nire a Teofilo una conferma ed una conoscenza più profonda dei discorsi in cui è stato catechizzato, gli offre il suo scritto, frutto di ricerche che sono state fatte diligentemente su tutte le cose trattate e che sono state condotte fin dal principio dei fatti (o almeno da lungo tempo). Infine la narrazione dei fatti sarà condotta secondo consecuzzone. I molti che hanno preceduto Luca non possono essere due soltanto, cioè Matteo e Marco noti a noi: il termine molti può far pensare, all’ingrosso, anche a una decina di scritti, benché in questo numero possano benissimo esser compresi anche i due noti a noi. Ma, anche fra questa abbondanza, Luca ha creduto di poter esser utile con un nuovo scritto: egli non è stato testimonio dei fatti, ma le diligen­ti e lunghe ricerche che ha condotte nell’unica miniera di notizie, cioè la trasmissione dei testimoni oculari e degli inservienti della pa­rola, gli fanno sperare che il suo nuovo scritto gioverà ad altri per approfondire la stabihtà dei discorsi catechetici. Il tipo di catechesi seguito da Luca è, come già sappiamo, quello di Paolo. Perciò egli aggiungerà qualche cosa al quadro ordinario della catechesi di Pietro, che cominciava col battesimo di Gesù da parte di Giovanni il Battista; e poiché è riandato appresso dal prin­cipio agli avvenimenti, premetterà la narrazione dell’infanzia di Ge­sù, come già aveva fatto in misura minore anche Matteo. Tutta l’esposizione, poi, sarà secondo consecuzzone, comprendendo in questa parola – a quanto pare – sia la connessione cronologica dei singoli fatti tra loro e con altri fatti più eminenti nella storia profana, sia anche la connessione logica tra cause ed effetti e tra argomenti af­fini. Per quanto possiamo comprendere noi oggi, con la nostra men­talità e con le scarse informazioni che abbiamo, Luca si è attenuto effettivamente a questo suo programma.

§ 141. Egli solo, fra tutti gli evangelisti, ha cura di riconnettere la narrazione con le principali date della storia profana contemporanea (cfr. 2,1-2; 3, 1-2), inquadrando il fatto cristiano nella visione del­l’umanità intera. In ciò egli si dimostra d’ampia visione, che acu­tamente percepisce come il cristianesimo apra una nuova epoca nelle vicende dell’umanità: nella stessa guisa, già due secoli prima, Poli­bio aveva fatto rilevare proprio al principio delle sue Storie come il dominio di Roma iniziasse un nuovo periodo nella storia della civiltà. Ma, insieme, Luca si dimostra nuovamente discepolo di quel Paolo, che nell’espansione della “buona novella” fra tutte le genti aveva scorto il mistero occultato ai secoli ed alle generazioni, ma che adesso e’ stato svelato ai santi (Coloss., 1, 26). Quanto alla serie cronologica dei fatti in se stessi Luca segue di so­lito Marco, tanto da sembrare che il brevissimo scritto di Marco sia servito a Luca come trama generale: infatti, circa i tre quinti di Marco si ritrovano in Luca. Tuttavia, pur seguendo la trama di Marco, Luca vi opera talune trasposizioni ed omissioni, e soprattutto vi apporta ampie aggiunte: infatti, circa la metà di Luca è propria a questo vangelo, né si ritrova negli altri due Sinottici. In queste aggiunte sono inclusi sette miracoli e una ventina di parabole che non hanno riscontro negli altri vangeli, e soprattutto il racconto della nascita e infanzia di Gesù ch’è diverso da quello di Matteo. Evidentemente queste novità sono frutto delle diligenti ricerche a cui Luca allude nel prologo: ma donde ha egli ricavato tali notizie?

§ 142. Lo stesso prologo indica come fonte la tradizione, senza però specificare; non è difficile tuttavia scorgere, fra i testimoni oculari e gli inservienti della parola, in primo luogo il venerato maestro Pao­lo, e poi anche altre insigni persone che Luca, viaggiando con Paolo, può avere incontrato ad Antiochia, in Asia Minore, in Macedonia, a Gerusalemme, a Cesarea e a Roma: fra questi autorevoli infor­matori non è arrischiato annoverare gli apostoli Pietro e forse anche Giacomo (cfr. Atti, 21, 18), nonché l’”evangelista” Filippo presso cui in Cesarea dimorò Luca (cfr. Atti, 21, 8); non sono esclusi anche altri, circa i quali tuttavia sarebbe inutile perdersi in semplici congetture. Notevole è la menzione particolareggiata di donne: avevano seguito Gesù talune donne ch’erano state curate da spiriti maligni e infer­mità, Maria quella chiamata Magdalena, dalla quale erano usciti sette demoni, e Giovanna moglie di Chuza sovrintendente di Erode, e Susanna e molte altre, le quali ministravano ad essi dalle loro proprie sostanze (Luca, 8, 2-3; cfr. 24, 10). Né Giovanna nè Susan­na sono nominate da altri evangelisti, benché fossero donne di alto grado sociale e facoltose; probabilmente Luca, menzionandole, vuole con discrezione indicare una fonte delle sue informazioni. Non meno discreta, ma assai più precisa, è l’allusione a un’altra donna d’incomparabile dignità e importanza, cioè alla stessa madre di Gesù. Di parecchi fatti narrati da questo vangelo circa il concepi­mento, la nascita e l’infanzia di Gesù, soltanto sua madre Maria po­teva essere testimone ed informatrice; ed ecco che Luca durante quella narrazione, per due volte, e a breve distanza, e quasi con gli stessi termini, ammonisce che Maria conservava tutte queste parole, convolgendole nel suo cuore (2, 19), e poco appresso che la madre di lui serbava tutte le parole nel suo cuore (2, 51). Questa insistenza di pensiero e di espressione è eloquente nella sua ponderata discre­zione. Se Luca abbia conosciuto o no Maria personalmente, non risulta: ma anche nel caso che non le abbia parlato, precise infor­mazioni fornite da lei gli possono essere peivenute attraverso l’apo­stolo Giovanni, il figlio adottivo assegnato a Maria da Gesù moren­te e nella cui casa ella dimorò dopo la morte del figlio vero (Gio­vanni, 19, 26-27). Una tardiva tradizione, non attestata prima di Teodoro il Lettore (secolo vVI, presenta Luca come pittore d’un ri­tratto di Maria, il quale dalle leggende posteriori fu largamente moltiplicato: ma il ritratto della madre di Gesù fu in realtà dipinto dal calamo, non dal pennello, di Luca nella sua descrizione dell’in­fanzia di Gesù, che si svolse sotto lo sguardo della madre sua e i cui vari episodi divennero più tardi temi classici dei pittori cristiani. E’ inoltre assai probabile che per il racconto dell’infanzia, il quale contiene fra altro carmi metrici, Luca si sia servito anche di docu­menti ebraici o aramaici; la sua stretta dipendenza da essi spiegherebbe adeguatamente la straordinaria frequenza di semitismi nel greco di questo racconto. Ma pure sull’indole e provenienza di questi documenti. nulla si può affermare di sicuro, oltre a ciò che Luca stesso dice vagamente nel prologo; né le varie congetture moderne possono supplire a questa mancanza di dati antichi.

§ 143. Luca non scrive soltanto per Teofilo, ma anche per i cristia­ni che si trovano più o meno nelle condizioni di spirito del destina­tario. Sono i cristiani delle chiese fondate da Paolo, composte in pre­valenza da fedeli provenienti dal paganesimo; del resto già Origene aveva notato che il vangelo di Luca era per quelli (provenienti) dai gentili. Aggiunge infatti spiegazioni che sarebbero state superflue per lettori giudei, ad esempio che la festa giudaica degli Azimi si chiamava Pasqua (Luca, 22, 1); e invece tralascia cose che sarebbero state fraintese da chi proveniva dal gentilesimo, come il precetto dato da Gesù agli Apostoli di non andare per la via dei gentili (Matteo, 10, 5: precetto non riportato neppure da Marco, per la stessa ragione di Luca). Altre volte attenua espressioni che sonavano troppo dure per gentili, come quando invece di dire non fanno ciò anche i gentili? (Matteo, 5, 47) dice fanno ciò anche i peccatori (Luca, 6, 33); per la stessa preoccupazione di delicatezza aggiunge, invece, fatti partico­lari che risultavano a onore dei gentili, come la buona accoglienza fatta da Giovanni il Battista ai soldati (3, 14), la generosità del cen­turione verso di Giudei (7, 4-5), e perfino la carità e la gratitudine che si potevano ritrovare presso gli aborriti Samaritani (10, 33-35; 17, 15-18). Soprattutto poi, lo scritto di Luca vuol essere la “buona novella” della bontà e della misericordia. Il discepolo di Paolo, che si rivolge ai cristiani di Paolo, dipinge Gesù non solo come salvatore di tutti gli uomini indistintamente, ma come amico in modo particolare dei piu’ traviati, dei più umili e diseredati sulla terra. Se questa presen­tazione di Gesù quale supremo medico spirituale indusse Dante a designare Luca quale scriba mansuetudinis Christi (§ 138), indusse pure il Renan a definire questo vangelo il piu’ bel libro che esista: nella quale definizione l’iperbole abituale nello scrittore francese ha molto minor parte che in altri giudizi di lui. La parabola del figliuol prodigo, miracolo letterario di potenza psicologica, è riferita dal solo Luca. Soltanto Luca fa che il pastore si metta proprio sulle spalle la ritrovata pecora perduta e giunto a casa ne faccia gran festa con gli amici (15, 5-6; mancante in Matteo, 18, 13); come pure soltanto Luca parla della donna che ritrova la dramma perduta, e che se ne rallegra con le amiche come si fa gaudio al cospetto degli angeli d’iddio per un solo peccatore che si penta (Luca, 15, 8-10). Non altri che Luca riporta le parole di Gesù morente Padre, perdona loro, perché non sanno che cosa fanno!, e subito appresso quelle altre con cui il morente promette il paradiso al ladrone pen­tito che gli agonizza a fianco (23, 34.43).

§ 144. Anche da un altro aspetto appare l’indole vera dello scritto di Luca. Si ripensi qual era, nella sua realtà, la società in mezzo a cui vivevano i lettori di questo vangelo. A Roma stessa insieme con Luca abitava Seneca, il quale tranquilla­mente affermava che la donna impudens animai est et… ferum, cu­piditatum incontinens (De constantia sapientis, xiv, 1); un altro con­temporaneo abitante dell’Urbe era Petronio l’Arbitro autore di quel Satiricon che, se è il libro piu’ cinicamente osceno trasmessoci dalla romanità classica, è anche fedele specchio del fasto orienta­lesco riserbato in quella società ad alcuni pochi, fra moltitudini sterminate di proletari e di schiavi. Eccezioni non saranno mancate: ma non potevano esser molte, e ad ogni modo erano più teoretiche che pratiche. Appunto il “Seneca morale”, mentre ragionava egre­giamente di virtù civili ed umane, definiva la donna nella maniera testé vista; e mentre dettava la sentenza di sapore cristiano parem autem deo pecunia non faciet: deus nihil habet… nudus est (Epist., 31, 10), confessava davanti a Nerone di possedere immensam pecunium e di fare l’usuraio, dimostrando di non avere alcuna voglia di restar nudo come il suo Dio. Era insom­ma la società esattamente riassunta da quel Claudio Secondo, che aveva scritto sulla propria tomba: Balnea vina venar corrumpunt corpora nostra, sed vitam faciunt bainea vina venus. Era la società in cui imperava, quasi assoluto, il binomio “lussuria e lusso”. In antitesi perfetta all’indole di quella società è l’indole dello scritto di Luca, che è il vangelo di esaltazione per la donna, di encomio per la povertà, di laude per la giocondità della vita semplice ed umi­le: uno scritto che si può riassumere nel binomio “purità e po­vertà”, non senza aggiungervi quello spirito di perfetta letizia che si sarebbe tentati di definire francescano, se già dapprima non fosse stato tipicamente lucano. Le donne del vangelo di Luca, mentre hanno una probabile parte come informatrici, ne hanno certamente una molto onorevole come attrici. Oltre a figure di primo piano, quali Maria madre di Gesù ed Elisabetta madre di Giovanni il Battista, il solo Luca presenta la profetessa Anna (2, 36-38), la vedova di Naim (7, i 1 segg.), la peccatrice anonima (7, 37 segg.), la donna ricurva (13, 10 segg.), l’altra donna che proclama beata la madre di Gesù (2, 27-28), la massaia Marta (10, 38 segg.), le donne della via dolorosa (23, 27 segg.): i quali ritratti femminili saranno di molto accresciuti nei successivi Atti, costituendo nell’insieme una pinacoteca che mette la donna in una luce affatto diversa da quella della contemporanea società pagana.

§ 145. Insieme con la purità, il vangelo di Luca esalta la povertà. Mentre il Discorso della montagua in Matteo ripete nove volte la felicitazione Beati…!, Luca la ripete solo quattro volte, ma in com­penso aggiunge quattro volte la maledizione Guai…!, che è indirizzata tutte e quattro le volte ai ricchi e gaudenti (6, 20-26); cosi pure, mentre la prima felicitazione è rivolta in Matteo ai poveri in ispirito, da Luca è. rivolta ai poveri semplicemente. In armonia con ciò il solo Luca ricorda espressasnente la bassezza della madre di Gesù (1, 48) e la povertà della sua of­ferta al Tempio (2, 24), la squallida nascita di Gesù a Beth-lehem e la miseria dei garzoni di greggi che furono i suoi primi adoratori; dal solo Luca è riferito che Gesù, parlando nella sinagoga di Na­zareth, applicò a se stesso le parole di Isaia: “Lo spirito del Signore e’ su me: perciò mi unse per evangelizzare ai poveri” (4, 18); e se Luca riporta insieme con Matteo le parole di Gesù: Le volpi hanno le tane… ma il figlio dell’uomo non ha dove posare il capo (9, 58), egli solo ci dice che alcune facoltose donne gli apprestavano il ne­cessario dalle proprie sostanze (8, 3). Anzi nello scritto di Luca af­flora cosi frequentemente l’esaltazione della povertà, che qualche studioso moderno ha creduto riscontrarvi l’influenza della antica setta degli Ebioniti (“poveri”), costituita da cristiani provenienti dal giu­daismo; ma appunto tale provenienza basterebbe ad escludere quel­l’influenza da uno scritto come questo, del tutto alieno dallo spirito giudaico e animato invece da spirito universalistico, mentre l’avversione alle ricchezze è adeguatamente spiegata dalla reazione al­l’indole della contemporanea società pagana. Conseguenza della predilezione per la purità e per la povertà sem­bra essere quello spirito di giocondità serena, quasi poetica, che aleggia su questo vangelo. Già S. Paolo aveva raccomandato ai suoi fedeli: Gioite nel Signore sempre; nuovamente dico: Gioite! (Filipp., 4, 4), tornando anche altrove con parole identiche o equivalenti sulla stessa raccomandazione: Gioite sempre! (I Tessal., 5, 16; cfr. Romani, 12, 12; ecc.). La ragione di questa gioia era che il regno di Dio… e giustizia e pace e gaudio nello Spirito santo (Rom., 14, 17), e che il frutto dello Spirito e’ amore, gaudio, pace, ecc. (Galati, 5, 22). Anche in ciò il discepolo va appresso al maestro. Il vangelo di Luca, nei due primi capitoli, contiene singolari espressioni di questo gaudio spirituale, cioè quattro composizioni metriche (Magnificat; Benedictus; Gloria in altissimis; Nunc dimittis) non reperibili negli altri vangeli; infine tutto lo scritto termina narrando come gli Apo­stoli, dopo aver assistito all’ascensione di Gesù, tornarono a Gerusalemme con gaudio grande, e stavano del continuo nel tempio benedicendo iddio (24, 52-53). E cosi’ lo scriba mansuetudinis Christi diventa anche il giullare di Dio nella perfetta letizia.

Vita di Gesù 5ultima modifica: 2010-08-25T16:21:00+02:00da meneziade
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