DALLA PRIMA PASQUA FINO ALLA SECONDA
I mercanti del Tempio
§ 286. Dal battesimo di Gesù erano trascorsi pochi mesi: ormai era vicina la Pasqua del nuovo anno che, secondo le nostre preferenze giustificate a suo luogo (§ 176), era l’anno 28 dell’Era Volgare. Per questa Pasqua Gesù aveva deciso di compiere il pellegrinaggio (§ 74), perciò partì da Cafarnao alla volta di Gerusalemme. Giunto nella capitale e recatosi al Tempio, egli si trovò davanti alla solita scena che avveniva colà più che mai in occasione delle grandi feste. L’atrio esterno del Tempio era diventato una stalla appestata dal fetore del letame, e risonava del muggito dei bovi, del belato delle pecore, del pigolar dei colombi, e soprattutto delle alte grida dei mercanti e dei cambiavalute istallatisi per ogni dove (§ 48); da quell’atrio si poteva solo remotamente udire una debole eco dei canti liturgici che s’innalzavano al di dentro e intravedere un debole chiarore della lontana luminaria sacra. Altri segni religiosi non apparivano in quel vasto recinto, che si sarebbe detto una fiera di bestiame e un convegno di truffatori, piuttosto che l’anticamera della casa ove abitava l’immateriale Dio d’Israele. Gesù era stato certamente testimone di tale scena altre volte nei suoi precedenti pellegrinaggi a Gerusalemme, ma allora la sua vita pubblica non era ancora cominciata; adesso invece la sua missione doveva svolgersi in pieno, ed egli doveva agire come avente autorità (Matteo, 7, 29; Marco, 1, 22) anche per dimostrare la sua missione. Riunite perciò delle corde a mazzo, si dette a percuotere bestie e uomini, rovesciò tavoli di cambiavalute, sparpagliò a terra mucchietti di monete, scacciò via tutti liberando il sacro recinto: Fuori di qua! Non fate la casa del Padre mio casa di traffico! (Giov., 2, 16). – Non sta scritto “La casa mia casa di preghiera sarà chiamata per tutte le genti”? (Isaia, 56, 7). Voi invece l’avete ridotta a spelonca di ladroni (Marco, 11, 17). Già sei secoli prima il profeta Geremia aveva visto il Tempio ridotto a spelonca di ladroni (Ger., 7, 11); ma i sacerdoti e i magistrati sacri contemporanei a Gesù dovevano pensare che la voce di Geremia era troppo lontana, mentre troppo vicino era il vantaggio che l’amministrazione del Tempio ricavava da tutto quel mercanteggiare perché fosse conveniente farlo cessare. E Gesù lo fece cessare a suon di flagelli.
§ 287. In teoria non c’era nulla da eccepire, come ben vedevano gli stessi Farisei; ma in pratica si poteva sempre domandare a Gesù perché aveva compiuto egli personalmente quell’atto di autorità, e non aveva invece invitato a compierlo i magistrati che avevano la direzione del Tempio. Chi aveva dato a lui l’autorità di far ciò? Anzi, più ampiamente, perché mai egli piovuto giù dalla Galilea aveva preso, come appariva dalle sue prime azioni, un atteggiamento del tutto indipendente dalle autorità costituite e molto simile a quello di Giovanni il Battista? Gli si avvicinarono pertanto alcuni Giudei, certamente insigni, e gli dissero: “Quale segno ci mostri che fai ciò (legittimamente)?“. Rispose Gesu’ e disse loro: “Demolite questo santuario, e in tre giorni lo farò sorgere!”. Dissero pertanto i Giudei: “In quarantasei anni fu costruito questo santuario, e tu in tre giorni lo farai sorgere?”. Già vedemmo che questa risposta dei Giudei contiene un’indicazione molto importante per stabilire la cronologia della vita di Gesù (§ 176); ma la stessa risposta mostra anche che quegli interlocutori non avevano capito a che cosa alludesse Gesù, e con essi certamente anche l’evangelista testimonio che narra questo fatto. I Giudei avevano chiesto un segno ossia un miracolo: ciò era troppo, perché l’azione di Gesù si giustilicava da se stessa, tanto più che i magistrati del Tempio avevano trascurato d’intervenire per far cessare quella profanazione come sarebbe stato loro dovere. Ad ogni modo, essendo stata chiamata in causa la missione di Gesù, egli ne offre una prova vera e reale ma che sarà compresa soltanto dopo molti mesi, mentre al presente non appagherà affatto la curiosità maligna degli interroganti. Il santuario a cui alludono le parole di Gesù è il suo stesso corpo; quando i Giudei avranno disfatto quel santuario vivente, egli lo farà sorgere di nuovo entro tre giorni. Pronunziando queste parole, può darsi che Gesù abbia anche accennato a se stesso con un gesto; comunque fosse, tutti gli ascoltatori pur non comprendendo la risposta se ne ricordarono più tardi, i Giudei per accusare Gesù (§ 565), i suoi discepoli per credere in lui riconoscendo nella sua resurrezione il segno offerto agli interroganti (Giov., 2, 22). Sebbene i maligni non fossero stati appagati da Gesù nella loro richiesta del segno, tuttavia già in quella sua prima permanenza pasquale in Gerusalemme, molti credettero nel nome di lui, vedendo i segni di lui che faceva (Giov., 2. 23). Ma più che fede di cuore, era fede di cervello, mentre Gesù cercava assai più quella che questa; perciò anche non affidava se stesso a loro, perché egli conosceva tutti (Giov., 2,24), mentre agli incolti ma generosi discepoli della Galilea egli si era affidato. Ad ogni modo anche La fede di cervello è preparazione ed invito a quella di cuore, e appunto qui l’evangelista “spirituale” fa assistere ad un colloquio tra uno che aveva già fede di cervello e Gesù che invece lo solleva in tutt’altra sfera: pare di assistere ad una scena di un pulcino sollevato sopra le nubi dell’aquila, ed è scena prediletta dell’evangelista “spirituale” che la riprodurrà in altre occasioni. (§ 294)
Nicodemo
§ 288. C’era allora in gerusalemme un insigne Fariseo e “maestro” della Legge, uomo onesto e di rette intenzioni; ma era anche membro del Sinedrio, e questa sua condizione sociale imponeva evidentemente molta cautela e prudenza alla sua condotta pubblica. Si chiamava Nicodemo: il nome ritorna negli sritti rabbinici, ma è ben difficile che designi la stessa persona di qui. A vedere i segni fattio da Gesù, egli rimane scosso; forse era stato dei pochi Farisei che avevano riconosciuto la missione del precursore Giovanni accettandone il Battesimo. D’altra parte la sua condizione sociale, e più ancora la sua formazione intellettuale farisaica, gli consigliavano oculato riserbo di fronte all’ignoto traumaturgo. Fra questo ansioso contrasto egli prende una via di mezzo, e si reca a visitare Gesù di notte: alla penombra d’una lucerna si ragiona con più raccoglimento, e soprattutto non si è facilmente riconosciuti da estranei. Il colloquio fu lungo e forse si protrasse per tutta la notte, ma l’evangelista “spirituale” ne riferisce solo i punti più salienti che meglio rispondevano agli scopi del suo vangelo “spirituale”. Cominciò Nicodemo, e riferendosi a ciò che l’aveva scosso intimamente disse a Gesù: Rabbi, sappiamo che da Dio sei venuto (quale) “maestro”, poiché nessuno può fare questi “segni” che tu fai se non sia Iddio con lui. L’onesto Fariseo riconosceva che la missione di Gesù non era umana, ma proveniva da una sfera più alta cioè divina. Gesù gli rispose ricollegandosi a questa allusione: In verità, in verità ti dico, se alcuno non sia nato dall’alto, non può vedere il regno d’Iddio. Nicodemo era troppo intelligente per interpretare queste parole in senso materiale: anche i suoi colleghi rabbini parlavano di rinascita in senso spirituale applicandola specialmente a chi si riavvicinava al Dio d’Israele o dall’empietà o dal paganesimo, e altrettanto faceva con diverso impiego Filone in Alessandria. Ma a Nicodemo sfuggiva appunto il senso racchiuso nelle parole di Gesù, e quindi per provocarne la spiegazione s’atteggia a ottuso di mente: Come può nascere un uomo che sia vecchio? Può forse entrare nel ventre di sua madre una seconda volta e (ri)nascere? Senonché il finto ottuso è più acuto di quanto sembri: egli s’impanca a giudice della dottrina che Gesù sta per esporgli, ma Gesù gli risponde in modo da ricondurlo alla sua condizione di ignaro apprendista; non si può “vedere il regno d’Iddio” se non si è già entrati in esso, e l’entrarvi non è effetto d’industrie umane: In verità, in verità ti dico, se alcuno non sia nato da acqua e (da) Spirito, non può entrare nel regno d’Iddio. Ciò ch’e’ nato dalla carne, e’ carne; e ciò ch’e’ nato dallo Spirito, e’ spirito. In ebraico spirito significava anche soffio (di vento); Gesù prende occasione del doppio significato per soggiungere un esempio materiale: Non ti meravigliare perché ti dissi “Bisogna che voi nasciate dall’alto”; (anche) il soffio (di vento) dove vuole soffia e il rumore di esso (tu) ascolti, ma non sai donde e dove va. Casì è (di) chiunque e’ nato dallo Spinto. Benché incontenibile ed invisibile il soffio del vento è reale nel campo fisico; così nel campo morale, l’azione dello Spirito divino non è moderabile da argomenti umani né è scrutabile nella sua essenza, ma ben si manifesta nei suoi risultati. Questo Spirito fa nascere ad una vita nuova invisibile, in maniera tale che ricorda come la prima vita visibile del cosmo si sprigionasse dalla materia bruta e insieme dal soffio di Dio che si librava sulle acque del caos (Genesi, 1, 2). L’allusione al battesimo di Giovanni è chiara, e forse nel colloquio fra i due se ne parlò esplicitamente se anche Nicodemo aveva ricevuto quel rito; ad ogni modo la vita nuova qui annunziata da Gesù come data dallo Spirito e dall’acqua non è prodotta dal rito di Giovanni, ch’era soltanto di acqua e prefigurativo, bensì dal rito adempitivo amministrato in acqua e Spirito santo: questo secondo era il battesimo di Gesù, a testimonianza dello stesso precursoie Giovanni (Matteo, 3, 11 e paralleli; Giovanni, 1, 33).
§ 289. Il paragone fra l’azione dello Spirito e quella del vento ha trasportato Nicodemo in un mondo a lui ignoto, in cui il Fariseo si sente sperduto. Cessa allora d’atteggiarsi a finto ottuso, ma ancora non si vuol riconoscere ignaro apprendista, e con sincerità non priva d’una certa sfiducia esclama: Come può avvenire ciò? La replica di Gesù s’inizia con una spontanea riflessione sull’ufficio di Nicodemo: Ma come? Tu sei il «maestro» d’Israele, e non sai queste cose? E che cosa insegni, se non tratti dell’azione dello Spirito sugli spiriti? – Dopo questo inizio il discorso di Gesù si dovette prolungare assai, non senza interruzioni e repliche da parte di Nicodemo. L’evangelista tralascia totalmente le parole del Fariseo, e delle sentenze di Gesù fa soltanto una silloge; ma non è arrischiato riconoscere in questa silloge talune repliche ad osservazioni di Nicodemo (come là ove si accenna al serpente del deserto) o anche talune metafore tratte dalle circostanze del colloquio che si svolgeva al lume d’una lucerna (come là ove si accenna a luce e a tenebra). Ecco la silloge: In verità, in verità ti dico, che di ciò che sappiamo parliamo, e ciò che abbiamo veduto testimoniamo: e la testimonianza nostra non ricevete. Se le cose terrestri vi dissi e non credete, come crederete se io vi dica le celestiali? E(ppure) nessuno e’ salito nel cielo se non il disceso dal cielo, il figlio dell’uomo.’ E come Mose’ innalzò il serpente nel deserto (cfr. Numeri, 21, 8-9), cosi bisogna che sia innalzato il figlio dell’uomo affinché ogni credente in lui abbia vita eterna.’ Cosi invero amò Iddio il mondo, che dette il Figlio, l’unigenito, affinché ogni credente in lui non perisca ma abbia vita eterna. Non inviò infatti Iddio il Figlio nel mondo per giudicare (a condanna) il mondo, bensì affinché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Il credente in lui non e’ giudicato (a condanna): il non credente già e’ stato giudicato (a condanna), perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio d’Iddio. Questo poi e’ il (motivo del) giudizio (di condanna): che la luce è venuta nel mondo, ed amarono gli uomini piuttosto la tenebra che la luce; di essi infatti erano malvage le azioni. Ognuno invero che opera male, odia la luce e non viene verso la luce; chi invece fa la verità viene verso la luce, affinché siano manifestate le sue azioni (e si veda) che sono state fatte in Dio (Giov., 3, 11-21).
§ 290. In quale stato d’animo avrà ascoltato Nicodemo queste sentenze? Probabilmente in uno stato simile a quello di Agostino nel periodo delle sue titubanze, quando leggendo le Lettere di Paolo gli sembrava di sentire come un profumo di vivande squisite, che tuttavia non riusciva ancora a mangiare, quasi olfacta desiderantem, qua’ comedere nondum posset. Del resto alcune sentenze, se non furono schiarite da Gesù con spiegazioni omesse dall’evangelista, non potevano essere ben comprese da Nicodemo: tale l’allusione alla crocifissione, prefigurata nel serpente nel deserto. A ogni modo Gesù, come già aveva fatto con i Giudei del Tempio dopo la cacciata dei mercanti (§ 287), non parlava per Nicodemo soltanto. Se il Fariseo andò a lui di notte, non è detto che lo trovasse assolutamente solo; in un angolo semi-buio di quella stanza è ben lecito intravedere gli occhi intenti di un adolescente che segua con ansia il dialogo e stampi quelle parole nella sua vigile memoria: è il discepolo prediletto, colui che vecchissimo sarà il narratore dell’episodio. Nonostante il colloquio, Nicodemo più tardi non fu vero discepolo di Gesù, quasi a dimostrar esatte le parole allora udite che il soffio di Dio soffia dove vuole. Tuttavia a Gesù egli rimase benevolo fin dopo la crocifissione: nel Sinedrio oserà spendere una parola in favore di Gesù (Giov., 7, 50-51), e anche più spenderà materialmente per acquistare cento libbre d’aromi onde curare la salma di lui (Giov., 19, 39). Non era un generoso di animo, ma era almeno un generoso di borsa; se non fu un Pietro, non fu neppure un Giuda.
Il tramonto di Giovanni
§ 291. Nel colloquio con Nicodemo era stato accennato al battesimo in acqua e Spirito, che non era certamente quello di Giovanni. Nel frattempo Giovanni continuava ad amministrare il suo rito, e a tale scopo si era recato ad Amon presso Salim (§ 269). Dopo il colloquio con Nicodemo, Gesù rimase ancora qualche tempo in Giudea, ma sembra che si allontanasse alquanto dalla malfida capitale recandosi più a settentrione: l’aperta campagna offriva più libertà d’azione a lui e a chi voleva ricorrere a lui, lontano dalla sospettosa sorveglianza dei maggiorenti sacri e dei Farisei. Certamente il luogo ove egli s’intratteneva era ben provvisto d’acqua, forse un’insenatura del Giordano, perché troviamo inaspettatamente che anche i discepoli di Gesù amministrano un rito battesimale come quello di Giovanni. Era questo il battesimo in acqua e Spirito a cui si era accennato nel colloquio con Nicodemo? No, quasi certamente. Il IV vangelo, infatti, fa espressamente rilevare che non Gesù personalmente amministrava questo battesimo, bensì i suoi discepoli (Giov., 4, 2); del resto lo Spirito non era stato ancora dato (Giov., 7, 39; 16, 7), nè i discepoli di Gesù erano stati ancora edotti sulla Trinità divina e sulla morte redentrice del Cristo, che saranno elementi essenziali del futuro battesimo in acqua e Spirito (Matteo, 28, 19; Romani, 6, 3 segg.). Era dunque anch’esso un rito puramente prefigurativo e simbolico, analogo a quello di Giovanni; perciò Giovanni continuò ad amministrare il suo, anche quando i discepoli di Gesù battezzavano, mentre avrebbe dovuto cessare se avessero battezzato in acqua e Spirito. Tuttavia avvenne un dissenso. Un giorno fra i discepoli di Giovanni ed un Giudeo’ sorse una disputa a proposito di purificazione; forse il Giudeo, dei dintorni di Gerusalemme e non Galileo, stimava più purificativo perché più peregrino il rito amministrato dai discepoli del Rabbi galileo, e quindi lo preferiva a quello di Giovanni. Amareggiati, i discepoli di costui ricorsero al loro maestro e gli riferirono la presunta rivalità di Gesù: Rabbi, quello ch’era insieme con te di là dal Giordano, al quale tu hai reso testimonianza – guarda! – costui battezza e tutti vengono a lui! I focosi discepoli forse s’aspettavano che Giovanni inveisse ingelosito, e invece l’udirono rallegrarsi consolato: Non può un uomo acquistar nulla, se non gli sia dato dal cielo. Voi stessi mi rendete testimonianza che dissi:”Non sono io il Cristo (Messia), ma sono stato inviato avanti a lui” (§ 269). Chi ha la sposa e sposo: ma l’amico dello sposo, che sta (presente) e l’ascolta, gioisce di gioia per la voce dello sposo. Questa mia gioia, dunque, e’ compiuta. Bisogna che egli cresca, e io invece diminuisca (Giov., 3, 27-30). Frequentissimo negli scritti poetici dell’Antico Testamento era stato l’uso di presentare il Dio Jahvè come lo sposo della nazione d’Israele. Qui, per Giovanni, lo sposo è il Messia Gesù, e in queste mistiche nozze egli, come precursore, ha l’ufficio di “amico dello sposo” (§ 281). Ma lo sposo è già alla porta, ed egli ne ha udito la voce; gioire quindi bisogna, non già attristarsi e ingelosire! Lo splendore lunare diminuisce e si perde man mano che quello solare s’accresce: e cosi bisogna ch’e gli cresca e io invece diminuisca.
§ 292. Fu l’ultima testimonianza di Giovanni. Qualche settimana dopo, probabilmente nel maggio, l’austero censore dello scandalo di corte finiva imprigionato a Macheronte (§ 17). E’ difficile che i Farisei fossero del tutto estranei a questo imprigionamento, e non vi avessero una parte occulta e indiretta. I Sinottici attribuiscono l’imprigionamento alla riprovazione dello scandalo, Flavio Giuseppe alla malvista popolarità di Giovanni, ma ambedue i motivi sono giusti e si assommano insieme benissimo; tuttavia il IV vangelo ci fa intravedere anche un terzo motivo: Udirono i Farisei che Gesu’ fa discepoli e battezza piu’ che Giovanni (Giov., 4, 1), e allora Gesù abbandona la Giudea e fa ritorno in Galilea. Cosicché Gesù teme che la sua popolarità, maggiore di quella di Giovanni, lo esponga alle gelose insidie dei Farisei; per questo motivo s’allontana. Era dunque Giovanni già caduto in quelle insidie? Nessuno ce lo dice espressamente, ma in equivalenza i Sinottici ci comunicano che Gesù si allontanò dalla Giudea appena si riseppe dell’imprigionamento di Giovanni. Questa, dunque, fu l’insidia in cui era caduto Giovanni per colpa dei Farisei, oltreché per il suo merito d’aver censurato lo scandalo di corte. I Farisei, volendo disfarsi dal fastidioso e vigilato riformatore, astutamente si sarebbero serviti del rancore che la corte di Erode Antipa aveva contro di lui, aizzando il tetrarca ad imprigionare l’austero censore dello scandalo e il popolare dominatore di turbe. Se Giovanni si tratteneva ancora ad Amon presso Salim, non era sul territorio del tetrarca Antipa, ma su quello della città libera di Scitopoli che faceva parte della Decapoli (§ 4), e quindi non poteva essere arrestato colà dal tetrarca. Ma Scitopoli s’incuneava fra i due tronconi del territorio di Antipa, la Galilea e la Perea; fu dunque facile attirare Giovanni sul territorio di Antipa con qualche pretesto presentato abilmente da compiacenti mediatori. Più tardi i Farisei tenteranno una mediazione inversa, perché fingendosi protettori di Gesù vorranno che egli si allontani spontaneamente dal territorio di Antipa: probabilmente anche questa nuova mediazione fu sollecitata dallo stesso Antipa, il quale perciò in questa occasione fu chiamato volpe da Gesù (Luca, 13, 31-32) (§ 463). Nelle oscure segrete di Macheronte, Giovanni langui molti mesi in estenuante attesa.
La Samaritana
§ 293. Per tornare in Galilea Gesù scelse la strada che correva lungo il mezzo della Palestina, e perciò attraversava la Samaria; avrebbe potuto evitare questo passaggio se avesse seguito l’altra strada più a oriente che risaliva lungo il Giordano, ma la prima era più frequentata dai Galilei per il viaggio di Gerusalemme come ci attesta Flavio Giuseppe (cfr. Antichità giud., xx, 118; Vita, 269). Seguendo la strada scelta da Gesù, ad un certo punto s’entrava in una stretta valle, formata al nord dal monte Hebal e al sud dal monte Garizim: è la valle dove sta oggi la cittadina di Nabulus, fondata nel 72 d. Cr. sotto Vespasiano e Tito, e chiamata ufficiaimente Flavia Neapolis (donde Nabulus) ma usualmente Mabortha (cioè “passaggio”, attraversata”) a causa della sua situazione geografica (cfr. Guerra giud., IV, 449). Poco prima di entrare nella valle da oriente, si trovava un luogo celebre nella storia dei patriarchi ebrei (Genesi, 12, 6; 33, 18; 48, 22) ove stava il “pozzo di Giacobbe” tuttora superstite. Inoltrandosi ancora poche centinaia di metri nella valle si raggiungeva sulla destra l’antichissima città di Sichem, esistente già verso il 2000 av. Cr. ma che ai tempi di Gesù era in piena decadenza e scarsamente abitata: presso le sue rovine, recentemente investigate dagli archeologi, sorge il villaggio di Balata. Ad oriente di Balata-Sichem è situata la cosiddetta “tomba di Giuseppe”, l’antico patriarca ebreo, e circa un chilometro e mezzo più in là verso nord-est si raggiunge il villaggio di Askar. Questo, lo sfondo geografico a cui si riporta la narrazione evangelica; essa presuppone anche la tradizionale avversione fra i Samaritani abitanti di quel luogo e i Giudei in genere, alla quale già accennammo in precedenza (§ 4). Partito dunque dalla Giudea, Gesù giunge nella città della Samaria chiamata Sychar, presso il luogo che Giacobbe dette a Giuseppe suo figlio: era poi colà la fonte di Giacobbe. Gesu’ pertanto, straccato dal cammino, si sedette così presso la fonte. Era circa l’ora sesta (Giovanni, 4, 5-6). Queste minuziose indicazioni di luogo pienamente confermate dai più recenti scavi, queste esatte indicazioni del tempo e delle altre particolarità dell’episodio, sono quanto si può immaginare di più alieno da un’invenzione puramente fantastica e d’indole simbolica: con tutto ciò le esigenze di teorie preconcette hanno indotto alcuni studiosi moderni a giudicare la narrazione una mera allegoria, scritta da un mistico dell’Asia Minore che forse non aveva mai visitato la Palestina. Senonché mai le teorie filosofiche prevarranno sulla realtà dei fatti, e sempre basterà rileggere spassionatamente la narrazione evangelica per ritornare alla vecchia conclusione del non sospetto Renan: Soltanto un Giudeo della Palestina ch’era passato spesso per l’entrata della valle di Sichem, ha potuto scrivere queste cose.
§ 294. E’ dunque verso il mezzogiorno (ora sesta), probabilmente di maggio (§ 177, nota). Gesù stanco e sudato si riposa presso il pozzo: è solo, perché i discepoli sono andati nella città attigua a comprar da mangiare. Dalla città di Sychar una donna Samaritana viene verso il pozzo per àttinger acqua.’ Gesù le dice: Dammi da bere. La donna gli risponde con altezzosità: Come? Tu che sei Giudeo chiedi da bere a me che sono donna Samaritana? Veramente Gesù era Galileo, ma la donna indovinando che egli tornava dalla visita al Tempio di Gerusalemme lo ritiene giustamente per un seguace della religione giudaica; ella, perciò, vuoi far risaltare l’umiliazione di un uomo e di un Giudeo che spinto dal bisogno si rivolge per aiuto a una donna e a una Samaritana. Gesù replica: Se sapessi il dono d’Iddio e chi e’ che ti dice “Dammi da bere”, tu l’avresti pregato e ti avrebbe dato un’acqua viva. L’aquila ha già ghermito un nuovo pulcino e comincia a sollevano in alto (§ 278). Come già Nicodemo, la donna comprende che in quelle parole c’è un pensiero recondito che le sfugge; ad ogni modo si attiene ancora al loro senso materiale, pur cominciando ad usare una certa deferenza per lo sconosciuto: Signore, gli dice, non hai alcun oggetto per attingere e il pozzo e’ profondo; donde hai dunque l’acqua viva? L’osservazione era giusta: il pozzo oggi è profondo 32 metri cioè uno dei più profondi di tutta la Palestina, sebbene ai tempi di Gesù potesse avere una misura alquanto minore. L’osservazione poi s’integrava con una considerazione storica: Sei tu forse maggiore del nostro padre Giacobbe, che dette a noi il pozzo, e da esso bevve egli stesso e i suoi figli e i suoi greggi? Il pulcino guarda ancora al suolo da cui è stato ghermito, e immagina di stare ancora a raspare là in basso. Ma Gesù risponde: Chiunque beva di quest’acqua avrà sete di nuovo; ma colui che beva dell’acqua che io gli darò non avrà sete in eterno, bensi l’acqua che io gli darò diventerà in lui fonte d’acqua zampillante in vita eterna. La donna rimane ancora terra terra: Signore, dammi cotest’acqua, affinché (io) non abbia sete né venga qua ad attingere. Per far comprendere al pulcino che si trovava già sopra le nuvole, era necessario ampliare l’argomento del dialogo, offrendo nello stesso tempo un “segno”. Perciò Gesù dice alla donna: Va’, chiama il tuo marito, e vieni qua! In ebraico e in aramaico, come oggi nel contado toscano, “marito” si diceva “uomo”, e così disse certamente anche Gesù: Va’, chiama il tuo uomo, ecc. Su questo termine equivoco giuoca la donna, che risponde impavida: Non ho uomo. Gesù schiva l’equivoco, approvando la risposta della donna nel suo significato peggiore: Giustamente dicesti “Non ho uomo”; cinque uomini infatti avesti, e quello che hai adesso non è (il) tuo uomo. Ciò che hai detto è vero. L’”uomo” di quei giorni non era dunque “marito” e molto probabilmente non erano stati tali anche altri fra i cinque uomini precedenti: due o tre di essi avranno potuto o ripudiare la donna o anche esser morti, ma nelle cmque unioni ve n erano state certo di illegittime com’era la sesta di allora. In conclusione, quanto a castigatezza di costumi quella Samaritana non era un modello.
§ 295. Il “segno” offerto da Gesù produce buon effetto. La donna, vedendo scoperti i suoi segreti, esclama: Signore, vedo che tu sei profeta! Ma questa stessa scoperta e questa esclamazione riconoscono la superiorità di colui che appartiene agli odiati Giudei; quindi sulla causa di questo odio si svolge adesso il discorso, anche per evitare lo scottante argomento dei segreti scoperti: I padri nostri in questo monte adorano (Iddio), e voi dite che in Gerusalemme e’ il luogo ove bisogna adorare. Il monte Garizira si erge sulle teste dei due interlocutori; ma da Gerusalemme torna l’ignoto Giudeo, certamente dopo aver laggiù adorato Iddio nel Tempio di Jahvè. Che cosa dunque pensa egli, che è profeta, di questa secolare questione fra Samaritani e Giudei? Alla domanda della donna Gesù attribuisce un valore quasi soltanto storico, come di questione ormai inutile: ad ogni modo, pur sotto l’aspetto storico, Gesù parla da Giudeo e dà ragione ai Giudei contro i Samaritani; ma subito dopo, lasciato il passato, egli si trasferisce al presente in cui le vecchie odiose rivalità non hanno più ragione di essere: Credimi, donna, che viene l’ora quando né in questo monte né in Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate ciò che non sapete; noi adoriamo ciò che sappiamo, perché la salvezza è dai Giudei. Ma viene l’ora ed e’ adesso – quando i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità. E, infatti, il Padre tali ricerca gli adoratori suoi Spirito e’ Iddio, e gli adoratori suoi in spirito e verità bisogna che adorino. Il profeta ha dato la sua risposta: d’ora innanzi il culto di Dio non sarà legato né al monte Garizim né al colle di Gerusalemme né ad alcun altro luogo della terra, bensì alle sole condizioni di esser fatto in spirito e verità. Parole rivoluzionarie e scandalose, queste, per un Fariseo che fosse stato lì ad ascoltare: non però del tutto nuove nella stessa tradizione d’Israele. Il novissimo profeta che le aveva pronunziate passava sopra alla “tradizione” farisaica e si riconnetteva con la tradizione anteriore e genuina dei profeti: già sei secoli prima il profeta Geremia aveva proclamato che il Tempio di Jahvè in Gerusalemme non serviva a nulla se frequentato da adoratori indegni (Ger., 7, 4 segg.), e aveva anche preannunziato che ai tempi del Messia la stessa santissima Arca dell’alleanza non sarebbe più stata venerata da alcuno (Ger., 3, 16) perché tutti porterebbero la nuova alleanza e la legge di Dio scritta nei loro cuori e nei loro spiriti (Ger., 31, 33).
§ 296. A questo punto la donna s’avvede di ritrovarsi in una sfera sconosciuta. Nè Garizim né Gerusalemme, ma spirito e verità! Che mondo è questo? Certo non è il mondo piccino e pettegolo su cui stanno a battagliare Samaritani e Giudei; se i grandi dottori di Gerusalemme hanno praticamente dimenticato le predizioni di Geremia, tanto più può ignorarle una donnicciuola samaritana, che perciò si smarrisce in quel mondo predetto dall’antico profeta. Ella tuttavia intuisce che si tratta di visioni future, da contemplare attuate soltanto nei beati giorni del Messia; perciò nel suo smarrimento si rifugia col pensiero a quei giorni, e pur non osando contraddire l’ignoto profeta che le sta davanti esclama a guisa di consolazione. So che Messia verrà; quando sia giunto quello, ci annunzierà ogni cosa. Gesù le risponde Sono io, che ti parlo! I Samaritani infatti aspettavano il Messia, e ancora oggi l’aspettano i loro pochi discendenti. E chiamato da essi Taheb (Shaheb), “Colui che viene” o “Colui che farà rivenire (al bene)”; è immaginato come un riformatore simile a Mosè, che risolverà tutti i dubbi, comporrà tutte le divergenze e ristabilirà per mille anni dopo la sua morte un regno beato. L’interlocutrice di Gesù lo chiama qui Messia, senza articolo, certamente perché l’appellativo valeva come nome proprio. Ora, proprio a questa donna non giudea e di razza ostile ai Giudei, Gesù rivela di essere il Messia, mentre più tardi comanderà ai suoi stessi discepoli di non palesare questa sua qualità (Matteo, 16, 20). Ma appunto nell’ostilità dei Samaritani sta il segreto di questa preferenza: presso di loro era ben difficile che a quell’annunzio si suscitasse un movimento di entusiasmo politico, il quale invece era probabilissimo presso i Giudei, mentre Gesù voleva evitarlo ad ogni costo. Se Giovanni ha dato questa notizia taciuta dai Sinottici, si può vedere anche in tale aggiunta il suo proposito di supplire almeno in parte alle narrazioni di quelli.
§ 297. Mentre Gesù sta scambiando le ultime parole con la Samaritana, i discepoli gli si avvicinano ritornando dalla città con i cibi comprati. Quando poi la donna ode da Gesù la dichiarazione ch’egli è il Messia, totalmente smarrita non ardisce replicare, bensì lascia la sua anfora al pozzo, corre alla città e a quanti incontra esclama: Venite! Vedete un uomo che mi disse tutte le cose che ho fatte! E’ costui forse il Cristo? I discepoli alla loro volta non ardiscono domandare a Gesù la ragione di quel dialogo insolito, pur essendone meravigliati, giacché i rabbini di allora schivavano di parlare in pubblico con donne e persino con le proprie mogli. Gli sconcertati discepoli vengono presso al maestro soltanto dopo che la donna improvvisamente è fuggita in direzione della città. Rabbi, mangia! gli dicono essi, offrendogli i cibi comprati. Gesù in risposta continua con essi la metafora dell’acqua spirituale impiegata con la donna: egli si nutre soprattutto di un cibo spirituale, che è fare la volontà di chi lo ha inviato a compiere la sua opera. Egli è l’agricoltore di una messe spirituale. In Palestina alla fine di dicembre, cioè terminati i lavori di semina, con un senso di sollievo si esclamava a guisa di proverbio “C’e’ ancora un quadrimestre, e verrà la messe”, giacché i nuovi lavori di mietitura non cadevano che in aprile e maggio, cioè dopo un quadrimestre di riposo. Ma Gesù fa riscontrare ai discepoli che questo proverbio non ha valore per la sua messe spirituale essa è già matura e pronta, né può sopportare indugi; perciò pure i mietitori siano pronti, anche se non ebbero il merito di aver essi seminato nel passato. Mentre Gesù pronunzia queste parole, le messi quasi mature al periodo pasquale (§ 117, nota) ondeggiano al sole lungo l’ampia pianura di el-Makhneh, che si stende ai suoi piedi verso il Giordano. Della messe spirituale furono raccolti subito alcuni manipoli. Alla garrula loquacità della donna, uscirono dalle case molti Samaritani, e si recarono al pozzo a vedere il profeta giudeo. Dovettero rimaner soggiogati fin dalle sue prime parole, perché l’invitarono a rimaner qualche tempo presso di loro; eppure erano Samaritani, cioè coloro che ordinariamente preferivano bastonare a sangue o addirittura ammazzare i Giudei di passaggio sulle loro terre (cfr. Guerra giud., li, 232; Antichità giud., xx, 118), e che più tardi negheranno ospitalità agli stessi discepoli dì Gesù (Luca, 8, 52-53). Questa volta, o almeno questi Samaritani di Sychar, furono cortesi, certamente perché mansuefatti dalla virtù personale del profeta. Gesù accettò l’invito e rimase colà due giorni; e in molto maggior numero credettero per la parola di lui; alla donna poi dicevano: Non per la tua loquela crediamo! Noi stessi infatti abbiamo udito, e sappiamo che costui e veramente il salvatore del mondo (Giovanni, 4, 40-42).
Ritorno e prima operosità in Galilea
§ 298. Passati due giorni con i Samaritani di Sychar, Gesù rientrò in Galilea. La ragione di questo ritorno è comunicata da Giovanni (4, 44) con le seguenti parole: Gesu’ stesso, infatti, attestò che un profeta nella propria patria non ha onore. Qual è la patria a cui allude qui Giovanni? I Sinottici attribuiscono la stessa sentenza a Gesù ma in un occasione posteriore, quando cioè egli sarà scacciato in malo modo da Nazareth (Luca, 4, 16-30, e paralleli), e allora si comprende subito che la patria è Nazareth. In Giovanni ciò non è altrettanto chiaro, ma non per questo è da pensare che egli alluda alla Giudea da cui si allontanava per gl’intrighi dei Farisei (§ 292). Si dica piuttosto che Giovanni, presupponendo già noti i Sinottici (§165) e la sentenza di Gesù da essi riportata, la anticipi qui all’mizio della sua operosità in Galilea quasi per preammonire del mesto risultato di essa. Tuttavia, a principio, i Galilei accolsero Gesù con gioia: parecchi di essi erano stati testimoni delle opere straordinarie fatte da Gesù in Giudea, e al loro ritorno ne avevano parlato in Galilea suscitando fierezza fra i compatrioti del profeta. Recatosi nuovamente a Cana, il paese del primo miracolo (§ 281), Gesù fu subito ricercato per la sua fama di taumaturgo. Giaceva gravemente malato a Cafarnao il figlio d’un impiegato della corte reale; suo padre, saputo dell’arrivo di Gesù, andò in fretta a Cana pregandolo di venir subito a guarire il malato, ormai agli estremi. A quella preghiera Gesù si mostrò retrivo, e preoccupandosi soprattutto della propria missione rispose: Qualora non vediate segni e prodigi, non (sarà) che crediate! L’angosciato padre non si preoccupava che del figlio morente, e insistette: Signore, vieni giù (a Cafarnao) prima che il mio ragazzo muoia! Per esser sicuro della guarigione il padre esigeva la presenza personale di Gesù, come d’un medico. Gesù gli replicò: Va’; tuo figlio vive! Queste ferme parole infusero nel padre la fermezza di credere: se il taumaturgo aveva parlato così, non poteva essere altrimenti. Era l’ora settima, cioè l’una del pomeriggio; dopo il viaggio affannato del mattino da Cafarnao a Cana che sono più di 30 chilometri, non si poteva ripetere subito il percorso inverso spossando le bestie e gli uomini di scorta. Perciò il padre riparti il mattino seguente. Nell’avvicinarsi a Cafarnao, i familiari gli vennero incontro per annunziargli che il ragazzo stava bene; alla sua domanda, da quando avesse cominciato a riaversi, risposero: Ieri, all’ora settima, lo lasciò la febbre. L’accurato Giovanni (4, 54) fa notare che questo fu il secondo miracolo di Gesù, dopo quello di Cana egualmente in Galilea, ma astraendo dalla permanenza in Giudea (§ 287, nota seconda). Anche qui appare la mira di Giovanni di integrare i Sinottici.
§ 299. Tornato così in Galilea, Gesù iniziò senz’altro la sua missione predicando la « buona novella » d’iddio e dicendo: Si é compiuto il tempo e si e’ avvicinato il regno d’Iddio; cambiate di mente (= pentitevi; § 266) e credete alla “buona novella”. In questo tempo egli dovette recarsi volta a volta un po’ dappertutto nei vari centri della Galilea, poiché ci si dice che insegnava nelle sinagoghe di quelli ed era ascoltato da tutti con molta deferenza, e sicuramente anche con una certa fierezza regionale (Luca, 4, 14-15). Tuttavia i soggiorni più lunghi e più frequenti avvenivano a Cafarnao, ch’egli già aveva praticamente sostituita alla sua Nazareth (§ 285). Nulla vieta, anzi tutto induce a supporre che nel corso di queste peregrinazioni egli si recasse anche a Nazareth; ma l’episodio della sua predica nella sinagoga di Nazareth che si concluse con la sua cacciata dal villaggio (§ 357 segg.) dovette avvenire al termine e non al principio di questa operosità in Galilea, perché in quella occasione sono espressamente ricordati i miracoli fatti da lui a Cafarnao (Luca, 4, 23). Perciò, sebbene Luca ponga questo episodio a principio, è da preferirsi l’ordine cronologico qui seguito dagli altri due Sinottici (Matteo, 13, 54-58; Marco, 6, 1-6), i quali lo pongono sul finire di questo periodo di tempo, quando cioè Gesù era già stato lungo tempo a Cafarnao. Nelle varie borgate ove si recava, Gesù parlava soprattutto nella sinagoga del posto. Come già sappiamo (§ 2), ogni minimo centro palestinese ne era provvisto, e ivi puntualmente gli abitanti s’adunavano il sabbato e talvolta anche altri giorni; ma, oltre all’uditorio bell’e pronto, c’era anche l’opportunità di parlare ad esso in piena conformità con le norme tradizionali, quando cioè l’archisinagogo dopo la lettura della Bibbia invitava qualcuno dei presenti a tenere l’usuale discorso istruttivo (§ 67): è naturale che Gesù si offrisse frequentemente per tale incombenza, che rispondeva così bene ai suoi scopi. Altre volte, tuttavia, egli parlava all’aperto o in edifici privati, quando si presentava l’opportunità o si era adunata presso di lui una certa folla. I suoi ascoltatori, infatti, crescevano rapidamente, perché avevano notato subito che egli insegnava loro come avente autorita’ e non come gli Scribi (Marco, 1, 22; Luca, 4, 32; cfr. Matteo, 7, 29). Anche la plebe, nel suo semplice buon senso, trovava una profonda differenza fra le dottrine di Gesù e quelle degli Scribi; costoro si rifugiavano sempre sotto l’autorità degli antichi, e il loro ideale era di trasmettere integralmente gl’insegnamenti ricevuti senza nulla aggiungere e nulla tralasciare: Gesù invece apriva certi forzieri di cui egli possedeva l’unica chiave e sui quali egli solo “aveva autorità”, non rifuggendo neppure dal contraddire agli insegnamenti degli antichi quand’era necessario perfezionarli. Fu detta agli antichi la tal cosa; io invece vi dico la tal altra (Matteo, 5, 21 segg.). Gli Scribi, insomma, erano la voce della tradizione; Gesù invece era la voce di se stesso, e si attribuiva il diritto tanto di approvare quella tradizione quanto di respingerla e correggerla. Indubbiamente chi si attribuiva questo diritto, sotto la dittatura spirituale degli Scribi e dei Farisei, agiva come avente autorità.
A Cafornao e altrove
§ 300. Ma il nuovo predicatore, se era avente autorità nel campo delle dottrine, si mostrava fornito di non minore autorità nel campo della natura operando “segni” straordinari; e questa seconda autorità, mentre confermava la prima, attirava sempre più l’attenzione delle folle, le quali su questo punto dovevano ragionare come Nicodemo: Nessuno può fare questi «segni »… se non sia Iddio con lui (§ 288). Ai due «segni » di Cana, il cui ricordo era recente, ne tennero dietro altri in altri luoghi. A Cafarnao un giorno di sabbato, dopo aver predicato nella sinagoga, Gesù guari pubblicamente un uomo indemoniato che, al comando di lui, prima dette in grida convulsive e poi rimase libero dall’ossessione; la gente che aveva udito la predica e visto la liberazione, ricollegando i due fatti si domandava: Che e’ ciò? Un insegnamento nuovo secondo autorità! inoltre, comanda gli spiriti impuri e gli obbediscono! (Marco, 1, 27). Mentre ancora risuonano queste esclamazioni, che diffondendosi porteranno altrove la fama di Gesù, egli esce dalla sinagoga e subito si reca alla casa di Simone Pietro (§ 285) e di suo fratello Andrea, dove trova la suocera di Pietro che giace malata: l’evangelista medico fa notare che essa era in preda a febbre grande (Luca, 4, 38), la quale secondo la terminologia clinica d’allora era di genere diverso dalla « febbre piccola » (cfr. Galeno, Diflerent. febr., 1, 1). Insieme con Gesù stanno Giacomo e Giovanni, i due figli di Zebedeo, e certamente anche altre persone che hanno assistito alla liberazione dell’indemoniato e forse pregano il liberatore di far del bene anche alla vecchia malata Gesu’ si curva sul giaciglio di lei, la prende per mano, e la rialza che è guarita. Sta cosi bene la donna appena in piedi, che si dà subito da fare per preparare qualcosa all’ospite straordinario e per servirlo. In paese si sta ancora parlando dell’indemoniato guarito, quando sopraggiunge la notizia che pure la suocera di Pietro è stata guarita. Avere un uomo di tal fatta in paese e non servirsene, sarebbe la massima delle stoltezze basterà portare alla sua presenza i malati che stanno per le case, e saranno guariti. Ma è sabbato, e non si può trasportare alcunché né fare più d’un limitato numero di passi (§ 70); ebbene, si aspetterà il tramonto del sole, con cui cessa il riposo sabbatico e si può trasportare un malato. La sera, infatti, i malati d’ogni sorta e gli indemoniati furono radunati presso la casa di Pietro, e tutta la città si era radunata presso la porta (Marco, 1, 33). Gesù, su ciascuno di essi imponendo le mani, li guariva; uscivano poi da molti i demonii gridando e dicendo: « Tu sei il figlio d’iddio! ». E intimando (Gesu’), non permetteva loro di parlare perché sapevano esser lui il Cristo (Messia) (Luca, 4, 40-41). Quel Gesù che in terra di Samaritani aveva spontaneamente dichiarato di essere il Messia (§ 296), qua in terra di Giudei non permetteva che la stessa dichiarazione fosse fatta da un testimonio autorevole in materia, quale il demonio; ma qua appunto esisteva il pericolo che là mancava, ed era che i presenti seguendo la corrente comune considerassero quel Messia come condottiero politico: mentre come poco prima Giovanni il Battista non si era occupato di politica, cosi adesso non se ne occupava Gesù, né egli predicava un regno del mondo o dell’uomo, bensì il regno dei cieli e di Dio.
§ 301. Ad ogni modo, se Gesù era veramente il Messia ed era venuto per farsi riconoscere come tale dai suoi connazionali, bisognava pur che una buona volta annunziasse apertamente ad essi questa sua qualità. Senza dubbio: e difatti questi annunzi palesi e ripetuti verranno da parte di Gesù, ma solo più tardi. Da principio invece, cioè durante questa sua prima operosità in Galilea, egli non fa che prolungare la predicazione del precursore Giovanni, annunziando soltanto che si è avvicinato il regno di Dio (Matteo, 4, 17; Marco, 1, 15); parla cioè del regno ma non del suo capo, dell’istituzione ma non dell’istitutore. Quando poi in seguito egli avrà radunato attorno a sé un piccolo nucleo di seguaci, i quali abbiano compreso genericamente che il suo regno non è un’istituzione politica e che ha per suo istitutore un re spirituale, allora a questi migliori intenditori egli confiderà di essere il Messia, sebbene anche a costoro da principio imporrà di non svelare ad altri questo segreto. L’affermazione messianica, dunque, avvenne realmente e chiaramente da parte di Gesù, ma fu graduale: dapprima egli annunziò il regno messianico, quindi il Messia ad alcuni pochi in segreto, infine a tutti palesemente. Ora, questa graduazione d’annunzio fu cagionata soprattutto dalla preoccupazione d’evitare entusiasmi politici, che sarebbero stati troppo spontanei fra gente abituata da lungo tempo a raffigurarsi il futuro Messia nelle maniere nazionali-militaresche che già vedemmo (§ 83). In quel deposito di materie incendiarie, ch’era politicamente il giudaismo d’allora, troppo spesso venivano gettati accesi tizzoni da esaltati pseudoprofeti, mentre Gesù non voleva in nessuna maniera accomunarsi con essi; anzi espressamente seguì una condotta che era proprio l’opposta alla loro, circondando a principio di segreto la sua persona con la mira di fare accettare l’idea. Quando poi Gesù dovrà necessariamente parlare della sua persona, allora applicherà anche certi correttivi molto efficaci per raffreddare i bollenti spiriti degli stessi suoi confidenti: annunzierà perciò loro che egli è il Messia, si, ma anche che è destinato ad una morte violenta e ignominosa, e che pure i discepoli i quali formano la sua corte sono destinati a ignominie e tribolazioni d’ogni genere. Era una delusione ben amara e una prospettiva assai mesta, per focosi messianisti giudei, quella di un re Messia che muore ammazzato invece di ammazzare i nemici d’Israele, e che ha per cortigiani un’accolta di miseri umiliati invece che di potenti umiliatori dei gojim! Ma appunto questo era il correttivo necessario per far comprendere l’indole del Messia Gesù e del regno da lui predicato. La serata di quel sabbato era stata laboriosa, ma finalmente Gesù aveva potuto ritirarsi nella casa di Pietro. La mattina seguente, molto prima dell’alba, egli ne uscì segretamente e si appartò in un luogo solitario a pregare. Poco dopo cominciarono ad arrivare visitatori della borgata che avevano qualcosa da chiedere al taumaturgo, e soprattutto da pregarlo che non si allontanasse mai più da loro. Pietro e gli altri familiari, non trovando Gesù in casa, si dànno a cercarlo fuori; finalmente lo trovano, e gli comunicano l’aspettativa e il desiderio di tutti. Gesù risponde che anche altrove egli deve annunziare la buona novella del regno di Dio, e che appunto per questo egli è stato inviato. E riprese a recarsi qua e là per la Galilea, probabilmente senza avere con sé alcun discepolo.
L’elezione dei quattro
§ 302. A questo punto Luca (5, 1-11) narra la vocazione dei quattro principali discepoli, Simeone Pietro con suo fratello Andrea, e Giovanni con suo fratello Giacomo; al contrario gli altri due Sinottici (Matteo, 4, 18-22; Marco, 1, 16-20) collocano questa narrazione, molto più breve, proprio al principio dell’operosità di Gesù in Galilea, subito dopo la notizia dell’imprigionamento di Giovanni il Battista. La serie seguita da Luca appare più verosimile cronologicamente. E’ infatti da notare che nè Matteo nè Marco hanno parlato in precedenza di relazioni fra Gesù e i quattro, ma esse sono state già accennate da Luca e spiegate ampiamente da Giovanni (§ 278 segg.); d’altra parte questa vocazione presuppone che l’operosità di Gesù sia già iniziata da qualche tempo, perché attorno a lui si accalca molta folla desiderosa di vederlo e udirlo, e ciò non si spiegherebbe agevolmente se si riferisse ai primi giorni del ritorno di Gesù in Galilea, subito dopo l’imprigionamento di Giovanni il Battista: essa dunque avvenne quando il ministero esercitato da Gesù già da qualche tempo gli aveva procurato larghi consensi nella Galilea. Ma specialmente le notizie date da Giovanni importano un’altra e più seria questione: se i quattro erano già stati al seguito di Gesù in Giudea, e poi in Galilea a Cana ed a Cafarnao, come mai qui Gesù sembra chiamarli a sé per la prima volta? Che questa sia la prima volta, è certo l’impressione che si ha da Matteo e Marco; tuttavia essa va corretta e integrata con quanto dicono gli altri due evangelisti. Quanto alle notizie di Giovanni, che è l’evangelista integratore per eccellenza, esse ci permettono di concludere che Gesù anche nella scelta dei discepoli, come nella sua manifestazione messianica, procedette gradualmente. Dapprima egli accettò i quattro che spontaneamente in Giudea erano passati a lui dalla sequela di Giovanni il Battista: ma anche così accettati essi non rimasero costantemente uniti a lui né lo seguirono in tutte le sue peregrinazioni attraverso la Galilea, da lui fatte in massima parte da solo (§ 301); più tardi invece, allorché i quattro furono sufficientemente edotti del genere di vita che richiedeva da essi Gesù e si mostrarono disposti ad accettarla, egli li legò definitivamente a sé con una formale elezione. La quale avvenne in questa maniera, secondo la narrazione di Luca ch’è la più ampia e particolareggiata delle tre.
§ 303. Una mattina Gesù, trovandosi lungo la sponda occidentale del lago di Tiberiade, fu circondato da numerosa folla che desiderava udirlo parlare; ma la folla era tanta che, per trattenerla e insieme per farsi udire più comodamente, egli ricorse a un mezzo assai pratico. Quando quel lago è calmo, è quasi immobile né produce alcun frastuono che impedisca di udire chi parli a voce alta: perciò, allontanandosi di qualche metro dalla spiaggia su una barca, si poteva di là parlare benissimo alla folla che sarebbe rimasta schierata sulla spiaggia ad ascoltare. Così fece Gesù. Li presso c’erano due barchette, i cui padroni erano scesi a terra e stavano riattando le reti; uno di essi era appunto Simone Pietro. Questo particolare suggerisce due conclusioni probabili: che l’episodio avvenisse nei pressi di Cafarnao (§ 300), e che Simone Pietro avesse sospeso in quel tempo la sua saltuaria sequela appresso a Gesù per ritornare frattanto al proprio mestiere insieme col fratello Andrea, onde provvedere ai bisogni della propria famiglia. Quando Gesù ebbe terminato di parlare da quella tribuna dondolante, provvide anche a ricompensare chi gliel’aveva fornita, e voltandosi a Simone gli disse di prendere il largo per gettare le reti. Senonché l’invito di Gesù dovette sembrare al destinatario un’involontaria ironia: proprio la notte testé scorsa era stata una nottataccia, e Simone aveva faticato assai con i suoi compagni senza prender nulla. Tuttavia, giacché aveva parlato il maestro, egli non si sarebbe rifiutato: ma avrebbe accondisceso giusto per deferenza verso di lui e senza alcuna fiducia nel nuovo tentativo; la luce del giorno infatti era un nuovo ostacolo, e se di notte era andata male di giorno sarebbe andata anche peggio. E così le reti furono gettate. Subito però si cominciò a imbarcare tanto pesce, che gli attrezzi non reggevano a tutto quel peso e le maglie delle reti si disfacevano. Si gettò allora una voce ai compagni dell’altra barca, rimasta inoperosa, affinché corressero a dare una mano; la barca venne, ma si continuò ancora a lungo a caricare, tanto che tutte e due le barche rimasero colme di pesce quasi da affondare. Il lago di Tiberiade era nell’antichità, ed è ancora oggi, assai ricco di pesce. Nell’antichità ne parla già Flavio Giuseppe (Guerra giud.,III, 508, 520), e della pesca viveva gran parte dei rivieraschi occidentali: poco a nord di Tiberiade, la borgata di Magdala (« Torre ») era chiamata dai rabbini « Torre dei pesci » (Migdal Nunaja) e dagli ellenisti Tarichea, cioè « Salamoie di pesce) », con chiara allusione all’industria principale dei paesani. Oggi, chi ha visitato i luoghi può aver visto pescatori del lago fare buona pesca all’amo in pochi minuti, come può aver sentito parlare di colpi di paranza o di sciabica particolarmente fortunati, tanto da portare a terra parecchi quintali di pesce. Ma non è detto che sia, o sia stato, sempre così: anche i pescatori di Tiberiade hanno avuto in ogni tempo giornate e nottate di cattiva fortuna, in cui sembra che tutti i pesci siano emigrati dal lago. Quella pesca di Simone fu fortunata per caso? Simone, che se ne intendeva, non era di questa opinione e aveva previsto un risultato ben diverso; e non fu il solo, perché anche i pescatori dell’altra barca, che erano Giacomo e Giovanni, rimasero sbalorditi del risultato effettivo. Il focoso Simone si gettò allora ai piedi di Gesù esclamando: Allontànati da me, perché sono un indegno peccatore! – Ma Gesù replicò: Non ti spaventare! D’ora in poi sarai pescatore d’uomini. – Dunque, ciò ch’era avvenuto aveva, oltre il resto, anche il valore d’un simbolo per il futuro. Scesi infine tutti a terra, lo stesso invito fu rivolto a Giacomo e Giovanni che col loro padre Zebedeo erano «soci» di pesca con Simone e suo fratello Andrea, e le due coppie di fratelli, lasciato barche e tutto, seguirono da quel giorno costantemente il maestro.
Altri miracoli e primi ostacoli
§ 304. Il ministero di Gesù proseguì nella Galilea, e di esso i Sinottici ci presentano taluni episodi senza un ben sicuro ordine cronologico: ma insieme col diffondersi della fama del nuovo profeta sorgono anche ostacoli, in primo luogo dal Farisei com’era da aspettarsi, poi anche da altri. Una volta, forse Poco dopo l’elezione dei quattro, si avvicinò a Gesù un lebbroso che cadendogli ai piedi non gli chiese esplicitamente nulla, ma disse soltanto: Signore! Qualora (tu) voglia, puoi mondarmi! (Luca, 5, 12). I lebbrosi nell’antico Israele erano oggetto di sommo orrore; esclusi per la Legge mosaica dal consorzio umano, avevano l’obbligò di mantenersi appartati in luoghi solitari, e di gridare “Scostatevi! c’e’ un impuro!” (Lament., 4, 15) quando un viandante si avvicinava inconsapevole al luogo di loro dimora. In premio di questo lugubre grido s’inviava nella loro solitudine qualche cibo; ma fuor di questo, la società non voleva saperne di loro, come di spurghi dell’umanità, di personificazioni dell’impurità stessa, di vittime della massima collera del Dio Jahvè. Non di rado, tuttavia, i lebbrosi violavano la segregazione loro imposta; e cosi fece quella volta il lebbroso che si presentò a Gesù. Certamente aveva inteso parlare di lui e dei prodigi che operava con miseri di ogni sorta: chissà se, buono e potente com’era, il profeta galileo non avesse fatto qualcosa anche per la sua estrema sciagura! Il suo caso però era tanto spaventoso, che l’implorante neppure ardì esprimere ciò che implorava, ma solo espresse fiducia nell’implorato. Gesù ebbe pieta di lui e dell’illegale audacia che l’aveva spinto fra uomini mondi; perciò, stese la mano, con un gesto orribile per quanti avranno assistito toccò lui, quel lebbroso tutto manciume e fetore, e rispondendo alle sue precise parole ma più ancora al segreto pensiero disse: Voglio! Sii mondato (Marco, 1, 41). Il lebbroso fu mondato all’istante. Subito però Gesù lo fece allontanare per il solito motivo di evitare l’entusiasmo della gente, e severamente gli comandò di non divulgare ciò ch’era avvenuto; ma insieme gli ricordò di adempiere quanto la Legge mosaica prescriveva nei rarissimi casi di guarigione d’un lebbroso, cioè di presentarsi al sacerdote per far riscontrare la guarigione e di offrire il sacrificio di purificazione. Fu da parte di Gesù un atto d’ossequio alla Legge ufficiale, e nello stesso tempo un qualche compenso alla violazione fattane dal lebbroso col presentarsi in mezzo alla società. E’ probabile che il guarito eseguisse più tardi le prescrizioni legali, ma frattanto cominciò col violare il comando di Gesù divulgando quant’era avvenuto; tuttavia, anche s’egli avesse taciuto, avrebbe parlato in altra maniera la sua faccia, che da quella d’un mostro era diventata quella d’un uomo normale. Le conseguenze della divulgazione non si fecero attendere. Accorsero al taumaturgo altre folle per udirlo ed altri infelici per esser guariti, cosicché egli non poteva piu’ entrare palesemente in citta’ ma stava fuori in luoghi solitari (Marco, 1, 45). E là, nella solitudine, stava a pregare (Luca, 5, 16).
§ 305. Più tardi, quando la commozione della gente si fu abbastanza calmata, Gesù rientrò a Cafarnao. Ormai la sua popolarità aveva messo sull’avviso Farisei e Scribi, i quali non potendo ancora dare un giudizio sicuro sul nuovo profeta cominciavano a sorvegliarlo, come già avevano fatto con Giovanni il Battista (§ § 269, 277); troviamo perciò, durante questa permanenza a Cafarnao, che essendo Gesù in una casa ad insegnare vi stavano anche seduti Farisei e Dottori della Legge, i quali erano venuti da ogni borgata della Galilea e Giudea e Gerusalemme (Luca, 5, 17). E’ importante rilevare come fin da Gerusalemme si fossero mossi per sorvegliarlo; tuttavia apparentemente il contegno di quei dottori non doveva essere aggressivo, e sembrava piuttosto che stessero li unicamente per apprendere, come tanti altri che avevano riempito la casa e facevano anche ressa all’uscio. Mentre Gesù sta parlando, alcuni uomini cercano di aprirsi un passaggio tra la folla accalcata all’ingresso: portano essi un paralitico steso su un giaciglio, e sperano d’arrivare fino al maestro per presentarglielo. Ma il passaggio è impossibile; la folla è troppo fitta e non si sposta. Eppure, se non si vuol perdere la buona occasione, bisogna far presto: il maestro può terminare improvvisamente il suo discorso, e poi ritirarsi subito appresso in qualche luogo solitario e sconosciuto per pregare, com’è solito fare. Ecco quindi che, mentre il maestro parla ancora nello stanzone principale dell’interno, il paralitico con tutto il giaciglio cala giù davanti a lui dal soffitto dello stanzone. Che era avvenuto? I portatori erano stati sbrigativi; poiché in Palestina le case di povera gente consistevano di solito nel solo pianterreno, coperto da una terrazza di terra battuta, essi erano saliti per la scaletta esterna sulla terrazza, avevano rimosso la terra battuta, spostando qualche tavola e qualche travicello, e dalla buca ottenuta avevano per mezzo di funi calato giù giaciglio e paralitico. Naturalmente, al comparire di quell’uditore di nuovo genere, la predica cessò. Gesù, per prima cosa, ammirò la fede di quei portatori e di quel portato; quindi, rivolto al paralitico, gli disse soltanto: (Figlio,) sono rimessi i tuoi peccati! In ebraico la parola peccato può indicare sia una colpa commessa sia le conseguenze della colpa stessa: presso gli Ebrei una fra le principali di tali conseguenze era stimata l’infermità corporale, specialmente se grave e cronica. In qual senso impiegò Gesù la parola? Probabilmente in ambedue i sensi, quello invisibile della colpa morale e quello visibile della conseguenza materiale. Senonché, appena udite quelle parole, i sorveglianti s’inalberarono; gli Scribi e i Farisei cominciarono a ragionare dicendo: Chi é costui che parla (con) bestemmie? Chi può rimettere peccati, se non solo Iddio? (Luca, 5, 21). Evidentemente l’obiezione si atteneva al solo senso invisibile della parola peccato, cioè a quello di colpa, la cui remissione non poteva essere riscontrata fisicamente da nessuno. Ma c’era anche il senso visibile, quello della malattia corporale; qui il riscontro fisico era ben possibile, e ognuno avrebbe potuto vedere se Gesù aveva parlato a vanvera. E Gesù appunto rispose adducendo la remissione visibile come prova della remissione invisibile. Conosciuti però Gesu’ i ragionamenti loro, rispondendo disse loro: Di che cosa ragionate nei vostri cuori? Che e’ piu’ facile dire: “Ti sono rimessi i tuoi peccati” oppure dire: “Sorgi e cammina”? Gli sfidanti dovettero capir subito che si metteva male per loro, giacché la loro sfida era stata accettata; e lì non si trattava di qualche elegante questione di casuistica rabbinica, ad esempio di sapere se fosse lecito di sabbato sciogliere il nodo d’una fune o trasportare un fico secco (§ 70), bensì si trattava di far saltare in piedi un paralitico, e da quell’operator di miracoli c’era da aspettarsi tutto. Perciò alla domanda di Gesù dovette seguire un silenzio piuttosto lungo e molto imbarazzato, come di chi abbia paura di far peggio se parli. Non ottenendo risposta, Gesù prosegui: Ebbene, affinché sappiate che il figlio dell’uomo ha autorita’ sulla terra di rimettere i peccati – a questo punto si voltò verso il paralitico – dico a te: Sorgi, e preso il tuo lettuccio cammina a casa tua! E quello, saltato in piedi all’istante, arrotolò il suo giaciglio e se n’andò. Ci vien riferito che tutti rimasero stupefatti, ma non quale atteggiamento prendessero i Farisei: probabilmente pensarono che non era quella la maniera di rispondere ad una elegante questione di teologia giudaica, ad ogni modo sicuramente a Gesù non dettero ragione.
§ 306. Anzi, neppure rallentarono la loro sorveglianza. Infatti poco dopo la guarigione del paralitico, secondo la serie di tutti e tre i Sinottici, avvenne un fatto d’altro genere. Passando Gesù per Cafarnao vide un pubblicano, Levi figlio di Alfeo, che al suo banco di dogana riceveva pagamenti, rilasciava ricevute attirandosi, da quei che pagavano le imposte, maledizioni ed esecrazioni certo più numerose dei denari lasciati sul banco. Forse quel pubblicano già conosceva Gesù di fama, o anche di persona, e nutriva venerazione per lui; forse nutriva pure una certa invidia per i discepoli di lui, poveri ma benedetti ed amati dal popolo, mentre egli con i suoi mucchietti d’argento e d’oro allineati sul banco era riguardato dalla gente come un cane rognoso. Fatto sta che Gesù, nel passar vicino al suo banco, lo guardò e gli disse soltanto: Seguimi! Quella parola fu scintilla caduta su materia infiammabile; il pubblicano, appena l’udì, lasciata ogni cosa, alzatosi lo seguì (Luca, 5, 28). Il pubblicano, secondo il costume allora frequente, aveva oltre al nome di Levi anche quello di Matteo (ebraico Mattai, contratto da Mattenai), che equivaleva al greco Teodoro e al latino Adeodato. E’l’autore del primo vangelo ora, questo nuovo seguace di Gesù che aveva ripudiato così prontamente la sua condizione sociale, non ne ripudiò immediatamente i vantaggi materiali, ma se ne servì per fare onore al nuovo maestro. Facoltoso com’era, tenne un suntuoso banchetto a cui invitò Gesù con i suoi discepoli e fianco a fianco con essi anche i propri antichi colleghi, cioè molti pubblicani e peccatori: cosi si esprime egli stesso (9, 10; Marco, 2, 15), mentre il fine Luca (5, 29) lascerà l’odioso termine di peccatori, e dirà pubblicani e altri (§ 143). Ma appunto questo affiancamento promiscuo apparve indecoroso, anzi obbrobrioso, agli Scribi ed ai Farisei che continuavano a sorvegliare: scandalizzatissimi, essi s’astennero dall’entrare nella casa di quel peccatore per non contarninarsi, ma sulla porta avvicinarono i discepoli di Gesù e fecero osservare: Ma come? Voi e il vostro maestro vi abbassate a mangiare e bere insieme con i pubblicani e i peccatori? Dove va il vostro decoro? Dove la purità legale? Le osservazioni giunsero all’orecchio di Gesù, il quale rispose per tutti: Non hanno bisogno i validi di medico, ma quelli che stanno male. Andate quindi ad imparare che cosa significhi (il detto): “Misericordia voglio e non sacrifizio”. Non venni infatti a chiamare giusti ma peccatori. Il detto citato appartiene agli scritti profetici (Osea, 6, 6): il che mostra che l’insegnamento di Gesù, risalendo più in su della tradizione rabbinica, si ricollegava con quello degli antichi profeti, i quali avevano mirato molto più alla formazione spirituale che alle formalità rituali, come aveva fatto poco prima anche Giovanni il Battista (§ 267).
§ 307. Naturalmente i farisei non rimasero affatto persuasi di quella risposta, che si attaccava proprio a una delle sentenze più pericolose dei già pericolosi profeti. A prenderla alla lettera, quella sentenza avrebbe abolito tutta la Legge di Mosè e tutte le osservazioni giudaiche: e allora come sarebbe rimasto in piedi l’immenso castello della legislazione rabbinica, somma delizia di Dio nei cieli e degli uomini sulla terra? E, a proposito, che opinione aveva Gesù delle pratiche devozionali dei Farisei, ad esempio del digiuno (§77)? Su questo punto i sorveglianti pedinatori di Gesù trovarono un sostegno in alcuni discepoli di Giovanni il Battista ingelositi della popolarità del nuovo maestro, cosicché un giorno vennero insieme e chiesero a Gesù: Come mai noi, sia seguaci di Giovanni sia Farisei, facciamo frequenti digiuni, e i tuoi discepoli invece mangiano e bevono? Come acquisteranno essi santità presso Dio e autorità presso il popolo, se non diverranno mesti e macilenti a forza di digiuni? – Gesù rispose: Possono forse i figli della camera nuziale (cioè gli ”amici dello sposo”; § 281) esser mesti fino a che lo sposo é con loro? Ma verranno giorni quando sia tolto via da essi lo sposo, e allora digiuneranno (Matteo, 9, 15). La risposta s’impernia sulla persona di Gesù, pur difendendo i discepoli: per essi verrà indubbiamente il tempo d’esser mesti e di digiunare ma non è il presente, in cui sta fra loro il loro maestro a guisa di sposo fra gli “amici dello sposo”; faranno essi cordoglio quando, con improvvisa separazione, il maestro sarà tolto d’in mezzo ad essi e la festa nuziale si svolgerà in lutto. Se non totalmente, almeno parzialmente, la risposta poteva esser compresa da quanti l’udirono: anche Giovanni, poco prima, era stato tolto violentemente ai suoi discepoli e li aveva lasciati nel lutto, e qui Gesù predice una sorte analoga ai discepoli propri. Del resto, perché insister tanto sul digiuno materiale? Se esso era diventato di somma importanza presso i Farisei, non aveva avuto eguale importanza presso la Legge antica, né i Farisei avevano ottenuto grandi risultati spirituali introducendo quel culto della pratica materiale. Se si voleva adornare a festa il proprio spirito bisognava addirittura cambiargli veste, non già rattoppare quella vecchia: Nessuno invero rattoppa con un rattoppo di panno grezzo una veste vecchia, giacché il rappezzo (con la sua durezza) ne la qualche lacerazione alla veste, e lo strappo diventa peggiore. Nè si mette vino nuovo in otri vecchi, se no si squarciano gli otri, e il vino si versa e gli otri si rovinano: ma si mette vino nuovo in otri nuovi, e ambedue si conservano (Matteo, 9, 16-17). A sentire enunciati siffatti principii, quei Farisei – che non erano certamente degli imbecilli – dovettero capire che dal nuovo Rabbi non c’era nulla da sperare, e che giammai egli si sarebbe aggregato a qualche scuola dei grandi maestri della “tradizione”. Tuttavia, o essi o altri, seguitarono ancora a pedinare, se non altro per sorprendere Gesù in altri attentati alla “tradizione”.
§ 308. L’occasione si offrì di lì a poco. Dal colloquio con la Samaritana, avvenuto in maggio, erano trascorse alcune settimane: la messe quindi era ben matura, anche in Galilea, e forse qua e là s’era cominciato a mietere. In un sabbato (§ 178), attraversando Gesù e i discepoli un campo, qualche discepolo sentì appetito, perciò si dette a cogliere spighe, e strofinandole con le mani ne mangiava i chicchi. Non era un furto, perché il caso era espressamente contemplato ed esplicitamente permesso dalla Legge (Deuteron., 23, 25); c’era però la violazione del sabbato, perché il mietere era appunto uno dei 39 gruppi di lavori proibiti nel sabbato (§70) e anche lo stropicciare fra le mani una spiga era un mietere secondo i rabbini; se costoro avevano sentenziato essere illecito mangiare un frutto caduto spontaneamente dall’albero di sabbato o un uovo fatto dalla gallina di sabbato (§ 251) perché ambedue i casi erano violazioni del riposo prescritto, tanto più dovevano condannare la deliberata azione dei discepoli. Sorpresili perciò in questo bel caso flagrante, si presentarono a Gesù additandogli i colpevoli: Non vedi? Fanno ciò che non è lecito di sabbato! – E chi aveva detto che non fosse lecito far delle eccezioni al sabbato? Gesù rispose discutendo su questo principio, e ricordando per analogia che anche David, quando fuggiva affamato, entrò nel tabernacolo di Jahvè e mangiò e fece mangiare ai suoi compagni quei “pani della proposizione” di cui era lecito cibarsi ai soli sacerdoti (I Samuele, 21, 2-6): dal caso di David era facile e spontaneo passare a quello del sabbato. Evidentemente per quei Farisei il caso di David era troppo remoto e apparteneva alla preistoria, mentre la vera storia delle istituzioni ebraiche cominciava per essi col sorgere del fariseismo. Tuttavia la stessa storia del fariseismo doveva esser loro poco nota: da principio infatti anche gli Asidei, cioè gli antenati immediati dei Farisei (§ 29), avevano rinunziato a difendere con le armi la propria vita per non violare il sabbato (§ 70), e con logicità perfetta si erano lasciati ammazzare dai loro nemici senza reagire; ma i superstiti venuti a più miti consigli, avevano stabilito il principio ch’era lecito di sabbato difendersi a mano armata da un assalitore (I Maccabei, 2, 40-41). C’era però la differenza che quegli antenati dei Farisei avevano creato e donato la libertà alla loro nazione, combattendo eroicamente sui campi di battaglia: al contrario, i classici Farisei dei tempi di Gesù combattevano solo sofisticamente nelle accademie rabbiniche, e quindi si potevano permettere il lusso di mostrarsi più rigorosi e più intransigenti di chi aveva procurato loro la possibilità di tenere accademie. Salendo poi al principio generico Gesù affermò: Il sabbato fu fatto a motivo dell’uomo, e non l’uomo a motivo del sabbato, ch’era precisamente il contrario di quanto nella vita ordinaria pensavano i Farisei; i infine concluse: cosicché il figlio dell’uomo è signore anche del sabbato (Marco, 2, 27-28). Il collegamento espresso dal cosicché è importante: il sabbato era stato fatto per l’uomo, e perciò aveva autorità anche sul sabbato colui che poco prima aveva dimostrato la propria autorità sui peccati dell’uomo (§ 305).
§ 309. Ma troppo gelosi del sabbato erano i Farisei perché la cosa finisse li’, con la sola affermazione che Gesù era padrone anche del sabbato: quella volta era mancata la prova visibile, che invece era stata data riguardo ai peccati dell’uomo. E la prova venne poco dopo, come risulta dalla serie di tutti e tre i Sinottici. E’ di nuovo un sabbato, e Gesu’ recatosi in una sinagoga vi predica secondo il suo solito. Ai Farisei che continuano a pedinare Gesù si presenta un’ottima occasione per dargli battaglia e metterlo alle strette nella questione del precetto sabbatico è venuto alla sinagoga un uomo che ha una mano rattrappita, e può darsi che quell’operator di miracoli sia tentato di guarirlo; osserveranno se egli cederà a si sconcia tentazione, violando in maniera pubblica e scandalosa il precetto. Pare anzi che non si limitassero ad osservarlo, ma qualcuno per provocarlo a bella posta (Matteo, 12, 10) gli domandò se fosse lecito curare un infermo in giorno di sabbato. La questione era grossa assai, e i rabbini continuarono anche più tardi a discuterla in tanti casi particolareggiati come già vedemmo (§ 71): ad ogni modo vigeva la norma che, salvo il pericolo di morte imminente, qualunque cura o medicamento erano assolutamente proibiti. Anche questa volta, come per il paralitico calato dal soffitto, Gesù non entra in discussione, ma adduce una prova visibile che dimostri se sia lecito o no curare di sabbato. Chi aveva imposto il precetto sabbatico secondo i Farisei? Certamente Dio. Chi era il signore delle leggi naturali? Certamente Dio. Se dunque una legge naturale era sospesa di sabbato, questa sospensione era opera di Dio. Questo fu il ragionamento che Gesù dette in risposta, ma lo espresse non a parole bensì a fatti. Disse pertanto all’uomo che aveva la mano rattrappita: “Alzati e mettiti nel mezzo!”. E alzatosi (ci) si mise. Disse poi Gesu’ a quelli: “Domando a voi se e’ lecito di sabbato far del bene o far del male, salvare o mandare in rovina una vita?” (Luca, 6, 8-9). Come nel caso del paralitico, anche questa volta e per la stessa ragione fu risposto col silenzio. Ma quelli tacevano. E guardatili torno torno con sdegno, contristato per l’indurimento del cuor loro, dice all’uomo: “Stendi la mano!”. E (la) stese, e fu ristabilita la mano di quello. Una risposta tutavia ci fu, e consistette in questo che, usciti i Farisei, tennero subito consiglio insieme con gli Erodiani (§ 45) contro di lui, sulla maniera di mandano in rovina (Marco, 3, 4-6). La ragione era chiara. Poiché questa maniera di rispondere già usata dai Farisei nei riguardi di Giovanni il Battista si era mostrata efficace (§ 292), essi volevano applicarla anche a Gesù. Ma Gesù saputa la macchinazione, si allontanò da quel luogo, come già aveva fatto alla notizia dell’imprigionamento di Giovanni, e molti gli andarono appresso (Matteo, 12, 15).
I dodici Apostoli
§ 310. Sull’orizzonte della vita di Gesù si era profilata oramai nettamente una nuvola, ancora abbastanza lontana, ma annunziatrice sicura di tempesta: la nuvola dei Farisei. Nè c’era da dubitare sui suoi effetti, giacché il recente caso di Giovanni il Battista dimostrava quale fosse la sorte di chi finiva ravvolto in quella nuvola. Gesù quindi provvide ai ripari, non già per la sua propria persona, bensì per la sua opera. Dall’inizio della sua vita pubblica erano già passati vari mesi, forse un sei o sette, e la sua operosità nella Galilea gli aveva procurato molti e cordiali seguaci. Da costoro egli avrebbe tratto le pietre fondamentali del suo edificio morale, e collocandole in opera avrebbe cominciato a tirar su quella casa che doveva resistere allo scaricarsi della nuvola. Più tardi l’evangelista teologo rifletterà: Nella (casa) propria (egli) venne, e i propri (familiari) non lo accolsero! (Giov., 1, 11). Eppure le antiche Scritture avevano predetto che il Messia sarebbe comparso nella casa d’israele, per far sì che proprio essa divenisse la casa comune di Dio e degli uomini, e tutti gli uomini indistintamente potessero affermare “ (Dio) s’attendò fra noi!” (Giov., 1, 14); ma poiché la sua casa naturale non lo accoglieva, il Messia cominciava a segregarsi da essa e gettava i fondamenti della casa umano-divina ch’era lo scopo della sua missione: il rifiuto dei familiari che si rinnovasse la vecchia costruzione fatiscente costringeva il rinnovatore a predisporre una costruzione tutta nuova. A rigore un vero scisma ancora non era: erano tuttavia provvedimenti in vista d’uno scisma. Fra i seguaci ordinari di Gesù alcuni già erano in condizioni di particolare aderenza e comunanza col maestro: tali Simone Pietro e Andrea, Giacomo e Giovanni figli di Zebedeo (§ 302), poi anche Levi cioè Matteo (§ 306), Filippo e Nathanael ossia Bartolomeo § 279-280). A questi sette furono aggiunti altri cinque, che certamente seguivano già da qualche tempo Gesù senza però che a noi risulti quando fossero entrati in relazione con lui. La scelta di questi dodici è posta da Marco (3,13-19) e da Luca (6, 12-16) prima del Discorso della montagna, e questa collocazione è senza dubbio giusta cronologicamente; Matteo (10, 1-4) enumera i dodici dopo il Discorso della montagna, in occasione della loro missione temporanea nelle città d’Israele, ma non dice che la loro scelta avvenisse allora, ché anzi dalla narrazione risulta ch’era avvenuta in precedenza.
§ 311. Prima di questo singolare atto della sua missione, come già prima d’iniziare la sua vita pubblica, Gesù si appartò nella montagna a pregare, e stava pernottando nella preghiera d’iddio. Quando poi si fece giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e si prescelse da essi dodici, che nominò pure apostoli (Luca, 6, 12-13). La parola apostolo significava in greco “inviato”, e corrispondeva etimologicamente all’ebraico shaluah. o shaliah e all’aramaico shaluha; era quindi un “apostolo” nella vita civile chi era inviato a trattare d’un matrimonio o di un divorzio, sia a comunicare una decisione giudiziaria, come erano stati “apostoli” nella vita religiosa i profeti e gli altri inviati di Dio. Anche il Sinedrio di Gerusalemme aveva suoi “apostoli”, ed erano quei messi di cui esso si serviva per far pervenire le sue notificazioni alle varie comunità (§ 58) specialmente della Diaspora (cfr. Atti, 9, 1-2; 28, 21); sembra anzi che questi “apostoli” continuassero a funzionare anche dopo la distruzione di Gerusalemme, quando le supreme autorità giudaiche si erano stabilite a Jamnia. Ma fra gli “apostoli” ordinari del giudaismo (astraendo cioè dai profeti e da altre antiche manifestazioni carismatiche) e gli Apostoli istituiti da Gesù non c’era niente di comune, fuori del nome. I primi erano dei semplici incaricati e rappresentavano una data persona in un ben determinato affare (tal senso anche in Giovanni, 13, 16), come anche potevano essere umilissimi portatori materiali di messaggi ossia portalettere: tutti quindi rispondevano bene al titolo di “inviati”, senza però essere inclusi in una vera istituzione giuridica. I secondi invece costituivano una precisa istituzione permanente, mentre in un senso altrettanto vero ma ben più nobile erano “inviati” perché dovevano essere i portatori materiali e spirituali della “buona novella” (§105 segg.). Il loro numero di dodici aveva un’evidente analogia con i dodici figli d’Israele e con le dodici tribù che ne erano discese per formare la nazione già prediletta dal Dio Jahvè: poiché la casa d’Israele minacciava ora di non accogliere il Messia di Jahvè che ad essa veniva, la nuova casa impiantata dal Messia a sostituzione di quella avrebbe avuto a sua direzione egualmente dodici capitribù spirituali. Ciò sarebbe stato un memoriale dell’èra passata e una testimonianza per l’èra futura; e questo numero di dodici fissato da Gesù fu tenuto in tanto onore nella prima generazione cristiana, che non solo essa v’incluse immancabilmente anche il nome del traditore Giuda, ma quando costui mori la prima cura del capo dei dodici, Pietro, fu di sostituire il morto con un nuovo dodicesimo apostolo e cosi reintegrare il numero solenne (Atti, 1, 15-26). Assai più spesso infatti che col nome di “apostoli” essi sono designati nel Nuovo Testamento con quello di “dodici” (34 volte contro 8).
§ 312. L’elenco dei dodici è dato quattro volte, cioè dai tre Sinottici Matteo, 10, 2-4; Marco, 3, 16-19; Luca, 6, 14-16) e dagli Atti (1, 13). Nessuno dei quattro elenchi concorda in tutto con un altro riguardo alle serie con cui sono nominati i dodici, neppure gli elenchi di Luca e degli Atti che sono dello stesso autore; tuttavia vi si riscontrano le seguenti disposizioni costanti. Simone (Pietro) è sempre nominato per primo, e Giuda il traditore sempre per ultimo (salvo che II Atti, essendo già morto); inoltre i dodici sono sempre elencati in tre gruppi formati da quattro nomi, e costantemente in cima al primo gruppo è nominato Simone, in cima al secondo Filippo, in cima al terzo Giacomo figlio d’Alfeo. Ecco l’elenco com’è dato da Matteo: Simone detto Pietro, Andrea suo fratello, Giacomo (figlio) di Zebedeo, Giovanni suo fratello; Filippo, Bartolomeo, Tommaso, Matteo il pubblicano; Giacomo (figlio) d’Alfeo, Taddeo, Simone il Cananeo, Giuda Iscariota il traditore. Soltanto il terzo gruppo mostra al confronto con gli altri elenchi variazioni di nomi, trattandosi certamente del caso allora frequente fra i Giudei di avere due nomi. Invece di Taddeo, che in qualche manoscritto riceve la forma di Lebbeo,appare in altri elenchi un Giuda (figlio) di Giacomo, che è però la stessa persona di Taddeo. Come l’aggiunta patronimica di Giacomo serviva a distinguere questo Giuda dall’omonimo traditore, cosi l’aggiunta il Cananeo serviva a distinguere il secondo Simone dall’omonimo Pietro. Questo appellativo Cananeo è una semplice trascrizione dall’aramaico, ma in altri elenchi esso appare tradotto con zelota, come già rilevammo (§ 43); ad ogni rnodo l’appellativo ha qui il suo senso etimologico originale e non quello storico più tardivo, né implica che questo Simone appartenesse al partito degli Zeloti, i quali del resto intensificarono la loro operosità solo più tardi.
§ 313. Se Bartolomeo è effettivamente la stessa persona che Nathanael (§ 280), i primi sei di questo elenco ci sono già noti: cosi pure l’ottavo, cioè Matteo. Degli altri non abbiamo precise notizie circa il tempo e l’occasione in cui si misero al seguito di Gesù: soltanto sappiamo che Giacomo figlio d’Alfeo, ossia Giacomo il Minore (mentre “il Maggiore” è Giacomo figlio di Zebedeo), aveva per madre una Maria e per fratelli un Giuseppe, un Simone, e un Giuda (cfr. Marco, 15, 40; Matteo, 13, 55; 27, 56) e che era chiamato “fratello del Signore” (§ 264); probabilmente per quest’ultima ragione gli è serbato sempre il primo posto nel gruppo degli ultimi quattro. Il nome Tommaso è grecizzato dall’aramaico toma, che significa “gemello”; perciò al nome è aggiunta la sua traduzione greca, da Giovanni (11, 16; 20, 24). Il traditore Giuda è distinto con l’appellativo Iscariota, ma da Giovanni (6, 71, greco) apprendiamo che Iscariota era chiamato anche Simone padre di Giuda; era dunque una designazione trasmessa di padre in figlio. Quasi certamente l’appellativo è una trascrizione dell’ebraico ‘ish Qerijjoth, “uomo di Qerijjoth”, ed è perciò un appellativo geografico riferentesi alla città della Giudea chiamata Qerijjoth (cfr. Giosue’, 15, 25) da cui provenivano gli antenati di Giuda. Nell’elenco di Marco (3, 17) si legge che ai due fratelli Giacomo e Giovanni fu imposto da Gesù il nome di Boanerge’s cioe’ figli del tuono. L’appellativo non è etimologicamente chiaro, e oggi è difficile riportarlo ad una forma semitica. La meno improbabile sembra essere bene-rigsha, “figli del fragore”. Il solo Marco riferisce questo appellativo, in occasione dell’elenco degli Apostoli: certamente però esso non fu attribuito in questa elezione, ma solo più tardi quando in varie circostanze dovette apparire il carattere impetuoso e ardente dei due giovani che lo provocò; una di tali occasioni fu verosimilmente quando Giacomo e Giovanni volevano invocare fuoco dal cielo per incenerire i Samaritani che rifiutavano ospitalità a Gesù (Luca, 9, 54).
§ 314. Quanto alla condizione sociale e al grado culturale dei dcdici possiamo concludere, da qualche vago accenno della loro condotta successiva, che essi in genere appartenevano a quel ceto sociale del giudaismo che stava un poco sotto alla classe media dei piccoli possidenti e parecchio sopra alla classe infima dei veri poveri. Era un ceto che non ha un esatto riscontro nelle nostre condizioni sociali odierne, ma che all’ingrosso si potrebbe riavvicinare al piccolo commerciante o al basso impiegato. Il lavoro manuale, di pesca o altro, era abituale, come del resto era comune anche fra i rabbini dedicati allo studio della Legge (§167), ma la sua necessità economica non era così imperiosa come presso di noi; le condizioni generiche della vita permettevano d’astenersi dal lavoro anche per molti giorni di seguito, e simili astensioni tanto più erano permesse a coloro che avevano una base economica migliore, per esempio ai membri della famiglia di Zebedeo che esercitavano una industria peschereccia piuttosto ampia. Non è arrischiato supporre che, sotto l’aspetto economico, la famiglia di Gesù fosse in condizioni meno agiate che le famiglie di tutti o quasi tutti gli Apostoli. Del resto le esigenze materiali erano poche, e con poco si viveva senza desideri e rimpianti. In compenso, molti di questo ceto così modesto s’interessavano vivamente di problemi spirituali, specialmente se avevano attinenza con argomenti religiosi e nazionali. Si lasciavano volentieri gli agi della propria casetta per prender parte ad una discussione, per ascoltare un celebre maestro, per andare addietro anche vari giorni di seguito ad un potente dominatore di turbe. Ciò che s’imparava in questi incontri era custodito amorosamente nell’archivio preferito dai Semiti, quello della memoria (§ 150), e forniva argomento a continue riflessioni personali e a frequenti dispute collettive, e così si formava il principale patrimonio culturale di questo ceto. Il quale leggeva e scriveva poco, senza però che tutti vi fossero analfabeti: l’analfabetismo in Palestina dovette imperversare molto più dopo la catastrofe del 70 che prima di essa; alle singole sinagoghe, prima della catastrofe, era per lo più annessa una scoletta elementare (§ 63) e bene o male molti imparavano le lettere, sebbene in seguito se ne servissero poco. Di questa condizione sociale e levatura culturale erano, in genere, i dodici scelti da Gesù, pur ammettendo che taluno di essi emergesse alquanto fra gli altri. Già rilevammo, ad esempio, che l’antico pubblicano Matteo fu scelto a mettere in iscritto la catechesi apostolica probabilmente appunto per la sua maggiore perizia nello scrivere (§ 117); inoltre, se i Greci che volevano conoscere personalmente Gesù si rivolsero per tale scopo a Filippo (Giovanni, 12, 20-21, greco) l’apostolo dal nome greco, si può congetturare che questo apostolo si segnalasse fra i suoi colleghi per cultura o condizione sociale (§ 508). I caratteri personali dei dodici variavano naturalmente da individuo a individuo: all’impetuoso Simone Pietro pare che somigliasse ben poco suo fratello Andrea, che doveva esser d’indole calma e serena, né i due figli del tuono avevano molte analogie con Tommaso lo sfiduciato e il diffidente (Giovanni, 11, 16; 14, 5; 20, 25). Quando si dettero a seguire Gesù erano certamente accesi da vivo affetto e da entusiasmo per lui, ma nelle loro intime personalità erano rimasti uomini come tutti gli altri, e presi in complesso rappresentavano più o meno l’umanità intera. Anche per questo non poteva mancare il traditore.
Il Discorso della montagna
§ 315. L’elezione dei dodici fu una scelta materiale, che sarebbe valsa a ben poco se non fosse stata seguita da una spirituale, ossia da una informazione dottrinale. Nonostante il loro affetto per il maestro i dodici dovevano essere informati assai scarsamente circa il pensiero di lui, e si sarebbero trovati certamente in un serio impaccio se qualche dotto Fariseo li avesse invitati a fare un’esposizione precisa e compiuta delle dottrine di Gesù. Lo avevano visto operar miracoli per far del bene agli afflitti; lo avevano udito predicare come avente autorità (§ 299) ed affermare principii di giustizia e di bontà; essi stessi si erano sentiti dominati da lui e attratti a lui, e lo amavano cordialmente: ecco tutto, altro non avrebbero potuto dire. Ma ciò evidentemente diventava troppo poco in quel giorno che essi pure erano stati eletti suoi cooperatori, né Gesù aveva fatto loro alcuna comunicazione a parte circa i suoi insegnamenti e intendimenti. Inoltre, anche per il popolo era necessaria un’esposizione fondamentale della dottrina di Gesù, perché i popolani, che fino allora lo avevano udito predicare occasionalmente, dovevano averne un’idea anche più imprecisa e vaga di quella che ne avevano i dodici. Le ostilità sempre crescenti degli Scribi e dei Farisei rendevano, anch’esse, opportuna una dichiarazione di programma, affinché le rispettive posizioni fossero nettamente definite: il popolo, si, aveva subito notato che Gesù insegnava loro… non come gli Scribi (§ 299), ma se anche quei popolani avessero dovuto scendere al particolare elencando i punti di consenso e quelli di dissenso fra Gesù e i Farisei, sarebbero rimasti certamente anche più impacciati dei dodici. A queste varie esigenze corrispose il Discorso della montagna.
§ 316. Gesù oramai era ben noto non soltanto nella Galilea ma anche fuori; con quella sorprendente rapidità ed ampiezza con cui si diffondevano oralmente le notizie nel mondo semitico, sempre avaro di documenti epistolari, la fama di lui si era sparsa sia a mezzogiorno nella Giudea e nell’Idumea ambedue giudaiche, sia nella ellenizzata Decapoli a oriente (§ 4), sia nei grandi centri mediterranei della pagana Fenicia ad occidente. Gruppi di gente salivano su da questi paesi verso il profeta galileo per vederlo e udirlo, ma insieme e anche più per esser guariti dalle loro malattie (Luca, 6, 18); molti infatti eghi curò, tanto da gettarsi addosso a lui per toccarlo quanti avevano malori (Marco, 3, 10). Le ondate di gente dovettero susseguirsi e crescere per qualche tempo, finché un giorno Gesù giudicò opportuno tenere alla numerosa folla e ai dodici il discorso espositivo del suo programma. Tutti e tre i Sinottici indicano come luogo del Discorso la montagna, con l’articolo ma senza una precisa determinazione dunque, una delle colline della Galilea. La tradizione che riconosce questa collina nell’odierno « Monte delle beatitudini » ha ragioni non spregevoli in suo favore: è attestata esplicitamente solo nel secolo XII, ma se si considera in sostanza tutt’una con la tradizione riguardante Tabgha (§ 375 nota) essa risale al secolo IV. La montagna sarebbe la collina alta circa 150 metri posta sulla sponda occidentale del lago di Tiberiade sopra a Tabgha, e distante un 13 chilometri da Tiberiade e circa 3 da Cafarnao; il preciso luogo del Discorso non sarebbe sulla cima della collina, ove oggi sorge l’ospizio dell’Associazione Nazionale per i Missionari Italiani, ma alquanto più in basso su una spianata a sud-ovest della collina. Era un posto preferito da Gesù per trattenersi con le turbe, come vuole l’antica tradizione, e non lontano da Cafarnao, come esige la narrazione sinottica.
§ 317. Del Discorso abbiamo due recensioni, quella di Matteo e quella di Luca, ma ben differenti fra loro. La principale differenza è nella quantità e disposizione della materia, perché la recensione di Matteo è circa tre volte e mezzo più ampia che quella di Luca (107 versetti contro 30); tuttavia in compenso Luca riporta in altre circostanze della vita di Gesù ampie parti del Discorso come è trasmesso da Matteo (circa 40 versetti). Questa attribuzione ad altre circostanze è molto importante; essa si ritrova non solo in Marco, che pur tralasciando l’intero Discorso ne riporta qua e là poche sentenze staccate, ma inaspettatamente anche nello stesso Matteo, che fa ripetere a Gesù sentenze del Discorso in altre circostanze (cfr. Matteo, 5, 29-30, con 18, 8-9; e 5, 32, con 19, 9). Tutti questi fatti non sorprendono chi abbia presente quanto già dicemmo sia riguardo alla dipendenza diretta degli evangelisti dalla catechesi viva della Chiesa (§110 segg.), sia riguardo agli scopi e ai metodi particolari a ciascun evangelista: su quest’ultimo punto è necessario ricordare particolarmente che Matteo è l’evangelista che scrive con ordinamento (§ 114 segg.) e Luca è quello che si è proposto di scrivere secondo consecuzione (§ 140 segg.). Si potrà quindi ammettere senza difficoltà che talvolta Luca abbia staccato dal Discorso della montagna alcuni tratti riferendoli in altre circostanze storiche, e per contrario che Matteo abbia conglobato nel Discorso sentenze pronunziate da Gesù in altre occasioni. Per citare un solo esempio del secondo caso, Matteo porta l’orazione del Pater noster in questo Discorso (6, 9-13); Luca invece la porta molto più tardi, nel secondo anno inoltrato della vita pubblica di Gesù e pochi mesi prima della sua morte, e inoltre fa che l’insegnamento di quell’orazione sia provocato dalla domanda di uno dei discepoli che chiede a Gesù in quale maniera dovessero pregare (Luca, 11, 1-4). E’ certo possibile che Gesù abbia insegnato più d’una volta il Pater noster, tanto più che le due recensioni di esso sono abbastanza diverse; tuttavia in favore della circostanza storica di Luca sta la domanda del discepolo che provoca la risposta, mentre nel Discorso della montagna tale provocazione manca, e il Pater noster si potrebbe anche staccare dal Discorso senza interromperne il filo logico. E, come questo, si potrebbero addurre altri esempi per un caso e per l’altro: i quali tuttavia non sarebbero né sempre sicuri, né tali da offrire la base ad una norma generale. Un’altra e maggiore possibilità è che il Discorso della montagna, quale fu pronunziato da Gesù, fosse anche più ampio di ciascuna delle due recensioni odierne. Quella di Matteo, ch’è la più estesa, si potrebbe oggi recitare ad alta voce come predica per una folla in una ventina di minuti, e aggiungendovi le poche sentenze che sono particolari a Luca si allungherebbe la predica solo di tre o quattro minuti: non era certarnente una predica troppo lunga per folle che venivano da lontano ad ascoltare Gesù. E’ dunque molto probabile che questo Discorso fondamentale fosse riportato nella primitiva catechesi orale in maniera molto più ampia di come noi l’abbiamo adesso e che, mentre Marco lo ha tralasciato quasi totalmente, gli altri due Sinottici ne abbiano riprodotto solo quelle parti che meglio rispondevano ai loro scopi. Inoltre più tardi, presentandosi l’occasione, Gesù può esser benissimo ritornato su alcuni punti di quella sua esposizione programmatica, fors’anche ripetendo le stesse sentenze e impiegando le stesse comparazioni, come hanno sempre fatto i maestri di qualunque età e di qualunque argomento. In conclusione, la recensione secondo Matteo sembra la più vicina alla forma che il Discorso aveva nella catechesi primitiva, e quindi la più opportuna ad esser scelta come base.
§ 318. Impiegando una terminologia musicale, il Discorso della montagna può esser rassomigliato ad una maestosa sinfonia che fin dalle prime battute, senza preparazione di sorta, e con l’attacco simultaneo di tutti gli strumenti, enunzi con precisione nettissima i suoi temi fondamentali: e sono i temi più inaspettati, più inauditi di questo mondo, totalmente diversi da qualunque altro tema formulato giammai da altre orchestre, eppure presenti come se fossero i temi più spontanei e più naturali per un orecchio bene educato. E in realtà fino al Discorso della montagna tutte le orchestre dei figli dell’uomo, pur fra variazioni d’altro genere, all’unisono avevano annunziato che per l’uomo la beatitudine consiste nella felicità, la sazietà è data da saturità, il piacere è l’effetto di appagamento, l’onore è prodotto da stima; al contrario, e fin dalle prime battute del suo attacco, il Discorso annunzia che per l’uomo la beatitudine consiste nell’infelicità, la sazietà nella famelicità, il piacere nell’inappagamento, l’onore nella disistima, in vista però del premio futuro. L’ascoltatore della sinfonia rimane allibito all’enunciazione di siffatti temi: ma l’orchestra proseguendo impetturbata ritorna sopra i singoli enunciati, li scevera ad uno ad uno, li ribadisce, ricama variazioni attorno ad essi: raccoglie quindi nello squillo degli ottoni altri temi accennati timidamente dagli archi, li corregge, li trasforma, li sublima lanciandoli su altissime vette: sommerge invece in un fragore di toni talune vecchie risonanze riecheggiate da lontane orchestre, escludendole dal suo quadro sinfonico; fonde poi il tutto in un’ondata sonora che, salendo su su dall’umanità reale e dal mondo materiale, raggiunge e si riversa su un’umanità non più umana e su un mondo immateriale e divino. Gli antichi stoici avevano chiamato paradosso un enunciato che andava contro l’opinione comune in questo senso il Discorso della montagna è il più ampio e più radicale paradosso che sia stato mai enunciato. Nessun discorso recitato sulla terra fu più sconvolgente, o meglio, più capovolgente, di questo ciò che tutti prima chiamavano bianco qui è chiamato non già bigio o scuro ma addirittura nero, mentre il nero è chiamato precisamente candido; l’antico bene è ivi assegnato alla categoria del male, e l’antico male a quella del bene; dove prima si sublimava la vetta adesso è posta la base, e dove si sprofondava la base è collocata la vetta. In confronto con la rivoluzione contenuta nel Discorso della montagna, le massime rivoluzioni operate dall’uomo sulla terra sembrano finte battaglie fatte per giuoco da bambini, in confronto con la battaglia di Canne o quella di Gaugamela. E questo capovolgimento è presentato, non già come conseguenza di lunghe investigazioni intellettuali, bensì con un tono decisamente imperativo che trova il suo appoggio soltanto sull’autorità dell’oratore. “Così è, perché ve lo dico io Gesù”; “altri vi hanno detto bianco, ma io Gesù vi dico nero”; “vi è stata prescritta la somma di cinquanta, ma essa sta bene solo in parte e io Gesù vi prescrivo la somma totale di cento”.
§ 319. E quali sono le sanzioni di questo nuovo ordinamento? Non esistono sanzioni umane ma solo divine, non sanzioni terrene ma solo ultraterrene. I poveri sono beati perché di essi è il regno dei cieli, ma non un regno della terra; i dolenti sono beati perché saranno consolati, ma in un imprecisato futuro lontano; i puri di cuore sono beati perché vedranno Iddio, ma non perché la loro purità sarà pregiata ed encomiata dagli uomini; in genere poi tutti i tribolati per amor della giustizia sono beati, ma nuovamente perché di essi è il regno dei cieli e non perché spetti loro un’ampia ricompensa sulla terra. Cosicché il nuovo ordinamento promulgato da Gesù ha una regolare base giuridica soltanto per chi accetti ed aspetti il regno dei cieli; invece un qualunque Nicodemo, che sia nato dalla carne e vedendo soltanto materia non accetti né aspetti un regno dei cieli, troverà che l’ordinamento di Gesù manca di base ed è, ben più che un paradosso, addirittura un assurdo ma appunto la ragione di questa ripulsa era stata prevista e spiegata da Gesù quando nel suo coiloquio con Nicodemo lo aveva ammonito, se qualcuno non sia nato dall’alto, non può vedere il regno d’Iddio, perché ciò ch’é nato dalla carne, e’ carne; e ciò ch’e’ nato dallo Spirito, e’ spirito (§ 288). Infine il Discorso della montagna non prescinde dalla realtà storica, ma in molti ed essenziali punti si ricollega con fatti reali dell’ebraismo passato e contemporaneo. La legge mosaica non è abolita, ma integrata e perfezionata; essa è conservata, ma come un pianterreno su cui venga sovrimposto un piano superiore. Le costumanze e perfino le elucubrazioni casuistiche degli Scribi e dei Farisei sono tenute presenti, ma considerate come un cadavere in cui bisogna infondere un’anima: dappertutto si ricerca la moralità dello spirito, assai più che la materialità dell’azione. Non sfugge neppure la questione finanziaria ed economica, ma anche questa è inquadrata in un atto di fede, in una visione della provvidenza di Dio. Sopra ogni cosa, poi, domina l’amore, nelle sue due ramificazioni verso Dio e verso gli uomini. Dio non è un monarca dispotico che invii da lontano i suoi ordini all’umanità e ne attenda i tributi; è invece il padre di tutta l’umana famiglia, che conosce quando i suoi figli hanno fame e vuol essere onorato da essi con la richiesta insistente del pane. Gli uomini tutti, come figli tutti egualmente di questo Padre sovrumano, sono fratelli, hanno lo stesso sangue spirituale, sono altrettanti “io” davanti a cui deve scomparire l’”io” del singolo. Tanta è l’importanza di questo amore per gli uomini, che perfino l’amore per Dio non può esser vero e legittimo se non è accompagnato da quello per gli uomini: chi stia per fare un’offerta all’altare con sincere disposizioni di spirito, ma in quel momento gli sovvenga che un altro uomo ha ricevuto una qualche ingiustizia da lui, prima vada a riparare l’ingiustizia e poi torni a fare l’offerta, giacché Dio cede volentieri la precedenza cronologica all’uomo aspettando tranquillamente, mentre non gradirebbe l’offerta fatta da chi ha un rimorso di coscienza contro il proprio fratello.
§ 320. Il Discorso della montagna si svolge conforme a uno schema abbastanza chiaro, soprattutto nella recensione secondo Matteo: ma questo evangelista, benché “ordinatore” per eccellenza (§ 114), non deve aver creato qui l’ordinamento e piuttosto lo ha ritrovato già nella catechesi primitiva, sebbene qua e là vi abbia potuto introdurre piccole modificazioni. Il prologo, ch’entra subito nella maniera più risoluta, è rappresentato dalle beatitudini (5, 3-12): altrettanto avviene in Luca (6, 20-26), sebbene con divergenze. In Matteo la felicitazione Beati…! è ripetuta nove volte, ma le beatitudini sono in sostanza soltanto Otto perché l’ultima è quasi una ripetizione della penultima e come un riassunto di tutte le precedenti; in Luca la felicitazione è ripetuta solo quattro volte, ma subito appresso sono aggiunte quattro maledizioni Guai…! indirizzate agli opposti dei felicitati di prima. Questa forma letteraria, per cui si cominciava con affermare un’idea e subito appresso si negava un suo contrario, si ritrova usita tissinia nella poesia biblica (parallelismo antitetico) ; ma anche più importante è notare che precisamente in antiche promulgazioni della Legge mosaica era stata seguita questa alternativa di benedizioni e di maledizioni (Deuteronomio, 11, 26-28; 27, 12-13; 28, 2 segg. e 15 segg,; Giosue’, 8, 33-34). Ora, poiché il Discorso della montagna indubbiamente vuole essere, sia per il contenuto sia per lo scenario, il contrapposto messianico alla Legge mosaica (§ 322), è molto probabile che il suo prologo nella primitiva catechesi consistesse in un elenco di beatitudini seguite o alternate da altrettante maledizioni; da questo complesso Matteo estrasse soltanto otto beatitudini, Luca invece soltanto quattro beatitudini ma rafforzate da quattro maledizioni.
§ 321. Affiancando pertanto le due recensioni si ottiene questa sinossi, che ci riporta piu vicini allo schema della primitiva catechesi: Maledetto Chanaan! Schiavo degli schiavi sia per i suoi fratelli..’ Benedici, o Jahvè, le tende di Sem e sia Chanaan loro schiavo! Genesi, 9, 25-26 Maledite Merozl disse l’angelo di Jahvè: Maledite, maledite i suoi abitanti!. Sia benedetta fra le donne Jael, moglie di Heber il Qenita: fra le donne della tenda sia benedetta! Giudici, 5, 23-24 Maledetto l’uomo che si confida nell’uomo, e pone carne quale braccio suo!.. Benedetto l’uomo che si confida in Jahvé, ed e’ Jahve’ la confidenza sua! Geremia, 17, 5-8 . Questo sbalorditivo prologo ha presentato fin qui lo spirito generico del programma di Gesù, cioè della Legge messianica; conclude poi annunziando che questo spirito dovrà essere come un sale che preserverà da corruzione il mondo intero e come una luce che illuminerà tutta la terra (Matteo, 5, 13-16; in altro contesto Luca, 4, 34-35, e 8, 16; 11, 33). Ma subito dopo questo sguardo al futuro il Discorso si rivolge al passato, e affronta la questione delle relazioni tra futuro e passato nei riguardi della Legge ebraica, procedendo secondo il seguente schema.
§ 322. Gesù non è un demolitore della Legge, ma un rinnovatore che in parte abolisce e in parte conserva perfezionando (Matteo, 5, 17-20). La legge messianica perfeziona quella mosaica nei precetti della concordia, della castità, del matrimonio, del giuramento, della vendetta e della carità (ivi, 21-48). – Essa supera di gran lunga le usanze dei Farisei riguardo all’elemosina, alla preghiera e al digiuno (6, 1-18). – Essa, per chi l’accoglie, è l’unico e vero tesoro e libera da ogni altra preoccupazione (ivi, 19-34). – Essa richiede una carità più perfetta e una preghiera più insistente (7, 1-2). – Essa è una porta angusta, ma salva dai falsi profeti e fa compiere buone opere (ivi, 13-23). – In conclusione, la nuova legge è una casa costruita sulla viva roccia che resisterà alle tempeste (ivi, 24-27). Già da questo rapido sommario appare evidente che il Discorso della montagna ha, fra altri scopi, quello di presentarsi come un contrapposto non distruttivo ma perfettivo della Legge di Mosè. E questo sostanze sia per generica condizione sociale. Luca tralascia la precisazione di Matteo (poveri) in sirito (§ 145), per la quale la beatitudine è riserbata a quei poveri che accettino questa loro condizione e ne siano paghi nel loro spirito, mentre i forzati e i riluttanti non sono poveri in ispirito. Invece del piu’ generico dolenti di Matteo, Luca ha il più specifico piangenti; cfr. Isaia, 61, 2. – I miti non sono i dolci di carattere, ma gl’infimi della società, i giusti abietti ed umiliati; tutta l’espressione è presa dal Salmo 37, li (ebr.) ove si dice che questi “miti” possederanno la terra. – I puri di cuore sono, non soltanto i casti di pensiero e d’affetto, ma più generalmente i mondi da macchia spirituale, gli innocenti davanti a Dio; la frase dipende dal Salmo 24, 4 (ehr.), ov’è detto che il puro di cuore può presentarsi al santuario di Jahvè. – Gli operanti pace sono i pacifici nel senso non soltanto passivo, che godono della pace, ma anche attivo, che producono e apportano la pace. – Le beatitudini ottava e nona di Matteo (vers. 10-11) si riferiscono allo stesso soggetto: ad ambedue in comune si riporta la sanzione del vers. 12. scopo è conferrnato anche dalla sceneggiatura materiale: come infatti la Legge antica era stata promulgata sul monte Sinai, da Mosè, assistito dagli anziani della nazione ed alla presenza del popolo; così la legge nuova è promulgata sulla montagna della Galilea, da Gesù Messia, assistito dai dodici Apostoli ed alla presenza delle turbe. Che da questa corrispondenza di sceneggiatura si è tratta recentemente la conclusione che tutto è fittizio, e che la sceneggiatura è ideale, e che il Discorso non fu mai tenuto: ma se la conclusione è arbitraria, non per questo le premesse sono false. La sceneggiatura corrisponde, appunto perché si volle a bella posta mostrare una riconnessione anche materiale fra l’antica e la nuova legge, come poco prima si era ricercata una riconnessione numerica fra i dodici Apostoli e le dodici tribù d’Israele (§ 311), e come pure con l’alternativa di benedizioni e di maledizioni si volle probabilmente seguire il metodo di altre antiche promulgazioni della Legge di Mosè (§ 320). Il Discorso della montagna ha uno stile popolare e un frasario orientale. Sottigliezze ed astrazioni mancano, spesseggiano invece i casi pratici e immediati che il popolo ha sempre prediletti e da cui sa ben ricavare norme generali: numerose vi sono anche le iperboli orientali, che gli ascoltatori sapevano interpretare nel loro giusto valore ma senza le quali avrebbero trovato letterariamente insipido il discorso. Per un orientale davano sapore al discorso frasi come quelle che dicevano: Se la tua mano destra ti scandalizza, mozzala via e getta(la) da te, oppure chiunque ti schiafleggia sulla guancia destra rivoltagli pure l’altra; tuttavia i primi seguaci di Gesù non si mozzarono mai la mano destra nè offrirono la guancia sinistra, per la semplice ragione che capivano lo stile in cui si parlava nei loro paesi e soprattutto perché avevano del buon senso. Quando invece subentrò l’idolatria del letteralismo o al buon senso si sostituì il fanatismo, allora si ebbero i casi di Origene nell’antichità e di Leone Tolstoi ai tempi nostri; ma a differenza dell’allegorizzante alessandrino, che diviene improvvisamente letteralista, e del sognatore russo, che rimane un sensuale nelle sue utopie mistiche e predica aggressivamente la mansuetudine, Francesco di Assisi apparirà sempre il più perfetto interprete del Discorso della montagna, interprete tanto perspicace nel riconoscerne lo spirito quanto entusiasta nel praticarlo. § 323. Ecco il resto del Discorso: (Matteo, cap. 5) Voi siete il sale della terra: ma se il sale sia diventato insipido con che si salerà? Non serve pìu’ a niente salvo che, gettato fuori, ad esser colpestato dagli uomini.’ Voi siete la luce del mondo: non puo’ star nascosta una città collocata sopra un monte, nè accendono una lucerna e la pongono sotto il moggio bensì sul lampadario e risplende a tutti quei (che sono) nella casa: così risplenda la luce vostra davanti agli uomini, affinché vedano le vostre belle opere e glorifichino il Padre vostro, quello ch’è nei cieli. Non crediate che venni ad abolire la Legge o i Profeti: non venni ad abolire, bensì a compiere. In verità infatti vi dico, finché passi il cielo e la terra un solo iota o un solo trattino non passerà dalla Legge, fino a che tutto avvenga. Chi pertanto abbia disciolto uno solo di questi minimi comandamenti ed abbia insegnato così agli uomini, minimo sarà chiamato nel regno dei cieli: chi invece abbia praticato ed insegnato, costui grande sarà chiamato nel regno dei cieli. Vi dico, infatti, che se non abbondi la vostra giustizia più che (quella) degli Scribi e dei Farisei, non (avverrà) che entriate nel regno dei cieli.
§ 324. Udiste che fu detto agli antichi « Non ucciderai », chi poi abbia ucciso sarà passibile di giudizio. Ma io vi dico che chiunque s’adira contro il suo fratello sarà passibile di giudizio; chi poi abbia detto al suo fratello « Rakà! » sarà passibile di Sinedrio; chi poi abbia detto « Stolto! » sarà passibile della Geenna del fuoco. Se dunque presenti il tuo dono sull’altare e colà ti ricordi che il tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia colà il tuo dono davanti all’altare, e va’ prima, riconciliati col tuo fratello, e allora vieni a presentare il tuo dono. Sii condiscendente col tuo avversario subito, fintanto che stai con lui per la strada: affinché mai non (sia che) l’avversario ti consegni al giudice e il giudice all’inserviente, e (così) sarai gettato in carcere.. In verità ti dico, non (sarà) che (tu) esca di là fino a che (tu) abbia pagato l’ultimo quadrante.
§ 325. Udiste che fu detto « Non commetterai adulterio » Ma io vi dico che chiunque guarda una donna per desiderar(la), già commise adulterio con essa nel cuor suo. Se poi il tuo occhio destro ti scandalizza, càvalo e getta(lo) da te: e un vantaggio infatti per te che perisca uno dei tuoi membri, e non sia gettato l’intero corpo tuo nella Geenna. E se la tua mano destra ti scandalizza, mòzzala via e getta(la) da te: e’ un vantaggio infatti per te che perisca uno dei tuoi membri, e non vada l’intero corpo nella Geenna. Fu poi detto “Chi rimandi la sua moglie, le dia il (documento di) ripudio”. Ma io vi dico che chiunque rimandi la sua moglie, eccettuato (il) caso di fornicazione, fa che ella sia resa adultera, e chi sposi una (donna) rimandata commette adulterio.
§ 326. Di nuovo, udiste che fu detto agli antichi « Non spergiurerai, ma manterrai col Signore i tuoi giuramenti ». Ma io vi dico di non giurare affatto, nè per il cielo perché e’ trono d’Iddio, nè per la terra perché è sgabello dei piedi suoi, né per Gerusalemme perché è città del gran re; neppure per la tua testa non giurare, perché non puoi fare bianco o nero un sol capello. Sia invece il vostro discorso “Si” (se e’) si, « No » (se e’) no: quel che sovrabbonda da queste (parole) è dal maligno.
§ 327. Udiste che fu detto “Occhio per occhio e dente per dente”. ” Ma io vi dico di non contrastare al maligno; bensì chiunque ti schiaffeggia sulla tua guancia destra rivoltagli pure l’altra, e a chi vuole citarti in giudizio per prenderti la tunica lasciagli pure il mantello, e chi ti requisirà per un miglio va’ insieme con lui per due (miglia). A chi chiede a te da’, e da chi vuole prendere in prestito da te non voltarti via. Udiste che fu detto « Amerai il prossimo tuo » e odierai il nemico tuo. Ma io vi dico, amate i vostri nemici e pregate per i persecutori vostri, affinché siate figli del Padre vostro quello ch’e’ nei cieli, perché fa sorgere il suo sole sopra maligni e sopra buoni e piove sopra giusti e sopra ingiusti. Qualora infatti amiate quei che vi amano, quale mercede avete? Non fanno forse lo stesso anche i pubblicani? E qualora salutiate i fratelli vostri soltanto, che cosa di sovrabbondante fate? Non fanno forse lo stesso anche i Pagani? Sarete dunque voi perfetti come il vostro Padre celeste è perfetto.
§ 328. Badate poi a non fare la vostra giustizia in presenza degli uomini per esser guardati da loro, se no mercede non avete presso il Padre vostro quello ch’è nei cieli. Qualora dunque (tu) faccia elemosina non sonar la tromba davanti a te, come gl’ipocriti fanno nelle sinagoghe e nelle strade affinchè siano glorificati dagli uomini: in verità vi dico, sono in possesso della loro mercede. Tu invece facendo elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, affinchè la tua elemisina sia nel segreto, e il Padre tuo che guarda nel segreto renderà a te. E quando preghiate, non sarete come gl’ipocriti; giacchè amano star ritti a pregare nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze affinchè appaiono agli uomini: in verità vi dico, sono in possesso della loro mercede. Tu invece, quando preghi, entra nella tua stanza e chiusa a chiave la porta prega il Padre tuo quello (ch’è) nel segreto, e il Padre tuo che guarda nel segreto renderà a te.
§ 329. Pregando, poi, non blaterare come i pagani: credono infatti che con il loro molto parlare saranno ascoltati; non vi rassomigliate dunque a loro, sa infatti il Padre vostro di quali cose avete bisogno prima che voi glie(le) chiediate. Così pertanto pregate voi: Padre nostro che (sei) nei cieli , sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la volontà tua come in cielo anche su(lla) terra. Il pane nostro necessario dà a noi oggi, e rimetti a noi i nostri debiti comeanche noi rimettemmo ai nostri debitori, e non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal maligno. Qualora infatti rimettiate agli uomini i falli loro, rimetterà anche a voi il Padre vostro celeste; qualora invece non rimettiate agli uomini, neppure il Padre vostro rimetterà i falli vostri.
§ 330. Qualora poi digiuniate non diventate, come gli ipocriti, mesti: sfigurano infatti le loro facce, affinché appaiano digiunanti agli uomini; in verità vi dico, sono in possesso della loro mercede. Tu invece, digiunando, ungiti la testa e lavati la faccia, affinché (tu) non appaia digiunante agli uomini bensì al Padre tuo quello (ch’è) nel segreto, e il Padre tuo che guarda nel segreto renderà a te. Non tesoreggiate per voi tesori sulla terra, dove verme e tignuola manda in rovina e dove ladri perforano e rubano; tesoreggiate invece per voi tesori in cielo, dove nè verme nè tignuola manda in rovina e dove ladri non perforano nè rubano: dove infatti e’ il tesoro tuo, ivi sarà pure il cuore tuo. La lucerna del corpo e’ l’occhio: qualora dunque l’occhio tuo sta puro, tutto il corpo tuo sarà illuminato; qualora invece l’occhio tuo sia (in) malo (stato), tutto il corpo tuo sarà ottenebrato: se dunque la luce quella (ch’e’) in te e’ tenebra, la tenebra quanta (sarà mai)?
§ 331. Nessuno può servire a due padroni: o infatti (egli) l’uno odierà e l’altro amerà, oppure all’uno s’attaccherà e l’altro disprezzerà; non potete servire a Dio e a Mammona. Perciò vi dico, non v’affannate per la vostra vita riguardo a ciò che mangerete o che berrete, nè per il vostro corpo riguardo a ciò che indosserete: non e’ forse la vita dappiu’ del nutrimento e il corpo dell’indumento? Riguardate i volatili del cielo, giacché non seminano nè mietono nè radunano su granai, e(p pure) il Padre vostro celeste li nutrisce: non valete voi forse piu’ di loro? Chi di voi poi affannandosi può aggiungere alla propria età un solo cubito? E circa l’indumento di che v’a flannate? Riflettete sui gigli del campo come crescono: non s’affaticano nè filano: eppur vi dico che nemmeno Salomone in tutta la sua gloria fu rivestito come uno di questi; se dunque l’erba del campo che oggi esiste e domani si getta nel forno Iddio riveste così, non (rivestirà) molto piu’ voi, (o) scarsi di fede? Non v’affannate dunque dicendo “Che mangeremo?” o “Che berremo?” o “Di che ci rivestiremo?”, Tutte queste cose, infatti, i pagani ricercano: sa invero il vostro Padre celeste che abbisognate di tutte queste cose. Cercate invece prima il regno e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non v’affannate dunque per il dimani, perché il dimani s’affannerà per se stesso: sufficiente a (ciascun) giorno (è ) la sua pena.
§ 332. – Non giudicate (a condanna), affinché non siate giudicati (a condanna): con quel giudizio, infatti, con cui giudicate sarete giudicati, e con quella misura con cui misurate si misurerà per voi. Perché poi vedi la pagliuzza che (e’) nell’occhio del tuo fratello, mentre della trave (ch’e’) nell’occhio tuo non t’accorgi? Ovvero, come dirai al tuo fratello “Permetti che (io) cavi la pagliuzza dall’occhio tuo”, ed ecco la trave (e’) nell’occhio tuo? Ipocrita, cava prima dall’occhio tuo la trave, e allora guarderai di cavare la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello. Non date la cosa santa ai cani, nè gettate le vostre perle davanti ai porci, affinché mai non (sia che) le calpestino con le loro zampe e rivoltatisi (contro voi) vi sbranino. Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; picchiate e vi sarà aperto. Ognuno infatti che chiede riceve, e che cerca trova, e che picchia gli sarà aperto. Ovvero qual uomo e’ tra voi a cui suo figlio chiederà un pane – gli darà forse un sasso? O anche chiederà un pesce – gli darà forse un serpente? Se dunque voi, (pur) essendo cattivi, sapete dare buoni doni ai vostri figli, quanto piu’ il Padre vostro quello ch’e nei cieli darà cose buone a quei che gli chiedono? Tutte le cose, dunque, quante possiate volere che facciano a voi gli uomini, in questa maniera fate(le) anche voi a loro. Questa, infatti, e’ la Legge e i Profeti.
§ 333. Entrate per la porta stretta, perché (e’) larga la porta e spaziosa la strada che conduce alla perdizione e molti sono quei che entrano per essa: perché stretta e’ la porta e angusta la strada che conduce alla vita e pochi sono quei che la trovano. Guardatevi dai falsi profeti, i quali vengono a voi in rivestimenti di pecore, al di dentro invece sono lupi rapaci. Dai loro frutti li riconoscerete. Si colgono forse dalle spine grappoli, o dai rovi fichi? Così ogni albero buono fa frutti belli, invece l’albero guasto fa frutti cattivi: non può un albero buono produrre frutti cattivi, né un albero guasto produrre frutti belli. Ogni albero che non fa bel frutto e’ reciso via e gettato nel fuoco. Dunque dai loro frutti li riconoscerete. Non chiunque mi dica “Signore! Signore!” entrerà nel regno dei cieli, bensì chi faccia la volontà del Padre mio quello ch’e’ nei cieli. Molti mi diranno in quel giorno: « Signore! Signore! Non profetammo nel tuo nome, e nel tuo nome scacciammo demonii, e nel tuo nome facemmo molti prodigi? » E allora dichiarerò ad essi:”Giammai vi conobbi: allontanatevi da me, operatori d’miquità!”.
§ 334. Chiunque, pertanto, ascolta da me questi discorsi e li fa, si rassomiglierà a un uomo saggio il quale edificò la sua casa sopra la roccia: e scese la pioggia e vennero i fiumi e soffiarono i venti e s’abbatterono su quella casa, e(p pure) non cadde; era infatti basata sulla roccia. E chiunque ascolta da me questi discorsi e non li fa, si rassomiglierà a un uomo stolto il quale edificò la sua casa sopra l’arena: e scese la pioggia e vennero i fiumi e soffiarono i venti e irruppero addosso a quella casa, e cadde, e la rovina di essa era grande. Con questa comparazione della casa termina, in ambedue le recensioni, il Discorso della montagna. Se chi ascoltava e praticava i precetti di questo Discorso era un costruttore di casa su roccia, tale era tanto più Gesù nel fare questo Discorso per i fini del suo ministero. Già vedemmo che anch’egli costruiva una casa per riparo da una nuvola annunziatrice di tempesta (§ 310); aveva già scelto e collocato in opera dodici pietre fondamentali secondo il numero delle tribù d’Israele (§ 311), e altre pietre minori impiegate erano rappresentate da molti altri Israeliti che lo seguivano; adesso egli cementava il tutto con una dottrina che in parte era l’antica dottrina d’Israele, e in parte era dottrina personale di lui Gesù. Mancava ancora di portare avanti la costruzione e di rifinirla in molti punti, ma le linee maestre della casa furono stabilite appunto dal Discorso della montagna.
§ 335. Che rappresenta questo Discorso nell’insegnamento generale di Gesù? E’ stato definito il “codice fondamentale” o una Summa della dottrina di lui, ma sono definizioni da prendersi in senso molto vago perché solo in parte corrispondono alla verità. Codice elaborato non è, e nemmeno Summa, perché troppe sono le affermazioni dottrinali che Gesù farà più tardi attribuendo loro capitale importanza, e che invece nel Discorso della montagna non sono neppure adombrate: nulla infatti dice il Discorso né della morte redentrice di Gesù, nè del battesimo, nè dell’Eucaristia, nè della Chiesa, nè dell’escatologia, senza le quali cose non si ha l’insegnamento storico di Gesù. Neppure è propriamente una confutazione del fariseismo ovvero una rettificazione perfettiva del giudaismo, sebbene anche questi scopi siano presi di mira: ma sono scopi soltanto posteriori, quasi conseguenze di una mira più ampia e generale. In realtà il Discorso della montagna non è altro che la presentazione del “cambiamento di mente” che già era stato predicato, sia da Giovanni il Battista sia da Gesù (§§ 226, 299), come condizione per l’attuazione del regno di Dio. E quale e cambiamento di mente, più sconvolgente e più capovolgente che quello di proclamare beati, in vista d’un remoto futuro, i poveri, i piangenti, gli affamati, gli arrendevoli, e quanti altri fino allora erano stati proclamati infelici da tutti gli uomini concordemente? Il Discorso dunque, meglio che un e codice, è lo spirito che ispirerà più tardi tutto un codice: meglio che una Summa, è l’idea centrale che sarà sviluppata più tardi in un ampio commentario. Il carattere personale e singolare del Discorso della montagna, e specialmente delle sue Beatitudini iniziali, è tanto palese che non ha bisogno d’essere dimostrato: quegli studiosi moderni, scarsissimi di numero e d’autorità, che hanno negato una verità così evidente, non meritano risposta e non sono da prendersi sul serio. Tuttavia il Discorso ha pure numerosi punti di contatto col patrimonio spirituale sia biblico sia rabbinico, ed è merito delle più recenti investigazioni aver messo in luce quest’ultimo punto; specialmente dalla sua metà in giù, il Discorso mostra parecchie analogie con pensieri ed espressioni conservate nel Talmud e negli altri scritti giudaici. Ciò è regolare per chi parlava a gente del suo tempo abituata a certe frasi ed espressioni, e soprattutto per chi era venuto non già ad abolire, bensì a compiere. Ad ogni modo anche da queste analogie risulta sempre meglio la sproporzionata superiorità del Discorso della montagna, che riunisce a fascio in pochissime pagine ciò che si può solo stentatamente e parzialmente spigolare nell’immenso campo degli scritti giudaici, e risulta specialmente l’inimitabilità del suo spirito, unico e solitario. Questo spirito fa che esso sia il più rivoluzionario discorso umano, appunto perché discorso divino.