Vita di Gesù 13

cristo_america.jpgLA GIORNATA DELLE PARABOLE

La parabola

§ 360. Durante questo periodo dell’operosità in Galilea, probabil­mente nel giorno stesso che precedette la tempesta sedata (§ 346), avvenne l’ampio insegnamento in parabole, che si può praticamente designare come la giornata delle parabole. Certamente anche prima Gesù aveva impiegato taluni elementi pa­rabolici nei suoi discorsi (cfr. Marco, 2, 17.19.21.22; ecc.), compreso il Discorso della montagna (Matteo, 5, 13-16; 6, 22 segg.; ecc.); ma quella fu una giornata dedicata particolarmente alla vera parabola, come risulta dalle brevi introduzioni premessevi da tutti e tre i Si­nottici (Matteo, 13, 1-3; Marco, 4, 1-2; Luca, 8, 4; cfr. Marco, 4, 35). E’ parimente quasi certo che anche qui gli evangelisti si siano comportati come per il Discorso della montagna, cioè che in occa­sione di questa giornata abbiano riferito parabole pronunziate da Gesù in altre occasioni (Matteo) o viceversa abbiano trasferito altrove parabole di questa giornata (Luca) (§ 317); tuttavia un nucleo sto­rico di parabole pronunziate in quella precisa giornata ci fu indubbiamente, e il suo materiale fu ripartito con una certa larghezza dai singoli evangelisti. La parabola è quel genere letterario che consiste nel servirsi di un fatto immaginario, ma assolutamente possibile e verosimile, per il­lustrare una data verità morale e religiosa. E’ dunque molto simile alla favola; ma ne differisce in quanto la favola fa agire o parlare esseri inanimati o irragionevoli, ed è quindi storicamente impossibile, e inoltre non si propone uno scopo edificativo. Ambedue i generi, presso tutti i popoli ove sono fioriti, sono stati sempre d’indole popolare: la plebe ha sempre trovato un mezzo facile e perspicuo, per ricevere e trasmettere la sapienza spicciola, in quel riavvicinamento di teoretiche situazioni morali alle reali situazioni umane di tutti i giorni, illuminando cosi l’astratto impalpabile col concreto tangi­bile. E, sebbene prediletto dalla plebe, questo metodo è più filosofico di quanto sembri a prima vista: è noto che Socrate, appunto per opporsi ai Sofisti, ricorreva volentieri alla parabola e al paragone; anzi fin da principio, per definire il suo ufficio di maestro, egli si serviva di una specie di parabola, giacché affermava di continuare nel campo morale la professione che nel campo fisiologico aveva esercitata sua madre, la levatrice Fenarete: egli era il maieutico dello spirito. In sostanza, dunque, la parabola è un paragone. E’ naturale però che, a seconda della finezza concettuale dei vari autori e ascoltatori di tali paragoni, la parabola potrà essere più o meno sviluppata, e tal­volta potrà anche prendere alcuni aspetti dell’allegoria. Ad esempio, l’ufficio d’un maestro di scuola potrà esser semplicemente paragonato a quello d’un giardiniere, e allora si avrà una parabola; ma se il paragone verrà spinto fino a particolarità minute, e nelle piccole piante del giardino si vedranno simboleggiati gli alunni del maestro, nei fiori e nei frutti le promozioni e i premi, nella fatica della van­ga le cure dell’insegnamento, nelle forbici potatrici le punizioni e così di seguito, il paragone diventa anche simbolico, ossia diventa una parabola allegorica; se infine, non nominando mai la scuola ma in­tendendo soltanto essa, si parlerà unicamente di piante, di fiori, di vanga, di forbici, si avrà una pura allegoria, ossia una metafora con­tinuata. E’ chiaro pertanto che, com’è difficile e raro mantenersi a lungo nella pura allegoria (un celebre esempio è l’ode O navis di Orazio, che tratta della Repubblica simboleggiata in una nave), così dalla semplice parabola si sconfina volentieri e facilmente nel cam­po allegorico impiegando taluni elementi simbolici. Le parabole di Gesù obbediscono a queste norme generiche.

§ 361. L’antica letteratura ebraica aveva coltivato il genere parabo­lico designandolo col nome di mashal, il quale termine, tuttavia, comprendeva anche altre forme oltre alla vera parabola. Com’era da aspettarsi, i rabbini anteriori e contemporanei a Gesù impiegavano la forma parabolica più o meno mescolata con le altre forme ana­loghe; in seguito s’impiegarono sempre più tali forme, ma dalla metà del secolo II dopo Cr. in poi il loro uso fu abbandonato. In questo tempo morì Rabbi Meir, e con lui morì – si disse – la parabola; gli si attribuivano infatti tremila favole, che avevano per protagonista sempre la volpe. Del resto a questo tempo la forma parabolica era diventata presso i rabbini stereotipata, convenzionale, priva d’energia e di vivezza. Presso Gesù la parabola è tutt’altra cosa: semplice e precisa, è ri­calcata di sulle realtà più umili ma rispecchia con nettezza i con­cetti più alti, e nello stesso tempo è comprensibile dall’ignorante e meditabile dal dotto. Letterariamente è priva d’ogni artifizio, eppure supera per potenza affettiva i più elaborati artifizi letterari. Non sba­lordisce, ma persuade; non solo vince, ma convince. Noi Italiani dal­la voce parabola abbiamo derivato la voce parola: vorrebbe forse questa derivazione indicare che la parabola di Gesù è la parola più alta salita dall’uomo e insieme la più bassa discesa da Dio?

Scopo delle parabole

§ 362. Le parabole di Gesù mirano a presentare il regno di Dio, ossia dei cieli. Nel Discorso della montagna Gesù aveva parlato dei requisiti morali necessari per entrare in quel regno; ma adesso, es­sendo trascorso altro tempo, era necessario fare un ulteriore passo in avanti e parlare di quel regno in sé, della sua indole e natura, dei membri che lo costituivano, del modo come si sarebbe attuato e sta­bilito. Anche sotto questo riguardo, infatti, la predicazione di Gesù seguì un metodo essenzialmente graduale. La ragione di questa gradualità è nella importantissima circostanza storica che già accennammo (§§ 300-301), vera chiave di volta del contegno di Gesù nei confronti della sua vita sociale, cioè nell’an­siosissima aspettativa da parte dei Giudei di un regno messianico-po­litico. Parlare a quelle turbe di un regno di Dio senza schiarimenti e spiegazioni, significava far balenare alle loro fantasie la visione di un celestiale re onnipotente, circondato da falangi di uomini armati e meglio ancora da legioni di angeli combattenti, il quale avrebbe portato Israele di vittoria in vittoria fino alla signoria di tutta la terra, rendendo “maestro e donno” delle nazioni pagane quel po­polo fino allora calpestato da tutti i pagani, e riducendo invece co­storo a sgabello dei piedi di lui (§ 83). Eppure, precisamente a quelle turbe così deliranti Gesù doveva parlare dell’oggetto del loro delirio, e parlare in maniera tale da attirarle e insieme da disingannarle: il regno di Dio indubbiamente doveva venire, si, anzi già aveva co­minciato ad attuarsi, ma non era il “regno” loro, bensì quello di Gesù, totalmente diverso. Perciò la predicazione di Gesù doveva in­sieme mostrare e non mostrare, aprire gli occhi alla verità e chiuderli ai sogni fantastici; era dunque necessaria una prudenza estrema, perché Gesù a questo punto s’inoltrava su un terreno vulcanico che poteva scoppiare da un momento all’altro. Questa amorevole pru­denza fece sì che Gesù si servisse della parabola. La parabola, infatti, è chiara ma anche oscura, è eloquente ma anche reticente. Per chi la contempli con animo sereno e non preoccupato, è chiara ed eloquente; a chi la scruti con occhio torbidoso e con ani­mo prevenuto essa non dice nulla, seppur non dice il contrario di ciò che in realtà vuol dire. E’ dunque, non già tenebra, ma luce, e luce misericordiosamente adatta per occhi che si trovino in condizioni speciali; tuttavia quegli occhi devono esser puri, non già malati, men­tre – come più tardi Agostino esperimenterà in se stesso. Ma anche nel caso che la parabola non fosse subito compresa, ri­maneva ancora un rimedio. Le parabole di Gesù’ erano recitate in pubblico, davanti a gente ben disposta e a gente mal disposta, affin­ché per tutti fosse aperta la porta del regno. Il velame della para­bola era imperiosamente richiesto da misericordia e prudenza; ma rimaneva sempre la possibilità di squarciare quel velame, sottraen­dosi dal dominio pubblico e rivolgendosi in privato all’autore delle parabole. Gesù, se voleva veramente diffondere il suo regno, non avrebbe rifiutato di parlare fuori parabola, qualora fosse stato con­sultato in privato: in privato le ragioni prudenziali che moderavano la predicazione pubblica non esistevano, e quindi il velame poteva essere abolito.

§ 363. Così in realtà avvenne. Un giorno imprecisato i discepoli gli si avvicinarono e gli chiesero: Perché parli ad essi in parabole? (Matteo, 13, 10). Questa domanda, e la risposta datale da Gesù, sono importantissime; ma per ben valutarle bisogna aver presente che domanda e risposta avvennero certamente non già nella giornata delle parabole, ma ben più tardi, quando cioè Gesù aveva recitato numerose parabole e i discepoli avevano riscontrato ch’esse produce­vano scarso effetto sulle turbe; inoltre, già prima di quella doman­da, i discepoli si erano rivolti in privato a Gesù per chiedere spiega­zioni di parabole udite in pubblico (Matteo, 13, 36; 15, 15) o anche spontaneamente Gesù le aveva spiegate in privato ad essi (Marco, 4, 34). Alla domanda pertanto dei discepoli Gesù rispose: “Perché a voi e’ stato dato conoscere i misteri del regno dei cieli, a quelli in­vece non e’ stato dato. Chiunque infatti ha, gli sarà dato e sovrabbonderà: chiunque invece non ha, anche ciò che ha gli sarà tolto. Per questo in parabole parlo loro, perché vedendo non vedono, e udendo non odono nè comprendono; e si compie per essi la profezia di Isaia la quale dice: « udendo udrete, e non comprenderete: ve­dendo vedrete, ma non scorgerete. Divenne infatti crasso il cuore di questo popolo, e con le orecchie difficilmente udirono, e rinserra­rono i loro occhi affinché non mai scorgano con gli occhi, e con le orecchie odano, e col cuore comprendano e si convertano, e io li guarisca!”. Beati invece i vostri occhi perché vedono, e le vostre orecchie perché odono; ecc. (Matteo, 13, 11-16). Questa risposta è rivolta non soltanto agli Apostoli, ma anche ad altri volonterosi ch’erano insieme con essi (Marco, 4, 10, greco) e avevano fatto uni­tamente la domanda. La differenza tra i volonterosi e gli altri uditori consisteva in ciò, che ai primi era concesso di conoscere il regno in maniera perspicua (i suoi misteri) agli altri invece soltanto sotto il velame della parabola; ma questa differenza non era che la conse­guenza della volenterosità dei primi, i quali interrogando privata­mente Gesù ottenevano l’abolizione del velame parabolico, mentre gli altri rimanevano avviluppati in quel velame perché non aveva­no avuto il desiderio di uscirne tuttavia la porta del regno era aperta agli uni e agli altri, e la sua soglia era rappresentata dalla parabola. Si poteva anche chiedere perché mai soltanto i volenterosi varcavano quella soglia in virtù della loro volenterosità; ma con ciò si sarebbe entrati in una questione ben differente e di sfera assai più alta, per­ché si sarebbe chiamato in causa il principio già enunciato a Nicodemo secondo cui chi non sia nato da… Spirito, non può entrare nel regno d’iddio (§ 288).

§ 364. Tutto ciò è abbastanza chiaro nel testo del dialogo secondo Matteo, salvo un punto che si vedrà subito. Invece il testo degli altri Sinottici, ambedue più brevi, offre una particolare difficoltà, special­mente quello di Marco che suona cosi: A voi e’ stato dato (di cono­scere) il mistero del regno d’iddio; per quelli invece (che stanno) fuori (di voi volenterosi) il tutto avviene senza parabole, affinché « ve­dendo vedano e non scorgano, e udendo odano e non com prendano, affinché non mai si convertano e sia rimesso (il peccato) ad essi »(Marco, 4, 11-12). Si è discusso infinitamente su quel primo affinché, che introduce l’anonima citazione di Isaia, per definire se abbia o no un valore finale e intenzionale; la questione deve esser risolta mediante il confronto degli altri due Sinottici, e specialmente di Matteo più ampio di tutti. Gesù nella sua risposta, dopo aver distinto fra i volenterosi e gli altri, si appella a ciò che già era avvenuto al ministero del profeta Isaia citandone le parole. Ma la citazione, nel testo odierno di Matteo, è fatta secondo la versione dei Settanta (certamente dal traduttore greco di Matteo), mentre Gesù citò senza dubbio l’originale ebraico che suona cosi: “E (Dio mi) disse: Va’ e dirai a questo popolo udendo udite ma non (sia) che comprendiate, e vedendo vedete ma non (sia) che conosciate!”. Rendi crasso il cuor di questo popolo, e indura le sue orecchie e inungi i suoi occhi affinché non (avvenga che) veda con i suoi occhi e oda con le sue orecchie e comprenda col suo cuore, e (cosi) si converta e (il suo medico) lo guarisca (Isaia, 6, 9-10). Riguardo al vero senso di queste parole non vi può essere alcun ragionevole dubbio. Dio parla qui come tradizionale e amore­vole medico d’Israele, e tenta ancora una volta la guarigione del malato inviando Isaia a curarlo: ma il medico è sdegnato perché il malato si mostra, come sempre, caparbio e di dura cervice, e quindi per scuoterlo e impaurirlo il medico qui parla sarcasticamente e im­piega 1’ammonizione in forma di minaccia. In sostanza egli dice “Giammai una volta che tu ascoltassi e ti lasciassi persuadere! Ebbene, respingendo la mia medicina, resta pure con i tuoi mali af­finché io non ti guarisca in eterno!” ora; chi non vede che il medico vuole seriamente ed effettivamente guarire, e che l’affinché è un sarcasmo amorevole ed una salutare minaccia, la cui responsabilità cade esclusivamente sul malato? Tanto è vero che, nel caso storico, Dio inviava Isaia per tentare effettivamente la guarigione spirituale d’ Israele. Come, dunque, nel dialogo secondo Matteo l’intero tratto va inter­pretato conforme all’originale ebraico di Isaia nominatamente citato, così gli altri due Sinottici vanno interpretati conforme a Matteo e al testo ebraico di Isaia. Questo testo poi, in Luca e Marco, è citato non solo in maniera anonima, ma anche in forma accorciata e in­compiuta: tuttavia siffatta maniera di citare non deve trarre in erro­re, quasi invitasse a limitarsi alle sole parole allegate. Si citava per summa verba affinché si riconoscesse esattamente il passo alluso, ma fermo restando che il suo vero senso doveva estrarsi dall’originale dell’intero passo alluso: il quale, come facilmente si poteva presup­porre, era un passo classico nella polemica antigiudaica e variamente impiegato dalla primitiva catechesi cristiana (Giovanni, 12. 40; Atti, 28, 26-27; Romani, 11, 8). In conclusione, il disputato affinché con-serva nella citazione di tutti e tre i Sinottici il valore che ha nel­l’originale ebraico di Isaia, e questo valore non è affatto di finalità e di intenzione; bensì d’accorata ammonizione in forma di minaccia salutare.

Le parabole del Regno

§ 365. La giornata delle parabole si svolse nei pressi di Cafarnao e sulla riva del lago. Essendo raccolta molta folla, Gesù ricorse al­l’espediente già usato in precedenza (§ 303) di salire in barca, e sco­standosi alquanto parlare di là alla gente allineata sulla riva. La prima parabola riferita di questa giornata è quella del seminatore. Nella Galilea, collinosa e accidentata, si adibivano a semina piccoli appezzamenti di terreno che meglio si prestavano qua e là sulle ripe e negli avvallamenti; alle prime piogge, verso novembre, dopo una superficiale preparazione del terreno, il contadino passava man mano sugli appezzamenti da lui curati, e vi spargeva la sementa di grano e d’orzo. Ora, le vicende del regno dei cieli somigliano a quelle del seminatore della Galilea. Il seminatore esce di casa stringendosi al fianco il sacchetto di se­menta ben colmo, e giunto su un appezzamento preparato si dà a seminare. Ma in Palestina i campi sono luogo di transito per tutti, e anche nei tratti da poco lavorati si formano presto sentierucoli, là ove i passanti attraversando accorciano il loro cammino; perciò una parte della sementa sparsa va a finire su questi sentierucoli, ove però ben presto gli uccelli la beccano o i passanti la schiacciano. Altra parte della sementa cade sul suolo pietroso, ricoperto appena da leg­giero strato di terriccio; là per il calore sottostante germoglia presto, ma non essendovi terreno sufficiente non mette radici profonde e ba­sta qualche giornata di pieno sole per far disseccar tutto. Altra se­menta cade su terreno profondo, ma non ben preparato; e allora insieme con i buoni germogli crescono i cardi e le spine, che li soffocano. Finalmente il resto del sacchetto è vuotato sul buon ter­reno, e là la sementa rende dove il trenta, dove il sessanta, dove anche il cento per uno. Gesù restrinse ad un solo caso questo fatto abituale, narrandolo come avvenuto ad un singolo seminatore, e così compose la sua parabola. Terminò poi dicendo: Chi ha orecchie da udire, oda! Più tardi, tuttavia, egli stesso fornì la spiegazione della parabola ai discepoli che l’avevano interrogato in privato (§ 363). La sementa era la parola di Dio, cioè l’annunzio del regno dei cieli. La sementa ca­duta sui sentierucoli e rapita dagli uccelli era l’annunzio del regno ricevuto dagli uditori non disposti, i quali lo accoglievano a mala pena con le orecchie ma non col cuore, perché veniva subito Satana che lo rapiva via. La sementa finita sul suolo pietroso rappresentava gli uditori superficiali che accoglievano l’annunzio con gioia mo­mentanea, ma alla prima contrarietà abbandonavano tutto. La se­menta caduta fra cardi e spine rappresentava gli uditori avviluppati da passioni e da cure di mondo, i quali custodivano per qualche tempo nei loro cuori la buona novella ma poi la lasciavano soffocare coi loro desideri materialeschi. Finalmente la sementa gettata sul buon terreno era costituita da coloro che con cuore ben disposto ac­coglievano la buona novella, si da renderne frutto più o meno ab­bondante. Un comune Giudeo, di quelli che aspettavano il regno messianico­politico, avrebbe compreso poco o nulla del vero significato di questa parabola, salvo che si fosse rivolto per la spiegazione a Gesù come i discepoli. Il comune Giudeo aspettava il fulgente re conquistatore, e qui in­vece l’autore del regno non era neppur nominato e restava nell’om­bra; aspettava che l’istituzione del reame calasse bell’e pronta dalle nubi del cielo tra portenti fragorosi, e qui invece il reame spuntava umile e silenzioso dalla terra in mezzo a ostacoli d’ogni genere; aspet­tava la rivendicazione nazionale e la vittoria sui pagani, e qui invece si accennava a un segreto lavorio dello spirito e alla vittoria sulle passioni e sugli interessi mondani. Il comune Giudeo, dunque, vedeva e non vedeva attraverso la parabola; e qualora fosse rimasto tenacemente attaccato alle sue vecchie concezioni, avrebbe reso sem­pre più crasso il suo cuore e sempre più dure le sue orecchie rifiutan­do il totale “cambiamento di mente” (§ 335) a cui la parabola prudentemente l’invitava.

§ 366. Ma il regno dei cieli trova ostacoli alla sua attuazione anche là dove è stato ben accolto; e questo è il principio adombrato nella seconda parabola. Un uomo seminò buona sementa nel suo campo; avendo egli preparato bene il terreno e sparso la sementa a stagione e misura opportune, poteva star tranquillo e aspettar fiduciosamente la messe. Senonché un suo vicino, che aveva vecchi rancori contro di lui, venne nottetempo mentre i garzoni dormivano, e sopra il terreno testé se­minato sparse a piene mani i semi della zizania, ossia del loglio (Lolium temulentum Linn.) Era un dispetto classico fra agricoltori, contemplato anche dalla legge romana; la zizania infatti, anche quando è germogliata, non si distingue praticamente dalle pianticelle del grano, perché la differenza appare chiara solo dopo la spigatura, quando però è trop­po tardi per svellere le male piante e il grano ha già sofferto. Anche quella volta il dispetto non fu scoperto se non al tempo della spiga­tura; e allora i garzoni andarono dal padrone a dirgli: Ma non hai tu seminato buona sementa nel campo? E come mai c’è la zizania? – Il padrone capì subito donde proveniva la zizania, ed esclamò: E’ stato quel mio nemico! I garzoni allora gli proposero: Vuoi che andiamo a raccoglierla per liberare il frumento? Ma il padrone replicò: No, perché raccogliendo la zizania potreste sradicare anche il frumento; piuttosto lasciate che tutti e due crescano insieme fino alla mietitura, e allora dirò ai miei mietitori di raccogliere la zizania a fascetti e gettarla nel fuoco, e di riporre invece il grano nel mio granaio. Anche di questa parabola ci è stata trasmessa la spiegazione data in privato da Gesù ai discepoli (Matteo, 13, 36-43). Chi sparge il buon seme è il figlio dell’uomo; il campo su cui lo sparge è il mondo; il buon seme sono i figli del regno; e la zizania i figli del Maligno; il nemico che la sparge a dispetto è il diavolo; la mietitura è la fine del “secolo”, o mondo, presente (§ 84); i mietitori sono gli angeli. Alla fine del mondo il figlio dell’uomo invierà i suoi angeli i quali, come fanno i mietitori con la zizania, toglieranno via dal regno di tutti gli scandalosi e gli operatori d’iniquità gettandoli nella fornace del fuoco; e allora i giusti risplenderanno come il sole nel regno del Padre. La seconda parabola, dunque, insegnava che il regno predicato da Gesù avrebbe contenuto del buono e del cattivo, il buono proveniente dal figlio dell’uomo e il cattivo dal diavolo; inoltre, che questa me­scolanza di bene e di male sarebbe stata tollerata in vista del pieno trionfo del bene, il quale sarebbe avvenuto soltanto al passaggio dal “secolo” presente a quello futuro. Perciò il regno era come un pon­te che congiungeva i due “secoli”; era una specie di scala di Gia­cobbe che poggiava in basso sulla terra e finiva in alto nei cieli.

§ 367. Alla precedente parabola rassomiglia in parte quella riportata dal solo Marco (4, 26-29). Il regno d’Iddio è come un uomo che ah­bia seminato il suo campo; dorma egli o sia desto, di giorno e di notte, ripensi egli o no alla sementa gittata, essa germoglia e poi cre­sce e infine spiga e matura, perché è dotata di una forza intima: la quale tuttavia deve sprigionarsi lentamente e percorrere l’intero suo ciclo regolare. Dunque la buona novella predicata da Gesù avrebbe fatto anch’essa il suo corso regolare, sviluppandosi in estensione e profondità fra gli spiriti umani, senza i subitanei sconvolgimenti apocalittici ansiosa­mente aspettati dalle turbe, bensì in virtù di quella forza intima che le era stata immessa dall’alto.

§ 368. Che gl’inizi del regno di Dio manchino di esteriorità cIa­morosa, è affermato nuovamente nella parabola del chicco di senapa. La senapa è assai comune in Palestina, e sebbene pianta erbacea annuale può diventare in condizioni favorevoli anche un arbusto alto 3 o 4 metri; eppure i suoi semi sono chicchi piccolissimi, tanto che servono proverbialmente ancora oggi in Palestina come termine di paragone per cose quasi impercettibili: “Piccolo come un chicco di senapa”. Ora, questa curiosa sproporzione fra il seme piccolissi­mo e, la pianta ch’è massima fra tutte le erbacee, offre a Gesù un’im­magine della sproporzione storica fra gli inizi del regno di Dio, umili e silenziosi, e la sua successiva espansione, che supererà ogni altra. Anche qui ritroviamo il rinnegamento in pieno, anzi il preciso ca­povolgimento (§ 318), delle idee diffuse nel giudaismo d’allora. Po­chi anni prima Orazio, trattando del vero poeta, aveva scritto che non fumum ex fulgore sed ex fumo dare lucem – cogitat (A rs. poet., 144-145). Le due parti di questo binomio, trasferito nel campo re­ligioso, venivano allora scelte in Palestina rispettivamente dalla mas­sa del popolo e da Gesù. Il popolo esaltava il fulgore dell’imminente regno messianico-politico: e invece, dopo un quarantennio, ebbe il fumo dell’incendio di Gerusalemme, con quelle tristi conseguenze che durano ancora dopo venti secoli.. Gesù cominciava col Discorso della montagna, nubecola di fumo che sembrava doversi dileguare al primo soffio di vento: e invece, da quella nubecola, si sprigionò un fulgore tale che dopo venti secoli è più vivo che mai. Questi riscontri non sono certamente una delle sottili teorie critiche basate su parti­colari filosofie e miranti a dimostrare che Gesù era un allucinato (§ 210) o qualcosa di simile: sono invece elementari considerazioni provocate dalla chiara parabola di Gesù, ma a differenza di quelle teorie hanno per base fatti storici di notorietà universale e di consi­stenza granitica.

§ 369. Analoga è la parabola del lievito. La sera la donna di casa, dopo aver riempito l’ampia madia con tre grosse misure di farina, ri­pone in fondo alla farina impastata un pugno di lievito; la mattina appresso, riaprendo la madia, la donna trova che quella piccola man­ciata di fermento durante una notte d’operosità recondita ha conquistato, pervaso, trasformato, tutta la massa cento volte più grande. Anche qui è posta in rilievo la sproporzione storica tra gli inizi del regno dei cieli, rappresentato dal lievito, e il suo pieno sviluppo, rappresentato dalla massa della farina fermentata: ma per di più è adombrata la natura intima, silenziosa, spirituale del regno, che si diffonderà non in forza d’armi, di denaro o di altri argomenti politici, ma conquistando segretamente menti e soprattutto cuori, co­me misterioso fermento divino.

§ 370. Altre parabole, recitate probabilmente ai soli discepoli dentro casa (cfr. Matteo, 13, 36), sono trasmesse in forma brevissima. Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo. C’era l’uso infatti, nei torbidi politici, di sotterrare oggetti preziosi in luo­ghi opportuni di campagna per preservarli da rapine di gente arma­ta: un quarantennio dopo, durante l’assedio di Gerusalemme, essen­do sbarrate le uscite della città, si nascosero i tesori ivi nelle fogne e nelle gallerie sotterranee (cfr. Guerra giud., VI, 431-432; vii, 114-115). Senonché talvolta avveniva che il padrone del tesoro sotterrato morisse prima di averlo ricuperato, e più tardi lo scoprisse per caso o il contadino che lavorava in quel terreno o qualche passante; na­turalmente la prima cura del fortunato scopritore era di comprare quel campo, tacendo del ritrovamento, per divenire in tal modo le­gittimo proprietario del tesoro. Nella parabola di Gesù lo scopritore, appena assicuratosi che si tratta di un tesoro, lo ricopre e nasconde di nuovo, affinché nessun altro abbia a ritrovarlo; quindi, ripieno di segreta gioia, vende tutto ciò che ha per raggranellare la somma necessaria alla compera del campo, e cosi diventa padrone del tesoro. Giuoca insomma tutto per tutto, perché è sicuro che il tutto che lascia è molto meno del tutto che acquista. Dimitte omnia et invenies omnza. Cosi avviene a chi ha conosciuto e valutato il regno dei cieli: co­stui abbandonerà ogni altro suo bene, pur di acquistare quel som­mo bene (Matteo, 13, 44).

§ 371. Lo stesso insegnamento scaturisce dalla brevissima parabola della perla. Un mercante di perle va lungamente in cerca di qual­cuna di gran pregio, una di quelle perle rimaste famose nell’antichità per il loro valore, come le due grandissime di Cleopatra di cui parla Plinio (Natur. hist., Ix, 35, 58). Trovatane finalmente una rarissima, vende ogni suo avere per acquistarla (Matteo, 13, 45-46). Si avvicinava invece alla parabola della zizania quella breve della rete, presa dagli usi del lago di Tiberiade. Il regno dei cieli è simile a una gran rete gettata in acqua e poi ritirata piena di pesci di vario genere; della preda catturata i pescatori fanno una scelta, mettendo i pesci buoni in serbo nei vasi e gettando via i cattivi. Parimente, alla fine del “secolo”, gli angeli separeranno d’in mezzo ai giusti i malvagi e li metteranno nella fornace del fuoco (Matteo, 13, 47-50). Il colloquio appartato con i discepoli, che conchiuse la giornata del­le parabole, riceve il sigillo finale da un’altra breve parabola. Ter­minato che ebbe di parlare, Gesù chiese ai discepoli Avete capito tutto ciò? – Si, gli risposero. – Ebbene, soggiunse egli, ogni scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose vecchie. – Quei discepoli ch’erano destinati a continuare l’opera di quel maestro dovevano dunque continuare nella norma da lui stesso annunziata nel Discorso della montagna (§ 323), di non esser venuto ad abolire la Legge antica, bensì a compierla e perfezionarla. Cose antiche, inte­grate e perfezionate da cose nuove.

DALLA SECONDA PASQUA FINO ALL’ULTIMA FESTA DEI TABERNACOLI

La prima moltiplicazione dei pani

§ 372. Durante gli avvenimenti fin qui visti era passato del ternpo, e si doveva stare allora a circa la metà di marzo; perciò era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei (Giovanni, 6, 4), cioè quella dell’anno 29, seconda Pasqua del ministero pubblico di Gesù (§ 177). A questo punto, quasi contemporaneamente, giungono a Gesù gli Apostoli di ritorno dalla loro missione (§ 354) e la notizia della morte di Giovanni il Battista (§ 355). I primi, oltre ad essere spos­sati dalle fatiche sostenute, erano così assillati da folle accorrenti a loro che neppur di mangiare avevano tempo (Marco, 6, 31). D’al­tra parte la tragica fine di Giovanni aveva profondamente attristato Gesù. In conseguenza quindi d’ambedue i fatti, egli prese con sé i reduci dalla missione e si allontanò con loro da Cafarnao in cerca di riposo per essi e di solitudine per sé, e partirono in barca per un luogo deserto in disparte (Marco, 6, 32) che stava nei pressi di una città chiamata Bethsaida (Luca, 9, 10, greco). Era la città che poco prima il tetrarca Filippo aveva ricostruita interamente chia­mandola Giulia (Bethsaida-Giulia) in omaggio alla famigerata figlia di Augusto (§ 19); era anche la patria delle due coppie di fratelli, Pietro e Andrea, Giacomo e Giovanni (§ 279). Il luogo sembrava adatto. Non apparteneva alla giurisdizione di Antipa ma a quella di Filippo, e quindi Antipa non avrebbe potuto agire contro di Gesù del quale già era sospettoso come di un Gio­vanni risuscitato (§ 357); inoltre la città, situata di là dal Giordano poco sopra il suo sbocco nel lago, aveva più ad oriente una vasta estensione quasi disabitata che poteva offrire solitudine e riposo; infine dai pressi di Cafarnao, attraversando il lago obliquamente, si sarebbe raggiunto dopo breve navigazione il posto designato. Ma la partenza di Gesù con il suo gruppo fu notata dalle folle di Cafarnao, le quali dalla direzione presa dalla barca capirono facil­mente qual era la mèta; allora molti presero la via di terra, risa­lendo lungo la curva settentrionale del lago e attraversando il Giordano nel punto dove il fiume entra nel lago, e così riuscirono a prevenire la barca di Gesù. Quando egli scese a terra nella solitudine d’oltre Bethsaida-Giulia trovò le turbe che già l’attendevano. Probabilmente, durante il viaggio a piedi, i volenterosi partiti da Ca­farnao erano cresciuti di numero; nell’imminenza infatti della Pa­squa tutta la regione era già percorsa da carovane dirette a Geru­salemme e composte di Galilei orientali, i quali colsero quell’occa­sione per ascoltare di nuovo Gesù che non vedevano da qualche tempo. L’incontro con tanta folla fece subito svanire il progetto di solitu­dine e di riposo; tanto più che Gesù, appena vide i volenterosi ac­corsi, si impietosi su di essi e si dette a guarire miracolosamente gli infermi e parlare a tutti del regno di Dio. Frattanto le ore passa­vano; il gruppo di Gesù doveva esser partito da Cafarnao di buon mattino e nella stessa mattinata aveva approdato alla sponda opposta: ma l’incontro con le turbe, le implorazioni dei malati e degli infelici, le loro guarigioni, i discorsi sul regno, avevano consumato l’intera giornata e già si era fatta molta ora (Marco, 6, 35). Le turbe, dimentiche di tutto, non si stancavano né si staccavano da Gesù; però i pratici Apostoli s’avvicinarono a Gesù e gli fecero osservare che il posto era solitario, l’ora tarda, e quindi sarebbe stato opportuno licenziare le turbe affinché si sparpagliassero nelle borgate più vicine per trovarsi un po’ di vitto e di alloggio. Gesù rispose: Date voi (stessi) da mangiare a loro! La risposta appariva molto strana: prima di tutto non c’era pane, e poi forse non c’era neppure denaro sufficiente per comprarlo; Fi­lippo, fatto un calcolo sommario, fece osservare un po’ ironicamente che neppure se ci fosse stato pane per la rilevante somma di due­cento denari d’argento (più di duecento lire oro) sarebbe bastato per darne appena un boccone a ciascuno. Gesù non rispose ai calcoli di Filippo, ma cambiando tono chiese: Quanti pani avete? Rispose Andrea fratello di Pietro: C’e’ qui un ragazzetto che ha cinque pani d’orzo e due pesci; anch’egli però volle aggiungere all’informazione un serio richiamo alla realtà: ma che è ciò per tanti? Ma neanche ai calcoli di Andrea replicò Gesù.

§ 373. Tutt’attorno si stendeva a perdita d’occhio la prateria, in pieno rigoglìo alla stagione pasquale d’allora: sembrava un mare di verde ondeggiante, da cui affioravano qua e là a guisa di Cicladi i raggruppamenti della folla. A un tratto Gesù ordinò agli Apostoli che facessero adagiare la folla sull’erba; quando tutti furono ada­giati in tanti circoli, ciascuno di una cinquantina o di un centinaio di persone, l’aspetto della scena si delineò più nitidamente: il testi­mone Pietro, che l’avrà descritta con predilezione nella sua catechesi orale, la rassomiglia a uno sterminato giardino in cui gli ada­giati formavano aiuole (ed) aiuole e l’interprete di Pietro ripete a parola la sua comparazione (Marco, 6, 40). Ma ancora non si vedeva a che mirasse quell’ordine: adagiarsi sui di­vani avveniva nei conviti di lusso (§ 341), ma lì fra quell’erba quali vivande si potevano imbandire? Gesù però, presi i cinque pani e due pesci, avendo guardato su nel cielo, benedisse e spezzò i pani, e (li) dava ai discepoli affinchè apprestassero a quelli: anche i due pesci sparti a tutti. E mangiarono tutti e furono satollati. Il carat­tere tradizionale del convito giudaico era stato osservato sia nell’a­dagiarsi, sia nella preghiera premessa e nello spezzamento del pane che spettavano al padre di famiglia; ma fu osservato anche al ter­mine con la raccolta degli avanzi, la quale si praticava ad ogni desinare giudaico: e raccolse i pezzi con cui si riempirono dodici sporte, e (gli avanzi) dei pesci. Con la comodità del ripartimento in “aiuole” fu facile fare un calcolo della folla: ed erano coloro che mangiarono i pani cinquemila uomini (Marco, 6, 41-44); Matteo conferma ch’erano cinquemila, ma da antico gabelliere ama precisare: senza (contare) donne e bambini (Matteo, 14, 21). Nel Discorso della montagna Gesù aveva ammonito Non v’aflan­nate dicendo “Che mangeremo?” o “Che berremo?” o “Di che ci revestiremo?”… sa tnvero il vostro Padre celeste che abbisognate di tutte queste cose. Cercate invece prima il regno e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta (§ 331). Questa am­monizione si dimostrò esattissima in quella prateria di Bethsaida. Tutta quella gente nella intera giornata aveva cercato il regno e la sua giustizia ossia il pane dello spirito, ma senza pensarvi ritrovò anche il pane del corpo; tuttavia questo pane del corpo fu un soprappiù secondarissimo, un episodio accessorio della scena, mentre il fatto eccezionale di quella giornata fu la ricerca generosa del regno e la sua trionfale espansione. Giustamente fu messo in rilievo – e proprio da un razionalista (Loisy) – che tutta questa narrazione nel IV vangelo è dominata dall’idea del Cristo considerato come pane di vita spirituale; è appunto questo dovevamo aspettarci dal “vangelo spirituale” (§ 160), il quale molto più che agli episo­di vistosi e sonori bada ai sottili insegnamenti profondi, e mette particolarmente in luce le analogie tra fatti materiali e principii spirituali.

§ 374. Egualmente però dovevamo aspettarci che le folle rima­sero colpite molto più dal fatto materiale che dal resto. Avevano esse inteso parlare la giornata intera del “regno” e ne erano state commosse, infine avevano visto moltiplicarsi fra le mani di quel banditore del “regno” il cibo dei loro corpi. La conclusione fu immediata, in conformità con le loro aspettative messianiche (§ 362): chi operava prodigi siffatti, poteva altrettanto facilmente sterminare eserciti nemici come Isaia, poteva ricoprir di tenebre un’intera re­gione come Mosè, attraversare fiumi all’asciutto come Giosuè, cor­rere vittorioso su tutta la terra come il pagano Ciro chiamato “mes­sia” dallo stesso Dio d’Israele (Iaia, 45, 1), poteva insomma at­tuare in pochissimo tempo il tanto sospirato “regno del Messia” a maggior gloria d’Israele. Dunque, egli era l’atteso Messia: la sua potenza lo rivelava indubbiamente tale. Davanti ad una conclu­sione così chiara e stringente, quegli ardenti Galilei passarono subito all’azione: Gli uomini pertanto, veduto il miracolo che aveva fatto dicevano: “Questo e’ veramente il profeta veniente (§ 339) nel mon­do!”. Gesu’ dunque, conosciuto che stavano sul punto di venire a rapirlo affin di farlo re, si appartò di nuovo nella montagna egli solo (Giovanni, 6, 14-15). Questa notizia, preziosa per il suo bel colorito storico, è anche più preziosa perché trasmessa dal solo evangelista che oggi si vorrebbe far passare per un incessante ideatore di astratte allegorie; qui in­vece abbiamo la realtà storica più cruda, proprio quella realtà che Gesù aveva prevista da lungo tempo e che si era proposto di evitare con la sua condotta prudenziale (§ 301).

§ 375. Anche quella sera Gesù si era premunito contro il pericolo. Appena terminata la refezione, prima ancora che i focosi elettori avessero deciso la proclamazione regale, Gesu’ subito costrinse i di­scepoli suoi ad entrare nella barca e a preceder(lo) al di là alla volta di Bethsaida, finché egli licenzia la turba (Marco, 6, 45). In altre parole Gesù, avendo notato l’eccitazione della folla e ricono­sciutine gl’intendimenti, volle in primo luogo preservarne i suoi di­scepoli rinviandoli avanti a sé a Cafarnao, e inoltre rimaner solo per esser più spedito nel suo contegno con gli eccitati messianisti politici. Il suo contegno da solo, come ci ha detto l’altro evangelista, fu quello già seguito altre volte (§ 301), cioè di sottrarsi nascosta­mente; buona parte della notte fu poi passata da lui sulla mon­ tagna a pregare (Matteo, 14, 23). Frattanto i discepoli navigavano verso Cafarnao.

Gesu’ cammina sull’acqua. Discorso sul pane vivo.

§ 376. Quando la barca si staccò da terra era notte fatta; prima d’imbarcarsi i discepoli probabilmente attesero, nella speranza che Gesù liberatosi dalle folle li raggiungesse, ma non vedendo alcuno ed essendo già tardi presero il largo. L’aveva comandato il màestro, e perciò obbedivano; ma pienamen­te soddisfatti non si sentivano, sia perché il maestro si era staccato da loro, sia perché quel viaggio notturno non era né piacevole né sicuro. Spesso sul lago di Tiberiade, in primavera avanzata, dopo una giornata calda e tranquilla verso il tramontar del sole si sca­rica dalle montagne sovrastanti un vento freddo e violento in direzione meridionale, che continua e cresce sempre più fino al mattino rendendo la navigazione assai difficile. Così avvenne quella notte; sorpresi di fianco dal vento e spinti verso mezzogiorno invece che verso ponente, i navigatori ammainarono la vela, ormai nociva e pe­ricolosa, e fecero forza sui remi. Ma tra lo sballottamento delle onde la barca avanzava male, e alla quarta vigilia della notte, ossia dopo le 3 del mattino, s’erano fatti soltanto 25 o 30 stadi di tragitto, ossia dai 4,5 chilometri ai 5,5: mancava forse ancora un buon terzo del tragitto prima di raggiungere l’approdo. La stanchezza veniva ad accrescere il malumore dei naviganti. Ad un tratto, d’in mezzo alla foschia mattinale e agli spruzzi delle onde, essi vedono a pochi passi dalla barca un uomo che cammina sull’acqua. Un rematore dà un grido, e addita. Tutti guardano. Indubbiamente è una figura umana: sembra camminare di conserva con la barca e volerla oltrepassare. No: piega invece verso la barca per raggiungerla. Tutti allora si turbarono dicendo: “E un fanta­sma!”, e dalla paura gridarono. Subito però Gesù parlò ad essi dicendo: “Coraggio! Sono io! Non abbiate paura!” (Matteo, 14, 26-27). Se era veramente lui, non c’era da meravigliarsi: chi poche ore prima aveva moltiplicato i pani, poteva ben camminare sulle onde. Ma era veramente lui? Pietro volle esserne sicuro: Signore, se sei tu, comanda che io venga a te sulle acque! Gesù rispose: Vieni! Pietro scese dalla barca, camminò sull’acqua e raggiunse Ge­sù. L’esperto pescatore di Cafarnao non si era mai inoltrato sul­l’acqua in quella maniera; ma appunto la sua esperienza lo tradì, e quando si trovò tutto solo avvolto tra i flutti turbinanti si spense in lui l’ardore di fede che lo aveva fatto scendere dalla barca e rimase soltanto l’esperto pescatore, il quale perciò ebbe paura. La paura lo portava a fondo; il pauroso gridò: “Signore, salvami!”. E subito Gesù, stese la mano, lo prese e gli dice: “Scarso di fede, di che cosa dubitasti?”. Ambedue salgono in barca, il vento dà subito giù, e ben presto l’approdo è raggiunto.

§ 377. Nel breve tragitto tranquillo ci fu nella barca un inconsa­pevole stordimento. I naviganti si gettarono ai piedi del nuovo imbarcato esclamando: Veramente di Dio sei figlio!. Non dicevano che era il “figlio di Dio” per eccellenza, il Messia; ma certo lo proclamavano un uomo straordinario, a cui Dio aveva elargito i più ampi favori. Appunto qui però rimaneva una mac­chia oscura: a voler inquadrare questo nuovo prodigio insieme con gli altri dentro una grande visione riassuntiva, quei naviganti, che avevano tuttora lo stomaco ripieno del pane miracoloso e gli occhi ripieni del presunto fantasma, non riuscivano a dare un giudizio complessivo sull’intera visione. Ripetevano essi dentro di sé l’iden­ tico ragionamento fatto poche ore prima dalle folle, che avevano mangiato il pane moltiplicato: Se costui sa operare miracoli così potenti, perché non si decide ad agire come potente e re messia­nico » d’israele? (§ 374). Chi mai lo trattiene? E molto di piu’ stu­pivano in se stessi; non avevano infatti capito riguardo a(ll’avveni­mento dei) pani, bensì il loro cuore era indurito (Marco, 6, 51-52). Lo sbarco avvenne a Gennesareth, la regione chiamata oggi el-Ghu­weir e descritta come ubertosissima da Flavio Giuseppe (Guerra giud., III, 516 segg.): stava, come Tabgha (§ 375, nota), circa 3 chilometri più a sud di Cafarnao. Probabilmente Cafarnao fu evi­tata per non provocare le solite manifestazioni clamorose e perico­lose. Tuttavia l’arrivo di Gesù fu subito segnalato, e tosto cominciò l’affluenza di malati e d’imploranti dai luoghi vicini, e quanti lo toccavano erano salvati (Marco, 6, 56). Molti della zona di Cafarnao erano intanto rimasti a llethsaida sul posto della moltiplicazione dei pani. Sopraggiunta la notte, Gesù era scomparso e i discepoli senza di lui erano salpati sull’unica barca che stava sulla riva: non restava dunque niente da fare sul posto. Passata la notte alla meglio, la mattina seguente alcuni di quei ri­tardatari approfittarono di alcune barche venute là a pescare da Tiberiade (Giovanni, 6, 23) e si fecero trasportare a Cafarnao; altri presero altre direzioni. Giunti a Cafarnao, si dettero a cercare Gesù con la speranza forse di riprendere il fallito progetto di proclamarlo re, e d’indurlo o ad una piena accettazione ovvero ad un aperto rifiuto. Lo ritrovarono infatti come avevano previsto, ma probabilmente dopo due o tre giorni, durante i quali Gesù s’era trattenuto nella zona di Genne­sareth; allora, tanto per attaccar discorso, gli dissero: Rabbi, quando sei venuto qua? (Giovanni, 6, 25).

§ 378. Con questa domanda ha inizio il celebre discorso sul pane vivo, riportato dal solo Giovanni (6, 25-71): noi già sappiamo che questo metodo integrativo è proprio al IV vangelo nei confronti con i Sinottici (§ 164). Nel discorso ricompaiono tratti caratteristici a Giovanni, già rilevati nei due dialoghi di Gesù con Nicodemo e con la Samaritana: specialmente col dialogo della Samaritana (§ 294) il discorso sul pane vivo mostra varie affinità, anche di svi­luppo logico. Tuttavia, analizzando minutamente la compagine del discorso stesso, appaiono qua e là delle saldature o riconnessioni che attestano un lavoro redazionale: se il Discorso della Montagna offrì ai due Sinottici che lo riportano, e specialmente a Matteo, occasione di esercitare la loro operosità redazionale (§ 317), un’e­guale occasione fu colta e impiegata da Giovanni per il discorso sul pane vivo. In esso infatti si distinguono chiaramente tre parti: nella prima (6, 25-40) Gesù ha per interlocutori gli abitanti della regione di Cafarnao che avevano assistito alla moltiplicazione dei pani; nella seconda parte (6, 41-59) intervengono come interlocu­tori i Giudei, e in fondo una nota redazionale avverte che le pre­cedenti parole di Gesù furono pronunziate nella sinagoga di Ca­farnao; infine la terza parte (6, 60-71) riporta insieme con poche parole di Gesù vari fatti che furono conseguenze dei precedenti ra­gionamenti, le quali conseguenze non avvennero immediatamente ma richiesero senza dubbio un tempo più o meno lungo per svi­lupparsi. Dunque il discorso, quale oggi l’abbiamo, è una “com­posizione”, la quale ha unito con un nucleo cronologicamente com­patto altre sentenze di Gesù cronologicamente staccate ma riconnes­se con quel nucleo dall’analogia dell’argomento: questa maniera di « composizione », in parte cronologica è in parte logica, era usuale alla <”atechesi” di Giovanni non meno che a quella degli altri Apostoli, e gli antichi Padri o espositori l’hanno riconosciuta ed ammessa ben prima degli studiosi recentissimi (§ § 317, nota; 360, nota prima; 415, nota).

§ 379. La prima parte del discorso avviene a Cafarnao, ma fuori della sinagoga. Coloro che ricercano Gesù l’incontrano, forse per istrada, e gli rivolgono la suddetta domanda: Quando sei venuto qua? – La mira segreta è ben altra. Gesù, riferendosi alla mira se­greta e avvicinandosi alla sostanza della questione, risponde: in verità, in verità vi dico, mi cercate non già perché vedeste segni, bensì’ perché mangiaste dai pani e foste satollati. I segni erano i miracoli fatti da Gesù a comprova della sua missione, e in tanto sarebbero stati efficaci come segni in quanto avessero indotto gli spettatori ad accettare quella missione: e invece quegli abitanti di Cafarnao che parlavano con Gesù erano stati spettatori di molti miracoli ma non li avevano accettati come segni, avevano goduto del beneficio materiale ma non avevano accolto il beneficio spiri­tuale; ultimamente avevano mangiato il pane miracoloso ma subito appresso si erano infervorati per il regno politico del Messia. Perciò Gesù prosegue: Producetevi non già il nutrimento che perisce, bensì il nutrimento permanente in vita eterna il quale vi darà il figlio dell’uomo: costui infatti il Padre, Iddio, segnò del suo sigillo. Il sigillo era lo strumento più importante nella cancelleria d’un re. Quegli ascoltatori di Gesù avevano tentato, poco prima, di eleggere Gesù “re”; ma qual re sarebbe stato egli dopo siffatta elezione? Donde la sua autorità regale? La sua autorità egli l’aveva ricevuta, non da uomini, ma dal Padre, Iddio. Gl’interlocutori replicano: Che dobbiamo fare per produrre le opere d’iddio? e con questa doman­da si riferiscono chiaramente all’esortazione di Gesù di produrre… il nutrimento permanente in vita eterna. Gesù risponde Questa è l’opera di Dio, che crediate in chi egli inviò; che crediate cioè in lui anche quando la sua parola delude le vostre speranze e fa sva­nire i vostri sogni, che crediate nel suo regno anche se è la nega­zione totale del vostro regno. Insistettero gli altri: Qual segno fai dunque tu, affinché vediamo e crediamo in te? Che produci? I pa­dri nostri mangiarono la manna nel deserto, conforme a ciò che sta scritto:”Pane del cielo dette loro da mangiare” (Esodo, 16, 4; Salmo, 78, 24). L’allusione mirava a due termini e li contrapponeva fra loro: da una parte l’opera di Mosè e il suo “segno”, quello d’aver fatto scendere la manna dal cielo; dall’altra parte, l’opera di Gesù e il suo recentissimo “segno”, quello d’aver moltiplicato i pani a Bethsaida. Fra i due termini del confronto, gl’interlocu­tori mostrano di preferire l’opera e il “segno” di Mosè all’opera e al “segno” di Gesù; gli altri “segni” di Gesù non sono neppur chiamati in causa, quasicché non avessero alcuna efficacia dimostra­tiva riguardo alla fede e quasi per dar ragione alle prime parole di Gesù, mi cercate non già perché vedeste segni, bensì perché man­giaste dai pani e foste satollati. Gesù ad ogni modo è riprovato e posposto a Mosè: se egli vuole ottenere fede nel suo invisibile e impalpabile “regno”, faccia dei “segni” almeno eguali a quelli di Mosè.

§ 380. La discussione è giunta ad un bivio, e bisogna decidersi fra i due termini del confronto: da una parte Mosè e la sua opera, dal­l’altra parte Gesù e il suo “regno”. Quale di questi due termini è superiore? Qui sta il nodo della questione, e Gesù l’affronta in pieno: In verità, in verita vi dico, non già Mose’ vi ha dato il pane dal cielo, bensi il Padre mio vi dà il pane dal cielo, quello vero; il pane d’iddio infatti e’ colui che discende dal cielo e dà vita al mon­do. Il giudizio dato dagli interlocutori è capovolto: dei due termini del confronto Gesù è tanto superiore a Mosè quanto il cielo è superiore alla terra; Gesù, non già Mosè, discende dal cielo e dà vita al mondo, egli è veramente il pane dal cielo. L’esposizione è inter­rotta un istante da un’esclamazione degl’interlocutori: Signore, dacci sempre questo pane!; la quale esclamazione è gemella di quella del­la Samaritana riguardo all’acqua, e dimostra che in un caso e nel­l’altro si pensava ad oggetti materiali. Replicò Gesù: lo sono il pane della vita; chi viene a me non sentirà fame, e chi crede in me non sentirà sete giammai. Ma io vi dissi che e mi avete veduto e non credete. Con altre affermazioni di Gesù (Giov., 6, 37-40) si chiu­se questo primo incontro.

§ 381. Dell’incontro e delle affermazioni di Gesù si dovette parlar molto in paese, anche con desiderio di avere spiegazioni in propo­sito e di offrire a Gesù opportunità di darle. Probabilmente i fatti si svolsero come a Nazareth (§ 358), e fu offerta a Gesù occasione di spiegarsi nella prima riunione sinagogale che si tenne in paese, per­ché le nuove dichiarazioni furono fatte da lui insegnando nella sina­goga in Cafarnao (6, 59). Se però è detto, a principio di questa nuova parte del discorso, che i Giudei mormoravano di lui, non è necessario supporre che un gruppo di accaniti Farisei fossero giunti apposta dalla Giudea per dar battaglia a Gesù i Giudei, nello stile di Giovanni, sono in genere i connazionali di Gesù che hanno re­spinto l’insegnamento di lui. Questi Giudei pertanto mormoravano di Gesù perché disse: « Io sono il pane disceso dal cielo »; e dicevano: « Non e’ costui Gesu’ il figlio di Giuseppe, di cui conosciamo il padre e la madre? Come adesso dice: “Dal cielo sono disceso”?. Gesù, dopo alcune consi­derazioni più ampie, torna sulla precedente questione del pane: Io sono il pane della vita. I vostri padri mangiarono nel deserto la man­na e morirono; (invece) questo e’ il pane discendente dal cielo, af­finché taluno mangi di esso e non muoia. Io sono il pane vivente, il disceso dal cielo: se alcuno mangi di questo pane, vivrà in eterno; e il pane poi che io darò, é la mia carne per la vita del mondo. Al suono di tali parole i Giudei, mal disposti quali erano, avevano da strabiliare ben più che Nicodemo e la Samaritana. Se a questi due antichi interlocutori Gesù aveva parlato di “rinascita dallo Spirito” e di “acqua zampillante in vita eterna”, siffatte espres­sioni potevano a prima vista intendersi in senso simbolico: come in senso simbolico poteva intendersi adesso l’espressione “pane di vi­ta” la prima volta che Gesù l’aveva impiegata ed applicata a se stesso. Ma Gesù non si era limitato a quella prima volta; egli era tornato sopra quella espressione e, quasi per escludere a bella posta l’interpretazione simbolica, aveva affermato che quel pane era “la sua carne” data per la vita del mondo. Questa precisazione non era tollerabile in un parlare metaforico: parlando della sua “carne-pane”, Gesù non si esprimeva simbolicamente. Così ragionarono, con pertetta logica, gli uditori della sinagoga di Cafarnao, i quali perciò si dettero a discuter fra loro: Come può darci costui la (sua) carne da mangiare? Il momento era davvero decisivo e solenne; a Gesù spettava in quel momento di precisare ancor meglio la sua intenzione, esprimendo con limpidezza cristallina se le sue parole dovevano esser interpretate come metaforiche ovvero come piane e reali.

§ 382. La limpidezza cristallina si ebbe. Gesù, udita la discussione degli uditori, soggiunse: In verità, in verità vi dico, se non man­giate la carne del figlio dell’uomo e beviate il sangue di lui, non avete vita in voi stessi. Chi mangia la mia carne e beve il mio san­gue ha vita eterna, e io lo risusciterò all’estremo giorno. La carne mia infatti è vero nutrimento, e il sangue mio è vera bevanda; chi mangia la mia carne e beve il mio sangue in me rimane, e io in lui. Come inviò me il Padre vivente e io vivo per il Padre, (così) anche chi mangia me, egli pure vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non (avverrà) come (a) i padri (vostri che) mangiarono (manna) e morirono: chi mangia questo pane, vivrà in eterno. Ascoltate queste spiegazioni, gli uditori non ebbero più il minimo dubbio; né, in realtà, avrebbero potuto averlo. Le parole ascoltate saranno state dure quanto si vuole, ma più chiare e precise di cosi’ non potevano essere; Gesù aveva nettamente e ripetutamente affer­mato che la sua carne era vero cibo e il suo sangue vera bevanda, e che per avere vita eterna bisognava mangiare di quella carne e bere di quel sangue. Non era possibile equivocare. Non equivoca­rono infatti gli ostili Giudei, che videro confermata la loro prima interpretazione; non equivocarono neppure molti dei discepoli stessi di Gesù, che trovarono scandalo in quelle parole. Molti pertanto dei discepoli di lui, avendo ascoltato, dissero:”Duro è questo di­scorso; chi può ascoltarlo?”. L’aggettivo duro qui vale quasi per “ripugnante”, “stomachevole”, tanto che non si può ascoltarlo senza un certo ribrezzo. Evidentemente si era pensato ad un ban­chetto da antropofagi. Gesù in realtà non aveva precisato la maniera in cui si sarebbe mangiata la sua carne e bevuto il suo sangue; ma perfino davanti alla possibilità dell’interpretazione antropofaga e dello scandalo, egli non retrocedette d’un sol passo e non ritirò una sola parola. Sa­pendo che i suoi discepoli mormorano di ciò, disse loro: Ciò vi scan­dalizza? Se dunque contempliate il figlio dell’uomo che risale dov’e­ra prima? Lo spirito è il vivificante, la carne non giova a nulla; i detti ch’io ho parlati a voi sono spirito sono vita. L’ultimo pe­riodo fu ritenuto sufficiente da Gesù per dissipare il timore del ban­chetto da antropofagi: i suoi detti erano spirito e vita. Ma gli stessi detti conservavano il loro pieno valore letterale, senza traslati me­taforici; l’indispensabile era aver fede in lui, e l’ultimo argomento di tale fede sarebbe stato contemplare il figlio dell’uomo risalente al cielo, donde era disceso quale pane vivente. Pane celestiale, carne celestiale. Chi avesse avuto tale fede, avrebbe visto in che maniera si poteva veramente mangiar la carne di lui e bere il suo sangue senza ombra di antropofagia.

§ 383. La reazione dei discepoli al discorso udito, nonostante le spiegazioni aggiuntevi da Gesù, non fu soltanto verbale: da questo (tempo in poi) molti dei suoi discepoli si ritrassero addietro e non camminavano piu’ con lui. Avvenne dunque una defezione, che al­lontanò da Gesù molti dei suoi discepoli; i dodici apostoli invece rimasero fedeli. Un giorno, quando la defezione era già assai pro­gredita, Gesu’ disse ai dodici:”Anche voi forse volete andarvene?”. Gli rispose Simone Pietro: « Signore, da chi andremo? Parole di vita eterna (tu) hai; e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il santo d’Iddio » (Giovanni, 6, 67-69). Non è fortuita in uno scrittore quale Giovanni quella consecuzione di pensiero, secondo cui i dodici avevano creduto e poi conosciuto. Su questo argomento Giovanni non torna più, e l’annunzio del pane di vita non risulta attuato in tutto il resto del suo vangelo, perché egli sarà il solo evangelista che non racconterà l’istituzione dell’Eu­caristia alla vigilia della morte di Gesù. Ma appunto in questa sua omissione sta la più chiara indicazione che l’annunzio è stato at­tuato nella forma spirituale predetta. Giovanni omette l’istituzione dell’Eucaristia perché già narrata da tutti e tre i Sinottici e già notissima agli uditori della sua catechesi (§ 165); ha invece narra­to l’annunzio, perché i Sinottici l’avevano omesso (§ 164).

Il paralitico di Bezetha

§ 384. I fatti precedenti erano avvenuti in Galilea e nell’imminen­za della Pasqua: è anche possibilissimo che lungo il loro svolgimen­to la Pasqua fosse già trascorsa. Giovanni narra questi avvenimenti al cap. 6, ma nel precedente cap. 5 egli ha narrato fatti che si svolgono a Gerusalemme; già accennammo alcune ragioni che rac­comandano di considerare i fatti del cap. 5 come posteriori crono­logicamente a quelli del cap. 6 (§ 177), per cui si tolgono alcune difficoltà testuali senza che s’introducano nuovi inconvenienti. Riprendendo pertanto il cap. 5 lasciato in sospeso, troviamo che Gesù si è recato a Gerusalemme in occasione di una imprecisata festa dei Giudei; la quale poté esser la Pasqua (§ 177), ma più pro­babilmente era la Pentecoste dello stesso anno 29; in questo caso si era sul declinare del maggio. A settentrione di Gerusalemme, immediatamente fuori delle mura, stava sorgendo un quartiere nuovo, il quale – come avviene spesso in casi simili si designava usualmente con un doppio nome, quello generico di Città Nuova o quello specifico di Bezetha (cfr. Flavio Giuseppe, Guerra giud., v, 151; Il, 530). In questo quartiere, e precisamente vicino alla vecchia Porta della città chiamata “Pro­batica” ossia delle pecore, esisteva uno stagno o piscina chiamata anch’essa Bezetha. Vi si raccoglievano le acque di una sotterranea fonte che, come quella di Gihon (Silce) situata nello stesso versante della città, era intermittente, scaturendo di tempo in tempo; a quel­le acque si attribuivano particolari virtù curative, specialmente se un malato riusciva a tuffarvisi appena cominciavano a gorgogliare per il nuovo afflusso. Perciò erano stati costruiti a quadrilatero tor­no torno allo stagno quattro portici, con un quinto trasversale in mezzo, che le ricerche moderne hanno chiaramente riscontrati; in quei portici giaceva una moltitudine di infermi, ciechi, zoppi, rattrappiti, aspettando il movimento dell’acqua.

§ 385. Un giorno Gesù, aggirandosi fra quell’ammasso di miserie, si fermò davanti a un uomo disteso su un giaciglio; era stato colpito da paralisi 38 anni prima, e si faceva trasportare là sperando la guarigione. Improvvisamente Gesù gli domandò: Vuoi guarire? – Naturalmente l’infelice pensò all’acqua; sperava egli in quell’acqua, sì, ma purtroppo non faceva mai in tempo ad entrarvi per primo perché, immobilizzato com’era e non avendo nessuno che lo spingesse dentro non appena cominciava il gorgoglimento, era sempre preceduto da altri. A questo rimpianto del paralitico Gesù non rispose, ma ad un tratto gli ordinò: “Alzati, prendi su il tuo giaci­glio e cammina!”. E subito l’uomo diventò sano; e prese su il suo giaciglio e camminava (Giov., 5, 8-9). Senonché quel giorno era sabbato. Ecco quindi che zelanti Giudei, al vedere quello scandalo, vanno incontro al risanato, e gli fanno stizzosamente osservare ch’e­gli non può trasportare di sabbato un giaciglio; pesava ben più quel giaciglio che un fico secco, eppure per i sommi maestri era norma sacrosanta che di sabbato non si poteva trasportare neanche un fico secco (§ 70). La risposta del ripreso fu spontanea: Quello che mi ha guarito mi ha comandato di prendere il giaciglio e di cammina­re! – Gli altri replicarono: E chi è costui? Il guarito non lo sa­peva, perché non conosceva Gesù, e in quel momento Gesù si era occultato per evitare la folla accorsa al miracolo. Tùttavia più tardi Gesù incontrò nel Tempio il guarito, e gli ri­volse alcune parole d’esortazione. Allora il guarito, temendo forse di apparire un complice agli occhi dei Farisei, andò a riferir loro che autore della guarigione e del comando era stato Gesù. Per questo perseguitavano i Giudei Gesu’, perché faceva queste cose di sabbato. Non solo, dunque, perché aveva comandato di trasportare il giaciglio, ma anche per la guarigione operata; dunque i Farisei di Gerusalemme condividevano pienamente l’opinione dei loro col­leghi della Galilea, già manifestata in occasione dell’uomo dalla ma­no rattrappita (§ 309). Ma Gesù, entrato in discussione, rispose loro: “Il Padre mio fino adesso opera, ed io opero”. Per questo, dunque, ancor piu’ cercavano i Giudei d’ucciderlo, perché non solo abrogava il sabbato, ma diceva suo proprio Padre Iddio, facendo se stesso uguale a Dio. Quanto ad acume di mente, quei Giudei non lasciavano nulla a desiderare. Essi avevano ben seguito il ragionamento di Gesù, ch’era in sostanza questo come Iddio creatore opera sem­pre, governando e conservando tutto il creato e non ammettendo alcun riposo sabbatico in questa sua operazione, così e per la stessa ragione io Gesù opero. Dunque – argomentavano quei Giudei -Gesù fa se stesso uguale a Dio. Avevano afferrato perfettamente il ragionamento di Gesù; ma poiché la sua conclusione rafforzata dal miracolo abbatteva uno dei capisaldi della casuistica farisaica, ragionamento e conclusione dovevano essere senz’altro rigettati.

§ 386. Seguì un lungo ragionamento di Gesù a difesa della sua missione; nella prima parte (Giov., 5, 19-30) egli illustra la sua eguaglianza col Padre e i còmpiti che ne derivano di essere dispen­satore di vita e giudice universale; nella seconda (ivi, 31-47) sono addotte le testimonianze che accreditano quella missione eppure sono misconosciute dai Giudei. Il ragionamento contiene quelle idee ed espressioni elevate che sono predilette dal IV vangelo, e che scar­samente o quasi incidentalmente si riscontrano nei Sinottici. Dal punto di vista storico, come già rilevammo (§ 169), la differenza di tono si spiega agevolmente considerando la differenza degli inter­locutori con cui Gesù discute: i montanari della Galilea, anche se Farisei, non raggiungevano certamente la finezza intellettuale dei dottori di Gerusalemme, con cui Gesù stava qui a discutere. Queste discussioni gerosolimitane, trascurate dai Sinottici, sono giustamente supplite dal solerte Giovanni. Il lungo ragionamento di Gesù (che dovrà essere letto direttamente nel testo) non convinse affatto i Giudei, i quali ricorsero ad argo­menti d’altro genere: ossia decisero che quel fastidioso operatore di miracoli doveva esser soppresso. Cosicché, dopo ciò Gesu’ s’ag­girava nella Galilea: non voleva infatti aggirarsi nella Giudea, per­ché i Giudei cercavano d’ucciderlo (Giovanni, 7, 1, ricollegantesi con 5, 47).

La “tradizione degli anziani”

§ 387. Trasferendosi in Galilea, Gesù si era sottratto alle insidie dei Farisei di Gerusalemme, ma costoro non abbandonarono però la partita; lassù nella Galilea essi non potevano certo spadroneggiare come a Gerusalemme, ma qualcosa potevano sempre fare: ad esem­pio, pedinare Gesù e raccogliere nuove accuse contro di lui. Di­fatti, già tornato Gesù in Galilea, si radunarono presso di lui i Fa­risei ed alcuni degli Scribi venuti da Gerusalemme (Marco, 7, 1). La tattica scelta da questi inviati fu quella di assillare l’irriduci­bile Rabbi con rilievi ed osservazioni sulla sua condotta, sia per umiliarlo in se stesso sia per screditarlo presso il popolo. Notarono subito che i discepoli del Rabbi non si lavavano le mani prima di mangiare: violazione gravissima della “tradizione degli anziani”, gravissimo delitto che equivaleva – secondo la sentenza rabbinica (§ 72) – a “frequentare una meretrice” e attirava la punizione d’essere “sradicato dal mondo”. Riscontrato il delitto, lo denunzia­rono subito al Rabbi, come al responsabile morale. Gesù accetta la battaglia, ma dal caso singolo s’innalza a considera­zioni più ampie. Tutte quelle abluzioni di mani e di stoviglie sono prescritte dalla “tradizione degli anziani”: sta bene. Ma gli an­ziani non sono Dio, e la loro tradizione non è legge di Dio, la quale è infinitamente superiore; perciò in primo luogo bisogna ba­dare alla legge di Dio, e non preferirle mai la tradizione di uomini. Ora, avveniva questo caso. La legge di Dio, ossia il decalogo, ave­va prescritto di onorare il padre e la madre, e quindi di sovvenire ai loro bisogni fornendo aiuti materiali. I rabbini, dal canto loro, avevano stabilito la norma che, se un Israelita aveva deciso d’of­frire un certo oggetto al Tempio, quell’offerta era inalienabile e l’oggetto non doveva finire che nel tesoro del Tempio: in tal caso bastava pronunziare la parola Qorban (“offerta” sacra), e l’og­getto designato diventava proprietà sacra del Tempio in virtù di un voto irrevocabile. Spesso perciò accadeva che un figlio, maldi­sposto verso i suoi genitori, pronunziava Qorban su tutto ciò ch’egli personalmentè possedeva: cosicché i genitori, anche sul punto di morir di fame, non potevano toccar nulla di ciò che il figlio posse­deva; costui invece continuava tranquillamente a godersi i suoi beni consacrati in voto (anche ciò permettevano i rabbini), fino a che li consegnava effettivamente al Tempio, oppure trovava una scappa­toia per non consegnarli (anche qui le scappatoie rabbiniche non mancavano).

§ 388. Stando così le cose, Gesù rispose ai suoi pedinatori: Bellamente (voi) dispregiate il comandamento di Dio per osservare la tradizione vostra! Mosé infatti disse: “Onora il padre tuo e la ma­dre tua” e “ Chi maledice padre o madre sia messo a morte”; voi invece affermate: “Se un uomo dice al padre o alla madre – (Sia) Qorban ciò che ti potrebbe giovare – (deve mantenere)”; (cosic­chè) non gli lasciate piu’ nulla da fare al padre o alla madre, abo­lendo la parola d’Iddio con la tradizione vostra che avete trasmessa (Marco, 7, 9-13). Accennando poi ad altri casi non venuti in di­scussione aggiunse: E cose simili di tal genere ne fate molte (§ 37). La conclusione fu tolta da un passo di Isaia (29, 13): Ipocriti! Bellamente profetò di voi Isaia dicendo: “Questo popolo con le labbra mi onora, ma il cuor loro lungi si tiene da me; e invano mi rendono culto insegnando insegnamenti (che sono) comandi d’uomini” (Mat­teo, 15, 7-9). Farisei criticanti avevano avuto la loro parte, e sembra che non rispondessero. Gesù però si preoccupò delle turbe che avevano ascol­tato, e che avevano la testa infarcita delle minute prescrizioni fa­risaiche riguardo a purità o impurità di cibi (§ 72); onde rivolgen­dosi ad esse continuò: Uditemi tutti e capite! Non c’è nulla este­riormente all’uomo che entrando dentro di lui possa inquinarlo; bensì quelle cose che escono fuori dell’uomo sono quelle che inqui­nano l’uomo (Marco, 7, 14-15). Come altre volte, Gesù aveva par­lato anche qui da capovolgitore (§ § 318, 368); i Farisei se ne scan­dalizzarono: i discepoli stessi non capirono bene la forza del capo­volgimento anti-farisaico, e quando furono soli con Gesù gliene domandarono la spiegazione. La spiegazione fu elementare: tutto cio che entra nell’uomo, non raggiunge il cuore ch’è il vero santuario dell’uomo, bensì il ventre, donde i cibi ingenti sono emessi poco dopo; dal cuore dell’uomo invece escon fuori i pensieri malvagi, gli adulterii, le bestemmie e tutto il corteo di male azioni, e queste sole hanno la potenza d’inquinare l’uomo. Per Gesù, dunque, l’uomo era essenzialmente spirito e creatura mo­rale; tutto il resto, in esso, era accessorio e subordinato a quella superiore essenza.

Gesu’ nella Fenicia e nella Decapoli. Seconda moltiplicazione dei pani.

§ 389. La relazione degli evangelisti diviene nuovamente saltuaria e aneddotica, e improvvisamente ci presenta Gesù trasferitosi nelle regioni di Tiro e Sidone, ossia nella Fenicia. E la prima volta che Gesù esce fuori dalla Palestina dacché ha cominciato la vita pub­blica e forse dacché è nato (salvo la fuga in Egitto durante la sua infanzia). Perché quella uscita? Certamente non fu per portare in terra di pagani la “buona novella”, perché ciò non entrava nella sua missione personale e immediata come dichiarerà ben presto egli stesso (Matteo, 15, 24); neppure per sottrarsi a minacce di Antipa, perché di ritorno da Gerusalemme era venuto appunto nel territo­rio di lui: probabilmente fu per sottrarsi alle persecuzioni dei Fa­risei venuti a pedinarlo anche da Gerusalemme (§ 387), e nello stesso tempo per rifugiarsi in un luogo ove potesse rimanere sco­nosciuto e tranquillo (cfr. Marco, 7, 24) e provvedere ai suoi disce­poli, che avevano tanto bisogno ancora di formazione spirituale. Ma anche in Fenicia, come già era avvenuto a Bethsaida (§ 327), il progetto di tranquillità e raccoglimento svanì. Anche quelle re­gioni pagane, confinanti con la Palestina, avevano inteso parlare di Gesù come di gran taumaturgo: andavano in giro per il mondo d’allora tanti sedicenti operatori di miracoli, che là non si ebbe alcuna difficoltà ad annoverare fra essi anche il profeta della Ga­lilea; se si attribuivano portenti a Esculapio e ad altri Dei, non c’era ragione di non attribuirli anche al Dio dei Giudei operante per mezzo d’un suo profeta: all’atto pratico si sarebbe giudicata la va­lentia di ciascuno. Questi, più o meno, dovevano essere i sentimenti d’una donna di Tiro che si presentò a Gesù. Era pagana, e mentre Marco che scrive per i Romani la chiama siro-fenicia perché la Fenicia faceva parte della provincia romana di Siria, Matteo che scrive per i Giudei la chiama cananea alludendo all’avanzo dell’antica popolazione paga­na che abitava nella Siria-Palestina prima degli Ebrei. La donna era spinta a Gesù dal suo cuore di madre: una sua figlioletta – cosi’ la chiama Marco era malamente vessata dal demonio, e la madre aveva messo la sua speranza in Gesù. Espone ella la sua domanda; Gesù non le risponde parola. L’infelice madre insiste, e segue per la strada il gruppo di Gesù e dei discepoli implorando ad alta voce Abbi pietà di me, Signore, figlio di David! Era la maniera insistente e rumorosa che usavano in Oriente i mendicanti (§ 351); la donna, che non doveva ritrovarsi in povertà, era spinta ad imitare i men­dicanti dal suo cuore di madre. Gesù continua a non udirla; ma dopo un poco i discepoli, seccati di quella pubblicità, dicono a Gesù di allontanarla, invitandolo con ciò implicitamente ad accordare la grazia. Gesù risponde asciuttamente di essere stato inviato sol­tanto alle pecorelle sperdute della casa d’Israele: i pagani, qual era la donna, sarebbero stati oggetto della missione personale di altri, non di Gesù. La donna interviene direttamente, e rinnova la supplica. Gesù allora le risponde con durezza: Lascia prima che si satollino i figli. Non sta bene infatti prendere il pane dei figli e gettar(lo) ai cagnolini! I privilegiati figli erano i Giudei, e i cagno­lini erano i pagani. La durezza della risposta fu quasi amarezza di medicina che provochi la reazione, e con ciò la guarigione. La don­na reagì rispondendo ancora da madre implorante: Anzi (sta bene), Signore! Anche i cagnolini sotto la tavola mangiano dalle briciole dei ragazzi! Era una reazione di fede. Per Gesù fede significava salvezza (§§ 349-351); perciò egli rispose all’implorante: O donna, grande e’ la tua fede! (Matteo, 15, 28). Per questa parola, va’, e’ uscito dalla tua figlia il demonio (Marco, 7, 29). La madre senz’altro credette, e tornata in casa trovò la bambina adagiata sul letto e libera dall’ossessione.

§ 390. Da Tiro Gesù s’inoltrò più a settentrione, fino a Sidone; di là piegò verso oriente, e con imprecisato giro attraverso la Decapoli (§ 4) si riportò nei pressi del lago di Tiberiade (Marco, 7, 31). Di questa peregrinazione randagia, che probabilmente fece trovare a Gesù quell’isolamento con i discepoli che non aveva trovato a Tiro, ci è trasmesso un solo episodio avvenuto nella Decapoli e narrato dal solo Marco (7, 31-37). Fu presentato a Gesù un sordomuto con vive raccomandazioni che gli imponesse le mani. Gesù lo prende in disparte dalla folla, gli mette le dita nelle orecchie, tocca con un po’ della propria saliva la lingua di lui, quindi guarda su in cielo sospirando; infine gli dice: Ethpetah., cioè Sii aperto! L’evangelista trascrive in greco la pre­cisa parola aramaica, ripetuta fedelmente da Pietro nella sua cate­chesi, pur facendola seguire dalla traduzione greca (§ 133). Il sor­domuto restò guarito all’istante. Gesù poi ordinò che non si parlasse dell’accaduto; ma anche questa volta il suo ordine fu poco o punto eseguito. Perché, invece di operare una guarigione immediata come in altri casi, Gesù premise quei vari atti preliminari? Il vecchio Paulus di­ceva che Gesù applicava qualche medicina naturale (§ 198); sol­tanto che l’acuto esegeta ha dimenticato di segnalare, a beneficio dell’umanità intera, quale fosse quella medicina. Parlando invece seriamente, si potrà congetturare che la circostanza di trovarsi Gesù nella regione pagana della Decapoli rendesse opportuno quella spe­cie di simbolismo preparatorio, per ragioni che oggi a noi sfuggono; nello stesso tempo è ben probabile che, non potendo il sordomuto udire le parole di Gesù e volendo costui eccitarlo a quella fede che sempre richiedeva in chi domandava un miracolo, si servisse di quegli atti materiali appunto per eccitarlo alla fede viva.

§ 391. A questo punto i Sinottici, salvo Luca, narrano una secon­da moltiplicazione di pani, somigliantissima alla prima ed avvenuta egualmente sulla riva orientale del lago di Tiberiade (§ 372). Accorrono attorno a Gesù grandi folle, che rimangono con lui tre giorni: in questo tempo le cibarie di cui si erano provviste sono consumate. Gesù ha compassione di quella gente, e non vuole rin­viarla digiuna per timore che venga meno lungo la strada. I di­scepoli fanno osservare che lì, in luogo deserto, non c’è modo di trovar pane. Gesù chiede quanti pani disponibili ci siano; gli si risponde: Sette, e pochi pesciolini (Matteo, 15, 34). Come la prima volta Gesù prende quel cibo disponibile, lo spezza e lo fa distribuire; tutti mangiano e si satollano, e si raccolgono sette sporte di avanzi. Coloro che avevano mangiato erano quattromila uomini senza (contare) donne e bambini (ivi, 38). Ambedue i Sinottici che raccontano, dopo la prima, anche questa seconda moltiplicazione dei pani la distinguono espressamente dalla prima (Matteo, 16, 9-10; Marco, 8, 19-20). Ciò è più che sufficiente a dimostrare che la primitiva catechesi degli Apostoli, testimoni de­gli avvenimenti, parlava di due fatti ben distinti; non è però suffi­ciente a convincere di questa distinzione gli studiosi radicali mo­derni, che invece pensano allo sdoppiamento di un unico fatto. Ma sta in contrario che i due fatti, se sono somigliantissimi, mostrano anche divergenze sia quanto al tempo sia quanto ai numeri; le loro somiglianze, invece, sono facilmente giustificate dalla corrispondenza delle circostanze. E se Gesù volle non una, ma due volte, provvedere miracolosamente ai bisogni materiali delle folle ricercanti il regno di Dio, fu per con­fermare sempre più l’ammonizione del Discorso della montagna: Cercate prima il regno e la sua giustizia e tutte queste cose vi sa­ranno date in aggiunta (§ 331). Trattandosi dell’urgentissima preoc­cupazione umana, quella del pane materiale, due esempi tipici, in­vece di uno solo, erano opportunissimi. Dopo il miracolo Gesù risalì in barca ed approdò, certamente sulla sponda occidentale, ad un luogo che Matteo (15, 39) chiama Ma­gadan, e invece Marco (8, 10) Dalmanutha. I nomi sono del tutto sconosciuti, e nonostante varie congetture fatte non si sa a quali luoghi assegnarli.

Il segno dal cielo. Il lievito dei Farisei. Il cieco di Bethsaida

§ 392. Tornato Gesù in Galilea, saltarono nuovamente fuori i suoi pedinatori rimasti sul posto. I Farisei, fiancheggiati questa volta dai Sadducei (Matteo, 16, 1), entrarono in discussione con lui; e poiché la discussione non li pensuadeva, gli chiesero una prova definitiva della sua missione cioè un portento che calasse giù dal cielo. Que­sta sì che era la prova incontrastabile, da cui anch’essi sarebbero rimasti assolutamente convinti, non già guarire storpi, risuscitare mor­ti e moltiplicare pani! Ci voleva qualcosa come un bel globo iride­scente che calasse giù dal cielo, o anche che il sole s’oscurasse, oppure qualche altra meteora di tal genere: allora senza dubbio Gesù avrebbe vinto la sua causa! La richiesta non era nuova. A un atto magico di questo tipo avevano pensato quei Giudei che, disputando con Gesù dopo la prima moltiplicazione dei pani, ave­vano ricordato la manna calata dal cielo (§ 379); del resto il « se­gno » messianico per eccellenza era, nell’opinione diffusa d’allora, il portento astronomico e meteorologico (§ 446); fuor di questo, tutti gli altri portenti non avevano un valore probativo sicuro, ap­punto perché non corrispondevano all’aspettativa comune. Ma questa aspettativa, perché deformata ed avvilita, non fu appa­gata da Gesù. Udendo la richiesta, egli sospirò profondamente: e questa fu la sua vera risposta, fatta di commiserazione e di ram­marico. Solo come un dippiù egli aggiunse: « Perché ricerca questa generazione un segno? ìn verità vi dico, non sarà dato a questa ge­nerazzone un segno!. E lasciatili, salito nuovamente (in barca), se ne andò al di là (Marco, 8, 12-13).

§ 393. Essendo stata subitanea la partenza, i discepoli avevano di­menticato di far provviste, e lungo il tragitto si rammaricavano di aver con loro un solo pane. Gesù, udendo le loro parole, disse loro: Guardatevi dal fermento dei Farisei e dal fermento di Erode! –Erode, cioè Antipa, fu menzionato certamente in conseguenza di discorsi o di avvenimenti precedenti; è probabile che fra coloro che avevano discusso testé con Gesù vi fossero agenti di Erode, o che i Farisei stessi agissero per conto di Erode, dato che costui aveva sempre la sua vecchia curiosità riguardo a Gesù (§ 357): la stessa partenza subitanea di Gesù indurrebbe a credere ch’egli volesse sot­trarsi bruscamente alle insidiose e maligne investigazioni che veni­vano dalle due parti. I discepoli tuttavia, che si sentivano lo stomaco vuoto, non vedevano che relazione avesse il fermento con i Farisei e con Erode. Gesù, ricordando loro le due moltiplicazioni dei pani, li esortò a non preoccuparsi del pane materiale bensì nuo­vamente a star lontani dal suddetto fermento. Allora capirono ch’egli alludeva alle dottrine dei Farisei e alle astuzie di Erode, che corro­devano lo spirito come un fermento corrode la pasta azima.

§ 394. Le ostilità trovate sulla riva occidentale del lago (e che do­vettero essere molto più gravi di quanto risulti dagli scarsissimi ac­cenni degli evangelisti) avevano indotto Gesù a riportarsi a Bethsaida, forse per cercare animi meglio disposti; ma anche di ciò che av­venne là non c’è trasmesso nulla, salvo la guarigione riferita dal solo Marco (8, 22-26) il quale l’apprese certamente dalla catechesi di Pietro. E portano a lui un cieco, e gli raccomandano di toccarlo. E avendo preso il cieco per la mano, lo condusse fuori della borgata, e avendo sputato negli occhi di lui e postegli le mani sopra, lo in­terrogava: “Vedi alcunché?”. E (quello) guardando in su diceva: “Scorgo gli uomini, perché vedo come alberi che camminano!”. Allora di nuovo gli impose le mani sugli occhi, e (quello) vide di­stintamente e fu ristabilito e scorgeva nettamente da lontano tutte le cose. E (Gesu’) lo mandò a casa sua dicendo: “Non entrar neppure nella borgata!”. Questa vivida descrizione, dovuta a Pietro non meno che a Marco, ci fa assistere a una vera guan­gione graduale; forse il cieco non era tale dalla nascita, perche’ rico­nosce subito uomini ed alberi, ad ogni modo la visione è dapprima torbida e confusa, e poi perfetta. Perché questa graduazione? Si possono ripetere le ipotesi fatte a proposito del sordomuto (§ 390), la cui guarigione ha qualche analogia con questa; ma, meglio che congetture, non siamo in grado di fare. Quanto all’impiego della saliva, si ritrova anche nelle prescrizioni dei rabbini per le malattie d’occhi; quindi anche questa volta i razionalisti seguaci del Paulus riusciranno a spiegar la guarigione in maniera naturalissima.

A Cesarea di Filippo

§ 395. Da Bethsaida Gesù risalì verso settentrione, allontanandosi ancor più da contrade giudaiche, e raggiunse la zona di Cesarea di Filippo (§ 19). In quella zona, in prevalenza pagana, egli e i suoi discepoli non erano assillati da folle d’imploranti né disturbati da intrighi di Farisei e di politicanti; fu dunque per lui una specie di ritiro con i suoi prediletti. Quei discepoli, del resto, rappresentavano il miglior risultato del­l’opera sua: saranno stati chi ruvido, chi zotico, e chi di dura cer­vice; avranno tutti, più o meno, risentito delle grette idee predomi­nanti allora nella loro stirpe; ma uomini di cuore erano, sincera­mente affezionati al maestro e pieni di fede in lui. Le solite turbe che assiepavano Gesù non avevano questi pregi: in Gesù esse cerca­vano ordinariamente il taumaturgo che guariva malati, risuscitava morti e moltiplicava pani, e se gradivano pure sentirlo parlare del regno di Dio e s’infiammavano anche alla sua parola, in parte era quella vampa nazionalista che Gesù deprecava e in parte era un fuoco di paglia che si spegneva poco dopo. Perciò Gesù prediligeva i discepoli, e ne curava particolarmente la formazione spirituale in vista del futuro. E oramai, dopo un anno e mezzo di operosità, egli poteva trattarli confidenzialmente nella questione più delicata per lui e forse più oscura per i discepoli stessi: la qualità messianica. Quel maestro così amato, quel taumaturgo cosi potente, quel predicatore cosi efficace, era veramente il Messia predetto da secoli ad Israele, ov­vero era soltanto un tardivo profeta dotato di straordinari doni divini? Era un figlio di Dio, ovvero era il figlio di Dio? Certamente, dentro di loro, i prediletti discepoli si erano rivolti già nel passato questa domanda: ma se personalmente si sentivano assai inclinati a rispondere che egli era proprio il Messia, il figlio di Dio, ne erano anche distornati dalla vigilantissima cura mostrata fino allora da Gesù affinché quella risposta affermativa non fosse proclamata ad alta voce. Perché mai quella ritrosia inesplicabile? Era questo un punto assai oscuro per i discepoli; i quali però pensavano che il maestro ne sapeva più di loro, e avendo fede in lui si rimettevano a lui, aspettando che quel punto oscuro fosse schiarito a suo tempo. Gesù giudicò che allora era venuto questo tempo. La lunga ed in­tima assiduità con Gesù aveva aperto gli occhi ai discepoli in molte cose; d’altra parte, là in terra pagana, non esistevano pericoli d’in­composti tumulti nazionalisti qualora i discepoli avessero avuto la certezza che Gesù era il Messia e di ciò avessero potuto parlare tra loro liberamente; è anche probabile che, nei giorni di tranquillo ritiro passato con i discepoli, Gesù li avesse predisposti spiritual­mente a ricevere la delicata confidenza, sfrondando dalla loro immaginativa molte frasche politiche di cui era adornata ancora nelle loro menti la figura del Messia d’Israele. Infine, com’era solito fare nei momenti più decisivi della sua missione, Gesù si era appartato a pregare da solo (Luca, 9, 18).

§ 396. Ripreso tutti insieme il cammino, stavano per giungere a Cesarea di Filippo. S’avanzavano lungo la strada, ed erano già in vista della città (Marco, 8, 27): di fronte ad essi si ergeva la mae­stosa roccia su cui troneggiava il tempio di Augusto (§ 19). A un tratto, riferendosi certamente a discorsi precedenti, Gesù chie de ai discepoli: Chi dicono gli uomini che io sia? Gli fu risposto alla rinfusa: Ho inteso dire che tu sei Giovanni il Battista! Un altro: C’è chi dice che sei Elia! – Un altro ancora: Secondo alcuni tu saresti Geremia! Altri infine riferirono l’opinione più vaga se­condo cui Gesù era uno degli antichi profeti risorto. Le opinioni riferite erano numerose; ma Gesù non dette loro alcuna importanza, né si fermò a discuterle. Quell’investigazione sul pensiero altrui era una semplice introduzione all’investigazione veramente importante, quella sull’opinione personale dei discepoli. Terminate infatti le ri­sposte, Gesù disse loro: “Voi, invece, chi dite che io sia?”. I discepoli ebbero certamente un sussulto: a quella domanda si sen­tirono toccati nell’intimo, e con stupore videro che Gesù da se stesso entrava nel campo fino allora gelosamente evitato. Dovette seguire un silenzio imposto più da felicità ritrosa che da vera esitanza, si­lenzio non dissimile da quello d’una fanciulla che sia chiesta in isposa dal giovane ch’ella nel suo cuore segretamente già amava: forse i discepoli ripensarono in quel momento alla parola di Gesù che si era paragonato, nei loro confronti, ad uno sposo fra gli « ami­ci dello sposo » (§ 307). E rimasero lì in mezzo alla strada muti d’un silenzio eloquente, con gli occhi fissi sul tempio di Augusto che dominava su citta’ e campagna dall’alto della roccia. Passati alcuni istanti il silenzio fu tradotto in parole da Simone Pie­tro, ne poteva esser da altri che da lui impetuoso tra affezionati: Tu sei il Cristo, il figlio d’Iddio il vivente! La traduzione del vere­condo silenzio era stata perfetta; lo si vide in quei barbuti visi, che esprimevano la felicità d’un cordiale consenso e dimostravano una giocondità da lungo tempo repressa.

§ 397. Gesù sfiorò col suo sguardo tutti quei visi; rivolto poi a chi aveva parlato disse: Beato sei (tu), Simone figlio di Giona, poiché carne e sangue non rivelò (ciò) a te, bensì il Padre mio quello nei cieli! L’affermazione di Simone era confermata in pieno da colui ch’era il maggiormente interessato. Tutti i presenti si sentirono parimente confermati nella loro antica fede serbata in segreto. Dovette seguire ancora un breve silenzio, in cui fu alzato ancora uno sguardo al tempio lassù in cima alla roccia. Poi Gesù rispose: Ebbene, an­ch’io ti dico che tu sei Roccia, e sopra questa roccia costruirò la mia chiesa, e porte d’inferi non prevarranno contro di essa. Darò a te le chiavi del regno dei cieli, e ciò che (tu) abbia legato sopra la terra sarà legato nei cieli, e ciò che (tu) abbia sciolto sopra la terra sarà sciolto nei cieli (Matteo, 16, 16-19). Già in precedenza Simone era stato da Gesù chiamato Roccia, in aramaico Kepha (§ 278), ma quella prima volta non era stata comunicata la ragione e la spie­gazione dell’appellativo. Adesso la spiegazione è comunicata, ed è tanto più chiara davanti alla visione della roccia materiale che so­stiene il tempio dedicato al signore del Palatino. Il tempio spirituale che Gesù costruirà al Signore dei cieli, cioè la sua Chiesa, avrà per roccia di sostegno quel suo discepolo che per primo lo ha procla­mato Messia e vero figlio di Dio. Anche le altre parole di Gesù sono chiare, alla luce delle circostanze in cui furono pronunziate. Gli Inferi (in greco Ade) corrispondono alla ebraica Sheol (§ 79), non però come generica dimora dei morti, bensì come dimora dei morti reprobi, ostili al bene e al regno di Dio; le porte di cotesta bolgia satanica, cioè tutte le sue massime forze (cfr. la sublime Porta), non prevarranno contro la costruzione di Gesù e contro la roccia che la sostiene. Tipicamente semitici sono anche i simboli delle chiavi e del legare e sciogliere. Ancora oggi in paesi arabi girano per le strade uomini con un paio di grosse chiavi legate ad una funicella e pendenti ostentatamente di qua e di là della spalla: sono i padroni di case, che fanno pompa in quella maniera della propria autorità. Il sira­bolo del legare e sciogliere (cfr. Matteo, 18, 18) conserva qui il valore che aveva nella terminologia rabbinica contemporanea, ove si ritrova usato frequentemente: i rabbini “legavano” quando proi­bivano alcunché, “scioglievano” quando lo permettevano; Rabbì Nechonja, fiorito verso l’anno 70 dopo Cr., usava premettere alle sue lezioni la seguente preghiera: “Ti piaccia, o Jahvè, Dio mio e Dio dei miei padri, che… noi non dichiariamo impuro ciò ch’è puro e puro ciò ch’è impuro; che noi non leghiamo ciò ch’e’ sciolto e non sciogliamo ciò ch’e’ legato”. Lufficio del discepolo Roccia è dunque ben definito. Egli sarà il fondamento che sosterrà la Chiesa, e la sosterrà così saldamente che le avverse potenze infernali non prevarranno contro di essa. Egli inoltre sarà il maggiordomo di quella casa, le cui chiavi saranno perciò affidate a lui. Egli infine detterà legge nell’interno di quella casa, proibendo oppure permettendo alcunché, e le sue sentenze pronunziate sulla terra saranno tali quali ratificate nei cieli.

§ 398. La replica di Gesù a Simone Pietro è di una chiarezza che si direbbe abbagliante; né minore è la sua sicurezza testuale, giacché tutti gli antichi documenti senza alcuna eccezione concordano nel trasmetterci con precisione sillabica il nostro odierno testo. Eppure, com’è ben noto, questo testo ha fatto scorrere torrenti d’inchiostro, e si è recisamente negato che Gesù abbia conferito a Simone l’ufficio di essere roccia fondamentale della Chiesa, depositano delle sue chiavi e arbitro di legare e di sciogliere. Come mai questa negazio­ne? Gli antichi protestanti ortodossi assicuravano che Gesù non ha parlato affatto di Simone Roccia, ma di se stesso, e per il resto si è riferito a tutti gli Apostoli collettivamente e alla loro fede. Quando dice sopra questa roccia costruirò la mia chiesa, ecc., Gesù allunga un dito e lo rivolge verso se stesso, sebbene stia a parlare con Simone e di Simone. Quel dito allungato risolve la questione: esso è chiarissimamente sottinteso dal contesto, e si accorda spontanea­mente con le parole che seguono darò a te le chiavi del regno dei cieli e ciò che (tu) abbia legato, ecc. Come si vede subito, il ragio­namento è perfetto, purché si parta dal principio che bianco significa nero e nero significa bianco: lucus a non lucendo. I negatori moderni dell’ufficio di Simone hanno preso la strada pre­cisamente opposta. Essi hanno trovato che la spiegazione degli antichi protestanti è di una goffaggine tale da tradire subito la tendenziosità settaria che l’ispira. No, rispondono essi, le parole di Gesù hanno precisamente quel significato che la tradizione e il buon senso vi hanno sempre ritrovato; su ciò è inutile arzigogolare: – Uno di questi nuovi negatori si esprime così: Simone Pietro… vive ancora, agli occhi di Matteo, in una potenza che lega e scioglie, che detiene le chiavi del regno di Dio e che e’ l’autorità della Chiesa stessa… Si­mone Pietro e’ la prima autorità apostolica in ciò che riguarda la fede, perché il Padre gli ha rivelato a preferenza il mistero del Fi­glio; in ciò che riguarda il governo delle comunità, perché il Cristo gli ha confidato le chiavi del regno; in ciò che riguarda la disciplina ecclesiastica, perché egli ha il potere di legare e di sciogliere. Non e’ senza motivo che la tradizione cattolica ha fondato su questo testo il dogma del primato romano (Loisy). Gesù dunque ha veramente conferito a Simone l’ufficio in questione, secondo i nuovi negatori? Mai più! La ragione è che Gesù non ha mai pronunziato quelle parole; quel testo è tutto, o quasi tutto, falso o inventato; esso fu interpolato tra la fine del secolo I e gl’inizi del II o a Roma, a servizio della chiesa romana, oppure in Palestina. E le prove di tutto ciò? Non si è addotto nessun codice antico, nes­suna versione, nessuna citazione, che mostrino indizi sia pur vaghi d’interpolazione: si sono addotti argomenti a silentio (che tutti sanno quanto valgano) per cui scrittori cristiani dei secoli II e III o non citano il passo o ne citano, solo una parte. Si potrebbe forse pensare che gli antichi protestanti, beffeggiati dai moderni negatori per avere scoperto il dito allungato di Gesù, siano in grado di vendicarsi trion­falmente applicando ai beffeggiatori le parole di Orazio: Quod­cumque ostendis mihi sic, incredulus odi!

§ 399. Queste sono le ragioni, addotte da una parte e dall’altra, per negare l’ufficio di Simone. Ma la ragione vera e reale, eppure non addotta mai francamente ed esplicitamente, è la previa « im­possibilità » che Gesù abbia conferito quell’ufficio. Questa “impos­sibilità” è assoluta, indiscutibile, trascendente, e vale ben più della chiarezza del senso e della sicurezza testuale. Soltanto da questa roccia sono scaturiti i torrenti d’inchiostro accen­nati sopra, e soltanto sopra questa roccia si adunano concordemente negatori antichi e moderni. Scesi però dalla roccia e calati sul ter­reno esegetico-documentario, i concordi negatori discordano fra loro e si negano a vicenda. Secondo essi, dietro le spalle di chi si appella alla chiarezza del sen­so e alla sicurezza testuale s’erge l’ombra del papismo: papismo o no, i negatori alzerebbero tripudianti grida di trionfo se avessero a propria disposizione solo una metà degli argomenti strettamente “storici” di cui dispongono gli adombrati dal papismo. Ma hanno poi questi negatori pensato di riguardare qualche volta dietro le proprie spalle, per vedere se caso mai là si ergano le ombre di Lu­tero o di Hegel, e se unicamente quelle ombre suggeriscano ad essi i loro argomenti “storici”?

Rettificazioni messianiche.

§ 400. Il decisivo annunzio ormai era stato comunicato, ma subito appresso vennero quei correttivi (§ 301) che dovevano contenerne il significato nei suoi giusti termini. E in primo luogo l’annunzio era ancora confidenziale, riserbato ai soli discepoli; terminato infatti il conferimento dell’ufficio a Simone Pietro, Gesù immediatamente intimò ai discepoli di non dire a nessuno che egli e’ il Cristo (Mat­teo, 16, 20). Gesù giudicava non essere ancora venuto il tempo di divulgare l’annunzio, sia perché le turbe non erano preparate, sia anche perché gli stessi discepoli valutavano certamente in maniera imperfetta la qualità messianica di Gesù. Egli quindi si dette a rettificarla e perfezionarla. Da allora cominciò Gesu’ Cristo a mostrare ai discepoli suoi che egli deve andare a Ge­rusalemme, e molto patire dagli Anziani e sommi sacerdoti e Scribi, ed essere ucciso e al terzo giorno risuscitare (ivi, 21). Quale differenza fra il rumoroso e folgoreggiante Messia atteso dalle plebi, e questo Messia che schiva d’esser riconosciuto per tale e predice i patimenti e la morte violenta che l’aspettano! Per i discepoli, ai quali appunto era rivolto l’energico ammonimento, fu un colpo rude. Il generoso Pietro, sia per il suo carattere sia per l’ufficio testé ricevuto, si cre­dette in dovere d’intervenire; e Pietro presolo seco (da parte), co­minciò a rimproverarlo, dicendo: “(Dio sia) a te propizio, Signore! Non ti avverrà punto ciò!”. Ma egli, voltatosi, disse a Pietro: « Vat­tene dietro a me, Satana! Mi sei di scandalo, perché non hai i pen­sieri d’Iddio, bensì quelli degli uomini. Il tentatore per eccellenza era Satana (§§ 78, 273), e qui la Roccia della Chiesa e il maggior­domo del regno dei cieli riceve l’appellativo di tentatore. La ragione di questa umiliazione, cioè l’aver egli vagheggiato il Messia domi­natore deprecando il Messia sofferente, era imputabile più ai suoi tempi che a lui personalmente: ad ogni modo dimostra bene quanto bisogno c’era di rettificazioni messianiche anche nelle coscienze dei piu intimi discepoli di Gesù. E le rettificazioni seguitarono, prendendo sempre più il tono di crude disillusioni. Che s’aspettavano quei discepoli andando appresso a Gesù Messia? Forse di trionfare, forse di goder vita suntuosa a fianco a un dominatore? Provvede Gesù a dissipare cotesti loro sogni con altrettante smentite anticipate, che risuonano come schiaffi sulla fac­cia d’un morfinizzato delirante. Gesù dichiara che chi vuole andargli appresso dovrà rinnegare se stesso, prendere la sua croce e seguirlo (Matteo, 16, 24). L’allusione alla croce acquistò certamente un senso più chiaro dopo la morte di Gesù; ma fin da allora i discepoli pote­vano comprenderla benissimo, giacché da quando i Romani si erano insediati in Palestina il supplizio della croce vi era applicato larga­mente (§ 597), e in modo particolare ai suscitatori di sommosse po­polari che molto spesso s’ispiravano a ideali messianici. Chi dunque vuole seguire Gesù si consideri già morto, e allora vivrà; perdendo la propria vita per causa di Gesù e della “buona novella”, il suo seguace la salverà, mentre se rimane spasmodicamente attaccato alla propria vita la perderà (Marco, 8, 35); che profitto ha infatti l’uo­mo se acquista il mondo intero, ma perde poi l’anima non acqui­stando l’eterna vita vera? Quale riscatto può egli dare per l’anima sua (ivi, 36-37)? Qualcuno si vergognerà di Gesù e della ”buona novella”? Ebbene, costui crederà di aver salvato la propria vita in questa generazione adultera e peccatrice; ma quando il figlio del­l’uomo verrà nella gloria del Padre suo circondato dagli angeli si vergognerà di chi si è vergognato di lui, e renderà a ciascuno se­condo le proprie azioni (Marco, 8, 38; Matteo, 16, 27). Per Gesù, insomma, la vita presente è essenzialmente transitoria, e in tanto ha valore in quanto è indirizzata alla vita stabile, che è quella futura. Egli, Messia, guida alla vita stabile attraverso le aspre vicende di quella transitoria; chi non vuole seguirlo, e rimane nella vita transitoria, rimane nella morte.

§ 401. A questi detti di Gesù tutti e tre i Sinottici ne soggiungono un altro che ha tutta l’apparenza di essere stato pronunziato in altra occasione. E diceva loro: “In verità vi dico, vi sono alcuni dei qui presenti i quali non gusteranno morte finché vedano il regno d’iddio venuto in possanza” (Marco, 9, 1). Con fine accorgimento i Sinot­tici hanno collocato questo detto dopo le altre rettifiche messiani­che: tale, in sostanza, è anch’esso. La fragorosa apparizione del Messia politico non si sarebbe avverata; alla sua volta, il regno del sofferente ed assassinato Messia avrebbe dispiegato nella sua venuta tale possanza esterna ed interna da dissipare per sempre il sogno del Messia politico: e taluni dei presenti non sarebbero morti prima di aver assistito al dispiegamento di quella possanza. Infatti un quarantennio dopo, cioè nel giro di una “generazione” secondo computi giudaici, la Gerusalemme dei sogni messianici è distrutta, il giudaismo politico è stroncato per sempre, mentre invece la “buo­na novella” di Gesù è annunziata nell’intero mondo (Romani, 1, 8; cfr. Coloss., 1, 23).

La trasfigurazione.

§ 402. Com’era da aspettarsi, le energiche rettificazioni messianiche depressero l’animo dei discepoli; quei focosi Galilei di pretto sangue giudaico ne rimasero sconcertati e abbattuti. La medicina per ria­nimarli fu somministrata da Gesù mediante la sua trasfigurazione, avvenuta sei giorni (circa otto giorni, secondo Luca) dopo la mani­festazione messianica. La scena è collocata dagli evangelisti su un monte eccelso, di cui però non ci è trasmesso il nome. Molti studiosi moderni pensano che fosse l’Hermon, la cui cima più elevata raggiunge i 2759 metri sul Mediterraneo, e che offrirebbe la congruenza di stare immedia­tamente sopra Cesarea di Filippo dove era avvenuta la manifesta­zione messianica. Ma, oltreché l’ascesa del monte è faticosa e richiede tra andare e tornare una buona giornata, sta il fatto che si tratta di una conget­tura del tutto recente: l’antichità invece non ha ricollegato la tra­sfigurazione con l’Hermon, sebbene una provocazione a tale ricolle­gamento fosse offerta a menti mistiche dal passo del Salmo 89, 13 (ebr.): Il Tabor e l’Hermon nel nome tuo esulteranno. Al contrario, sul primo di questi due monti si è accentrata una tradizione che risale al secolo IV. Il Tabor non è per noi moderni un monte eccelso, essendo alto 562 metri dal Mediterraneo e 600-620 metri dalle valli circostanti (che sono più basse del Mediterraneo); ma per gli anti­chi poteva ben passare per un monte assai alto, essendo totalmente isolato e scorgendosi dalla sua cima buona parte della Galilea. Un’al­tra difficoltà è che la sua cima era forse abitata, e perciò non offri­va quella solitudine che sembra richiesta dalla scena della trasfigu­razione; ma anche questa difficoltà non è insormontabile: la cima doveva essere abitata in occasioni di torbidi e di guerre, riducendosi facilmente a fortezza come avvenne verso il 218 av. Cr. sotto An­tioco III il Grande (cfr. Polibio, v, 70) e al tempo della guerra di Vespasiano quando fu fortificata da Flavio Giuseppe che ne parla a lungo (Guerra giud., IV 54-61); fuor di questi tempi la cima do­veva essere in istato d’abbandono, soprattutto perché l’intero monte oltre ad essere scosceso e sassoso è assolutamente privo di acqua. Quanto alla distanza del Tabor da Cesarea di Filippo, poteva esser superata senza difficoltà nei 6 (o 8) giorni indicati. – Ovunque poi avvenisse il fatto, esso si svolse in questo modo.

§ 403. Fra i disanimati discepoli Gesù prese con sé i tre prediletti, ossia Pietro e i fratelli Giacomo e Giovanni, e li condusse sul monte. La strada lunga, la salita faticosa, la stagione estiva contribuirono a far si che i viandanti giungessero sul posto assai stanchi: proba­bilmente giunsero di sera, cosicché i tre discepoli preparatosi alla meglio un giaciglio si misero a dormire (Luca, 9, 32): Gesù invece, com’era solito di notte, si mise a pregare (ivi, 29) a breve distanza da loro. A un tratto i visi dei dormienti sono inondati d’una luce vivissima: aprono essi gli occhi, e scorgono Gesù in aspetto tutto diverso dal solito. Stava egli là trasfigurato davanti a loro, e lam­pante era il suo viso come il sole, e le sue vesti divenute bianche come la luce (Matteo, 17, 2). Quando i risvegliati, che erano aggra­vati di sonno (Luca, 9, 32), ebbero adattato alla meglio la vista e l’animo alla folgoreggiante visione, riconobbero presso il trasfigurato anche Mosè ed Elia, i quali parlavano con lui della sua dipartita, che stava per compiere in Gerusalemme (Lu­ca, 9, 31). Il discorso fra i tre dura più o meno tempo, e a un certo punto Mosè ed Elia fanno come atto di allontanarsi. Allora il solito Pietro crede opportuno intervenire e dice a Gesu’: Rabbi! Noi stiamo bene qui! E possiamo fare tre tende, una a te, una a Mose’ e una a Elia! Il bravo Pietro ripensa forse con rammarico di aver prov­veduto soltanto al suo proprio giaciglio dopo il faticoso cammino, trascurando quello per Gesù che adesso si mostra in quell’aspetto e in compagnia di quegli insigni visitatori; ma l’evangelista interprete di Pietro ha aggiunto subito appresso la vera spiegazione, udita cer­tamente più volte dalla bocca di Pietro: Non sapeva infatti che cosa dicesse; giacchè erano sgomentati (Marco, 9, 6). Pietro non riceve risposta, perché una luminosa nube li avvolge tutti e nella nube risuona una voce: Questo è il figlio mio diletto, in cui mi compiaccio qui. Ascoltatelo! I tre discepoli, ancor più sgomentati, si prosternano con la faccia a terra, ma poco dopo Gesù va verso di loro, li tocca e dice: Alzatevi, e non temete! Guardando attorno, essi non vedono più nessuno, salvo Gesù nel suo aspetto abituale. Il giorno appresso scendendo dal monte, Gesù ordina loro: Non dite a nes­suno la visione, fino a che il figlio dell’uomo sia risuscitato dai morti!

§ 404. E’ inutile ricordare che per i razionalisti il racconto della trasfigurazione non ha nulla di storico, ed è o una allucinazione, o una elaborazione mitica, o un simbolo, e simili. Tuttavia un rap­presentativo razionalista ne ha esattamente riconosciuto il valore concettuale, affermando che la trasfigurazione del Cristo si ricollega strettamente, nel quadro sinottico, con l’annunzio della sua passione e della sua resurrezione gloriosa. Essa corregge la prospettiva dei do­lori, e prelude al trionfo (Loisy). E’ esatto, sebbene non del tutto completo: infatti anche la presenza di Mosè ed Elia, rappresen­tanti rispettivamente della Legge e dei Profeti, ha un suo partico­lare valore, volendo dimostrare che la Legge e i Profeti dell’Antico Testamento hanno per loro ultima mira il Messia Gesù: e ciò cor­risponde a quanto Gesù aveva detto nel Discorso della montagna, di non essere venuto ad abolire la Legge o i Profeti… bensì a com­piere (§ 323). Sotto un certo aspetto, la trasfigurazione di Gesù è anche un contrapposto alla sua tentazione (§ 271 segg.). Più direttamente, è un correttivo all’effetto deprimente che le rettificazioni messianiche avevano prodotto sui discepoli, ma nello stesso tempo è una conferma di quelle rettificazioni. Gesù Messia, anche sfolgorante di luce, parla con Mosè ed Elia della sua dipartita, ossia morte, che sta per oc­corrergli a Gerusalemme, come se quella morte sia per lui il pas­saggio necessario onde entrare nella sua gloria manifesta. Quando egli avrà superato quel passaggio e sarà già entrato nella sua gloria, rimprovererà a certi suoi tardi discepoli: O stolti e lenti di cuore a credere…; non doveva forse patire tali cose il Cristo (Messia), e (così) entrare nella sua gloria? (§ 630). In tal modo la medicina somministrata fece senza dubbio il suo ef­fetto, rianimando i discepoli, ma insieme moltiplicò in essi talune ansie ed incertezze. Perché quella proibizione di parlare ad altri della visione? E il permesso di parlarne solo dopo che il figlio del­l’uomo fosse risuscitato dai morti, a quale avvenimento futuro si ri­feriva? Si era dunque veramente alla vigilia della pafingenesi co­smica e della resurrezione dei morti accennate dalle antiche profezie (Isaia, 26, 19; Ezechiele, 37; Daniele, 12, 1-3)? Ma allora perchè Elia non compariva stabilmente – e non fugacemente come nella visione – per disporre i preparativi della grande palingenesi? Con quest’ultima questione cominciarono i discepoli, e chiesero a Gesù: Perché dunque gli Scribi dicono che Elia deve venire dapprima? (Matteo, 17, 10). Gesù rispose confermando ma insieme schiarendo: Elia, si, deve venire a predisporre tutto; ma esso è già venuto, e gli hanno fatto tutto il male che hanno voluto: così anche il figlio dell’uomo dovrà soffrire e ricevere il male da quelli. Allora i di­scepoli capirono che di Giovanni il Battista parlò ad essi (ivi, 13).

Vita di Gesù 13ultima modifica: 2010-09-02T16:44:00+02:00da meneziade
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