Vita di Gesù 6

Cristo al calvario-donazione per amore.jpgLa questione sinottica

§ 146. I tre vangeli fin qui visti, Matteo, Marco e Luca, sono chia­mati fin dal principio del secolo XVIII sinottici, per la ragione che, se i loro testi siano disposti in colonne affiancate, se ne possono scor­gere subito con uno sguardo collettivo (“smossi”) le moltissime somiglianze che li collegano fra loro, pur non essendo testi identici. Insieme con le somiglianze, infatti, vi si ritrovano anche discrepanze; le quali tuttavia non riescono a cancellare l’impressione di una so­stanziale uguaglianza, cosicché in complesso viene piuttosto da pen­sare ad una concordia discors. La concordia dei Sinottici si rileva sia dagli argomenti trattati, sia dall’ordine nel trattarli, sia anche dalle parole ed espressioni impie­gate. L’argomento comune dei Sinottici è costituito dall’inaugura­zione della vita pubblica di Gesù, dal suo ministero prima in Galilea suo centro a Cafarnao e poi in Giudea, e dagli avvenimenti del­l’ultima settimana della sua vita comprese la morte e la resurrezio­ne (§ 113); a questo fondo comune Matteo e Luca premettono i fatti dell’infanzia, su cui Marco tace del tutto. Anche nell’ordine con cui sono presentati i singoli fatti del fondo comune, esiste una certa concordia, riscontrandosi una generica cor­rispondenza fra le rispettive sezioni di quel fondo, specialmente fra Marco e Luca, mentre Matteo spesso offre raggruppati fatti e sen­tenze che gli altri due offrono separati. Infine frequenti sono i passi in cui tutti e tre i testi procedono con le stesse identiche parole, di guisa che, letto uno di essi, si sono letti gli altri due; e ciò anche in casi in cui occorrono vocaboli rari (Matteo, 19, 23; Marco, 10, 23; Luca, 18, 24) o impiegati in accezioni rare in senso di rattoppo; Mt., 9, 16; Mc., 2, 21; Lc., 5, 36), ovvero com­paiono frasi peregrine (figli della camera nuziale, cioè paraninfi; Mt.,93 15; Me., 2, 19; Lc., 5, 34) o altre espressioni singolari; talvolta Stutti e tre, in piena concordia fra loro, citano qualche passo del­l’Antico Testamento in forma tale che discorda sia dal testo ebraico sia da quello greco dei Settanta.

§ 147. Ma questa concordia fondamentale è nello stesso tempo di­scors in molti particolari. Anche prescindendo dai passi propri a un solo Sinottico, troviamo che talvolta due trattano in maniera del tutto diversa uno stesso argomento, ad esempio l’infanzia di Gesù (Matteo, 1, 18 – 2, 23; Luca, I, 5 – 2, 52) e la genealogia di lui (Matteo, 1, 1-17; Luca, 3, 23-38); lo stesso Discorso della montagna, lunghissimo in Matteo (capp. 5-7) e molto più breve in Luca (6, 20-49), ha divergenze fin dal principio con l’enumerazione delle bea­titudini. Anche nell’ordine di narrazione, pur astraendo dalla diversità di raggruppamento di fatti e sentenze, compaiono discordanze diffi­cili a spiegarsi: ad esempio, mentre nella narrazione della passione la corrispondenza delle parti è quasi costante, subito appresso com­paiono divergenze circa l’ordine delle apparizioni di Gesù risorto. Frequenti sono pure i casi di divergenze fra passi in tutto il resto paralleli. Queste divergenze possono essere soltanto verbali, come quando in una narrazione che procede assolutamente identica presso tutti e tre, uno di essi sopprime una o più parole, oppure le aggiunge, oppure le sostituisce con altre quasi sinonime: valga come esempio, fra molti altri, la narrazione della visita fatta a Gesù dai suoi parenti: Matteo, cap. 12 Marco, cap. 3 Luca, cap. 8 Ancora parlando egli alle folle ecco la madre e i fra­telli di lui stavano fuori, cercando di parlargli. Ora, uno disse a lui: Ecco la madre tua e i fratelli tuoi fuori stanno cercando di parlare a te. Ma egli rispondendo disse a chi gli parla­va: Chi è la mia madre e chi sono i fratelli miei? E stendendo la mano sua sui discepoli suoi, disse: Ecco la madre mia e i fratelli miei! E vengono la madre di lui e i fra­telli di lui, e fuori stando mandarono a lui chia­mandolo. E sedeva attorno a lui folla; e dicono a lui: Ecco la madre tua e i fratelli tuoi (e le sorelle tue) fuori cercano te. E rispondendo loro di­ce: Chi è la madre mia e i fratelli? E guardato attorno a quelli che attorno a lui in circolo sedevano, di­ce: Ecco la madre mia e i fratelli miei! Ora, si presentò a lui la madre e i fratelli di lui, e non potevano congiungersi con lui per la folla. Ora, fu annunziato a lui: La madre tua e i fratelli tuoi stanno fuori volendo vedere te. Ma egli rispondendo disse verso quelli: Madre mia e fratelli miei Chiunque infatti faccia la volontà del Padre mio ch’è nei cieli egli è mio fratello e sorella e madre. Chi faccia la volontà d’Iddio, costui è fratello mio e sorella e madre. costoro sono, che la parola d’Iddio ascoltano e fanno. Ma talvolta le divergenze non sono soltanto di parole, bensì si estendono anche al pensiero: come quando in Matteo (10, 10) e Luca (9, 3) Gesù proibisce agli Apostoli di portare in viaggio alcun­ché neppure il bastone, mentre in Marco (6, 8) proibisce di portare alcunché salvo il bastone soltanto; oppure come quando, nella re­gione dei Gadareni o dei Geraseni, sono liberati due indemoniati secondo Matteo (8, 28-34), ma uno solo secondo Marco (5, 1-20) e Luca (8, 26-39); e parimente sono due i ciechi sanati presso Gerico secondo Matteo (20, 29-34), ma è uno solo di nuovo presso Marco (10, 36-52) e Luca (18, 3543); ai quali esempi, di divergenze concettuali, se ne potrebbero aggiungere vari altri. Ecco, dunque, la questione: è da spiegarsi come sia sorta questa concordia la quale, se talvolta è discors nel suo interno, appare tanto più concors vista dall’esterno, se si confronta con l’unico vangelo non sinottico, Gio­vanni, ch’è di tutt’altra indole e di tenore ben diverso.

§ 148. La questione è dibattutissima, e si può dire che da più di un secolo sia il principale problema su cui si sono concentrate le in­vestigazioni degli studiosi del Nuovo Testamento. Le soluzioni e le ipotesi che ne sono scaturite sono moltissime, e a presentarle e di­scuterle tutte sarebbe necessario un ampio studio speciale: il quale, poi, avrebbe un valore quasi soltanto retrospettivo, giacché la massi­ma parte di quelle soluzioni sono oggi abbandonate. Fino a pochi anni addietro la soluzione più in voga, ritenuta come un assioma della cosiddetta Scuola liberale (§ 203 segg.), era che i tre Sinottici dipendano da due documenti scritti: il primo sarebbe una raccolta contenente soltanto “detti” o “discorsi” di Gesù, e precisamentte la raccolta che Papia chiama dei Logia e at­tribuisce all’apostolo Matteo (§ 114); il secondo documento sareb­be il vangelo di Marco, o in una forma primitiva o in quella nostra odierna, contenente in prevalenza miracoli e altri fatti di Gesù. Con ciò, l’origine di Matteo è indipendente; l’origine degli odierni van­geli di Matteo (che non sarebbe di questo apostolo) e di Luca è spiegata come una doppia fusione della massima parte dei Logia con parte dei fatti narrati da Marco, pur ammettendosi che nochi altri elementi siano stati desunti altrove, e che nella scelta dei ma­teriali ciascun evangelista si sia lasciato guidare dallo scopo par­ticolare a cui mirava. Oggi questa soluzione, pur avendo tuttora largo seguito, non è cosl incontrastata come nell’addietro. Il nuovo indirizzo dato dal cosid­detto Metodo della storia delle forme (§ 217), che ha avuto il me­rito di richiamare l’attenzione sull’importanza del periodo prepara­torio dei vangeli canonici (§ 110 segg.), trova che la suddetta soluzione è troppo semplice ed elementare essendo insufficienti due soli documenti a rappresentare l’ampia produzione di quel periodo, e che ad ogni modo accanto a tutta una serie di documenti scritti si deve supporre tutta una serie di testimonianze orali.

§ 149. In realtà, quasi tutte queste varie soluzioni, piu’ che ispirarsi alle attestazioni pure e semplici dei documenti antichi, sono guidate da principii aprioristici moderni, e tradiscono la preoccupazione di adattare forzatamente quelle attestazioni a questi principii. Scendendo al caso pratico, i Logia di Papia non sarebbero affatto il nostro Matteo. Ora, questo assioma, fondamentale nella teoria dei due documenti, non solo non è stato mai dimostrato con argomenti storici, ma ha contro di sé tutta l’attestazione dell’antichità, la quale ha sempre ritenuto che ai Logia corrisponda il nostro Matteo: ciò fino al mese di ottobre del 1832, allorché per la prima volta lo Schle­iermacher negò questa corrispondenza, non però in forza di testi­monianze storiche nuovamente scoperte, bensi in forza dei suoi parti­colari principii filosofici. Un altro criterio fondamentale per la suddetta teoria è che Marco, brevissimo fra tutti i vangeli, deve essere il primo e più antico, per­ché i racconti d’argomento religioso tenderebbero sempre ad aumen­tare il patrimonio delle loro narrazioni, non già a diminuirlo. Ma anche questo è un principio aprioristico, e lo troviamo nettamente smentito proprio dai documenti giudaici (per tralasciare quelli di altre nazioni). Perché Marco non poté essere un riassunto di altro scrit­to – come già apparve a S. Agostino (De consensu evangel., 1, 2, 4) – se già le ebraiche Cronache erano state un riassunto dei precedenti libri di Samuele-Re e di altri documenti, e se il libro Maccabei era stato un riassunto dei cinque libri di Giasone di Cirene? Nello stesso campo del Nuovo Testamento, non avviene forse che l’ultimo dei Sinottici, Luca, benché tante volte aggiunga, molte altre volte invece riassume? Se infine i cristiani dei primi due secoli compone­vano per uso privato quegli estratti di sentenze evangeliche, di cui ci sono pervenuti frammenti nei papiri d’Egitto (§ 100), non poteva anche Marco compiere un estratto alquanto più ampio, da lui giu­dicato opportuno per un determinato ceto di cristiani? Risparmiando perciò le congetture avventurose e le adattazioni for­zate, vediamo brevemente fino a qual punto le testimonianze anti­che e i rilievi moderni possano far luce in questa intricatissima que­stione.

§ 150. Le testimonianze storiche ci hanno già detto che dei Sinottici è cronologicamente primo lo scritto semitico di Matteo, corrispon­dente sostanzialmente al nostro Matteo greco, e che il secondo è Marco e il terzo Luca. Ma vedemmo anche che questi tre scritti hanno una preistoria, rappresentata da quel venticinquennio circa in cui dominava la catechesi orale, e che di quella catechesi i tre scritti sono sotto diversi aspetti uno specchio (§ 110). Rilevammo anche che l’ultimo dei Sinottici ha trovato prima di sé molti altri scritti sullo stesso argomento, dei quali anch’esso si è servito, pur volendo aggiungere alcunche al contenuto di quelli (§ 140): c’erano infatti tuttora altre notizie extravagantes, giacché qualche decennio dopo che erano apparsi i tre Sinottici e i molti scritti anonimi, fu composto il vangelo di Giovanni, che dà moltissime informazioni nuove. Ora da questo mare, per noi cosi poco esplorato, come mai è avvenuto che i tre Sinottici abbiano estratto quasi sempre le me desime perle, e non altre, allineandole per di più in una serie quasi sempre uguale? Jn altre parole, donde la concordia dei tre scritti? Presso i Semiti aveva parte principalissima nell’insegnamento, spe­cialmente religioso, la memoria, alla quale unicamente restò affidato per molto tempo un ampio materiale didattico che solo più tardi fu messo in iscritto: fra molti esempi che si potrebbero recare, basti qui ricordarne uno non ebraico, ma classico nel campo semitico e po­steriore all’epoca dei vangeli, cioè il Corano; il quale non fu messo in scritto da Maometto, ma restò per circa una generazione affidato unicamente alla memoria dei suoi discepoli, pur conservandosi con fedeltà verbale. Si è quindi pensato che qualcosa di simile sia avve­nuto per i Sinottici: essi dipenderebbero tutti e tre da un corpo d’insegnamenti orali fissati alla lettera, ossia dalla catechesi aposto­lica, che sarebbe stata messa in iscritto più o meno ampiamente da ognuno di essi sempre con fedeltà verbale, in maniera analoga a quanto avvenne per il Talmud (§§ 87, 106). Senonché, pur essendo innegabile l’importanza della memoria sia presso i Semiti in genere sia nella primitiva catechesi cristiana, la suddetta spiegazione appare troppo elementare e meccanica. Secondo essa bisognerebbe supporre – si permetta il ricorso ad un paragone moderno – un’ampia serie di immateriali dischi fonogralici corrispondenti ciascuno a un tratto speciale della catechesi, e che sarebbero stati fatti funzionare di volta in volta sempre con precisione meccanica. E chi avrebbe preparato questa impalpabile discoteca? Certamente il collegio degli Apostoli. E in quale lingua? Certamente in aramaico, allora corrente in Pa­lestina. Ma è dimostrato tutto ciò?

§ 151. Checché sia della possibilità astratta, se ci volgiamo ai fatti concreti, cioè ai documenti, apprendiamo che una raccolta di tal genere fu bensì preparata dal collegio degli Apostoli, ma essa non consiste in una discoteca immateriale, bensì in una scrittura reale, cioè nello scritto di Matteo (§ 117). Questo documento ufficiale non assorbì certamente tutta la catechesi orale, la quale continuò a vivere con largo e fondamentale impiego della memoria; ma nes­suna prova abbiamo per asserire che la catechesi orale avesse una forma cosi precisa verbalmente, cosi stereotipata, com’è la forma di una scrittura: anzi siamo indotti a pensare proprio il contra­rio da quelle libertà avvenute nella traduzione dal testo semitico di Matteo, e da quelle divergenze verbali dei vangeli greci, che già rilevammo (§§ 121-122). Se dunque i Sinottici sono concordi perché dipendono da una forma di catechesi fissata a parola, tale fissazione non deve essere stata orale bensi scritta. A questa conclusione conducono anche i rilievi letterari fatti con­frontando il testo dei Sinottici (§ 146). Senza dubbio la primissima catechesi orale degli Apostoli fu in lingua aramaica: ma allora come mai almeno Marco e Luca, che hanno scritto originariamen­te in greco, tradurrebbero da quel fluttuante patrimonio verbale con tanta concordia di vocaboli, di espressioni, di costruzioni gramma­ticali, anche in cose minutissime? E come mai, al contrario, discor­dano inaspettatamente in cose di particolare importanza, quali le parole dell’Eucaristia e quelle della tavoletta di condanna apposta sulla croce di Gesù (§ 122)? Dunque, almeno questi due Sinottici presuppongono un testo scritto, da essi in parte impiegato e in parte abbandonato; e questo testo scritto, nuovamente, non può essere al­tro che quello di Matteo, nella sua originale interezza oppure in estratti e rifacimenti di vario genere.

§ 152. Messi al sicuro questi punti che risultano dagli antichi docu­menti, vediamo come essi possano inquadrarsi nelle altre notizie che la tradizione già ci ha dato riguardo all’origine di Marco e di Luca. Il testo semitico di Matteo circolava già con somma autorità, per la sua origine apostolica e per il suo carattere ufficiale, ma anche con una possibilità d’impiego diretto sempre più scarsa, man mano che la “buona novella” s’estendeva fra popolazioni che non intendeva­no lingue semitiche. Tuttavia quel testo poteva sempre essere im­piegato da molti “evangelisti” orali che lo intendevano, e ad ogni modo sorsero ben presto quelle sue traduzioni totali o parziali a cui allude Papia (§ 119). Questo attaccamento alla composizione di Matteo appare naturalissimo a motivo del credito che la circondava: essa nel campo della “buona novella” scritta rappresentò quasi una praeoccupatio, che non poté esser trascurata dagli scrittori successi­vi. Prescindendo pertanto dai molti che scrissero prima di Luca, sui quali possiamo far solo congetture, sappiamo che Marco scrisse se­condo la catechesi di Pietro, e Luca secondo quella di Paolo. Che valore ha questa doppia notizia antica in relazione con il documento semitico di Matteo? I due ultimi Sinottici hanno Gli studiosi moderni, in massima parte, rispondono negativamente. Coloro per cui il Matteo semitico equivale ai Logia di Papia ma non al Matteo greco, ritengono che Marco non ha conosciuto i Logia, mentre Luca li ha conosciuti; quanto alle relazioni fra Marco e Luca c’è un generico consenso nell’affermare che il primo è stato impie­gato dal secondo. Ma chi giudica storicamente infondata una sostanziale differenza tra il Matteo semitico (ossia i Logia) e il Matteo greco, può ancora distinguere tra l’originale semitico e la sua tradu­zione greca, a cagione di quelle modificazioni operatevi dal tradut­tore alle quali già accennammo (§ 120 segg.); è infatti sempre pos­sibile che, se l’originale semitico è stato in qualsiasi maniera impiega­to da Marco e Luca, questi due alla loro volta siano stati impiegati dal nostro traduttore greco di quell’originale. Gli studiosi moderni hanno raccolto le prove più sottili e sfuggevoli per dimostrare le rispettive tesi. Con lavori pazientissimi, degni della piu’ sincera ammirazione, essi hanno rilevato che, se Marco avesse conosciuto Matteo, non avrebbe sconvolto il “ccordinamento” caratteristico di lui, né tralasciato tali o tali narrazioni, o sentenze, o parole; cosi pure, se Luca avesse conosciuto Matteo, non avrebbe narrato con tante divergenze da costui la storia dell’infanzia, e quel­la della resurrezione, e la genealogia di Gesù, e le beatitudini, né avrebbe preferito la serie di fatti seguita da Marco: e tante altre sagacissime ragioni, ritrovate nel confronto dei testi.

§ 153. Ma, disgraziatamente, questi testi sono pochi, tre soltanto; noi invece sappiamo che anticamente essi erano molti, e ciò anche prima di Luca, ossia quando i nostri testi erano due soltanto (§ 140): anzi neppure due completamente, perché il nostro Matteo non rap­presenta con assoluta fedeltà verbale il Matteo semitico. Ecco la grande lacuna di cui non bisogna dimenticarsi in questi confronti dei Sinottici, la lacuna dei molti che noi più non abbiamo. Se poi si ha presente che questi molti, come già congetturammo, di­pendevano in gran parte dal Matteo semitico; che essi, pur essendo di varia ampiezza, potevano benissimo aver aggiunto talune notizie non contenute nel Matteo semitico; che, contemporaneamente a questa nuova “buona novella” scritta continuava a risonare l’antica <buona novella> orale degli “evangelisti” la quale riecheggiava sostanzialmente il contenuto di quella: si comprenderà bene quanto più complicato sia il problema delle dipendenze letterarie dei nostri Sinottici, e quanto le conclusioni tratte dai confronti dei testi odierni possano esser insufficienti per insufficienza degli stessi testi, ossia per la mancanza dei testi antichi.

§ 154. Riassumendo, si può tracciare la seguente genealogia dei no­stri Sinottici, la quale tiene conto dei dati di fatto messi in luce dalle investigazioni letterarie moderne, mentre non perde di vista le attestazioni precise dell’antichità. Primo di tutti fu il Matteo semitico, che conteneva sia discorsi sia fatti di Gesu’; esso fu anche la sorgente principale, se non unica, dei molti fiumicelli e rigagnoli che scorrevano ai tempi di Luca. Marco fu indotto a scrivere in Roma, per il motivo e nelle circostanze che già sappiamo. Scrivendo, egli riprodusse la catechesi orale di Pietro; la quale non era però né remota né estranea allo scritto di Matteo, bensì costituiva gran parte del suo fondo. Perciò Marco, mettendo mano al suo lavoro, trovò che la sua impresa sarebbe sta­ta, non solo agevolata, ma anche indirettamente garantita, se avesse preso come punto di riferimento lo scritto che in qualche modo poteva riportarsi a Pietro stesso, cioè il documento di Matteo. Ma sotto quale forma questo documento pervenne nelle mani di Marco? Nel suo testo originale intero, oppure in un estratto parziale? Oppure anche in una di quelle traduzioni di cui parla Papia? E se pervenne tradotto, qual era la sua indole e ampiezza? e quale la sua rassomi­glianza all’odierno Matteo greco? Ecco altrettante domande a cui non siamo in grado di rispondere. Supposto però che questo documento non meglio definibile sia stato a disposizione di Marco, il suo lavoro personale si spiega agevolmen­te come una fusione delle due fonti, quella della sua memoria e quella del documento che aveva sott’occhi quando la stessa notizia ve­niva concordemente dalle due parti, egli seguiva genericamente il documento; quando c’era divergenza, egli metteva in iscritto la cate­chesi di Pietro conservata nella sua memoria. Questa spiegazione sembra dar ragione sia della concordia discors fra i due primi Si­nottici, sia della costante attestazione dell’antichità secondo cui Mar­co è “interprete” di Pietro. Il caso di Luca è piu’ complicato, non solo perché prima di lui esi­stevano Matteo, Marco e i molti da lui investigati diligentemente, ma anche perché egli riecheggia la catechesi di Paolo: quindi le sue dipendenze si moltiplicano, e per noi d’oggi si perdono in una neb­bia d’ignoranza. Si è Luca servito del Matteo semitico? Si dice che l’esame dei testi odierni non possa dimostrarlo con certezza; ma senza volersi addentrare in tale questione, Luca per lo meno deve essersi servito di qualche documento che era come un largo estratto del Matteo semitico, forse anche tradotto in greco, e che entrava certa­mente nel numero dei molti: le numerosissime identità o analogie fra i nostri Luca e Matteo non lasciano alcun dubbio su questo punto. E anche generalmente ammesso, come già vedemmo, che Luca si sia servito di Marco, specialmente nell’ordinamento cronologico dei fatti. Se quindi si accetta l’ipotesi di un’origine romana del vangelo di Luca, possiamo concludere che egli si servisse di Marco come di trama generica per il proprio scritto; ma su questa trama egli la­vorò lungamente e l’ampliò fino a raddoppiarla, con l’aggiungervi quei moltissimi fili ch’era andato raccogliendo diligentemente sia dai molti scritti precedenti, sia dalla tradizione orale e specialmente dal suo maestro Paolo. Terzo per forma, non per contenuto, viene il nostro Matteo greco, che è una versione sostanzialmente identica al Matteo semitico: ma la sua forma letteraria greca risente di Marco e di Luca, per le ra­gioni e nella misura già viste. In quella genealogia dei Sinottici, la loro concordia è data dal fondo comune a tutti e tre, che è o diret­tamente o indirettamente lo scritto originale di Matteo, cioè la catechesi degli Apostoli e specialmente di Pietro; la loro concordia diventa discors, quando i singoli autori secondo le mire personali o abbreviano, o spostano, oppure anche aggiungono altri elementi, i quali in massima parte provengono egualmente dalla catechesi apo­stolica, sebbene per altre vie.

Giovanni

§ 155. I tre vangeli sinottici non contengono alcuna designazione diretta dei propri autori; al contrario nel IV vangelo, unico non si­nottico, siffatta designazione è contenuta, sebbene in maniera velata, dicendosi alla fine dello scritto: Costui e’ il discepolo che testimonia circa queste cose e scrisse queste cose (Giovanni, 21, 24); nella quale proposizione il pronome costui si riferisce a un discepolo che Gesù amava, e di cui si è trattato poco prima (21, 10). Questa dichiarazione conclusiva di tutto il libro, se non è una palese firma dell’autore, ne è come una velata sigla. Come interpretare que­sta sigla? Chi è l’anonimo discepolo che Gesu’ amava? La stessa designazione affettiva ritorna altre volte (13, 23; 19, 26; 20, 2; 21, 7.20), ma solo da quando la biografia di Gesù volge alla conclusione entrando nel periodo più tragico e più patetico, cioè dall’ultima cena in poi (13, 23): prima di questo periodo, quella designazione affettiva non compare. Ma compare un discepolo di Gesù, egualmente innominato, che è tra i primi a seguire Gesù, e che passa a lui, dopo essere stato alla sequela di Giovanni il Battista, insieme con Andrea di Bethsaida, fratello di Simone Pietro (1, 35-44). Compare anche nel processo di Gesù un innominato discepolo il quale, essendo conosciuto dal sommo sacerdote, si serve di questa conoscenza per far entrare Simone Pietro nell’atrio del sommo sa­cerdote (18, 15-16). Ora, questo discepolo anonimo e il discepolo che Gesu’ amava sono in realtà una sola e identica persona. Dai Sinottici, infatti, appren­diamo che i discepoli prediletti da Gesù erano gli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni: dunque, ragionevolmente, fra questi tre deve stare il discepolo che Gesu’ amava. Ma costui certamente non è Pietro, il quale più d’una volta è nettamente distinto dal nostro ricercato (13, 23-24; 18, 15; 20, 2; ecc.); ma neppure è Giacomo, per le seguenti ragioni. Il Giacomo in questione è Giacomo il Maggiore, che aveva per pa­dre Zebedeo e per madre Salome, ed era perciò fratello dell’apostolo Giovanni: essendo questi due fratelli nativi di Bethsaida, si com­prende facilmente che fossero amici degli altri due fratelli Andrea e Simone Pietro, ch’erano della stessa borgata (1, 35-44; cfr. Marco, 1, 16-20). Senonché questo Giacomo fu ucciso da Erode Agrippa I assai presto (Atti, 12, 2), nell’anno 44, quando nessuno dei nostri vangeli era scritto, tanto meno dunque il IV e ultimo, che è appunto attribuito al prediletto discepolo che ricerchiamo. Costui dunque deve essere l’altro fratello, cioè l’apostolo Giovanni, figlio di Ze­bedeo. Vari rilievi confermano questa conclusione. L’amicizia particolare che esisteva fra i compaesani Simone Pietro e Giovanni di Zebedeo, esisteva anche fra Simone Pietro e il discepolo che Gesu’ amava (13, 24-26; 18, 15-16; 20, 2 segg.; 21,7. 20 segg.). Inoltre mentre Simone Pietro è nominato in questo vangelo ben una quarantina di volte, e spesso anche altri Apostoli, soltanto i fratelli Giacomo e Gio­vanni non vi sono giammai nominati, e solo una volta vi sono desi­gnati appellativamente come quelli di Zebedeo (21, 2); perché mai questa ignoranza, se specialmente Giovanni risulta dagli Atti come persona di somma autorità, e dallo stesso Paolo è ricordato subito dopo Pietro come una delle colonne della Chiesa (Galati, 2, 9)? E’ dunque un’ignoranza fittizia, dettata da modestia: è un riserbo si­mile a quello per cui Marco, “interprete” di Pietro, omette volen­tieri nel suo vangelo i fatti onorifici a Pietro (§ 134). Si vedrà in seguito se, ai caratteri dell’autore cosi svelato, corrispon­dano le qualità interne dello scritto. Adesso, invece, ascoltiamo che cosa l’antica tradizione dice di lui.

§ 156. Ai piedi della croce di Gesù, insieme con Maria madre di lui, stava Giovanni, e da quell’ora la prese il discepolo in (casa) sua (Giov., 19, 27). Dopo la Pentecoste, Giovanni appare a fianco a Pietro in Gerusalemme (Atti, 3, 1 segg.) e poi in Samaria (ivi, 8, 14). Recandosi Paolo nell’anno 49 a Gerusalemme, per partecipare al concilio apostolico, vi trova Giovanni (Gal., 2, 9; cfr. Atti, 15, i segg.). Dopo ciò il custode della madre di Gesù non compare più in Palestina; probabilmente ne era partito prima dell’anno 58, al­lorché tornando Paolo a Gerusalemme non si fa menzione di Giovanni (Atti, 21, 15 segg.). La successiva tradizione addita Giovanni in Asia Minore, ad Efeso, sul finire del secolo I Durante la perse­cuzione, mossa insieme contro Giudei e cristiani da Domiziano negli ultimi due anni del suo impero (anni 81-96), Giovanni fu relegato nell’isola di Patmos, ove scrisse l’Apocalisse. Morto Domiziano, tornò ad Efeso, ove visse durante l’impero di Nerva (anni 96-98) e una parte di quello di Traiano; morì vecchissimo, forse nell’anno settimo di Traiano, cioè nel 104, di morte naturale. La sua tomba era ve­nerata ad Efeso. Su questo fondo costante della tradizione si sovrapposero ben presto leggende e amplificazioni, favorite certo da quell’aura d’arcano pro­digio che doveva aver circonfuso, già nella sua longevità, colui ch’era stato il prediletto amico di Gesù e il suo spirituale biografo. Una traccia di siffatte leggende si ritrova in fondo allo stesso vangelo, ove sta scritto: Usci’ pertanto tra i fratelli questa parola “Quel di­scepolo non muore”. Tuttavia Gesu’ non gli disse “non muore”, bensi “Se io voglio ch’egli rimanga finché io vengo, che importa a te (Pietro)?” (21, 23). Dunque, fra gli ammiratori del vegliardo erano alcuni i quali credevano ch’egli, non tocco da morte, sarebbe rimasto unico superstite dei discepoli di Gesù fino alla nuova venuta gloriosa di lui: credenza pia ed affettuosa, ma che lo scrittore provvede a dissipare. Recentemente invece, si è fatto il tentativo inverso, essendosi ordita una regolare congiura per far morire Giovanni prima del tempo; alcuni studiosi, infatti, hanno supposto che egli sia stato ucciso nel 44 insieme con suo fratello Giacomo, o almeno in un anno imprecisato di poco posteriore. Questa sconcertante ipotesi, che merita appena d’esser presa in speciale considerazione, adduce come prove un passo evangelico interpretato arbitrariamente e un paio di testi incertissimi e tardivi, mentre a cuor leggiero respinge una con­gerie di testimonianze nettissime ed antiche; ma quei testi sono in realtà dei pretesti, mentre il vero motivo dell’ipotesi è di rendere impossibile l’attribuzione del IV vangelo a Giovanni l’apostolo.

§ 157. Ecco pertanto le più antiche attestazioni circa la presenza di Giovanni e il suo vangelo. Anche qui primo in ordine di tempo è Papia, sebbene la sua testimonianza questa volta sia più indiretta del solito e soltanto riassunta. La notizia che il vangelo fu pubblicato da Giovanni adhuc in corpore constituto, mentre smentisce, a morte avvenuta, la leggenda del­l’immortalità di Giovanni, vuole rilevare che lo scritto non fu pub­blicato postumo, come forse si potrebbe erroneamente concludere dalla sua finale. Verso l’anno 180 Ireneo, dopo aver parlato dei tre primi vangeli, soggiunse: Quindi Giovanni, il discepolo del Signore, quello che ri­posò pure sul petto di lui, anch’egli pubblicò il vangelo, dimorando in Efeso d’Asia; testo greco in Eusebio, Hist. eccl., v, 8, 4). Non vi può esser ragionevole dubbio che per Ireneo questo Giovanni, discepolo del Signore, sia l’apostolo che nell’ultima cena riposò sul petto di Gesu’ (Giov., 13, 23); ma il valore singolare d’Ireneo come testimonio su tale questione è dato dalla circostanza che egli da giovanetto, in Asia Minore, era stato uditore di Policarpo di Smirne, morto quasi novantenne nel 155, il quale a sua volta era stato uditore di Giovanni: cosicché da Ireneo si risale a Giovanni per il solo intermediario di Policarpo.

§ 158. Ma qui è da accennare ad una celebre questione, suscitata da un passo di Papia e dal commento che vi aggiunge Eusebio nel riportare il passo: cioè, se Ireneo non abbia confuso l’apostolo Gio­vanni con un suo omonimo. Papia dunque, volendo a principio del suo scritto manifestare la provenienza dei suoi insegnamenti, cosi’ si esprime: Se mai fosse venuto taluno ch’era stato al seguito dei presbiteri (o anziani) io interrogavo sui detti dei presbiteri, che cosa Andrea o che cosa Pietro disse, o che cosa Filippo, o che cosa Tommaso o Giacomo, o che cosa Giovanni o Matteo, o alcun altro dei discepoli del Signore, inoltre quelle cose che Aristione e il presbi­tero Giovanni, discepoli del Signore, dicono. Alla quale citazione di Papia (tradotta con fedeltà meticolosa) Eusebio fa seguire questo commento: Qui e’ anche opportuno rilevare che egli due volte enu­mera il nome di Giovanni, il primo dei quali egli cataloga insieme con Pietro e Giacomo e Matteo e gli altri apostoli, mostrando aper­tamente (che e’) l’evangelista: invece l’altro Giovanni egli colloca – facendo una distinzione nel ragionamento – tra gli altri fuor del nu­mero degli apostoli, mettendo avanti a lui Aristione e apertamente chiamandolo presbitero. Cosicché, pure da tali cose, e’ dimostrata vera l’informazione di coloro che hanno detto esservi stati due omo­nimi in Asia ed esistere in Efeso due tombe, dette anche adesso am­bedue di Giovanni. E’anche necessario fare attenzione a queste cose, poiché se taluno non ammette che sia stato il primo, e’ verosimile che sia stato il secondo, colui che ha contemplato l’Apocalisse che va in giro sotto il nome di Giovann; di qui Eusebio conclude che Ireneo, affermando che Papia è stato l’uditore di Giovanni e compagno di Policarpo, abbia scambiato Giovanni il Presbitero con Giovanni l’apostolo (ivi, 1-2). Infinite sono state le discussioni su questi testi, a cominciar da quella sull’esattezza della loro trasmissione. Prima di Eusebio, a quanto ci risulta, nessuno pensò all’esistenza di due Giovanni, salvo Dionisio d’Alessandria a mezzo il secolo III; il quale tuttavia attribuisce il vangelo all’apostolo e non al Presbitero (ivi, vii, 25, 7-16), come del resto fa pure Eusebio. Cedendo alla prima impressione che fanno le nude parole di Papia, verrebbe certo spontanea la distinzione di due Giovanni: ma questa prima impressione potrebbe anche esser fal­lace, per varie ragioni che sarebbe qui fuor di luogo ricordare. Ad ogni modo, anche se si preferisce distinguere due Giovanni, l’attri­buzione del vangelo a Giovanni l’apostolo non resta minimamente pregiudicata, come appare già dall’opinione di Dionisio e di Eusebio, il quale ultimo aveva sott’occhio l’intero scritto di Papia. Quand’an­che si dimostrasse con certezza che Ireneo abbia confuso due Gio­vanni diversi, altrettanto non si potrebbe davvero dire di Policarpo ch’era stato in relazioni personali con Giovanni; come d’altra parte all’apostolo Giovanni, indipendentemente dall’esistenza di un altro Giovanni, è attribuito il vangelo dalle attestazioni di altre chiese d’Asia e d’Occidente, le quali – checché si sia congetturato recen­temente – non sono in alcuna maniera sotto l’influenza di Ireneo.

§ 159. Non è sotto tale influenza la testimonianza di Policrate che, non solo era vescovo di Efeso e scriveva a nome di altri vescovi d’Asia, ma era egli stesso l’ottavo vescovo di sua famiglia, e perciò erede di antiche tradizioni. Egli dunque, scrivendo al papa Vittore in Roma (anni 189-199), ricorda Giovanni, quello che riposò sul pet­to del Signore, che fu sacerdote portante il “petalon”, e martire e maestro: costui s’addormentò in Efeso (in Eusebio, Hist. eccl., v, 24, 3). L’accenno al petalon è un’applicazione simbolica della veste li­turgica riservata nell’Antico Testamento al sommo sacerdote (cfr. Esodo, 28, 36; 39, 30); il resto è chiaro, anche il termine martire impiegato in senso largo, come già accennammo (§ 156, nota) e come è confermato dal seguente s’addormentò. Veramente si è asserito che anche Policrate abbia confuso i due Giovanni, ma l’asserzione non è stata in alcun modo provata. In Occidente, la tradizione della chiesa di Roma è rappresentata specialmente dal Frammento Muratoriano (§ 136), che sul IV van­gelo si diffonde più che sugli altri scritti. Eccone il passo relativo, corretto anche questa volta dagli errori più grossolani: Quantum evangeliorum Johannis ex discipulis. Cohortantibus condisci pulis et episcopis suis dixit: Conieiunate mihi hoc triduo, et quid cui que ‘uerit revelatum, alterutrum nobis enarremus. Eadem nocte revela­tum Andrea’ ex apostolis, ut reco gnoscentibus cunctis Johannis suo nomine cuncta describeret. Et ideo, licet varia singulis evangeliorum libris princi pia doceantur, nihil tamen diflert credentium fidei, cum uno ac principali Spiritu declarata sint in omnibus omn… Quid ergo mirum” si fohannes tam constanter singula etiam in epistulis suis pro fert, dicens in semetipsum “Qua’ vidimus oculis nostris, et auribus audivimus, et manus nostra’ palpaverunt, hac scripsimus vobis” (cfr. I Giov., 1, 1)? Sic enim non solum visorem se et audito­rem, sed et scriptorem omnium mirabilium Domini per ordinem profitetur. In questa testimonianza si ritrovano elementi certo leg­gendari – come il patto fra Giovanni e i discepoli, e l’apparizione ad Andrea – che fantasticano forse sui dati di Giov., 21, 24; ma vi si ritrova anche una chiara preoccupazione polemica, per cui questo tratto riguardante il IV vangelo si estende ad una straordinaria lun­ghezza (che noi abbiamo anche accorciata). Senza dubbio tale pole­mica era diretta contro i rimasugli della scuola del prete romano Caio, il quale, per opporsi ai Montanisti che si facevano forti so­prattuto del IV vangelo, l’aveva respinto; ai seguaci di Caio fu per­ciò dato l’appellativo di Alogi, cioè privi di “logos”, giacché il IV vangelo è appunto il vangelo del Logos divino, ma l’appellativo va­leva anche in senso non teologico come privi di ragione, cioè del logos umano.

§ 160. L’Egitto è rappresentato da Clemente Alessandrino; il quale, immediatamente appresso all’ultimo suo tratto che citammo a pro­posito del vangelo di Marco (§ 130) aggiunge Ultimo, pertanto, e’ Giovanni: vedendo che negli evangeli (precedenti) erano state ma­nifestate le cose corporee, spinto dagli amici, divina­mente portato dallo Spirito produsse un vangelo spirituale. Anche in questa affermazione Clemente, più che parlare del proprio, riporta la tradizione degli an­tichi presbiteri a cui si appella (ivi, 5); d’altra parte egli concorda col Frammento Muratoriano, almeno genericamente, ritenendo che Giovanni scrisse per esortazione altrui: nè si può dubitare che il Giovanni di Clemente sia l’apostolo, come è dimostrato fra altro dall’episodio del giovane pervertitosi e poi convertito da Giovanni, che Clemente narra nel Quis dives salvetur, 42, e ch’è riportato da Eusebio (Hist. eccì., III, 23, 6 segg.). L’appellativo di vangelo spirituale, in contrapposto a corporeo, risente della nota distinzione antropologica (corpo, anima, spirito) comune nell’ellenismo, ma coglie nel segno nel definire l’indole del IV vangelo, e perciò trovò molta for­tuna in seguito. Le testimonianze fin qui viste sono le principali, ma non tutte, dei primi due secoli; sarebbe pertanto inutile scendere lungo il secolo III, perché nessuno nega che già alla fine del II secolo Giovanni l’a­postolo fosse ritenuto concordemente quale autore del IV vangelo. Inoltre oggi sarebbe anche inutile elencare le varie tracce che di questo vangelo si trovano già nella prima metà del secolo i, sia presso scrittori ortodossi, uali Ignazio d’Antiochia, Giustino mar­tire e altri, sia presso i vari maestri della gnosi quali Valentino, Era­cleone, ecc., e presso lo stesso Marcione; oggi la segnalazione di tali tracce sarebbe inutile, perché è dimostrato in maniera lampante che il IV vangelo circolava in Egitto già verso l’anno 130. Oltre al papiro (Egerton), di cui già parlammo (§100) e che tra­disce una indubbia dipendenza dal IV vangelo, è stato pubblicato nel 1935 un frammento di papiro contenente tratti di questo van­gelo. Il frammento è minimo, di circa 8 centimetri, e contiene solo pochi versetti relativi al dialogo di Gesù con Pilato (cioè Giov., 18, 31-33 e 37-38), ma la sua incomparabile importanza è data dalla sua antichità: i più competenti specialisti mondiali, consultati in proposito, sono convenuti nell’attribuire il frammento alla prima metà del secolo II, e più probabilmente ai primi decenni di quella metà che agli ultimi: come media, quindi, può valere l’anno 130. E poi da notare che il frammento, che faceva parte d’un intero codex (non d’un volumen), proviene dall’Egitto certamente, sebbene non se ne conosca il luogo preciso: quindi, nel detto anno, l’Egitto già co­nosceva questo scritto composto in Asia Minore. Si sottragga per­tanto dalla cifra 130 un numero d’anni proporzionato per permet­tere allo scritto nato in Asia di raggiungere l’Egitto, e di esservi ri­copiato e diffuso, e si otterrà la data che la tradizione assegna all’ori­gine del IV vangelo, cioè la fine del secolo I. E bastato quel misero cencio di papiro per dissipare le aprioristiche elucubrazioni di quegli studiosi che avevano sentenziato non essere il IV vangelo anteriore al 130, o al 150, o anche al 170: e non erano soltanto studiosi del secolo scorso, perché ancora nel 1933, quando cioè il papiro si trovava già in Europa benché inedito, il Loisy (La naissance du christianisme, pag. 59) affermava che il IV vangelo ave­va avuto due redazioni, di cui la prima e più antica cadeva fra gli anni 135-140 e la seconda fra il 150-160.

§ 161. Su un altro argomento importantissimo i nuovi ritrovamenti smentiscono giudizi arbitrari e tendenziosi. Per molti studiosi anche dei nostri giorni, il IV vangelo è un teorema teologico che conserva a mala pena le apparenze della storia (Loisy); ossia, è uno scritto allegorico e simbolico, che si muove nel mondo delle astrazioni mi­stiche e che tutt’al più solo apparentemente inquadra le sue scene in una cornice geografica, non senza manifesti contrasti con la vera topografia. Come al solito, questa condanna è stata motivata soprattutto da preconcetti filosofici; ma, per giunta, coloro che l’han­no pronunziata sono studiosi da tavolino, ben pochi di essi hanno visitato accuratamente o anche fugacemente la Palestina, e tutti ad ogni modo danno ben poco peso all’archeologia e alla geografia sto­rica. L’imprudenza è grave: tanto più che lo stesso Renan, che per primo ricorse a sopraluoghi geografici (benché a suo modo) per una biografia di Gesù, poté scrivere: La trama storica del quarto van­gelo e, secondo me, la vita di Gesu’ qual era nota al gruppo accen­trato attorno a Giovanni. Anzi, secondo la mia opinione, questa scuola sapeva diverse circostanze esteriori della vita del fondatore meglio del gruppo i cui ricordi hanno costituito i vangeli sinottici. Ma, nonostante questa non sospetta ammonizione, si continuò ad affermare che l’autore del IV vangelo era ignaro della topografia pa­lestinese, al punto da non avere un’idea chiara neppure della situa­zione di Gerusalemme (quest’ultima affermazione è di un dilettante italiano, che non mette neppure conto di nominare). La verità è precisamente al contrario. L’autore del IV vangelo di­mostra una conoscenza topografica più accurata di quella dei Sinot­ tici, e suole scendere in molte narrazioni a particolarità sorpren­denti, che avrebbe potuto omettere del tutto senza che la narrazione ne risentisse; se non le ha omesse, è perché si sentiva ben sicuro del fatto suo. Almeno una decina sono le designazioni di luoghi pale­stinesi che appaiono soltanto nel IV vangelo; di esse, non solo nessu­na è stata dimostrata falsa, ma varie sono state dimostrate precise ed esatte contro ogni aspettativa. Citiamo, come esempio, due o tre casi.

§ 162. In Giov., 2, 28, si parla di una Bethania di la’ dal Giordano, sconosciuta altronde; al contrario, in 11, 18, si ricorda che Bethania era soltanto a 15 stadi da Gerusalemme, cioè a circa 2800 metri, mentre da Gerusalemme per arrivare al Giordano, sono una quaran­tina di chilometri. – Senonché c’erano due Bethanie (come c’erano due Beth-lehem, e due Beth-horon, ecc.). La Bethania del Giordano era vicina ad un passaggio del fiume che si compiva su barca, don­de forse il suo nome (beth-onijjah, «casa della nave»); ma il luogo, per la stessa ragione, era chiamato anche Beth-abarah (« casa del passaggio »), come Origene legge in questo tratto invece di Betha­nia. Sul posto si sono trovate recentemente antiche installazioni. In 5, 2 (testo greco) si dice che a Gerusalemme, presso la Porta delle pecore o Probatica, c’era una piscina chiamata Bethzatha, o Bezetha, forse dal nome del quartiere; ma si aggiunge che questa Pi­scina aveva cinque portici. Era dunque recinta da un porticato pen­tagonale? Forma assai strana: la quale non ha mancato di suggerire a studiosi moderni che deve trattarsi di una scena tutta allegorica, in cui la piscina simboleggia la fonte spirituale del giudaismo, e i cinque portici rappresentano i cinque libri della Legge. – Senon­ché, anche qui, gli scavi recenti hanno fatto crollare tutto questo bel castello di fantasie allegorizzanti. Si è trovato, cioè, che la pisci­na era regolarmente recinta da quattro portici, formando un rettan­golo lungo 120 metri e largo 60; ma un quinto portico l’attraversava in mezzo, dividendola in due bacini (§ 384). In 19, 13 si narra che Pilato, mentre si svolgeva il processo, condus­se fuori Gesù e si assise su tribunale in un luogo chiamato Lithostro­tas, ma in ebraico Gabbatha. Dov’era questo luogo dal doppio no­me, di cui non si hanno altre notizie? – Precise notizie invece sono state fornite da scavi di qualche anno fa. I due nomi non preten­dono affatto di essere la traduzione etimologica l’uno dell’altro, ben­sì sono due equivalenti designazioni di uno stesso luogo: questo luo­go, ch’era sulla fortezza Antonia, è stato testé ritrovato, e archeolo­gicamente mostra tutti i caratteri dell’epoca di Erode il Grande, costruttore dell’Antonia (§ 578).

§ 163. Questa precisione riguardo alla topografia si ritrova anche n­guardo alla cronologia, quasi per dar ragione al noto assioma che i due occhi della vera storia sono la geografia e la cronologia. Confrontando la cronologia interna offerta dai Sinottici nella bio­grafia di Gesù, con quella offerta da Giovanni, si ha l’impressione che quest’ultimo vada in cerca d’occasioni per precisare e delimitare ciò che quelli hanno lasciato nel vago. Limitandosi ai Sinottici, sem­brerebbe che la vita pubblica di Gesù potesse restringersi entro un solo anno, e anche meno; Giovanni invece, ricordando espressamen­te tre differenti Pasque, estende quella durata almeno a due anni e qualche mese (§177). In 2, lì, si fa espressamente notare che l’inizio dei miracoli operati da Gesù fu quello delle nozze di Cana, cioè proprio un fatto non narrato dai Sinottici; e subito appresso (2, 13 segg.) si mette, quasi come primo atto solenne e autoritario della vita pubblica di Gesù, la cacciata dei venditori dal Tempio, mentre i Sinottici trattano di questo argomento solo pochi giorni prima della morte di Gesù. E in quale anno avvenne la cacciata dei venditori dal Tempio, com­putando da qualche insigne avvenimento della storia palestinese? Avvenne 46 anni dopo che si era cominciata la ricostruzione del “santuario” nel Tempio: ma anche ciò sappiamo solo da Gio­vanni (2, 20). Infine, se si legge il racconto della passione secondo i Sinottici, si conclude che Gesù ha celebrato con i suoi discepoli il banchetto della Pasqua ebraica la sera precedente al giorno di sua morte: quel ban­chetto, cioè, che legalmente doveva celebrarsi la sera del giorno 14 del mese Nisan, cosicché Gesù sarebbe morto il 15 Nisan. Giovanni invece ha cura di avvertire che, il mattino stesso del giorno in cui Gesù fu ucciso, i Giudei che in folla lo accusavano davanti a Pilato non avevano ancora celebrato il banchetto pasquale; infatti essi non entrarono nel pretorio affinché non si contaminassero, bensì mangiassero la Pasqua (Giov., 18, 28), giacché contaminandosi si sarebbero resi inabili a quella celebrazione da tenersi la sera stessa: in tal caso Gesù sarebbe morto il 14 Nisan, ma il suo banchetto della sera precedente non sarebbe stato quello legale della Pasqua ebraica. Non è questo il momento d’addentrarsi in questa celebre questione, per mostrare che i Sinottici e Giovanni possono avere egualmente ra­gione (§ 536 segg.): ma è ben opportuno far rilevare, ancora una volta, con quanta studiata fermezza Giovanni segua una sua propria cronologia, precisando ciò che gli evangelisti anteriori avevano lasciato imprecisato.

§ 164. Questi, del resto, sono soltanto alcuni tratti da cui risulta che il narratore scrive con una conoscenza tutta personale e diretta dei fatti, ma le prove potrebbero facilmente allungarsi di molto. Giovanni sa bene ciò che hanno raccontato i Sinottici, ma delibera­tamente vuoi battere una strada diversa dalla loro. Senza pretendere affatto di esaurire l’argomento (cfr. Giov., 21, 25), egli vuole sup­plire parzialmente a quanto i Sinottici non hanno narrato: il com­puto materiale dimostra che su 100 parti del IV vangelo, 92 non si ritrovano nei Sinottici. Qualche volta, tuttavia, i due racconti si corrispondono necessariamente a causa dell’argomento: ma anche in questi casi Giovanni appare spesso come il testimonio che vuole inte­grare e precisare. Ciò è chiarissimo nel racconto della passione. I Sinottici non hanno detto chi fosse quel discepolo che con un colpo di spada mozzò l’orecchio destro al servo del sommo sacerdote, né come si chiamasse il servo; Giovanni precisa che il discepolo fu Simone Pietro e che il servo si chiamava Malcho (18, 10). Arre­stato Gesù, sembrerebbe secondo i Sinottici che fosse condotto diret­tamente alla casa del sommo sacerdote Caifa; Giovanni vuol dissi­pare questa inesatta apparenza, ed informa che lo condussero presso Anna dapprima (18, 13) dandone subito appresso la ragione. – I Sinottici fanno che Pietro segua l’arrestato ed entri immediata­mente nell’atrio del sommo sacerdote; secondo Giovanni, invece, Pietro segue insieme con un altro discepolo ma si ferma dapprima fuori dell’atrio, mentre l’altro discepolo entra subito, e solo più tardi Pietro può entrare grazie all’intercessione del discepolo (18, 15-16). – Dal solo Giovanni e non dai Sinottici, si apprende che Pilato interroga Gesù nell’interno del pretorio, mentre i Giudei restano al di fuori; come pure solo Giovanni descrive la scena dell’Ecce homo, e riporta la discussione fra Pilato e i Giudei, mentre il primo anche dopo la flagellazione di Gesù tenta di liberarlo e i secondi si prote­stano fedeli sudditi di Cesare (18, 33 segg.; 19, 4 segg.). – Soltanto Giovanni fa sapere che a Gesù morto non fu praticato il crurifragio romano, ma che in sua vece gli fu squarciato il petto con una lan­ciata (19, 31-34). Subito appresso a quest’ultima notizia si aggiunge: E chi ha visto (ciò) ha testimoniato, e verace e’ la testimonianza di lui (19, 35); questo testimonio oculare è appunto il discepolo pre­diletto, la cui presenza ai piedi della croce, insieme con la madre di Gesu’, è stata ricordata poco prima egualmente dal solo Giovanni (19, 25-27). In tutti questi particolari, cosi minuziosi e realistici, non traspare in alcun modo nessuno di quei tanti sottintesi allegorici che taluni stu­diosi recenti v’insinuano di proprio arbitrio.

§ 165. Che Giovanni batta una strada diversa dai Sinottici, appare da tutto il contenuto. I Sinottici insistono sul ministero di Gesù in Galilea, Giovanni invece insiste sul ministero in Giudea e Geru­salemme. Soltanto sette miracoli di Gesù sono riferiti da Giovanni, ma di essi ben cinque non si trovano nei Sinottici. Più che ai fatti di Gesù, Giovanni fa posto ai ragionamenti dottrinali di lui, e spe­cialmente alle sue dispute con i maggiorenti Giudei. In questi discorsi, come nel restante dello scritto, affiorano frequentemente al­cuni concetti caratteristici, che presso i Sinottici sono ben rari o del tutto sconosciuti: tali i simboli Luce, Tenebra, Acqua, Mondo, Carne, o gli astratti Vita, Morte, Verità, Giustizia, Peccato. Ma Giovanni, se non segue la tradizione sinottica, non la perde mai d’occhio. Giustamente ha detto il Renan che Giovanni aveva una sua propria tradizione, una tradizione parallela a quella dei sinotti­ci, e che la sua posizione e’ quella d’un autore che non ignora ciò ch’e’ già stato scritto sull’argomento ch’egli tratta, approva molte delle cose già dette, ma crede d’avere informazioni superiori e le comunica senza preoccuparsi degli altri. Non è però tutto qui. Giovanni, pur nel suo silenzio, impiega la tra­dizione sinottica indirettamente, in quanto la presuppone già nota ai lettori; come, dall’altro lato, nei Sinottici non mancano allusioni che trovano la loro piena giustificazione solo nella tradizione di Gio­vanni. Si direbbe che le due tradizioni, cortesemente, si dicano a vicenda: Nec tecum, nec sine te. Nulla racconta Giovanni né della nascita di Gesù, né della sua vita privata; parla della madre di lui ma senza nominarla giammai, benché nomini altre Marie; riporta due volte l’espressione Gesù figlio di Giuseppe (1, 45; 6, 42), ma senza sentire la necessità di spiegare tale ambigua designazione; dice di scrivere per indurre a credere che Gesu’ e’ il Cristo, il figlio d’iddio (20, 31), e non accenna affatto alla scena della trasfigurazione sul Tabor che sarebbe stata opportunissima a quello scopo; riporta un lungo discorso taciuto dai Sinottici in cui Gesù si presenta come mistico pane celestiale (6, 25 segg.), e non ha una parola sull’effettiva istituzione dell’Eucarestia all’ultima cena. Eppuse, queste manchevolezze non sono manchevoli e queste incongruenze sono congruentissime, per la semplice ragione che Giovanni non vuol ripetere ciò ch’era già notorio, e fa asse­gnamento sulla conoscenza che i suoi lettori già avevano della tra­dizione sinottica. Ma, alla sua volta, anche la tradizione sinottica presuppone quella di Giovanni. Pochissimo dicono i Sinottici, e specialmente i primi due, del ministero di Gesù a Gerusalemme; tuttavia due di essi ri­portano la deplorazione di Gesù: Gerusalemme, Gerusalemme, uc­cidente i profeti e lapidante gl’inviati ad essa! Quante volte volli coadunare insieme i tuoi figli, alla maniera che una gallina coaduna i suoi pulcini sotto le ali, e (voi) non voleste! (Matteo, 23, 37; Luca, 13, 34). Dalle sole narrazioni dei Sinottici non si riuscirebbe a giu­stificare l’esclamazione Quante volte volli…! perché essi trattano quasi esclusivamente il ministero di Gesù in Galilea. Giovanni in­vece, narrando non meno di quattro viaggi di Gesù a Gerusalemme, giustifica in pieno quell’esclamazione. Perciò i Sinottici presuppon­gono tacitamente la tradizione di Giovanni, e alla loro volta le ripe­tono: Nec tecum, nec sine te. § 166. Che l’autore del IV vangelo sia un Giudeo d’origine, appare anche dal suo stile e dal suo modo d’esporre; tanto che alcuni mo­derni hanno supposto, esagerando, ch’egli abbia scritto originaria­mente in aramaico. In realtà egli spesso impiega, oltre ad espressioni semitiche, come godere di gaudio (3, 29), figlio della perdizione (17, 12), ecc., anche voci semitiche, ma che regolarmente traduce in greco per farsi capire dai suoi lettori, come Rabbì e Rabbonì (1, 38; 20, 16), Messia (1, 41), Kefa (1, 42), Siloam (9, 7), ecc. Anche il pe­riodare è grecamente povero, elementare, alieno da ogni costruzione complessa e subordinata; ma, al contrario, vi si osserva una spiccata tendenza a quel parallelismo di concetti che è base della forma poe­tica ebraica. Ad esempio: Non è servo maggiore del signore di lui, nè messo maggiore di chi inviò lui… Chi accoglie alcuno, se io lo mando, accoglie me, e chi accoglie me, accoglie chi inviò me (13, 16… 20) La donna, quando partorisca, ha tristezza, perché venne l’ora di lei: ma quando partorì il bambino, piu’ non rammenta l’angustia per il gaudio che è nato un uomo nel mondo (16, 21) Ia forma paratattica e slegata rende spesso difficile di rintracciare l’occulta connessione dei pensieri; ma, in compenso, il suo procedere sentenzioso e solenne infonde a tutto il discorso un’arcana maestà ieratica, che colpisce il lettore fin dal principio dello scritto: In principio era il Lagos, e il Lagos era presso Iddio ed era Dio il Logos. Costui era in principio presso Iddio: tutte le cose per mezzo di lui furono, e senza lui non fu neppure una cosa ch’e stata. In lui era Vita, e la Vita era la Luce degli uomini: e la Luce nella Tenebra apparve, e la Tenebra non la comprese… Era la Luce vera, la quale illumina ogni uomo venendo (ella) nel mondo. Nel mondo era, e il mondo per lui fu, e il mondo non lo conobbe…E il Logos carne divenne, e s’attendò fra noi (1, 1… 14)

§ 167. Ma appunto questo solennissimo inizio è servito da inizio a un lungo elenco di difficoltà. Come poteva l’incolto pescatore di Bethsaida elevarsi a concetti cosi sublimi? Come poteva, egli solo fra tutti gli scrittori del Nuovo Testamento, spingersi a proclamare l’identità dell’uomo Gesù non solo con il Messia ebraico ma perfino con l’eterno Logos divino? In qual maniera passò egli, dalle astuzie della pesca, a speculare sulle finezze concettuali di quel Logos di cui tanto avevano ragionato l’antica filosofia greca e la contemporanea alessandrina? Come mai il Gesù da lui tratteggiato è cosi diverso da quello dei Sinottici, e cosi trascendente, cosi “divino”? Don­de provengono quei discorsi di Gesù, così ampi e così ricchi di astra­zioni e allegorie? Donde quei dialoghi in cui gl’interlocutori di Gesù fanno la figura di pulcini che si sentano sollevati tra le nuvole dall’artiglio dell’aquila, e sbalorditi rispondono con goffaggini, come fanno Nicodemo e la Samaritana, e spesso gli stessi discepoli? Que­ste e molte altre considerazioni sono fatte, per poi concluderne che tutto lo scritto non può essere opera del pescatore di Bethsaida: esso quindi riassumerà le mistiche speculazioni di qualche solitario filo­sofo che ha religiosamente idealizzato il Gesù storico, non senza impiegare concetti che provenivano dal platonizzante giudaismo ales­sandrino, o dal sincretismo ellenistico, o dalle religioni misteriche, o anche dal Mandeismo. Che questa attribuzione ad uno sconosciuto sia in contrasto con le più antiche testimonianze storiche, è cosa più che evidente; ma ciò non disturba i suoi sostenitori, i quali non attribuiscono molto peso a quelle testimonianze, salvo che esse sembrino deporre in loro favore, come nel caso del presunto martirio di Giovanni (§ 156) giacché in casi siffatti quegli abituali scettici dei documenti si precipitano su testi miserevolissimi millantandone l’mportanza. Ad ogni modo si può domandare perché mai nelle condizioni del soli­tario filosofo sconosciuto non possa essersi ritrovato proprio Giovan­ni di Bethsaida. Egli era pescatore, è vero: ma da accenni dei vangeli sembra che suo padre Zebedeo fosse un agiato possessore di barche, e quindi poteva aver fatto impartire a suo figlio una certa istruzione meto­dica. Checché sia di ciò, era perfettamente nelle abitudini palesti­nesi coltivare l’erudizione e nello stesso tempo praticare un mestie­re. S. Paolo lavorava con le sue mani; e prima e dopo di lui lavorarono il celebre Hillel che guadagnava solo mezzo “denaro” al giorno, e Rabbi Aqiba ch’era spaccalegna, e Rabbi Joshua ch’era carbonaio, e Rabbi Meir ch’era scrivano, e Rabbi Johanan ch’era calzolaio, e tanti altri che formarono tra i dottori talmudici la mag­gioranza, mentre la minoranza era formata da uomini facoltosi che non avevano bisogno di esercitare un mestiere. Se l’ardente Giovanni, vero figlio del tuono (Marco, 3, 17), si rnise ancor giovanissimo alla sequela dapprima di Giovanni il Battista e poi di Gesù, poté restar privo di quest’ultimo maestro nell’età di poco più che vent’anni. Allora egli, fedele alle usanze della sua re­gione, si concentrò nello studio della Legge, ma non già di quella investigata nelle contemporanee scuole rabbiniche, bensì di quella nuova Legge di perfezione e di amore ch’era stata proclamata dal suo ultimo maestro, e i cui ricordi – anche senza ch’egli scrivesse nulla – si conservavano nettissimi nel suo spirito. Nell’archivio della memoria, ch’era l’unico archivio che funzionasse anche nelle scuole rabbiniche d’allora (§§ 106, 150), Giovanni poté svolgere durante lunghissimi anni un amoroso lavorio attorno a quei tesori depositativi dallo scomparso maestro; il quale, come aveva avuto per il giovanissimo discepolo una predilezione particolare, così’ doveva avergli fatto confidenze e comunicazioni particolari. Da questo lavorìo di redazione mentale e di pratica sistemazione sorse la “catechesi” particolare a Giovanni, diversa ma non contraria a quella di Pietro e dei Sinottici, parzialmente suppletiva rispetto ad essa, parzialmente esplicativa, e soprattutto meglio rispondente alle nuove condizioni esterne del messaggio cristiano.

§ 168. Anche la catechesi di Giovanni, infatti, già elaborata men­talmente prima di essere scritta, deve aver vissuto vari decenni di vita soltanto orale. Mentre il discepolo meditava sui ricordi del mae­stro, li comunicava anche ai fedeli affidati alle sue cure, dapprima in Palestina, e poi in Siria e in Asia Minore. Ora, in questi nuovi campi d’azione Giovanni, inoltrato ormai negli anni e sempre più autorevole per la graduale scomparsa degli altri Apostoli, incontrava ostacoli di nuovo genere; non si opponevano più le vecchie conventicole di cristiani giudaizzanti che tanto ave­vano molestato Paolo, bensi’ erano le varie correnti di quella gnosi, in gran parte precristiana, che sul declinare del secolo I comincia­vano ad infiltrarsi nell’alveolo del cristianesimo. Contro tali correnti bisognava far argine; e Giovanni, dai forzieri dei suoi ricordi, estrae­va sempre nuovi e più adatti materiali per rendere particolarmente efficace la sua propria catechesi contro la nuova minaccia. Un certo giorno – come possiamo già astrattamente supporre, e co­me effettivamente attestano il Frammento Muratoriano e Clemente Alessandrino (§§ 159,160) – i discepoli del vegliardo lo forzano amo­revolmente per ottenere in iscritto la parte essenziale di quella sua catechesi. Giovanni la detta; ma in fondo a tutto lo scritto sarà ap­posta, a guisa di sigillo, una dichiarazione collettiva d’autenticità rilasciata unitamente da chi aveva concesso e da chi aveva richiesto lo scritto Costui e’ il discepolo che testimonia circa queste cose e scrisse que­ste cose: e (noi) sappiamo che vera e’ la testimonianza di lui (21, 24).

§ 169. Questa preistoria spiega l’indole speciale dello scritto di Giovanni, già chiamato il vangelo spirituale per eccellenza. In tutte le maniere esso fa risaltare la trascendenza e la divinità del Cristo Gesù, perché questo era il principale suo scopo (20, 31) contro la gnosi di provenienza pagana: di qui il suo particolare carattere. Ma la medesima tesi, sviluppata più parcamente o anche solo appe­na abbozzata, si ritrova già nei Sinottici, e specialmente in Marco brevissimo fra tutti, com’è riconosciuto da parecchio tempo da cri­tici radicalissimi (i quali perciò scompongono Marco in vari strati, ripudiandone le parti “soprannaturali” e “dogmatiche”). Giovan­ni avrà enormemente accresciuto, ma non ha innovato; fra le mol­tissime cose che si sarebbero potute dire di Gesù (cfr. 21, 25), egli studiosamente trascelse taluni particolari fino al suo tempo non detti ma proprio allora opportunissimi a dirsi, senza però inventarli, e li unì’ con altre notizie già comuni e diffuse. Ne risultò un Gesù più illuminato di luce divina, ma fu in conseguenza della scelta di Gio­vanni: come il Gesù dei Sinottici è figura più umana, ma egual­mente in conseguenza della scelta dei Sinottici. Ciascun biografo ha delineato il biografato dal punto di vista da cui lo ha contemplato: e lo ha delineato tutto, sebbene non totalmente, perché nessuno di essi ha preteso riprodurre tutti i singoli tratti della sua figura. Se i discorsi e i dialoghi di Gesù nel IV vangelo sono straordinariamente elevati, non per questo sono meno storici di quelli dei Sinot­tici. Sarebbe antistorico supporre che Gesù parlasse in un medesimo tono sempre e in ogni occasione, sia quando si rivolgeva ai monta­nari della Galilea con cui lo fanno parlare di solito i Sinottici, sia quando discuteva con i sottili casuisti di Gerusalemme, con cui per lo più lo fa pariare Giovanni. Prescindendo poi dall’elevatezza dei concetti, il metodo seguito nelle discussioni con gli Scribi e i Fari­sei mostra numerose analogie con i metodi seguiti nelle dispute rab­biniche di quei tempi: dotti Israeliti moderni, particolarmente ver­sati nella conoscenza del Talmud, hanno sagacemente rilevato siffat­te analogie, considerandole come una collettiva conferma del carat­tere storico dei discorsi del IV vangelo. Anche rivolgendosi ai suoi discepoli, Gesù deve aver parlato in toni differenti: più semplice­mente ai primi tempi in cui lo seguivano, più complessamente in se­guito, per sollevarsi fino ad altezze non mai ancora raggiunte pronunziando il discorso di commiato all’ultima cena. Inoltre, fra i discepoli stessi egli dovette avere i suoi intimi e prediletti, a cui doveva riservare confidenze che non comunicava agli altri (cfr. 13, 21-28): intimo fra questi intimi era, come già sappiamo, Giovanni, il quale perciò, anche dal semplice punto di vista storico, fu un testimonio superiore ad ogni altro.

§ 170. E questo singolare testimonio comincia il suo scritto affer­mando che Gesù è il divino Logos fattosi uomo. Ma anche in que­sta affermazione egli mostra il suo senso storico, sebbene applicato ad una visione teologica dei fatti: quel Logos che è dall’eternità presso Dio, è diventato uomo pochi anni fa, e contemplammo la gloria di lui, gloria come di unigenito da Padre (1, 14). Giammai però il ve­race testimonio, scrupoloso nella sua storicità, afferma che Gesù si sia chiamato da se stesso Logos: egli solo, Giovanni, lo chiama con questo nome, sia nel prologo al vangelo, sia in quella sua lettera che si può ben considerare come uno scritto d’accompagnamento al van­gelo (I Giovanni, 1,1), sia nell’Apocalisse (19, 13). In tutto il Nuovo Testamento il termine personale Logos occorre in questi tre soli luoghi. Se ne può concludere che il termine non era usato nè dalla catechesi che metteva capo a Pietro, nè da quella che metteva capo a Paolo: al contrario, nella catechesi orale di Giovanni il termine doveva essere abituale, giacché egli l’impiega fin dalle prime righe senza spiegazione alcuna, certamente supponendolo già noto ai suoi lettori. Il termine, come nuda voce, era già noto alla filosofia greca dai tem­pi di Eraclito in poi: ma al medesimo termine corrisposero lungo i secoli concetti differenti, o presso i Sofisti o presso i Socratici (logi­ca) o presso gli Stoici. Gran parte fece al Logos nelle sue speculazio­ni anche il giudeo alessandrino Filone, ma il suo concetto del Logos è differente da quello dei Greci, e si avvicina piuttosto a quello del­la “Sapienza” dell’Antico Testamento: a quest’ultimo si avvicina anche il concetto dei termini Memra e Dibbura, col senso di parola (di Dio), che si trovano frequentissimi nei Targumin giudaici ma non nel Talmud. In Samaria, poi, Giovanni fu in relazione col più an­tico gnostico cristiano a noi noto, Simone Mago (Atti, 8, 9 segg.), il quale nel suo sistema – qualora se ne accetti l’esposizione fatta da Ippolito (Refut., vI, 7 segg.) – aveva incluso, invece del Logos, il Logismos, che faceva parte della terza coppia di eoni: ed emanata dal Supremo Principio.

§ 171. Fino a pochi anni addietro si affermava fiduciosamente che Giovanni avesse desunto il concetto del suo Logos dall’una o l’altra delle teorie suaccennate, ma più comunemente da Filone. In realtà il Logos di Giovanni, ipostasi essenzialmente divina ed increata, è tutt’altro dal Logos di Filone, che appare come un essere fluttuante fra la personalità e l’attributo divino, e fungente quasi da tratto in­termedio fra Dio immateriale e il mondo corporeo. Ad ogni modo sarebbe oramai inutile insistere su ciò, poiché la differenza fra i due concetti di Logos è stata riconosciuta recentemente dagli studiosi più radicali: lo stesso Loisy, che nella sua prima edizione del com­mento al rv vangelo (1903, pagg. 121-122) aveva sostenuto non po­tersi negare l’influenza parziale delle idee liloniane su Giovanni, nella seconda edizione (1921, pag. 88) ha giudicato improbabile una di­pendenza letteraria da Filone ritenendo che il Logos di Giovanni faccia piuttosto seguito alle personificazioni della Sapienza nell’An­tico Testamento. E ciò che, già da secoli, avevano detto i vecchi Scolastici. Anche della dipendenza del Logos di Giovanni dal Mandeismo, non mette conto di parlare: questa teoria è stata un fuoco di paglia che qualche anno fa divampò per breve tempo, ma di cui oggi restano soltanto fredde ceneri (§ 214). E’ dunque da concludersi che il concetto del Logos di Giovanni è proprio esclusivamente a lui, e non trova vere corrispondenze in con­cetti anteriori. Quanto alla voce con cui Giovanni espresse questo suo concetto, sembra che egli la impiegasse perché, trovandola adatta al concetto e divulgata già nel mondo greco-romano, volle avvicinarsi almeno per la strada della terminologia a quel mondo, e cosi gua­dagnarlo al Logos Gesù. Egli quindi diventò greco con i Greci, come egualmente Paolo diventava tutto con tutti, con Giudei e con non Giudei, per guadagnare tutti alla buona novella (I Cor., 9, 19-23). Si narra che Cristoforo Colombo, allorché nelle sue navigazioni era colto da qualche tempesta, usasse collocarsi sulla prora della nave, e là ritto recitasse al cospetto del procelloso mare l’inizio del van­gelo di Giovanni: In principio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum… omnia per ipsum facta sunt… Sugli elementi perturbatori del creato risonava il preconio del Logos creatore: era l’esploratore del mondo che commentava a suo modo l’esploratore di Dio.

Vita di Gesù 6ultima modifica: 2010-08-26T16:25:00+02:00da meneziade
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