Vita di Gesù 14

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L’indemoniato epilettico

 

§ 405. Scesi alle falde del monte, i quattro raggiunsero ben presto gli altri Apostoli rimasti alla pianura. Trovarono allora che i rima­sti, forse in numero di nove, erano circondati da molta gente e da Scribi, con i quali stavano discutendo. Visto Gesù, uno della folla gli si fa innanzi dicendo: Ti ho portato mio figlio, l’unico che io abbia, ch’è posseduto da uno spirito mali­gno muto; quando se ne impadronisce, lo dilania, ed esso schiuma, digrigna i denti e s’irrigidisce. Ho pregato i tuoi discepoli di scac­ciarlo, ma non ci sono riusciti. – Questo fallimento aveva forse pro­vocato la discussione con gli Scribi, i quali non avranno mancato di dir la loro parola maligna sui discepoli e anche sul maestro as­sente. Ma adesso egli è presente, e saputo di che si tratta esclama: O generazione priva di fede, fino a quando sarò presso di voi? Fino a quando vi sopporterò? Poi, cercando con lo sguardo il giovanetto: Portatelo a me! (Marco, 9, 19). La fede era per Gesù condizione essenziale per i miracoli; ed egli ne deplorava la mancanza sia presso gli Scribi e il padre del giovanetto, sia presso gli Apostoli il cui fal­limento tradiva in essi una fede fiacca e tentennante. Fino a quando dovrà Gesù sopportare quella mancanza o fiacchezza di fede? Il giovanetto fu portato a Gesù; ma alla presenza del taumaturgo fu subito preso da una crisi parossistica, e stramazzò a terra dibatten­dosi, rantolando e spumando. Durante l’attacco Gesù volle interrogare il padre, non tanto come medico che cerchi di stabilire una diagnosi, quanto per far risaltare agli occhi dei presenti il valore del “segno” che si accingeva a compiere e per indurli a riflettere sulla loro mancanza di fede. Quanto tempo e’ che gli successe que­sto? Il padre rispose: Dalla fanciullezza; spesso il maligno spirito lo getta nel fuoco o nell’acqua. Se puoi far qualcosa, vieni in nostro aiuto, avendo pietà di noi! – Le parole del povero padre tradivano ancora una titubanza di fede, nonostante la deplorazione di Gesù. Perciò Gesù gli disse: Quanto al “se puoi“, tutto e’ possibile a chi ha fede! (Marco, 9, 23, greco). La scena che successe a queste pa­role, delineata dallo stile di Marco conforme alle parole di Pietro, è di una vivezza palpitante. Subito, gridando, il padre del ragazzetto diceva (con lacrime):”Ho fede! Soccorri alla mia mancanza di fe­de!”. Vedendo però Gesu’ che affluisce folla correndo, intimò allo spirito impuro dicendogli: “Spirito muto e sordo, io t’impongo, esci da costui e non entrare mai pu’ in esso!”. E dopo aver gridato e molto sbattuto(lo), (lo spirito) uscì’. E (il ragazzetto) diventò come un cadavere, tanto che molti dicevano: “E’ morto!”. Gesu’ invece, prendendo gli la mano, lo rialzò e (quello) si levò ritto. L’evangelista medico ha la finezza di aggiungere che Gesù lo rese a suo padre. Gli Apostoli, già rimasti delusi, non potevano rinunziare a indagare la causa della delusione; avvicinatisi in privato a Gesù gli dissero: Perché noialtri non potemmo scacciarlo? E Gesù di rimando: Per la vostra scarsezza di fede! In verità infatti vi dico, se abbiate fede quanto un chicco di senapa, direte a questo monte “Passa oltre da qua a là!” e passerà oltre, e nulla vi sarà impossibile. Del chicco di senapa Gesù già aveva parlato nella sua parabola (§ 368); questo monte a cui alludeva era forse il Tabor, la cui mole s’ergeva davanti a loro; quanto alla necessità della fede per ottenere miracoli Gesù vi aveva insistito più volte nel passato (§ 349 segg.), ma la sua le­zione aveva prodotto scarsi frutti.

Ultimi giorni in Galilea

§ 406. Dopo i precedenti fatti Gesù s’aggirava per la Galilea, e non voleva che alcuno (lo) sapesse (Marco, 9, 30); era dunque una pe­regrinazione impiegata soltanto alla formazione spirituale dei di­scepoli che l’accompagnavano, mentre l’annunzio della buona no­vella alle turbe non entrava nel suo scopo. Quella formazione richiese ben presto una nuova ammonizione circa la sorte terrena del Messia, per dissipare sempre meglio i sogni di messianismo politico tenacemente albergati in quegli spirti giudaici: Il figlio dell’uomo sta per essere consegnato in mano agli uomini, e l’uccideranno, e al terzo giorno risusciterà. Il risultato della nuova ammonizione dimostra quanto fosse necessaria, giacché i discepoli furono afflitti assai (Matteo, 17, 22-23), e un altro evangelista ag­giunge che non capivano questa parola, ed era velata per essi affinché non la percepissero; e temevano d’interrogar lui circa questa parola (Luca, 9, 45). Più tardi il gruppo s’indirizzò a Cafarnao, e vi giunse mentre i discepoli un po’ appartati da Gesù erano tutti infervorati in una seria discussione fra loro (§ 408). Nella borgata l’arrivo fu notato dai gabellieri, i quali s’affrettarono ad accertarsi se Gesù aveva pa­gato il tributo per il Tempio di Gerusalemme: tutti gli Israeliti adul­ti erano infatti obbligati a pagare annualmente, per la manuten­zione del Tempio, mezzo siclo d’argento ossia due dramme (§ 534). La colletta si faceva ordinariamente prima della Pasqua, ma nelle zone più distanti come la Galilea si protraeva o si suppliva fino a prima della Pentecoste e dei Tabernacoli; essendo stato Gesù assente da Cafarnao da molto tempo, e avvicinandosi la festa dei Taberna­coli, i gabellieri vennero a riscuotere. Si rivolsero essi a Pietro domandandogli: Il vostro maestro non paga (il) didramma? E Pietro, con la sua solita foga: Ma certamente: ed entrò nella casa ove stava Gesù per parlargliene. Ma Gesù lo prevenne: Che te ne pare, Simone? I re della terra da chi percepiscono tasse o censo? dai loro figli o dagli estranei? E Pietro rispose: Dagli estranei. Gesù allora replicò: Dunque i figli sono esenti! L’applicazione al caso di Gesù era chiara: egli era il figlio di Dio, e perciò non era tenuto al tributo per la casa terrena del suo Padre celeste. Tuttavia Gesù continuò: Ma affinché non li scandalizziamo, andato (tu) al mare getta un amo, e il primo pesce che viene su prendi(lo), e apertagli la bocca troverai uno statere. Prendilo, e dàllo ad essi per me e te (Matteo, 17, 24-27). Lo statere infatti equivaleva a un siclo intero, cioè a quattro dramme; così si soddisfaceva ai tributi di Gesù e di Pietro insieme. L’oratore del Discorso della montagna aveva esortato ad imitare gli uccelli del cielo e i gigli del campo, e a non preoccuparsi di cose materiali ma soltanto del regno di Dio e della sua giustizia: là egli aveva predicato a parole, qui commenta con le opere le sue parole dimostrandole sagge, come aveva già fatto nelle due moltiplicazioni dei pani. Forse in quel momento il peculio comune del gruppo degli Apostoli era ridotto a pochi spiccioli; Gesù, senza ricorrere a pre­stiti, rinvia Simone a quella Provvidenza che fornisce il cibo agli uccelli e il vestito ai gigli, e la Provvidenza avalla l’ipoteca addos­sata su lei dal Discorso della montagna. § 407. Vivono ancora oggi abbondantissimi nel lago di Tiberiade i pesci del genere dei Chronidi i quali seguono un ciclo d’incuba­zione singolarissimo, facilmente riscontrabile soprattutto nella specie chiamata Qhronis Simonis, volgarmente “pesce di S. Pietro”. La femmina di questo pesce depone fra la vegetazione subacquea le uova, in numero di circa 200; più tardi il maschio raccoglie queste uova fra le sue branchie e specialmente nella sua bocca, conservan­dole ivi molto tempo, fino a che il ciclo evolutivo sia terminato e i piccoli, raggiunta la lunghezza media di 10 millimetri, possano vivere indipendentemente: questo ufficio d’incubazione ha procurato al maschio anche il nome di Chronis paterfamilias. Nell’ultimo pe­riodo dell’incubazione, quando gli embrioni sono abbastanza sviluppati, la gola del maschio incubatore è divenuta mostruosamente sproporzionata al resto del suo corpo, ed è cosi rigonfia che assai spesso le mascelle non si rinserrano più. Quando poi è giunto il tempo di mandar via liberi i piccoli, il maschio incubatore ne pro­voca l’uscita introducendosi nella bocca qualche oggetto che espelle man mano i piccoli e che rimane al loro posto per qualche tempo. Questo oggetto è di solito un ciottolo, ma in sua vece lo stesso ser­vizio potrebbe esser fatto da una moneta, ad esempio da uno sta­tere o siclo antico. Fu questo il caso del pesce pescato da Simone con lo statere in bocca? Non potremmo dirlo; sappiamo soltanto che il moltiplicatore dei pani fece assegnamento sulla Provvidenza anche questa volta, sebbene in altra maniera, e la Provvidenza pagò puntualmente l’ipoteca emessa su di lei dal Discorso della montagna. Dei successivi seguaci di Gesù forse nessuno fece assegnamento sulla banca della Provvidenza più fiduciosamente di Francesco d’Assisi, e la sua esperienza gli permetteva di dire ch’era una banca puntua­lissima nei pagamenti. C’è da chiedersi se il figlio di Bernardone non fosse un esegeta più acuto dei moderni critici del vangelo. § 408. L’incarico dato a Pietro si ricollegava in qualche modo con la discussione che i discepoli avevano avuta fra loro quand’erano giunti a Cafarnao; ciò forse apparve dal loro contegno o da qualche frase mozza, cosicché Gesù li interrogò direttamente: Di che ragionavate per istrada? La domanda li mise in imbarazzo: si vergo­gnavano essi di rispondere, perché oggetto della discussione era stato chi di loro fosse il maggiore nel regno dei cieli. C’era motivo infatti da discutere, non tanto riguardo a Pietro già preferito a Ce­sarea di Filippo e anche adesso per il pagamento dello statere, quanto riguardo agli altri: ciascuno avrà portato le sue buone ra­gioni per dimostrare che, quando il maestro si fosse assiso sul suo trono messianico rilucente di ori e tempestato di gemme, il seggio più onorifico e più vicino al trono spettava a sé e non al compagno con cui discuteva. Dopo un breve silenzio di pudore, uno prese co­raggio e disse a Gesù di che si era discusso: Chi sarebbe stato il primo? Nell’interpellato parlò nuovamente l’oratore del Discorso della mon­tagna, il capovolgitore. Primo – egli rispose – sarebbe stato l’ultimo di tutti, il servo e lo schiavo di tutti. Proprio in quel momento passa a caso per la stanza un bambino; Gesù lo chiama a sé, lo accarezza, lo mette nel mezzo di quegli uomini maturi, e guardan­doli uno per uno in faccia sentenzia: In verita’ vi dico, se non vi mutiate e diventiate come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli! Chiunque pertanto si abbassera come questo bambino, costui è il maggiore nel regno dei cieli (Matteo, 18, 3-4). Proseguendo poi a proposito del bambino preso a modello, Gesù affermò che chi accoglieva nel nome di lui un bambino come quello accoglieva lui stesso, come accogliendo lui si accoglieva il Padre celeste che lo aveva inviato (§ 483). Questa larghezza d’accoglienza non sembrò chiara a Giovanni. Poco prima egli e gli altri Apostoli non avevano accolto, anzi avevano a bella posta ostacolato, un tale che scacciava demonii nel nome di Gesù: poteva certo ammettersi che quel tale si servisse del nome del maestro per esorcizzare, ma in tal caso egli avrebbe dovuto en­trare nel gruppo di discepoli e accompagnarsi con loro; siccome però non aveva voluto unirsi, gli Apostoli lo avevano ostacolato. Gesù disapprovò l’agire degli Apostoli; essi non avrebbero dovuto ostacolare quel tale, perché chi non era contrario a loro era favorevole a loro (Marco, 9, 38-40).

§ 409. Alla rinfusa, poi, in quei giorni impiegati nella formazione spirituale dei discepoli Gesù impartiva loro altre norme, man mano che se ne presentava l’occasione (Marco, 9, 41 segg., e paralleli): Chi darà un bicchier d’acqua ai discepoli di Gesù in quanto tali, non rimarrà senza ricompensa. Chi scandalizza uno di coloro che credendo in Gesù sono ridiven­tati piccoli come bambini, sarà meglio per lui che legatagli con una corda al collo una mola asinaria sia gettato in mare; a questo ser­vizio si prestava benissimo la mola inferiore (delle due pietre che formavano la macina da grano mossa da asini), la quale pietra era bucata per far scorrere in basso la farina, e attraverso il foro sa­rebbe passata la corda. Si deve far attenzione a non disprezzare uno dei piccoli in ispirito, perché i loro angeli tutelari contemplano sempre il volto del Padre celeste. Se un fratello ha mancato, sia ripreso in segreto a quattr’occhi: se ascolta, è stato guadagnato un fratello. Se non ascolta, si prendano uno o due testimoni per regolarsi conforme alla prescrizione della Legge mosaica (Deuteronomio, 19, 15-17). Se ancora non ascolta, sia deferito alla Chiesa; e se non ascolta neppure la Chiesa, sia considerato com’è considerato nel giudaismo un pagano e un pubblicano, ossia come un estraneo alla comune vita spirituale. Però quanto gli Apostoli, costituenti la Chiesa, legheranno o scioglie­ranno sulla terra sarà anche legato o sciolto in cielo (§ 397). Quando due concordino sulla terra a chiedere qualche cosa, sarà loro concessa dal Padre celeste. Poiché dove siano congregati due o tre in nome di Gesù, anche Gesù è in mezzo a loro. La primitiva catechesi, trasmettendoci queste sentenze, mostrò di scorgere in esse le norme che dovevano regolare la vita sociale dei seguaci di Gesù e lo stampo su cui doveva plasmarsi la Chiesa del­le prime generazioni. Ma la norma di denunziare il fratello colpevole e pervicace risve­gliò nel cervello di Pietro una difficoltà: Signore, quante volte pec­cherà contro di me il mio fratello e io gli rimettero’? Fino a sette volte? Il numero sette era tipico e sacro nel giudaismo, e qui Pietro si mostra ancora magnanimo, giacché nel secolo appresso Rabbi Jehuda sentenzierà che Dio perdona fino alla terza volta ma non la quarta (loma, 86 b, Bar.; allusione ad Amos, 2, 4). Con tutto ciò la magnanimità di Pietro sembra pusillanimità a Gesù, il quale re­plica: Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette! cifra convenzionale per indicare una quantità illimitata. Secondo Pietro, infatti, il precetto del Discorso della montagna di offrire l’altra guancia a chi dia uno schiaffo doveva valere solo sette volte, e all’ottavo schiaffo il precetto era abolito; invece, secondo l’ora­tore del Discorso della montagna, l’ottavo schiaffo era sempre il primo e quindi il precetto era sempre valido. E perché mai?

§ 410. Il perché fu spiegato da Gesù con una parabola. C’era un potente re che un bel giorno volle fare il bilancio di cassa, e per­ciò chiamò alla resa dei conti i suoi ministri. Fra i primi si presentò uno che doveva consegnare ben 10.000 talenti: somma addirittura spaventosa, e specialmente per quei tempi, giacché equivarrebbe a più di 60 milioni di lire in oro. Il debitore naturalmente non aveva tal somma; e allora il re, per ricuperarne almeno una minima parte, ordinò che si vendessero sia il debitore con la moglie e i figli come schiavi, sia tutti i suoi possedimenti. In sostanza, la sentenza era benigna per quei tempi, perché al debitore e ai suoi familiari era lasciata ancora la vita, mentre il re perdeva la massima parte del suo credito. Ma a udire quella decisione il debitore si gettò ai piedi del re, implorando non tanto con la solita teatralità orientale quan­to con la sincerità dell’uomo rovinato per sempre: Sii longanime con me, e ti restituirò ogni cosa! Il re, ch’era di cuore molto buo­no, ne ebbe compassione, e senz’altro rimandò libero il debitore rimettendogli l’intero debito. – L’uomo tornava davvero a respirare e ad esser uomo: era scampato dalla schiavitù, e per di più aveva guadagnato ben 10.000 talenti! Senonché, appunto questa fierezza l’accecò. Uscito dalla terribile e fortunata udienza, egli s’imbatté in un suo collega che gli era debitore di cento denari, somma di poco più che 100 lire in oro; appena lo vede, gli salta addosso, lo prende per il collo da soffo­carlo quasi, e si dà a gridare: “Pagami il tuo debito!” Il povero collega gli si getta ai piedi esclamando: Sii longanime con me, e ti restituirò! Ma quello non dette ascolto, e lo fece mettere in prigione fino a che avesse pagato. Il fatto addolorò gli altri impiegati di corte, che lo riferirono al re. Allora il re fece chiamare il debitore graziato e gli disse: “Servo malvagio! Io ti ho rimesso tutto quel­l’enorme debito perché ti raccomandasti; e non dovevi, dunque, an­che tu aver compassione del tuo collega?”. E, adiratissimo, il re lo fece consegnare, non già ai soliti carcerieri, ma ai torturatori fino a che non avesse pagato l’intero debito. E Gesù concluse: Gasù anche il mio Padre celeste farà con voi, se non ri­mettiate ciascuno al suo fratello dai vostri cuori. Pare che questa volta gli Apostoli non chiedessero a Gesù la spie­gazione della parabola, tanto era chiara. Il re è Dio; la spaventosa somma condonata dal re al ministro sono le mancanze condonate da Dio all’uomo; la trascurabile somma brutalmente richiesta dal oollega al collega sono i piccoli torti di uomo ad uomo. Cosicché ed è questo l’insegnamento conclusivo della parabola – il perdono di Dio all’uomo esige imperiosamente il perdono dell’uomo all’uo­mo. E quanto Gesù aveva già concluso nel Pater noster:Rimetti a noi i debiti nostri come anche noi rimettemmo ai nostri debitori.

§ 411. A questo tempo, cominciando dalla Pasqua della prima moltiplicazione dei pani (§ 372), erano trascorsi parecchi mesi e giun­geva oramai l’autunno dell’anno 29; dall’inizio del ministero pub­blico di Gesù era passato più d’un anno e mezzo, circa una ven­tina di mesi. Stando ai dati espliciti dei vangeli, l’operosità di tutti questi mesi era stata impiegata soltanto nella Galilea, salvo il viag­gio a Gerusalemme (§ 384) e l’altro viaggio nella Fenicia e a set­tentrione della Palestina (§ 389). Purtroppo, facendo un bilancio secondo i calcoli umani, risultava un forte deficit nel risultato di quell’operosità. I compaesani di Na­zareth avevano decretato l’ostracismo al predicatore della « buona novella » (§ 359). Le borgate presso il lago, che sembravano le pre­ferite da lui, erano accorse attorno al taumaturgo, si, ma per ottener luce ai loro ciechi, udito ai loro sordi, vita ai loro morti, pane ai loro stomachi: quando invece si era trattato di accettare il “cam­biamento di mente” e il capovolgimento spirituale richiesti dal taumaturgo, gli accorsi avevano in massima parte rifiutato, e la se­menta da lui sparsa era caduta o sui sentieri calpestati o sul pietrame o fra le spine (§ 365). Che cosa era germogliato dalla sua seminatura? Oltre al manipolo dei discepoli – anche questi lonta­nissimi da una piena maturazione – si potrà ragionevolmente sup­porre che molto scarsi dovevano essere coloro che in tutta la Galilea aderivano sinceramente alla “buona novella”. Umanamente dun­que era, o sembrava, un bilancio fallimentare. Gesù lo sentì. Il suo cuore ne fu attristato; tanto più che non c’era tempo per insistere ancora, dovendo egli allontanarsi per tentare altrove. Che cosa avrebbe potuto egli fare nel passato fra quei Galilei, e specialmente fra le borgate prossime al lago, per ottener una messe più abbondante? Nulla. E se la messe era stata scarsis­sima, il danno non era forse di quelle borgate da lui tanto amate? Cosicché dal suo cuore, uno di quei giorni, eruppe il rimpianto e la deplorazione: Guai a te Ghorozain! Guai a te Bethsaida! Giac­che’, se in Tiro e Sidone fossero avvenuti i portenti avvenuti in voi, da lungo tempo in sacco e cenere avrebbero fatto penitenza! Senonche’ vi dico, per Tiro e Sidone vi sarà piu’ tollerabile (sorte) nel giorno del giudizio che per voi! E tu Cafarnao, forseché fino al cielo sarai innalzata? Fino agà Inferi sarai abbassata! Giacchè se in Sodoma fossero avvenuti i portenti avvenuti in te, sussiste­rebbe fino ad oggi! Senonché vi dico che per la terra di Sodoma vi sarà piu’ tollerabile (sorte) nel giorno del giudizio che per te

§ 412. Delle borgate galilee qui nominate conosciamo bene Beth­saida e Cafarnao; ma Chorozain non appare altrove, ed è ricor­data soltanto qui in tutti i vangeli. Questa inaspettata menzione è altamente istruttiva, perché mostra quanto lacunose siano le informazioni trasmesseci dagli evangelisti circa i fatti di Gesù; se adesso Gesù nomina Chorozain individualmente per una partico­lare deplorazione, ciò mostra che nel passato la borgata era stata oggetto di amorevoli cure non meno di Bethsaida e di Cafarnao: eppure di queste cure noi non sappiamo assolutamente nulla. L’Onomastico di Eusebio dice che Chorozain distava due miglia da Cafarnao. Infatti a circa tre chilometri a nord di Cafarnao è il luogo chiamato oggi Keraze (o Kerazie), ove recentemente è stata riportata alla luce l’antica sinagoga costruita di pietra di basalto e con decorazioni analoghe a quelle della sinagoga di Cafarnao (§§ 285, 336): un’iscrizione aramaica conservata ivi nel seggio dell’archigogo ricorda per gratitudine un Judan figlio di Ismael, benemerito della costruzione dell’edificio. Oggi, come già ai tempi di Eusebio, tut­to il luogo è deserto. In tempi tardivi questa borgata, nominata nei vangeli soltanto per esser maledetta, attirò la fantasia popolare cri­stiana la quale, dopo averci riflettuto sopra parecchi secoli, sen­tenziò che essa sarebbe stata la patria dell’Anticristo.

DALL’ULTIMA FESTA DEI TABERNACOLI FINO ALL’ULTIMA FESTA DELLA DEDICAZIONE

La questione cronologica e geografica

§ 413. Finora i tre evangelisti sinottici hanno camminato su strade abbastanza parallele fra loro: solo Giovanni, secondo la sua abi­tudine, si è inoltrato in una particolare direzione che non ignora ma neppure fiancheggia quella dei tre suoi predecessori (§ 165). Senonché a questo punto anche fra i tre Sinottici avviene un distacco: Matteo e Marco proseguono verso una direzione che è genericamente comune, ma sono abbandonati da Luca che piega da un altro lato, mentre Giovanni continua per la sua via che non è nè quella di Matteo e Marco nè quella di Luca. Soltanto in occasione dell’ultima Pasqua della vita di Gesù, Luca si affiancherà nuova­mente a Matteo e Marco; dal canto suo anche Giovanni terrà loro dietro, ma come al solito precisando e integrando. Già sappiamo chè Giovanni si preoccupa soprattutto dell’operosità di Gesù in Gerusalemme e fissa nettamente le date: perciò, anche in questo nuovo periodo, egli offre allo storico elementi di sommo pregio per l’integrità della biografia e per il suo quadro cronologico. A sua volta Luca, in questa sua narrazione ove non è fiancheggiato dagli altri due Sinottici, comunica molti fatti e discorsi del tutto nuovi, pur curandosi poco o nulla di fissare tempi e luoghi. Di qui sorge la questione di collocare in tempi e in luoghi convenienti le cose che Luca narra indipendentemente sia da Matteo e Marco sia an­che da Giovanni. Molti studiosi moderni designano convenzionalmente questa narra­zione propria al terzo evangelista come il “viaggio” di Gesù se­condo Luca, perché l’intera sezione comincia annunziando un viag­gio di Gesù alla volta di Gerusalemme (Luca, 9, 51) e termina con l’ingresso effettivo nella città (19, 28 segg.); il quale ingresso però è precisamente il punto in cui Luca si ricongiunge con gli altri evangelisti, perché è l’ingresso dell’ultima Pasqua. Ma si tratta di un vero “viaggio”?

§ 414. Per rispondere bisogna tener conto di alcuni fatti. In primo luogo, questo “viaggio” sarebbe stato di una lentezza eccezionale, giacché s’inizierebbe al principio dell’autunno per raggiunger la mèta solo nella primavera successiva: più che un viaggio, dunque, sareb­be una peregrinazione vaga su zone occasionali e senza una mèta urgente. Inoltre, nel racconto di questo “viaggio” si ripete una seconda e una terza volta che Gesù è in cammino verso Gerusa­lemme (Luca, 13, 22; 17, 11), la quale però non è mai raggiunta; solo alla quarta volta, quando si conferma il proposito di raggiun­gere la mèta (18, 31), questa è effettivamente raggiunta (19, 28 segg.). Ora, perché mai questi ripetuti annunzi, che non sono affatto ri­chiesti dalla chiarezza del discorso e non vi aggiungono nulla di nuovo? Non acquisterebbero invece un preciso significato qualora si considerassero come allusioni a differenti viaggi a Gerusalemme, piuttosto che conferme di un solo “viaggio”? Così infatti si è pen­sato, facendosi rilevare che l’indipendente Giovanni colloca appun­to in questo periodo il viaggio per la festa dei Tabernacoli, quello per la Dedicazione, e quello per l’ultima Pasqua. Tuttavia questa presunta corrispondenza fra i viaggi minori di Luca e quegli espliciti e distinti di Giovanni, oltre ad incontrarsi in ta­lune difficoltà topografiche e cronologiche, sembra avere contro di sé le parole stesse con cui Luca annunzia a principio il suo maggiore “viaggio”: Avvenne poi, nel compiersi i giorni dell’assun­zione di lui (di Gesù), che egli decIse stabilmente (a parola: confermò il volto) di andare a Gerusalemme (Luca, 9, 51). Queste pa­role indicano chiaramente che il viaggio annunziato si dovrà conclu­dere con la morte di Gesù e la sua successiva nella glo­ria; ma anche qui nulla c’induce a ritenere che questa conclusione del viaggio sia cronologica piuttosto che logica, ossia che in questo scorcio della vita di Gesù Luca badi più al succedersi dei giorni che all’imminente prova suprema di Gesù e al successivo trionfo di lui. D’altra parte nel maggiore “viaggio” di Luca troviamo inquadrati fatti e discorsi di Gesù che presso Matteo e Marco sono collocati in altro contesto, cioè durante l’operosità di Gesù in Galilea: e in questa divergenza, se Luca il più delle volte sembra da preferirsi quanto alla serie degli avvenimenti, è ben possibile che qualche rara volta siffatta preferenza sia da concedersi a Matteo e Marco.

§ 415. Tutto considerato, non sembra che sia il caso di parlare di un maggiore “viaggio” di Luca sotto l’aspetto cronologico e grafico. Questo “viaggio” non è che una giustapposizione o compo­sizione letteraria: essa è stata formata con elementi di più viaggi compiuti in questo tempo da Gesù, ed è inoltre accresciuta con vari altri elementi raccolti senza preoccupazioni cronologiche e geo­grafiche ma solo concettuali e logiche. i I viaggi minori di Gesù, che hanno fornito il precipuo materiale a questa narrazione com­plessiva, possono benissimo essere i viaggi distintamente ricordati da Giovanni; tuttavia Luca, nell’utilizzarne il materiale, non ha preteso stenderne la minuta e distinta cronistoria, ma ha solo mi­rato a presentare la realtà dei fatti in maniera tale che risultasse una appropriata conclusione e un degno coronamento alla prece­dente operosità di Gesù: il quale si avvicina con serena consape­volezza alla prova suprema in Gerusalemme, e superata la prova raggiunge la sua assunzione nella gloria. Questo scopo concettuale e logico, ben più che quello cronistorico e annalistico, era nella mira della catechesi primitiva, e specialmente di quella di Paolo seguita fedelmente da Luca (§ 135 segg.).

Alla festa dei Tabernacoli

§ 416. Finiva l’estate dell’anno 29, e con l’autunno si avvicinava la gaia e popolare festa dei Tabernacoli (§ 76). Se Gesù era stato l’ul­tima volta a Gerusalemme per la festa della Pentecoste (§ 384), erano circa quattro mesi che mancava dalla città santa: in questo tem­po la sua operosità in Galilea aveva trovato pessima corrispondenza, ed egli aveva deciso di allontanarsene. Ma dove andare? La mèta gli fu zelantemente suggerita da quei suoi “fratelli” che non credevano in lui (§ 264); essi avevano ben notato i meschini risultati ottenuti dal loro parente dopo tanto affaticarsi nella Galilea, e d’altra parte lo avrebbero visto con loro grande soddisfazione a capo di una fiumana di popolo bene inquadrata e diretta baldanzosamente verso Gerusalemme: là bisognava recarsi per sbalordire quegli in­signi dottori con le opere se si volevano risultati decisivi, altro che perder tempo e sprecar miracoli fra quei montanari della Galilea! Gli dissero pertanto i suoi fratelli: “Trasferisciti di qua e va’ nella Giudea, affinché anche i tuoi discepoli (di laggiù) vedano le opere tue che fai. Nessuno, invero, fa alcunché in segreto, e cerca d’essere egli stesso in evidenza. Se fai queste cose, mostra te stesso al mon­do!”. Neppure, infatti, i fratelli di lui credevano in lui! (Giovanni, 7, 3-5). A Gerusalemme aveva già pensato anche Gesù; ma appunto quel suggerimento dei suoi “fratelli”, dettato da tutt’altre considerazio­ni, servi da momentaneo ostacolo all’attuazione dei suoi piani. Essi pensavano che assai opportuna per una altisonante manifestazione di Gesù era appunto la fèsta dei Tabernacoli, alla quale affluivano grandi folle anche da fuori la Palestina; Gesù invece pensava che precisamente il pericolo di quella rumorosità era un motivo per re­spingere il loro consiglio. Cosicché i “fratelli” insieme con gli altri pellegrini galilei partirono per Gerusalemme, e Gesù invece rimase ancora in Galilea; tuttavia più tardi, quando le carovane parentali (§ 261) erano già partite, si mosse anch’egli alla volta della città santa non manifestamente ma come in segreto (Giov., 7, 10).

§ 417. L’itinerario scelto da Gesù fu il più breve, quello che scen­deva lungo il mezzo della Palestina attraversando la Samaria. I Samaritani, nel loro inveterato rancore, coglievano volentieri l’oc­casione di questi grandi passaggi di pellegrini israeliti per dar loro fastidi di ogni sorta, non escluse ferite e morte; veramente Gesù nel passato aveva trovato buone accoglienze presso i Samaritani, ma soltanto presso quelli di Sychar (§ 294), e del resto il fatto era avvenuto circa un anno e mezzo prima, cosicché non si poteva fare molto assegnamento su quelle antiche disposizioni amichevoli. Quin­di, per premunirsi, egli inviò in precedenza alcuni suoi discepoli che preparassero l’alloggio in un villaggio innominato della zona peri­colosa; ma quanto egli aveva temuto avvenne, perché i Samaritani di quel villaggio, conoscendo che si trattava di Galilei diretti a Ge­rusalemme, non vollero concedere ospitalità. A quest’atto disumano i due fratelli Giacomo e Giovanni, infiammati da baldanzoso zelo, si ricordarono di aver ricevuto da Gesù la potestà di far miracoli per la diffusione del regno di Dio; domandarono perciò a Gesù se acconsentiva a che facessero cadere fuoco dal cielo per incenerire quei ribaldi. Egli invece rivòltosi, li rimproverò. E andarono in un altro villaggio (Luca, 9, 55-56, greco). Chissà che questo altro vil­laggio non fosse appunto Sychar?

§ 418. Nel frattempo le prime comitive di Galilei erano giunte a Gerusalemme; i cittadini, memori del fatto del Bezetha avvenuto pochi mesi prima (§ 384), avevano cercato subito se fosse giunto anche Gesù: “Dov’ è colui?”. E molto bisbiglio era riguardo a lui nelle folle; alcuni dicevano: “E’ buono”; altri invece dicevano:”Macché! Anzi inganna la folla!”. Nessuno tuttavia parlava con franchezza a suo riguardo, per paura dei Giudei (Giovanni, 7, 11-13). Questa scena vividamente storica, sebbene dovuta all’evangeli­sta che si vorrebbe far passare come un astratto allegorista, mostra che la precedente visita di Gesù a Gerusalemme aveva lasciato trac­ce abbastanza profonde, suscitando consensi e dissensi. Improvvisamente, quando gli otto giorni dei Tabernacoli erano per metà pas­sati, si seppe che Gesù era giunto e si era messo ad insegnare nel­l’atrio del Tempio (§ 48). Accorsero ammiratori e detrattori; tutti indistintamente riconoscevano l’efficacia del suo parlare. Ma i detrattori cominciarono subito con una questione pregiudiziale. Non poteva esser veramente dotto e sapiente, se non chi aveva frequentato le scuole dei grandi Rabbi e Scribi ed era stato am­maestrato secondo i loro metodi; perciò quei tali si domandavano diffidenti: Come sa costui di lettere, non essendo stato ammaestrato? C’era ben da diffidare di quell’autodidatta, che in materia religiosa osava staccarsi dalla “tradizione”. Gesù rispose: “La mia dottrina non e’ mia ma di chi m’inviò. Se alcuno voglia fare la volontà di lui, conoscerà riguardo alla dottrina se e’ da Dio, oppure (se) io parlo da me stesso. Chi parla da se stesso, cerca la gloria propria; chi invece cerca la gloria di chi l’inviò, costui e’ verace e ingiustizia in lui non e’. Non vi dette forse Mose’ la Legge, e(ppure) nessuno di voi pratica la Legge? Perché cercate d’uccidermi?”. Rispose la folla: “Hai un demonio! (§ 340). Chi cerca d’ucciderti?”. Rispose Gesu’ e disse loro: “Un’unica opera feci e tutti ammirate. Per questo Mose’ vi dette la circoncisione non che (essa) sia (istituita) da Mosè; ma dai padri – e in sabbato circoncidete un uomo. Se un uomo riceve la circoncisione in sabbato afinché non sia abolita la Legge di Mose’, vi sdegnate con me perché feci sano un uomo intero in sabbato? Non giudicate secondo apparenza, bensì’ con giusto giudi­zio giudicate!” (Giov., 7, 15-24).

§ 419. La discussione si riferiva alla guarigione del Bezetha e alle obiezioni fattele dai Farisei. Gesu’, senza tornar sopra alle diatribe rabbiniche né replicase all’ingiuria di avere un demonio, cerca di far penetrare i suoi contraddittori più addentro nel significato vero della Legge mosaica. E la disputa continuò; tanto che alcuni di Gerusalemme, ben sapendo qual vento spirasse in città, si chiede­vano: Non è costui quello che vogliono uccidere? Eppure, ecco che parla in pubblico e non gli dicono nulla! Avrebbero forse i nostri maggiorenti riconosciuto che egli è proprio il Messia? Ma noi sap­piamo donde è costui, mentre quando verrà il Messia nessuno co­nosce donde sia! – Era infatti opinione diffusa che il Messia doveva sì essere un discendente di David e nascere a Beth-lehem (§ 254), ma anche che sarebbe comparso inaspettatamente dopo essersi trat­tenuto per lungo tempo in un luogo a tutti sconosciuto in assoluto ritiro; di Gesù invece si sapeva benissimo il luogo abituale di di­mora, e perciò egli non poteva essere il Messia. Gesù quindi rispose appellandosi ancora una volta alla sua propria origine preterrena e all’autorità di chi l’aveva inviato. E me sapete, e donde sono sapete. E(p pure) da me non sono venuto, bensì’ e’ vero colui che m’inviò che voi non sapete. Io (invece) so lui, perché da lui sono ed egli inviò me (Giov., 7, 28-29). Queste parole furono pronunziate da Gesù ad alta voce, come dichiarazione solenne. Come tale fu intesa dai suoi avversari, i quali la interpretarono – e interpretarono giustamente – come una di­chiarazione di esistenza preterrena e divina; senonché tale dichiara­zione era per essi blasfema, e perciò quegli scandalizzati scattarono e cercarono d’attuare subito l’antico progetto d’impadronirsi di Ge­sù. Ma ancora non era venuta l’ora di lui – osserva l’evangelista spirituale – cosicché nessuno gli mise le mani addosso. Gli avversari infatti erano controbilanciati dagli ammiratori, anzi questi ultimi presero animo, nonostante il vento infido, ed entrando in discussione fecero osservare: Quando il Messia verrà, opererà forse più mi­racoli di costui? Questa risposta era un richiamo alla precisa realtà. L’argomento dei miracoli, ch’era perentorio e perciò bersagliatissimo venti secoli fa non meno di oggi, ottenne buon effetto e molti credettero in lui. Tuttavia gli avversari che volevano impadronirsi di Gesù non si rassegnarono, e ricorsero ai magistrati del Tempio affinché procedessero a un regolare arresto; ma l’atteggiamento risoluto degli am­miratori di Gesù dovette sconsigliare di procedere a un’azione così pericolosa, potendo seguirne uno di quei tumulti che troppo spesso sorgevano negli atrii del Tempio. E mentre le guardie ronzavano attorno a Gesù, egli ripeteva ai suoi avversari: Ancora breve tempo sono con voi, e (poi) vado a colui che m’inviò. Mi cercherete (al­lora) e non (mi) troverete; e dove sono io, voi non potete venire. Gesù si riferiva ancora alla precedente affermazione della sua origine e provenienza divina; gli avversari, respingendo questa idea, si trovarono davanti ad una allusione imprecisabile e si domanda­vano fra loro: Vorrà egli forse recarsi nella Diaspora giudaica all’estero, per ammaestrare là i pagani?

§ 420. Frattanto, durante l’ottava dei Tabernacoli, si svolgeva ogni giorno la processione che andava ad attingere l’acqua alla fonte di Siloe (§ 76). L’ultimo giorno, ch’era il più solenne, Gesù prese oc­casione dalla cerimonia e ne fece un’applicazione a sé e alla sua dottrina: Se (alcuno ha sete, (venga) a me e beva! Di una certa acqua aveva Gesù parlato già alla Samaritana; ma anche nei secoli prima aveva parlato della stessa acqua un profeta facendo pronunziare a Dio questo lamento: Due mali ha commesso il popol mio: abbandonarono me, sorgente d’acqua viva, per scavarsi cisterne screpolate, cisterne che non serbano acqua! Anche questa volta Gesù aveva parlato ad alta voce in tono di dichiarazione solenne, e la dichiarazione riaccese tra la folla le dispute di pochi giorni prima. Degli ammiratori alcuni affermavano: Costui è davvero il profeta! Altri: è il Messia. – Gli av­versari rispondevano: Macché Messia! Forseché dalla Galilea viene il Messia? Non viene forse da Beth-lehem, come discendente di Da­vid? – Le guardie del Tempio tentarono nuovamente d’impadronirsi di Gesù, ma rimasero interdette dalla sua potenza spirituale. Rimproverate dai magistrati e dai Farisei di non averlo arrestato, risposero con semplicità: Giammai un uomo parlò in tal maniera come parla quest’uomo! (Giov., 7, 46). I Farisei replicarono sarca­stici: Anche voialtri sareste forse rimasti ingannati da lui? Guardate invece se alcuno dei maggiorenti, o di noi Farisei, ha creduto in lui! Ma questa folla, che non conosce la Legge, è tutta di ma­ledetti! – I maledetti della folla, che ammiravano Gesù, costituivano l’abominevole “popolo della terra” (§ 40). Alla discussione prese parte anche il cauto Nicodemo, rimasto “fra color che son sospesi” (§ 290). Ebbe egli il coraggio di appellarsi alla legalità osservando: Forseché la nostra Legge giudica l’uomo, se non l’ha in precedenza ascoltato e non ha conosciuto ciò che fa? – Ma anche a Nicodemo fu risposto col sarcasmo: Sei forse pu­re tu della Galilea? Fa’ ricerche e ti convincerai che dalla Galilea non sorge profeta! – Lo spirito regionalista dei Giudei faceva da avanguardia allo spirito nazionalista dei Gentili; l’uno e l’altro con­corderanno più tardi nel sentenziare che “dalla Galilea non sorge profeta”, e pronunzieranno la loro sentenza senza prima ascoltare l’imputato e senza indagare ciò che ha fatto.

§ 421. Un’altra circostanza della festa offrì occasione a Gesù per presentare se stesso e la sua dottrina. Fin dai vespri del primo gior­no dei Tabernacoli il popolo accorreva all’atrio esterno del Tempio recando rami di palma, mirto e salice; appena calavano la tenebre, i sacerdoti accendevano grandi lampade appese ad altissimi cande­lieri, e subito la folla accendeva innumerevoli altri lumi d’ogni ge­nere. Fra questa luminaria si svolgevano festeggiamenti giocondi, in cui tenevano il primo posto danze eseguite nel mezzo dell’atrio, men­tre i Leviti schierati sui gradini dell’atrio interno cantavano inni sacri: le danze erano eseguite specialmente dai maggiorenti della nazione e dai dottori più famosi, che facevano a gara nel danzare il più a lungo possibile tenendo fiaccole ardenti in mano. I bagliori di quella gaia notte rimanevano negli occhi delle folle festanti anche durante l’ottava seguente, e in uno di quei giorni Gesù applicò la cerimonia a se stesso. Qual giorno fosse, non ci viene detto; ma se Giovanni (8, 12-59) colloca questo episodio dopo gli altri della stessa festa, fa ciò probabilmente perché vede in esso un’opportuna preparazione all’episodio successivo del cieco nato, che riceve la luce da Gesù. Un giorno dunque, trovandosi nell’aula del Tesoro attigua all’”a­trio delle donne” (§ 47), Gesù disse ai Giudei: Io sono la luce del mondo. Chi segue me non cammina nella tenebra, bensì avrà la luce della vita. Come prima aveva parlato dell’acqua riferendosi alla cerimonia dei Tabernacoli, così adesso parlava della luce con analogo riferimento. I Farisei gli risposero che nessuno era tenuto a prestargli fede, perché egli rendeva testimonianza a se stesso, e la sua testimonianza non era verace. Ne seguì una disputa in più riprese (cfr. Giov., 8, 20-21 con 8, 30-31), che dovrà essere letta per intero nel testo originale. Le affermazioni fondamentali di Gesù sono le seguenti.

§ 422. La testimonianza di Gesù è garantita dal suo Padre celeste; ma i Giudei non conoscono il Padre, perché non conoscono Gesù. Intanto il tempo stringe: Gesù si allontanerà per sempre dai Giudei, ed essi moriranno ostinati nel peccato di non aver riconosciuto la sua missione. Essi sono dalle cose di giù e del mon­do; Gesù è dalle cose di su e non del mondo. A questo punto i Giudei, ironicamente, gli rivolgono la stessa domanda già rivolta a Giovanni il Battista dalla loro ambasceria (§ 277): Tu chi sei? Gesù risponde: In primo luogo, (io sono) ciò che appunto vi sto dicendo; la frase evita una dichiarazione precisa e netta, la quale invece è aspettata dai Giudei per poter scendere subito a violenze contro Gesù, come di fatto avverrà alla fine della discussione. Eppure – prosegue Gesù – quando i Giudei avranno innalzato il figlio dell’uomo allora conosceranno che egli è “il figlio dell’uomo”, fedele esecutore della missione ricevuta dal Padre. Questa totale dedizione alla volontà del Padre colpisce molti uditori, i quali credono in lui. Ai nuovi credenti si rivolge poi Gesù, ma subito interloquiscono altri presenti che gli sono rimasti avversi. Accettando gl’insegnamenti di Gesù – dice egli – si ottiene la vera libertà, e questa consiste non già nell’essere discendenti di Abramo bensì nell’affrancamento dal peccato. Chi è vero discendente di Abramo compia le giuste opere di Abramo, e non cerchi di ucci­dere Gesù inviato dal Padre celeste. Non basta proclamarsi – come fanno gli avversari – figli d’Iddio, bisogna anche amare Gesù ed accettare i suoi insegnamenti, perché egli è uscito da Iddio e inviato da lui; chi non ascolta le parole di Gesù dimostra d’avere per pa­dre il diavolo che fu omicida da principio ed il padre della men­zogna. Se Gesù dice la verità, perché non gli si crede? Chi può convincere lui di peccato? Chi è da Dio, ascolta i detti di Dio; ma per questo gli avversari non ascoltano Gesù, perché non sono da Dio.

§ 423. A questo punto la lotta diviene più serrata. I Giudei risen­tono dei colpi ricevuti, e reagiscono non con accorgimenti dimostrativi ma con ingiurie. Essi replicarono: “Non diciamo bene noi che tu sei un Samaritano (§§ 4, 417) e hai un demonio?”. Gesù rispose:”Io non ho un demonio, ma onoro il Padre mio e voi (invece) mi disonorate. Io al contrario non cerco la mia gloria; v’é chi (la) cerca e (su ciò) giudica. In verità, in verità vi dico, se alcuno abbia custodito la mia parola non vedrà morte in eterno”. Gli risposero i Giudei: “Adesso abbiamo conosciuto che hai un de­monio! Abramo morì, (così) pure i profeti, e tu dici – Se alcuno abbia custodito la mia parola non gusterà morte in eterno. – For­seché sei tu maggiore del nostro padre Abramo che morì? (Così) pure i profeti morirono. Chi ti fai (da) te stesso?”. Gesù rispose: “Se io abbia glorificato me stesso”la mia gloria e’ niente; v’e’ il Padre mio che mi glorifica” (quello di) cui voi dite – Dio nostro. – E(ppure) non lo conoscete, mentre io so lui; e qualora (io) dica che non so lui, sarò simile a voi mentitore. Ma (io) so lui, e la pa­rola di lui custodisco. Abramo, il vostro padre, esultò per (desiderio di) vedere il mio giorno, e (lo) vide e (ne) godé”. Dissero pertanto i Giudei a lui: “Cinquanta anni ancora non hai, e hai visto Abra­mo?” (§§ 176,182). Disse loro Gesù:”in verità, in verità vi dico, prima che Abramo fosse, io sono”. La discussione è finita. Gesù si è proclamato anteriore ad Abramo, e quindi all’intero ebraismo di cui Abramo è il capostipite. O si accetta la sua affermazione, credendo in lui: oppure in contrapposto si proclama che Gesù è posteriore e inferiore all’ebraismo, e quindi sottoposto alle sue leggi. Ora, secondo la Legge ebraica (Le­vitico, 24, 16), il bestemmiatore deve esser lapidato; perciò i Giu­dei, secondo i quali Gesù ha bestemmiato proclamandosi preesistente ad Abramo, passano ad applicare la Legge: Tolsero pertanto delle pietre per lanciar(le) addosso a lui. Ma Gesù si nascose, e uscì dal Tempio.

La donna adultera

§ 424. Egualmente in occasione della festa dei Tabernacoli è ri­portato l’episodio della donna adultera, che è collocato precisamente dopo il discorso dell’acqua simbolica e prima del discorso della luce simbolica (Giovanni, 8, 3-11). Ma sull’episodio grava la famosa que­stione della sua trasmissione, che sorge dai fatti seguenti. Il racconto dell’episodio manca nei più antichi codici greci unciali (salvo nel dibattuto codice D, del secolo vi) e in molti minuscoli, come pure nelle antiche versioni siriaca, copta, armena, e nei codici più autorevoli della versione latina pre-geronimiana. Fra gli antichi scrittori cristiani tacciono dell’episodio i Greci tutti quanti fino al secolo XI; lo ignorano anche i Latini più antichi, quali Tertulliano, Cipriano e Ilario, mentre sulla fine del secolo iv e nel v lo conoscono Paciano di Barcellona, Ambrogio, Agostino, e in seguito altri sempre più numerosi. Altri codici greci, sia unciali sia specialmente minuscoli, o lasciano uno spazio nel luogo ove andrebbe il racconto dell’episodio, oppure riportano il racconto ma notandolo con un asterisco (che segnalava i passi aggiunti posteriormente e controversi). I codici stessi che riportano il racconto contengono una quan­tità eccezionale di varianti testuali, fenomeno ordinario di passi di­battuti. Si è anche notato che il racconto, mentre contiene espres­sioni linguistiche estranee allo stile abituale di Giovanni e affini invece a quello dei Sinottici, interrompe la concatenazione logica fra i due discorsi dell’acqua simbolica e della luce simbolica; e questa brusca interruzione sembra che fosse notata già nell’antichità, giac­ché un codice greco colloca il racconto non al suo posto solito ma dopo Giov., 7, 36, qualche altro lo relega in fondo al iv vangelo (dopo 21, 24), e infine quattro particolari codici (gruppo Ferrar) lo trasferiscono ad altro vangelo collocandolo dopo Luca, 21, 38. Riportano invece il racconto sei unciali greci meno antichi (oltre al suddetto D) e molti minuscoli; lo hanno anche parecchi codici della versione latina pre-geronimiana, quelli della Vulgata, dell’etiopica e alcuni recenti di altre versioni. D’altra parte, come risulta con buona probabilità da una notizia di Eusebio (Hist. eccl., III, 39, 17), sembra che l’episodio fosse già noto a Papia (§ 114) cioè già divul­gato nel primo ventennio del secolo II.

§ 425. Come risolvere la questione? L’assenza del racconto è do­vuta a una soppressione, oppure la sua presenza è dovuta a un’ag­giunta? La prima alternativa è scelta da S. Agostino (De coniug. adult., ti, 7, 6); egli pensa che il racconto sia stato soppresso nei codici da uomini di poca fede, i quali temevano peccandi impunitatem dan mulieribus suis. Senonché tale ragione, più psicologica che storica, non convince: in primo luogo perché, come osserva lo stesso S. Ago­stino, non fu dato nessun permesso di peccare da quel Gesù qui dixit: lam deinceps noli peccare; inoltre perché storicamente non è verosimile che semplici fedeli, laici e ammogliati, avessero tanta autorità nella Chiesa dei primi secoli da far sopprimere nelle sacre Scritture un passo di tanta ampiezza ed importanza: troppo gelosa era la Chiesa nel preservare intatte le sacre Scritture sia da inter­polazioni in più, sia da soppressioni in meno. Del resto, come e quando si sarebbe potuta effettuare una soppressione così radicale, che avrebbe cancellato ogni traccia del racconto da tutti i codici originali fino a mezzo il secolo IV? D’altra parte gli argomenti in favore del racconto hanno il loro innegabile peso; esso è riconosciuto anche da critici radicali, che considerano l’episodio come porzione antichissima della tradizione evangelica (Loisy), o come perla perduta dell’antica tradizione e casualmente ricuperata (Heitmiìller). Altrettanto dicono i più auto­revoli studiosi cattolici, per i quali naturalmente il racconto è ispi­rato e fa parte delle sacre Scritture canoniche; fra essi appunto un editore neotestamentario conclude la sua ricerca dicendo che, nel testo del IV vangelo, il racconto dell’adultera è evidentemente una parte aggiunta… sebbene la sua alta antichità sia indiscutibile: perciò il racconto dev’essere annoverato fra le piu’ preziose perle della tradizione; ma quale sia la prima origine del passo e come esso abbia trovato la strada per entrare nel vangelo di Giovanni, e’ questione che rimane totalmente insoluta (Vogels). Proviene il racconto dal testo aramaico di Matteo (§ 114)? Sarebbe forse una noticina solitaria vergata dallo stilo di Luca? In favore di quest’ultima congettura deporrebbe il carattere del racconto, che è tutto di una misericordia infinita e ben degno dello scriba man­suetudinis Christi (§ 138). Ma dal punto di vista documentario dob­biamo confessare, purtroppo, la nostra ignoranza.

§ 426. Un giorno dunque, forse durante l’ottava dei Tabernacoli, Gesù, dopo aver passato la notte sul prediletto monte degli Olivi, di buon mattino ne scese, attraversò il Cedron, risalì ad occidente ed entrò nel Tempio: ivi il popolo accorse a lui nell’atrio esterno, ed egli sedutosi cominciò ad insegnare. Ad un certo punto irrompe nell’atrio un gruppo di Scribi e Farisei seguiti da un codazzo di gente; guardando essi torno torno nell’atrio, e scorto il cerchio di coloro che ascoltano Gesù vanno direttamente verso quella parte. Giunti, si aprono un varco tra la folla interrompendo la predica; di tra il codazzo che segue Scribi e Farisei si fanno avanti due o tre uomini che trascinano a forza una donna riluttante, e con un ultimo spintone la cacciano nello spazio rimasto vuoto davanti all’oratore; la donna, scarmigliata e coprendosi con le mani il viso per la vergogna, si accascia là a terra come un ciarpame di stracci. Gli Scribi e i Farisei spiegano allora a Gesù di che si tratta. Quel­la là è una donna sorpresa in flagrante adulterio: il complice, come per lo più succede (Daniele, 13, 39), pare che sia riuscito a fuggire, ma la donna è stata presa; ella non può negare la flagranza del delitto, e quindi dev’esser punita secondo la Legge. Ora, Mosè nella Legge ha comandato che siffatte donne siano lapidate (Deuterono­mio, 22, 23 segg.; cfr. Levitico, 20, 10). Che ne pensa dunque il maestro? Come bisognerà comportarsi con questa delinquente? Dopo tale scena l’evangelista avverte: Dicevano questo per metterlo alla prova, onde avere (di che) accusarlo. Era quanto potevamo immaginarci, anche indipendentemente dall’avviso dell’evangelista. L’occasione, senza dubbio, era eccellente per quei Farisei. In primo luogo, quell’andare in giro per la città trascinandosi appresso la donna tremante e piangente permetteva ad essi di fare una ma­gnifica figura, come custodi esattissimi della Legge e guardiani ze­lanti della moralità. Del delitto doveva giudicare il Sinedrio (§ 59); ma che vantaggio ci sarebbe stato a condurre la donna direttamen­te al Sinedrio senza tanto strepito e clamore? Se tutto si fosse fatto con modesta riservatezza, nessuno avrebbe potuto apprezzare i meriti di loro, Scribi e Farisei. Inoltre, questo spiegamento di forze offriva un’altra opportunità bellissima. C’era quel Rabbi galileo che, con la sua ostentata indipendenza dai grandi maestri della Legge e con la sua crescente autorità sul popolo, meritava bene una le­zione pubblica e solenne, e precisamente su una questione di Legge. Il caso di quella donna sembrava fatto apposta per impartirgli que­sta lezione. Prima di consegnare la colpevole al Sinedrio bisognava sottoporre il caso a lui, come per averne un parere: si doveva lapi­dare o no quell’adultera? Se egli avesse risposto di no, si sarebbe svelato da se stesso come un rivoluzionario, sovvertitore dell’ordine pubblico e abolitore della Legge mosaica. Se avesse risposto di essere inesorabili ed eseguire la lapidazione, avrebbe perduto quella sua autorità sul popolo, che gli era conciliata specialmente dai suoi pre­cetti di misericordia e di bontà. L’occasione, dunque, era davvero bellissima; i Farisei la colsero, e dettero battaglia a Gesù.

§ 427. La battaglia fu accettata Gesù, interrotta ormai la predica, ascoltò l’esposizione del caso, rimanendo tranquillamente assiso come stava prima. Quando gli accusatori dell’adultera ebbero finito, egli non rispose parola; soltanto, come persona che non abbia nulla da fare e cerchi d’ingannare il tempo, si curvò verso terra e si dette a tracciare col dito segni di scrittura sul pavimento. Il suo atteggia­mento diceva in sostanza ch’egli non aveva alcuna risposta da co­municare, e che stava li ingannando il tempo fino a che la questione fosse finita. Gli accusatori aspettarono alquanto: Gesù seguitava a tracciare svolazzi in terra. Quelli ripeterono l’accusa, rinnovando la domanda, aspettarono ancora; solo dopo altro tempo Gesù len­tamente si rialzò sul busto, girò lo sguardo sugli accusatori, sulla folla, sulla donna, poi disse con semplicità: Chi di voi e senza pec­cato, lanci per primo su lei (una) pietra. Detto ciò come la cosa più naturale di questo mondo, si curvò di nuovo verso terra e ricomin­ciò a tracciare svolazzi. Tutto era finito, anzi non avrebbe dovuto neppur cominciare: l’interpellato era e si manteneva estraneo a quel­la questione, proposta da quegli accusatori, in quelle cincostanze; egli preferiva tracciare svolazzi, e se aveva dato quella risposta, lo aveva fatto cedendo alle loro insistenze. Agissero loro: purché si conformassero alla norma da lui data. Ahi, abi! quella norma li toccava intimamente! Non si trattava di giudicare su un elegante caso giuridico, per stabilire quanti colpi di staffile doveva ricevere il dorso altrui o quanto doveva esser alto il palo a cui si doveva impiccare il corpo altrui; si trattava di un giudizio intimo, di un tribunale invisibile in cui accusatore e giudi­ce erano tutt’uno, il tribunale della propria coscienza. Sarebbe sta­to in realtà facilissimo rispondere a quel Rabbi: Io sono senza pec­cato, e quindi lancerò per primo una pietra! – Ma con lui non era prudente scherzare; padrone della natura e scrutatore degli spiriti come si era più volte mostrato, quel Rabbi era capace di ripetere e precisare l’apostrofe dell’antico Daniele ai vecchioni di Susanna (Daniele, 13, 57) e di rispondere lì davanti alla folla: Sei senza peccato tu, che il giorno tale con la tal donna maritata hai fatto questo, e il giorno tal altro con la tal altra hai fatto quest’altro?!… – No, no: era troppo pericoloso stuzzicare quel vespaio. Perciò av­venne che quelli, quand’ebbero udito, se ne uscirono uno per uno cominciando dai piu’ anziani (fino agli ultimi), e fu la­sciato solo Gesu’ e la donna che stava in mezzo. Rialzatosi poi Gesu’ disse a lei:”Donna, dove sono? nessuno ti condannò?”. Quella allora disse: “Nessuno, Signore!”. Disse allora Gesù: “Nemmeno io ti condanno. Va’, da questo momento non peccar più!”. Colui che era venuto non ad abolire la Legge di Mosè ma a com­pierla (§ 323), non aveva violato quella Legge e per di più ne aveva raggiunto l’intimo spirito; l’intimo spirito di ogni legge onesta non può essere che distogliere dal male e indirizzare al bene. La giu­stizia era stata sublimata nella misericordia.

Il cieco nato

§ 428. Dopo il discorso sulla luce spirituale, terminato senza effetto e col tentativo di lapidazione, Giovanni narra immediatamente una diffusione di luce materiale che ottiene il suo effetto, ossia la gua­rigione del cieco nato: il fatto dovette avvenire un poco più tardi, quando la festa dei Tabernacoli era finita da qualche tempo e il bollore degli animi si era calmato alquanto. Un giorno, di sabbato, Gesù passò vicino a un uomo cieco dalla nascita che chiedeva l’elemosina, forse nei pressi del Tempio. Riflet­tendo su quell’infelice, i discepoli che accompagnavano Gesù gli domandarono: Rabbi, chi peccò, costui o i suoi genitori, perché nascesse cieco? Si scorge in questa domanda la vecchia opinione ebraica, secondo cui il male fisico era sempre conseguenza e puni­zione del male morale: opinione già dimostrata fallace dal nobi­lissimo autore del libro di Giobbe, eppure tenacemente prolungatasi presso dotti e indotti. Gesù respinse l’opinione dicendo che nè quel­l’infelice nè i suoi genitori avevano peccato, e che quel caso singolo era stato permesso affinché si manifestassero le opere di Dio: Fin quando (io) sia nel mondo, luce sono del mondo (Giov., 9, 5). Detto ciò, Gesu’ sputò in terra, fece con lo sputo un po’ di fango, mise quel fango sugli occhi del cieco, e poi gli disse: Va’, làvati nella piscina del Siloam. – Quello andò, si lavò, e tornò che vedeva. L’evangelista spirituale, appena ha scritto il nome di Siloam, vi aggiunge una glossa di sapore mistico, avvertendo che quel nome si traduce z ìnviato ~. E in realtà il greco Siloam sta per l’ebraico Shiloh: questo era il nome dato originariamente al canale sotter­raneo che raccoglieva le acque della fonte di Gibon (§ 384) convogliandole e introducendole dentro la città; in virtù di tale fun­zione al canale era stato dato il suddetto nome col significato di inviante (il liquido), o anche di (liquido) inviato, e dal canale il nome si era esteso naturalmente anche alla piscina in cui il canale terminava. Era la piscina del Siloe (§ 76). L’evangelista spirituale, che ha parlato dell’acqua simbolica convogliata sul mondo da Gesù, ripensa volentieri a lui come a soprannaturale liquido inviato; in quel liquido deve lavarsi l’intero genere umano privo di luce, come il cieco nato si lavò nella piscina del Sibe, e in ambedue i casi il risultato sarà il medesimo.

§ 429. Avvenuta la guarigione, seguono le inevitabili discussioni, perché il guarito era un mendicante di mestiere, notissimo a tutta la città e tutti sapevano ch’era nato cieco, mentre adesso vedeva. Perciò alcuni dicevano: E’ proprio lui! – Altri invece: Macché! uno che rassomiglia al cieco! – Il guarito, interpellato, risponde­va: Ma no, sono proprio io, il mendicante nato cieco! – Gli altri allora: E come ti si sono aperti gli occhi? – E quello, con sempli­cità: Eh! Quel tale che si chiama Gesù ha fatto un po’ di fango; me l’ha messo sugli occhi; mi ha detto: “Va’, làvati al Siloam”; ci sono andato; mi sono lavato; ho veduto. Ecco tutto! – Per approfondire l’indagine bisognava interpellare Gesù stesso. – Dov’è andato? domandarono al guarito. Quello rispose che non lo sapeva. Il caso era grave, sia per il fatto in sé, sia perché il tutto era avve­nuto di sabbato; perciò il guarito fu condotto ai Farisei. I Farisei ripeterono le stesse domande: ricevettero le stesse risposte. Nessun dubbio era possibile: quell’uomo lì davanti era il cieco nato, e ades­so vedeva benissimo. Tuttavia c’era di mezzo il sabbato. Quindi alcuni Farisei sentenziarono: Quest’uomo non è da Dio, perché non osserva il sabbato! – E infatti aveva violato il riposo sabbatico, facendo quella ditata di fango che aveva messo sugli occhi del cieco. Ma ci furono altri, un po’ meno farisei, che osservarono: Ma se fosse un peccatore, come potrebbe fare prodigi di tal genere? – E i due gruppi dissenzienti cominciarono a discutere fra loro. Si, che il cieco fosse guarito era cosa certa; ma cosa anche più certa era che chi faceva una ditata di fango in giorno di sabbato era un peccatore, un empio, un ese­crando, epperciò non poteva operar miracoli. Non c’era via d’uscita. Nell’imbarazzo si volle conoscere, per aver qualche lume, il parere del guarito; gli fu chiesto: Che pensi tu di quel tale che ti ha aperto gli occhi? – E quello senz’altro: Per me, è un profeta!

§ 430. Male, malissimo. Si stimò necessario fare un passo indietro, e si ritornò sui dubbi, già scartati, riguardo all’identità del guarito. Si mandarono a chiamare i genitori di lui: Costui è proprio il figlio vostro? ~ proprio nato cieco? E come va che adesso ci vede? – I due vecchi, intimoriti da quell’accolta d’illustri dottori, si ripararono dietro alla realtà dei fatti, declinando ogni responsabilità loro per­sonale: Che questo sia il figlio nostro è certo, ed è pure certo ch’è nato cieco; ma come sia che adesso ci veda, o chi gli abbia aperto gli occhi, noi non ne sappiamo nulla. Interrogate lui stesso! Ha l’età: è maggiorenne; risponda egli stesso dei casi suoi! Riferita questa risposta, l’evangelista avverte: Ciò dissero i genitori di lui perché avevano paura dei Giudei; già infatti si erano accordati i Giudei che, se alcuno lo riconoscesse (come) Cristo (Messia), fosse espulso dalla sinagoga. I vecchi sagacemente avevano evitato il pericolo, e da essi non si poteva cavar nulla di decisivo. Gl’inquisitori allora tornarono di nuovo alla carica sul figlio. Presero perciò un tono esortativo e confidenziale; commovendosi, il cieco avrebbe forse “cantato”: Su dunque! Da’ gloria a Dio! Noi sappiamo benissimo che questo tale è un peccatore. Dicci con schiet­tezza come sono andate le cose! – Quello rispose: Se sia peccatore o no, io non lo so; so unicamente che prima ero cieco, e adesso ci ve­do! – E quegli altri: Ma che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi? – Il guarito, che si serviva la prima volta degli occhi per contemplare quegli inquisitori, mentre forse avrebbe preferito andar fuori ad ammirare visioni più piacevoli, cominciò a perder la pazien­za: Ma ve l’ho già raccontato! Perché volete sentirlo di nuovo? Volete forse anche voi diventar discepoli di Gesù? – Apriti cielo! Un diluvio di maledizioni e d’improperi cadde addosso all’impertinente che aveva fatto l’ironica domanda, e fu ritorta su lui l’obbrobriosa insinuazione: Tu sei discepolo di quel tale; noi siamo discepoli di Mosè. Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Iddio; costui invece non sappiamo donde sia (§ 419). – Ma l’investito non si lasciò abbattere, e replicò impavido: Ma appunto qui sta la stranezza, che voi non sapete donde egli sia, e quello invece mi ha aperto gli occhi. E’ cer­tissimo che Dio ascolta, non già i peccatori, ma i giusti e i pii; come pure, dacché mondo è mondo, nessuno ha mai potuto fare quello che ha fatto! – Quale irriverenza! Ai più insigni rappresentanti della “tradizione” e della sapienza giudaica pretendeva insegnare quel cialtrone tracotante, generato per di più nella colpa come la sua cecità aveva dimostrato! Gli fu perciò risposto sdegnosamente: Sei nato tutto intero nel peccato, e vieni a insegnare a noialtri? Fuori di qua! – E fu messo alla porta. Lo scacciato incontrò poco dopo Gesù, che gli disse: Credi tu nel figlio dell’uomo (variante: di Dio)? Il guarito rispose: E chi e’, Si­gnore, affinché io creda in lui? Gesù soggiunse: E lo hai visto (allu­dendo alla guarigione ottenuta), e colui che ti parla e’ (appunto) esso. Allora il guarito esclamò: Credo, Signore! e si prostrò davanti a lui. Gesù soggiunse: Per una cernita venni io in questo mondo, (ciò) affinché i non vedenti vedano e i vedenti diventino ciechi. Essendosi nel frattempo avvicinati alcuni Farisei, udirono le ultime parole e le interpretarono come allusione a loro stessi; chiesero perciò a Gesù: Siamo forse ciechi anche noi? Gesù rispose: Se foste (soltanto) ciechi, peccato non avreste; ora invece dite “Vediamo!”, (e perciò) il vostro peccato permane. In altre parole, la cecità è generale, ma si può guari­re da essa soltanto se si comincia col riconoscere di esserne affetti, men­tre non ne guarirà giammai colui che s’illude di vedere; questa illusione è più dannosa della cecità stessa, perché è il suo settemplice sigillo.

§ 431. L’irriducibile tenacia dei Giudei nel non riconoscere la gua­rigione del cieco nato è di una storicità perfetta, ed è anche un fe­nomeno storicamente regolarissimo. Questi Farisei troneggiavano su certi loro piloni che non dovevano mai crollare, anche se tutto il resto del mondo fosse crollato: l’osservanza farisaica del sabbato, l’ap­partenenza all’associazione farisaica, e cose simili, erano i loro piloni, dall’alto dei quali essi giudicavano l’universo intero, approvando ciò che rafforzava i piloni e riprovando ciò che li indebeliva. Citano essi al loro tribunale il cieco guarito e i suoi genitori, investigano sulle testimonianze, almanaccano scappatoie, senza però ottenere la spiega­zione desiderata. Non fa niente: si lasci crollare tutto il resto, ma ri­mangano i piloni. Ebbene confrontando serenamente i fatti, lo sto­rico odierno trova che dopo tanti secoli una certa parte dell’umanità a cambiato ben poco nei suoi procedimenti riguardo ai dati della vita di Gesù: ha cambiato soltanto i nomi, ma i procedimenti sono rimasti in sostanza gli stessi. Quei piloni incrollabili che una volta si chiamavano osservanza del sabbato, e simili, oggi si chiamano assur­dità del miracolo, impossibilità del soprannaturale, e simili: ma i pi­Ioni, agli effetti pratici, sono sempre gli stessi. Si citano al tribunale del razionalismo i vari documenti, s’investigano le testimonianze, si almanaccano teorie, senza però ottenere la spiegazione desiderata, anzi ottenendo un Gesù sempre più soprannaturale (§ 221 segg.). Non fa niente: si lasci crollare tutto il resto, ma rimangano i piloni. E cosi rimane la cecità, col suo settemplice sigillo.

Il buon pastore

§ 432. La guarigione del cieco nato e le relative discussioni ebbero ancora degli strascichi, probabilmente vari giorni dopo ma egual­mente a Gerusalemme. Gesù ricorre ad una parabola, parzialmente allegorizzata (§ 360) ma ricavata dai comuni usi palestinesi, e paragona la propria operosità a quella d’un buon pastore, e la società da lui fondata ad un ovile. – L’ovile in Palestina si riduce oggi (e cosi più o meno era venti secoli fa) a un muricciolo di pietre ove si radunano la sera le pecore, di uno o più greggi, che di giorno hanno pascolato nei dintorni. Una portina bassa e stretta aperta nel muricciolo permette alle pecore d’entrare e uscire ad una ad una, per essere più facilmente contate ambedue le volte. Di notte un solo pastore fa la guardia all’ovile contro i ladri e le bestie feroci; ma verso l’alba, quando vengono gli altri pastori a prendersi ciascuno il suo gregge, il pastore di guardia apre regolar­mente ad essi la porticina: il nuovo arrivato dà il suo grido particolare, e allora le sue sole pecore si affollano all’uscio, escono ad una ad una e seguono per tutta la giornata il pastore nella steppa. Le altre pecore aspettano finché non odono il grido particolare del proprio pa­store, e s’avviano ad uscire soltanto quando sentono quella voce, che poi le guiderà per tutta la giornata. Così, gregge per gregge, le pecore partono tutte attraverso l’unica porticina, dirette dalle rispettive voci; le quali, poi, alle volte pronunziano nomi particolari per le pecore predilette: “Ehi! La Bianca!”>. “Tu, la mia Bella!”. Quella porticina, dunque, è il punto più delicato dell’ovile, ed essa sola ispira fiducia; chiunque non passi attraverso essa ma salga per il muricciolo scaalcandolo, si dimostra con ciò stesso nemico, e non può essere che un ladro o una bestia feroce. Perciò disse Gesù: In verità, in verità vi dico, chi non entra per la porta nell’ovile delle pecore, bensì salendo da altra parte, colui e’ ladro e rapinatore. Chi invece entra per la porta e’ pastore delle pecore: a lui apre il portiere, e le pecore odono la voce di lui, e le proprie pecore chiama (egli) per nome e le conduce fuori; quando tutte le proprie abbia menate fuori, cammina davanti ad esse, e le pecore lo seguono perché sanno la voce di lui. Un estraneo invece non seguiranno, bensì fuggiranno da lui, perché non sanno la voce degli estranei.

§ 433. Senonché l’allusione non fu capita; e allora Gesù vi ritornò sopra: In verità, in verità vi dico, che io sono la porta delle pecore. Tutti, quanti vennero prima di me, ladri sono e rapinatori; ma le pecore non li udirono. Io sono la porta: se per me alcuno sia entrato, sarà salvato, ed entrerà ed uscirà e troverà pascolo. Il rapinatore non viene se non per rapire, fare strage e distruggere: io venni affinché abbiano vita e abbondantemente (l’)abbiano. Chi fossero questi ladri e rapinatori Gesù non spiegò, ma le condizioni storiche dei suoi tem­pi erano sufficienti a farli riconoscere; come gli antichi profeti ave­vano trovato il massimo ostacolo alla loro missione nell’operosità avversaria degli pseudoprofeti profetizzanti la menzogna e… la frau­de del loro cuore, cosi Gesù parlando qui da Messia si riferisce al­l’operosità avversaria degli pseudopredicatori messianici che pullula­rono prima e dopo di lui. Flavio Giuseppe, che li conobbe di persona, descrive coloro che predicarono sotto il procuratore Antonio Felice (52-60 d Cr.) con queste parole: Uomini ingannatori e im­postori, che sotto apparenza d’ispirazione divina operavano innova­zioni e sconvolgimenti; inducevano essi la folla ad atti di fanatismo religioso, e la conducevano fuori nel deserto, come se là Dio avesse mostrato loro i segni della libertà (imminente) (Guerra giud., II, 259). Riferendosi poi al tempo dell’assedio di Gerusalemme lo stesso testimone oculare afferma: Molti, del resto, erano allora i profeti che… andavano intimando d’aspettare il soccorso da parte di Dio… Cosicché il misero popolo fu allora illuso da ciarlatani e da quei che parlavano falsamente a nome di Dio (ivi, VI, 286-288). Ma la can­crena era vecchia, e se scoppiò in pieno ai tempi qui accennati da Flavio Giuseppe, raccogliamo dallo stesso storico che essa covava da molto tempo prima e che ai tempi di Gesù aveva invaso già larga­mente la plebe giudaica. Questi sono i ladri e i rapinatori a cui allu­de Gesù, come ai diretti e immediati avversari di lui Messia; se poi afferma che le pecore non li udirono, si riferisce alla parte buona e sana del popolo, che del resto ai suoi tempi era ancora la parte nu­mericamente maggiore, mentre in seguito andò sempre scemando.

§ 434. Insistendo ancora nel paragone dell’ovile, Gesù continuò: Io sono il pastore, quello buono. Il pastore, quello buono, rimette la sua vita per le pecore. Il mercenario e che non è pastore, di cui non sono proprie le pecore, vede il lupo che viene, e lascia le pecore e fugge – e il lupo le rapisce e disperde – perché è mercenario e non gl’importa delle pecore. Io sono il pastore, quello buono, e conosco le mie e conoscono me le mie, come conosce me il Padre ed io conosco il Padre: e la mia vita rimetto per le pecore. Ho pure altre pecore, che non sono di questo ovile; anche quelle devo io condurre, e la mia voce udranno, e si farà un solo gregge e un solo pastore. Gesu’ dunque, da vero pastore e non da mercenario, è pronto a per­der la vita per il bene dei suoi seguaci. Inoltre, egli è pastore non soltanto di questo ovile dell’eletto popolo israelitico, ma anche di altre pecore le quali un giorno udranno la sua voce: si formerà allora un solo gregge di suoi seguaci, tratti indifferentemente dal po­polo d’Israele e da altri popoli, e il nuovo gregge collettivo avrà per comune pastore il Messia Gesù. Già gli antichi profeti, trattando dei tempi del futuro Messia, avevano contemplato questo slargamento del ristretto ovile d’Israele entro cui sarebbero entrate pecore di altri ovili Alla fine dei giorni, sarà stabilito il monte della casa di Jahvè sulla cima dei monti e piu’ elevato delle colline, e affluiranno ad esso tutte le genti e accorreranno popoli molti, dicendo: “Venite, ascendiamo al monte di Jahvè, alla casa del Dio di Giacobbe, affinché c’insegni le sue vie e procediamo sui sentieri di lui: perché da Sion uscirà la legge, e la parola di Jahvè da Gerusalemme! Terrà egli giudizio fra le genti, e darà sentenza su popoli molti; ed essi foggeranno le loro spade a zappe, e le loro lance a faIci: non alzerà gente contro gente la spada, né impareranno piu’ oltre la guerra. Isaia, 2, 24; cfr. Michea, 4, 13. Gesù infine concluse: Per questo il Padre mi ama, perché rimetto la mia vita affinché nuovamente (io) la riprenda. Nessuno la tolse a me,> bensì io la rimetto da me stesso. Ho potestà di rimetterla, e ho po­testà di riprenderla nuovamente. Questo comando ricevetti dal Pa­dre mio. Anche per queste parole fu dissenso tra i Giudei. Molti, e forse i più, le commentavano spregiosamente concludendo: Ha un demonio ed è pazzo; perché state ad ascoltarlo? – Altri tuttavia replicavano: Eh, no! Queste parole non sono da indemoniato! Può forse un demonio aprir gli occhi ai ciechi? (Giov., 10, 19-21).

Espansione del Regno di Dio in Giudea

§ 435. Terminate le ultime discussioni sorte in occasione del Taber­nacoli, Gesù si allontanò da Gerusalemme. Nel bimestre abbondante che correva fra i Tabernacoli e la Dedicazione (§ § 76-77), avvennero buona parte dei fatti narrati a proposito del cosiddetto ”viaggio” di Luca (§ 413 segg.), che perciò si svolsero in massima parte nella Giudea: questo, infatti, era il nuovo campo di lavoro scelto da Gesù allorché aveva abbandonato la Galilea (§ 411). Come già avvertim­mo, questa narrazione particolare a Luca ha mire cronologiche e geo­grafiche soltanto vaghe e generiche, e ciò le imprime un carattere spiccatamente aneddotico; dell’operosità varia spiegata da Gesù in questo tempo per diffondere il regno di Dio nella Giudea abbiamo soltanto elementi isolati, difatti e di discorsi, ma non una relazione completa ed organica. Il diligente raccoglitore Luca ci fornisce solo le notizie ch’è riuscito a ricuperare, sia nella loro quantità sia nei loro reciproci collegamenti: di ciò ch’egli ignora, fedelmente tace. Occasionalmente ci vengono ricordati, tutti insieme, tre uomini che vogliono seguire Gesù (Luca, 9, 57-62); di questi tre, soltanto due so­no mentovati da Matteo (8, 19-22), ed è molto probabile che i tre si presentassero in tempi e luoghi diversi, sebbene poi le loro men­zioni fossero riunite insieme per ragioni redazionali.

§ 436. Un tale, che era scriba secondo Matteo, raggiunge Gesù per istrada e gli dice: Maestro, ti seguirò dovunque tu vada! – Pensava forse, il buon uomo, che un profeta così autorevole e potente avesse una dimora stabile e decorosa, la quale gli servisse da centro di ir­radiazione per la sua operosità. Gesù lo disillude con francbezza: Le volpi hanno tane e i volatili del cielo nidi, ma il figlio dell’uomo non ha dove reclini il capo. In altre parole, il primo a seguire le norme del Discorso della montagna relative alla fiducia nella Prov­videnza (§ 331) era appunto l’oratore di quel discorso. A un altro, che già faceva parte dei discepoli secondo Matteo, Gesù stesso rivolse l’invito dicendogli: Seguimi! L’invitato era ben disposto, ma prima domandò licenza di andar a seppellire suo padre; Gesù replicò: Seguimi! E lascia i morti a seppellire i loro morti; alle quali parole Luca aggiunge le altre: tu invece va’, annunzia il regno d’Iddio! – Molto si è discusso su questo breve dialogo. Taluni hanno pen­sato che il padre di quel discepolo non fosse veramente morto, altri­menti il figlio secondo i costumi giudaici avrebbe dovuto stare presso la salma e non vicino a Gesù: egli quindi avrebbe domandato in realtà il permesso di andare ad assistere il vecchio padre nei suoi giorni estremi, come ancora oggi per esprimere questa assistenza si usa la frase affettuosa « chiudere gli occhi ai propri vecchi »; tut­tavia, pur non essendo assolutamente impossibile, la spiegazione è poco verosimile. Anche meno verosimile è l’ipotesi (Perles) secondo cui il testo greco risulterebbe da una traduzione difettosa dell’aramaico, il quale avrebbe detto originariamente lascia i morti al seppellitore dei loro morti. Secondo ogni verosimiglianza, il padre del discepolo era ve­ramente morto; d’altra parte Gesù vuol far risaltare l’imperiosità dell’appello al regno di Dio, che poteva in certi casi passar sopra anche alle costumanze più legittime. Se per ragioni religiose la Legge mosaica proibiva al sommo sacerdote e al « nazireo » di curare il seppellimento dei propri genitori (Levitico, 21,11; Numeri, 6, 7), a maggior ragione il Messia Gesù esigeva negli annunziatori del regno di Dio almeno la stessa libertà dai legami sociali e una dedizione totale al loro ufficio. I viventi fuor del regno di Dio erano spiritual­mente morti, e il tornare anche per breve tempo fra quei morti po­teva esser pericoloso per quel discepolo: costui ch’era chiamato al regno di Dio, entrasse risolutamente nel regno della vita senza vol­gersi addietro a rimirare il cimitero del mondo. Questa è anche, in sostanza, l’esortazione rivolta al terzo postulante. Egli dice a Gesù: Signore, io ti voglio seguire, ma prima permetti ch’io vada a congedarmi da quei di casa mia. – Gesù risponde: Nessuno che imponga la mano su aratro e riguardi all’indietro, è adatto al regno d’iddio! Come il bifolco che governa l’aratro non traccerà solchi diritti se si rivolta addietro, così chi mira al regno di Dio non deve voltarsi a riguardare le cose del mondo lasciate dietro le sue spalle.

§ 437. Trasferitosi in Giudea, Gesù inviò nuovamente in missione particolare i suoi cooperatori, come aveva già fatto in Galilea (§ 352). Essendo cresciuti i cooperatori, questa volta gli inviati furono ben più numerosi: settantadue, o settanta, a seconda dei codici; è ben probabile che fra i nuovi inviati fossero inclusi, tutti o in parte, i dodici già inviati l’altra volta. Le norme e gli scopi della nuova missione furono sostanzialmente gli stessi di quella precedente; la sua zona d’azione dovette essere la Giudea e forse anche la Transgiordania, – senza però che ci siano fornite notizie precise in proposito: neppure siamo in grado di dire quanto tempo durasse questo nuovo giro d’evangelizzazione, ma sembra che non si protraesse oltre una venti­na di giorni. Al loro ritorno gl’inviati erano giubilanti. Riunitisi appresso a Gesù, gli riferirono con fierezza che perfino i demonii si erano assoggettati a loro nel nome di lui. Gesù si associò alla loro gioia, asserendo di aver visto Satana caduto dal cielo come folgore, e confermò ad essi per l’avvenire l’impero sulle potenze avverse; ma insieme li ammonì che la loro vera gioia doveva esser causata non dall’impero sugli spiriti del male, ma dal fatto che i loro nomi erano stati scritti nel cielo. Il bel successo ottenuto dai discepoli nel propagare il regno di Dio produce in Gesù una gioia più ampia ed elevata. Innalza egli il pensiero al suo Padre celeste, ne contempla i piani dell’umana sal­vezza e rileva che nell’attuare quei piani sono impiegati i mezzi uma­namente meno opportuni, gli uomini meno pregiati ed appariscenti: il suo spirito erompe allora in un ringraziamento tripudiante al Padre celeste. In quella stessa ora esultò (egli) nello Spirito santo e disse: Rendo laude a te, Padre, Signore del cielo e della terra, perché celasti queste cose a sapienti e intelligenti, e le rivelasti a pargoli! Si, Padre, perché così fu beneplacito al tuo cospetto! – Tutte le cose a me furono consegnate dal Padre mio: e nessuno conosce chi e’ il Figlio se non il Padre, e chi e’ il Padre se non il Figlio e a chi voglia il Figlio rivelare. Rivolto infine ai discepoli li proclamò beati perché còntemplavano e udivano cose che invano avevano desiderato di con­templare e udire antichi profeti. Questa “esultanza” di Gesù è riferita concordemente da due Sinot­tici (Luca, 10, 21-22; Matteo, 11, 25-27); eppure, a sentirla leggere senza conoscere la provenienza, si concluderebbe fiduciosamente che essa proviene dal vangelo di Giovanni, tante sono le sue analogie di pensiero e di espressione col IV vangelo: il quale invece non contiene nulla di questo tratto. Siffatte analogie sono state sufficienti agli studiosi prevenuti per concludere, ad onta dell’attestazione concorde degli antichi documenti, che il tratto è aggiunto posteriormente o almeno ampiamente interpolato. Gli studiosi non prevenuti, e che si riportano alle origini storiche dei quattro vangeli, vedranno in questo tratto un documento genuino dell’insegnamento di Gesù, pur rammentandosi che di quell’ampio insegnamento i Sinottici hanno ordinariamente preferito certe parti più accessibili e piane, mentre Giovanni è andato apposta in cerca delle parti più elevate ed ardue tralasciate da quelli (§ § 165, 169); tuttavia l’ordinaria preferenza dei Sinottici riceve un’eccezione appunto qui, ove essi trasmettono ciò che Giovanni tralascerà. Ma rimane sempre fermo che Sinottici e Giovanni si riportano egualmente al Gesù storico.

Il buon samaritano

§ 438. Durante questo peregrinare nella Giudea, probabilmente poco dopo il ritorno dei settantadue discepoli, Gesù fu avvicinato da un dottore della Legge che voleva farsi un’idea chiara del pensiero di Gesù su alcuni punti fondamentali: se ne dicevano tante sul conto di quel Rabbi galileo, che il dottore volle rendersi conto della realtà e metterlo alla prova. Lo interrogò quindi con semplicità: Maestro, che cosa devo fare per ottenere la vita eterna? Gesù gradì l’interrogazione, e volle con opportune sollecitazioni far rispondere allo stesso interrogante, come già aveva usato far Socrate. Gli chiese quindi: Nella Legge che cosa sta scritto? Come (vi) leggi? Quello rispose che vi stava scritto d’amare Iddio con tutte le proprie forze e il prossimo come se stesso. L’amor di Dio era appunto il pri­mo e più solenne precetto che ogni fedele Israelita ricordava a se stesso recitando quotidianamente lo She’ma (§ 66), e Gesù, da fedele israelita, approvò pienamente la risposta: Rispondesti rettamente. Fa’ ciò, e vivrai! enonché in nessun passo della Legge si trovano uniti insieme i due precetti dell’amore di Dio e del prossimo, e sembra che anche i rab­bini di quel tempo non usassero unirli insieme; ad ogni modo restava l’incertezza del terrnine prossimo, che non si sapeva bene a chi do­veva riferirsi, se ai soli parenti o amici, oppure anche a tutti i con­nazionali e correligionari, ovvero nella più esorbitante delle ipotesi perfino ai nemici, agli alienigeni, agli incirconcisi, agli idolatri (§ 327, nota seconda). Di tutta questa gente chi era il vero prossimo per un Israelita? Possibile che fosse un reca ognuno di essi senza di­scriminazione? Il dottore volle mostrare di non aver parlato alla leg­giera, giacché aveva mirato appunto all’ultima questione; perciò egli, volendo giustificare se stesso, disse a Gesu’: E chi e’ il mio prossimo? Gesu’ gli rispose con una parabola. Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico; e s’imbatté in ladroni i quali spogliatolo e carica to(lo) di percosse se n’andarono, lasciandolo mezzo morto. L’odierna strada da Gerusalemme a Gerico è di 37 chilometri, ma anticamente era un poco piu’ breve perché l’ultimo suo tratto oggi è stato allungato per comodità del traffico; quell’uo­mo scendeva da Gerusalemme a Gerico, perché la strada è quasi tutta in discesa essendovi fra le due città un dislivello di circa 1000 metri. Circa dall’80 chilometro fin quasi alle porte di Gerico la stra­da si svolge in luoghi assolutamente deserti, montagnosi, e spesso im­pervii; perciò in tutti i tempi è stata infestata da ladroni, essendo praticamente impossibile snidarli dai rifugi segreti disseminati ai fianchi della strada ed avendo essi ogni comodità di allontanarsi e scomparire dopo qualche misfatto. Oggi sono stati moltiplicati lun­go la strada i corpi di guardia della polizia; ai tempi dei Bizantini e dei Crociati serviva da corpo di guardia il Khan Hathrur, massic­cia costruzione situata al 19° chilometro, che mentre proteggeva da rapine i viandanti poteva offrir loro anche un ricovero per la notte. La strada infatti, benché cosi malsicura, era frequentatissima, essendo l’unica che metteva la capitale Gerusalemme e buona parte della Giudea in comunicazione con l’ubertosa e popolosa pianura di Ge­rico e più in là ancora con la Transgiordania.

§ 439. Il malcapitato, dunque, giace sulla strada ammaccato di per­cosse, stordito, e non può in nessun modo tirarsi fuori da quelle con­dizioni se qualche pietoso non viene in suo soccorso. Ora per caso un sacerdote scendeva per quella strada, e veduto quello passò di lungo. Similmente poi anche un Levita, venuto sul posto e veduto (quello), passò di lungo. La parabola evidentemente suppone che ambedue, il sacerdote e il Levita, avessero terminato la loro muta di servizio al Tempio (§ 54), e quindi tornassero alle loro case situate a Gerico o giù di lì. Dopo questi due, passa un terzo viandante. Ma un Samaritano, essendo in viaggio, venne presso di quello, e veduto (lo) si commosse; e avvicinatosi lasciò le ferite di lui versandovi sopra olio e vino; fattolo poi salire sul giumento (suo) proprio, lo condusse alla locanda ed ebbe cura di lui. E la dimane, messi fuori due denari, (li) dette al locandiere e disse: “Abbi cura di lui) e ciò che (tu) abbia speso in più io al mio ritorno ti renderò”. Il Samaritano era forse un mercante che andava per acquisti nel distretto di Gerico, e di li a poco sarebbe ritornato facendo il cammino inverso; era anche be­nestante, perché viaggiava su un giumento suo proprio. La pietà ch’egli senti subito per l’infelice l’indusse a curano come meglio po­teva in quella solitudine: applicò quindi alle ferite i medicinali del tempo, ossia l’olio emolliente e il vino disinfettante, e le fasciò con bende improvvisate; caricò poi di peso sul giumento quell’uomo inerte e imbambolato, e sostenendolo di fianco come meglio poteva lungo il tragitto lo portò fino alla locanda. Questo ricovero era certamente il caravanserraglio (§ 242) di quella strada; forse era situato sul posto dell’odierno Khan Hathrur, che una vecchia denominazione chiama anche « Castel del sangue », dal color rosso che le rocce ferrigne hanno in quel luogo, ma che spontaneamente fu applicato al sangue abitualmente sparso lungo la strada: di qui anche l’altra denominazione usuale di “Al­bergo del buon Samaritano”. I due denari d’argento, equivalenti a un po più di due lire in oro, erano una scorta sufficiente per prov­vedere a vari giorni di cura: del resto, se la scorta non fosse bastata, il Samaritano aveva promesso al locandiere di rimborsarlo del di più.

§ 440. La parabola era finita. Siccome il dottore aveva richiesto di sapere chi fosse il suo prossimo, cosi Gesù concluse la parabola pro­vocando la risposta dal dottore stesso: Chi di questi tre ti sembra che sia stato (il) prossimo di colui che s’era imbattuto nei ladronì? Il dottore naturalmente rispose: Quello che usò misericordia con lui. E allora Gesù: Va’, anche tu fa’ lo stesso! Si noterà l’apparente discrepanza fra la domanda del dottore (chi e’ il mio prossimo?) e la risposta di Gesù (anche tu fa’ lo stesso!); è una discrepanza di pura forma. Il dottore rimane nel campo delle idee: Gesu’ scende nel campo dei fatti, perché le più belle idee parole se non diventano fatti della vita; la vita e’ il paragone delle parole, e le parole più belle diventano efficaci solo quando siano pre­cedute e seguite da una vita di disinteresse e di sacrificio. E perciò al dottore che vuol sapere chi é il prossimo, Gesù mostra chi agisce da prossimo e aggiunge l’esortazione ad imitare costui. Nel caso della parabola, il prossimo del ferito erano ufficialmente più d’ogni altro il sacerdote e il Levita: ottima idea, pessimo risulta­to. In nessun modo era ufficialmente prossimo del ferito il Samaritano: pessima idea, ottimo risultato. I due ministri della religione nazionale non sentono il minimo palpito di pietà per il loro conna­zionale boccheggiante: lo straniero ed esecrato Samaritano fa per quell’infelice avrebbe fatto per suo padre e sua madre. Dei tre, solo il Samaritano agisce da prossimo, pur non essendo ufficial­mente “prossimo”; dunque qualsiasi uomo, di qualsiasi razza e fede, può essere prossimo perché può agire da prossimo.

Marta e Maria. Il « Pater noster » Parabole sulla preghiera

§ 441. Durante la sua peregrinazione Gesù giunse alle immediate vicinanze di Gerusalemme; entrato in un villaggio, che Luca non no­mina, fu ospitato da due sorelle di nome Marta e Maria. Sono le so­relle di Lazaro, delle quali parla anche Giovanni (11, I segg.), e per­ciò l’innominato villaggio deve essere Bethania; con l’insieme della narrazione concorda anche la situazione di Bethania che è sulla strada pericolosa da Gerusalemme a Gerico, e quindi, se la parabola del buon Samaritano fu recitata poco prima dell’arrivo a Bethania, occasione alla parabola fu fomita dai luoghi stessi ove Gesù era di passaggio. Nella casa ospitale, certamente già nota a Gesù, chi appare gover­nante è Marta, probabilmente la più anziana delle due sorelle ch’era­no forse orfane: e non per nulla si chiama Marta (in aramaico “si­gnora”), giacché ella provvede a tutto, dispone tutto, per fare degna accoglienza all’ospite e amico venerato. Il fratello Lazaro non figura affatto in questo episodio e non è neppur nominato; era egli forse appartato e già in preda a quella malattia che pochi mesi più tardi l’avrebbe condotto alla sua quatriduana dimora nella tomba (§ 489)? Non è impossibile, ma non sappiamo nulla di preciso. Quanto a Maria, ella sfrutta l’incessante operosità di sua sorella per starsene tranquillamente vicino a Gesù; dal momento che la brava Marta bada a tutto, la sorella minore ha agio d’ascoltare dalla bocca di Gesù quelle parole che trascinano folle e tramutano cuori. Marta va e viene affaccendata, passando per la stanza dei due, e cerca di raccogliere anch’essa talune delle parole di Gesù: ma la spigolatura è scarsa, perché sono molte le faccende domestiche; cosicché ad un certo punto un’amorevole invidiuzza – o meglio emulazione – verso la sorella, nonché una certa dimestichezza con l’amico di casa Gesù, la rendono ardita ad accenti di confidenza; fattasi dappresso disse: Signore, non t’importa che mia sorella mi abbia lasciata sola a ser­vire? Dille dunque che s’unisca ad aiutarmi! In altre parole Marta, solerte massaia e devota ammiratrice di Gesù, fa notare che, sbri­gando più presto in due le faccende domestiche, le sorelle unite in­sieme potranno più tranquillamente godere della parola del maestro. Senonché Gesù, con confidenza eguale ma animata da un’idea ben più alta, le risponde: Marta, Marta! Ti preoccupi ed agiti per molte cose, mentre di poche c’e’ bisogno o d’una sola. Maria, in realtà, si scelse la porzione buona, la quale non le sarà tolta. Erano infatti molte le cose materiali a cui badava la buona Marta, ma queste molte si potevano ridurre a poche, data la frugalità di Gesù e dei suoi discepoli presenti; e anche queste poche cose mate­riali erano trascurabili davanti a quell’una sola, ma spirituale, a cui convergeva tutta l’operosità di Gesù. Non aveva egli ammonito, nel Discorso della montagna, di cercare in primo luogo il regno di Dio con la certezza che esso avrebbe portato con sé per soprappiù tutto il resto? Quella era la porzione buona che Maria si era scelta.

§ 442. Subito dopo l’episodio di Bethania, Luca colloca l’insegnamento del Pater noster, che Matteo invece ha già riportato nel Di­scorso della montagna. La collocazione di Luca, come già rilevammo (§ 371), sembra più a suo posto storicamente, perché ha la seguente introduzione che dà ragione dell’insegnamento. E avvenne che, men­tre egli era in un certo luogo pregando, appena terminò, uno dei suoi discepoli gli disse:”Signore, insegnaci a pregare, come pure Giovanni (il Battista) insegnò ai discepoli suoi”. Disse quindi loro:” Quando preghiate, dite: Padre, ecc.”. Ma fu questa veramente la prima volta che Gesù insegnò a pregare ai suoi discepoli? Se si ri­sponde in maniera affermativa resta da spiegare come mai Gesù, dopo tante norme di formazione spirituale impartite a quei suoi pre­diletti, non avesse mai toccato questo punto così importante rele­gandolo agli ultimi mesi di sua vita. Ovvero questa volta Gesù tornò sopra a un argomento già trattato, spiegandolo e confermandolo sem­pre meglio? Ciò sembra più verosimile; e allora le collocazioni sia di Luca che di Matteo avrebbero ciascuna la sua parte di ra­gione. Se pertanto questo rinnovato insegnamento del Pater noster avvenne poco dopo l’episodio di Bethania, è anche naturale che avvenisse nei pressi di Bethania. Nel secolo IV si additava il vicino monte degli Olivi come luogo ove Gesù ammaestrò i discepoli, ma solo verso il secolo IX si hanno le prime affermazioni che ivi fosse insegnato il Pater noster. Nell’anno 1345 Nicolò da Poggibonsi scriveva: … Vai a monte Uliveto; e a parte destra, sopra la via, si e’ un muro, insu una chiesa, ma ora si e’ guasta, che non c’e’ se non l’amattonato. Di sotto si c’è una cisterna, e al ponente, in sul muro, si c’e’ una grande pietra, nella quale si vedea scritto tutto il Paternostro. E ivi il nobile Jesu’ Cristo fece il Paternostro, e diello agli Apostoli (Libro d’Oltra­mare, I, pag. 165). Oggi, nella rinnovata chiesa dell’Eleona, presso la vetta del monte degli Olivi, la prima preghiera cristiana è parimente scolpita in lin­gue d’ogni stirpe umana.

§ 443. Insegnata la formula, Gesù continuò l’insegnamento sulla preghiera illustrandone particolarmente le principali qualità, che erano la tenacia e la fiducia. La preghiera, secondo Gesù, doveva essere tanto insistente e tenace, da sembrare quasi petulante: la norma infatti viene illustrata con una breve parabola, che è un bell’esem­pio di petulanza palestinese. In un villaggio qualsiasi vi sono due amici, uno dei quali a notte inoltrata riceve la visita d’un suo conoscente che è in viaggio e desi­dera alloggiare quella notte presso di lui. Un giaciglio si fa presto a prepararglielo; ma il viandante ha pure fame, e come si fa a ser­virlo se tutto il pane disponibile in casa è stato consumato nella cena di quella sera? Non resta che andare a chiederne in prestito; ma dove andare, che l’ora è tarda e tutti dormono? Non c’è da tentare cbe presso l’amico; è già mezzanotte, ma avrà pazienza e farà questo fa­vore. Difatti l’amico ospitante va all’uscio dell’altro e comincia a bussare a distesa: Ebi! Ehi! Prestami tre pani. E capitato da me un conoscente in viaggio, e non ho che mettergli davanti? – Quello di dentro, risvegliato bruscamente, pensa ch’è un’indiscrezione bell’e buona: Non mi dar seccature! La porta e’ già inchiavata, e i miei figlioli stanno con me a letto! Non posso alzarmi!… Ma se quello di fuori non si lascerà disanimare dalla prima ripulsa, e seguirà inve­ce a bussare e strepitare, quello di dentro alla fine cederà, se non in forza dell’amicizia, certo in forza della seccatura. E Gesù concluse: Anch’io dico a voi: “Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto. Ognuno infatti che chiede riceve, e che cer­ca trova, e che bussa gli sarà aperto”. Ciò valeva per la tenacia della preghiera. Ma da quale considerazione morale doveva essere alimentata quella tenacia? Donde proveniva la fiducia d’esser esauditi? Anche questo punto fu illustrato da Gesù con brevi esempi pratici. A chi di voi, essendo padre, il figlio domanderà un pane, gli darà forse un sasso? oppure anche un pesce, forse invece d’un pesce gli darà un serpente? oppure chiederà un uo­vo, gli darà uno scorpione? (Luca, 11, 11-12). (Infatti i grossi scor­pioni palestinesi hanno il ventre ovale e biancastro, cosicché, visti rovesciati, dànno l’impressione d’un uovo). In questo modo, dunque, si comportano i padri terreni; ciò offre il terminus a minori alla com­parazione che fa Gesù, il quale prosegue: Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare doni buoni ai vostri figli, quanto più il Padre vostro, quello nei cieli, darà cose buone a quei che lo pregano? (Matteo, 7, 11).

Guarigione di un indemoniato e calunnie dei Farisei. Più beati della Madre di Gesù. Il segno di Giona.

§ 444. Alle istruzioni sulla preghiera Luca fa seguire la guarigione di un indemoniato muto (Luca, 11, 14 segg.). La stessa narrazione si ritrova in Matteo (12, 22 segg.), ove però l’indemoniato è anche cieco oltreché muto (cfr. S. Agostino, De cons. evangelist., II 37); inoltre la discussione con i Farisei che seguì alla guarigione si ritro­va in Marco (3, 22 segg.), ov’è collocata in mezzo alla visita dei pa­renti di Gesù (§ 345). La collocazione di Luca, che mette guarigione e discussione durante questa permanenza nella Giudea è da preferirsi a quella degli altri due Sinottici che l’anticipano. Gesù dunque, a cui era stato presentato un indemoniato muto (oltre­ché cieco), lo guarì pubblicamente. Al fatto si trovarono presenti alcuni Scribi giunti da Gerusalemme e alcuni Farisei, i quali non ne­garono la guarigione ma la spiegarono affermando che Gesù coman­dava ai demonii perché egli stesso se la intendeva col principe dei de­monii Beelzebul, e con l’autorità di costui agiva. Il nome di questo principe era stato anticamente Ba’ al zebub, “Baal (dio) delle mo­sche”, e aveva designato una divinità filistea di Accaron (cfr. II[Iv] Re, 1, 2 segg.); più tardi, invece, designò l’oggetto dell’idolatria in genere, e allora il nome con leggiera mutazione fu cambiato in Ba’ al zebul, “Baal del letame”, per allusione dispregiativa agli idoli ed alloro culto. Gesù, pertanto, sarebbe stato in amichevoli relazioni con questo principe. All’ingiuria degli Scribi e dei Farisei Gesù rispose nella maniera me­no gradita ad essi, cioè invitandoli ad un sereno ragionamento. Riferendosi pertanto all’angelologia del giudaismo contemporaneo (§ 78), Gesù fece osservare che il regno di Satana era un regno gerar­chicamente costituito e ben compatto, mentre se fosse stato diviso in se stesso sarebbe caduto in rovina. Come dunque voi, Scribi e Farisei, potete affermare che io scaccio Satana nel nome di Satana? In tal caso il suo regno sarebbe diviso e cadrebbe in rovina. Del resto anche voi, Scribi e Farisei, avete i vostri esorcisti; ebbene, do­mandate ad essi se è possibile scacciare Satana in nome di Satana, ed essi vi giudicheranno nella vostra calunnia contro di me. Se poi scaccio i demonii nel nome di Dio, e li scaccio io personalmente con tanta facilità e li fo anche scacciare dai miei discepoli, tutto ciò di­mostra che qualcosa di straordinario si compie in mezzo a voi, cioè che e’ giunto su voi il regno d’iddio. Ma voi non vedete tutto ciò perché non volete vedere, e davanti al fulgore della luce chiudete ostinatamente gli occhi; il che significa peccare direttamente contro lo Spirito santo fonte di luce per voi, significa sbarrare le strade di salvezza appianatevi da Dio e frustrare i suoi disegni. Badate però che ogni peccato e bestemmia sarà rimessa agli uomini, ma la bestem­mia dello Spirito non sarà rimessa; e chi dica parola contro il figlio dell’uomo gli sarà rimessa, ma chi (la) dica contro lo Spirito santo non gli sarà rimessa né in questo secolo né in quello venturo. Rima­ne in oscurità eterna chi non vuole disserrare gli occhi dell’anima alla luce dello Spirito; e non basta disserrarli momentaneamente ma è necessario tenerli sempre aperti, perché Satana espulso una volta torna all’assalto del suo antico dominio.

§ 445. A questa discussione erano presenti anche persone favorevoli a Gesù; ed ecco d’in mezzo ad esse levarsi una voce di donna che grida a Gesù: Beato il ventre che ti portò, e le mammelle che succhiasti! La felicitazione, squisitamente femminile, è riportata dal solo Luca (§ 144). Gesù accolse la felicitazione, ma nello stesso tempo la sublimò rispondendo: Ancor più beati quelli che ascoltano la parola d’iddio e (la) custodiscono. Una risposta sostanzialmente eguale Gesù aveva già data a coloro che gli annunziavano esser giunti i suoi parenti e sua madre per parlargli (§ 345). discussione, dopo il grido della donna, riprese. Alcuni Scribi e Farisei, mostrando quasi una certa condiscendenza, si di­chiararono disposti a riconoscere la missione di Gesù: ma natural­mente ci volevano le prove, i “segni”, e questi non potevano essere i miracoli operati fino allora da Gesù; ci voleva invece un “segno” di tipo rabbinico, di quelli fatti a tempo e luogo prestabiliti, quasi a tocco di bacchetta magica, e meglio ancora se fosse stato un “se­gno” meteorologico calato dal cielo. Era in sostanza la richiesta fat­ta poco prima a Gesù da altri Farisei (§ 392). Anche questa volta la richiesta è respinta da Gesù, il quale però ag­giunge talune dichiarazioni: Una generazione perversa e adultera ricerca un segno, e un segno non le sarà dato se non il segno di Giova il profeta. Poiché, come Giona era nel ventre del cetaceo tre giorni e tre notti, cosi sarà il figlio dell’uomo nel cuor della terra tre giorni e tre notti. L’espressione giorno e notte designava nell’uso rab­binico il complesso di 24 ore, fosse questo complesso intero o soltanto frazionario; perciò qui Gesù annunzia che il figlio dell’uomo sarà nel cuor della terra durante tre complessi di 24 ore, interi o fraziona­ri; e poi ne risalirà fuori come Giona dal suo cetaceo. Dal momento che i Farisei respingono gli altri segni e ne richiedono uno con parti­colari condizioni, accolgano questo segno di Giona che risponde in gran parte alle loro condizioni: esso infatti avverrà a tempo presta­bilito, cioè alla morte del figlio dell’uomo; se non calerà dal cielo aperto ove dimorano gli angeli potenti, sorgerà in compenso dall’abis­so chiuso ove dimorano i morti impotenti (§ 79); infine, non rappre­senterà un puntiglio di potenza personale perché il figlio dell’uomo avrà cessato allora le sue presenti contese e si troverà nel cuor della terra, ma in compenso il segno rappresenterà il trionfo di un’idea come il fatto di Giona rappresentò il trionfo della “penitenza” presso gli abitanti di Ninive. Uomini Niniviti sorgeranno nel (giorno del) giudizio con questa generazione e la condanneranno, perché fe­cero penitenza alla predicazione di Giona: ed ecco, più che Giona è qui. Lo stesso farà in quel giorno la regina di Saba, venuta dalle estremità della terra ad ammirare la sapienza di Salomone (I [III] Re, 10,1 segg.): ed ecco, più che Salomone e’ qui. L’allusione al triplice “giorno e notte” da passare nel cuore della terra fu capita bene dai Farisei. Appena morto Gesù, essi correranno da Pilato raccomandandosi che provveda in tempo, giacché essi in quell’occasione si ricordano che quell’imbroglione (cioè Gesù) disse essendo ancora vivo: “Dopo tre giorni risorgo” (§ 619). Cosicché anche il segno di Giona, rispondente in gran parte alle condizioni da loro poste, verrà da loro respinto: essi si raccomanderanno a Pilato per paura che il nuovo Giona risalga dal cuor della terra, per paura che la loro cecità sia illuminata, e per paura che essi non possano ancora bestemmiare lo Spirito santo.

Gesu’ a pranzo da un fariseo. Invettive e ammonizioni.

§ 447. Evidentemente il dissidio tra i Farisei e Gesù diventava sem­pre più grave e profondo. I primi non perdonavano a Gesù la sua indipendenza dal formalismo legale, la quale egli in mille occasioni proclamava con le parole e dimostrava con i miracoli. Gesù, dal canto suo, non cessava dal redarguire con le parole più severe la vacuità spirituale ricoperta dal formalismo farisaico, l’ostinazione pervicace di quegli uomini della Legge e la loro orgogliosa tracotan­za: egli inoltre mostrava di aver sentito intimamente l’ingiuria da es­si rivoltagli, allorché lo avevano designato come amico e ministro di Beelzebul. Tuttavia, poco dopo i fatti precedenti, un Fariseo invitò Gesù a pran­zo: non sappiamo se facesse ciò mosso da una certa simpatia per il discusso Rabbi oppure dal desiderio d’implicarlo in questioni insi­diose, ad ogni modo nessuno più di un Fariseo era abile nel salvare le apparenze e nel distingnere la teoria dalla pratica. Gesù accettò l’invito, ed entrato nella camera da pranzo si adagiò senz’altro sul suo divano in attesa delle vivande. Questa maniera di comportarsi era una mancanza farisaicamente assai grave: Gesù veniva dalla strada e dal contatto con la folla, e osava prender cibo senza prima aver praticato le accurate lavande di pre­scrizione? Il Fariseo ospitante ne rimase disgustato; in cuor suo egli pensò che il suo ospite, invece d’un autorevole rabbi, non era che uno di quei “tangheri” a cui Giuda il Santo non avrebbe dato un tozzo di pane neppure se l’avesse visto morir di fame (§ 40): e invece il Fariseo ospitante aveva commesso la dabbenaggine d’in­vitarlo a pranzo. I sentimenti interni del Fariseo gli si leggevano sul viso: Gesù li lesse, e ne segui una serrata disputa. Disse Gesù: Voi dunque, Farisei, mondate l’esterno della coppa e del piatto, ma il Vostro interno e’ ripieno di rapina e malvagità! Stol­ti! Forseché chi fece l’esterno non fece anche l’interno? Piuttosto date in elemosina le cose contenute (in quei recipienti), ed ecco che tutto diventerà per voi puro! – Ma guai a voi, Farisei, perché pagate la decima della menta e della ruta e d’ogni legume, e trasgredite l'(equità nel) giudizio e l’amore di Dio! Invece, queste cose bisognava fare e quelle non tralasciare. – Guai a voi, Farisei, perché amate il primo seggio nelle sinagoghe (§ 63) e i saluti nelle piazze! – Guai a voi, perché siete come i sepolcri invisibili, e gli uo­mini che (ci) camminano sopra non (li) sanno! E ben lecito supporre che, alle prime note di questa musica, il pranzo finisse li’ e che le in­vettive sostituissero le vivande. Il Fariseo ospitante e i suoi soci di “colleganza” (§ 39) avranno risposto come meglio potevano; ma as­sistevano a quel pranzo anche taluni maestri di Legge (§ 41), i quali si sentirono chiamati in causa almeno implicitamente, tanto che uno di essi replicò risentito: Maestro, dicendo ciò insulti anche noi! Ma anche egli e i suoi colleghi ebbero la loro parte, giacché l’indomabile Rabbi riprese: E anche a voi legisti, guai! Perché caricate gli uomi­ni di carichi mal sopportabili, e voi con un solo dei vostri diti non toccate quei carichi! – Guai a voi, perché costruite i sepolcri dei profeti, mentre i vostri padri li hanno uccisi! Dunque siete testimoni e consentite alle opere dei vostri padri, perché essi li hanno uccisi e voi costruite. .. Guai a voi, legisti, perché toglieste la chiave della scienza, (ma) voi non entraste ed impediste coloro ch’entravano! (Luca, lì, 39-52).

§ 448. In queste invettive Gesù ha di mira la pratica e non la teo­ria, la generalità e non i singoli. In teoria i rabbini, almeno dopo l’Era Volgare, insegnarono più d’una volta che la dottrina doveva esser congiunta con l’esempio personale, e che era cosa riprovevole esser più severo con gli altri che con se stesso ; quanto alla pratica, lo storico prudente non ha che da rimettersi al giudizio degli stessi in­teressati, cioè al riportato passo del Talmud che descrive i sette tipi diversi di Farisei (§ 38). Non tutti e singoli i Farisei e gli Scribi meri­tavano queste invettive, senza dubbio; ma Gesù s’indirizza, non ai singoli, ma alla generalità, e questa le meritava senza dubbio. Se poi Gesù rinfaccia loro di costruire i sepolcri ai profeti, non è per rim­proverarli dell’opera in sé pia: è piuttosto perché la pietà si limitava all’opera materiale, mentre spiritualmente quei che costruivano sepolcri ai profeti continuavano con la loro condotta morale l’opera dei padri loro che avevano ucciso gli stessi profeti: i figli, mentre confessavano d’aver nelle loro vene il sangue dei padri, mostravano con i fatti di averne ereditato anche lo spirito (cfr. Matteo, 23, 29 segg.). In particolare i legisti e gli Scribi si erano arrogati il mono­polio della Legge mosaica, e di questa torre d’avorio pretendevano di possedere essi soli la chiave: ma era una chiave monca e ruggi­nosa, che poteva aprire a mala pena gli accessi esterni di quella tor­re i quali si chiamavano “lettera morta”, mentre né ai possessori della chiave né ad altri essa permetteva d’inoltrarsi fino ai penetrali interni i quali si chiamavano “carità viva”. Il risultato di quel battagliero pranzo fu quale ci potevamo facilmen­te attendere. Uscito egli (Gesù) di là, gli Scribi e i Farisei comincia­rono ad essere terribilmente indignati (contro di lui) e ad assillano di questioni su molti punti, tra­mandogli insidie per cogliere alcunché dalla sua bocca. L’antica lot­ta, dunque, diveniva sempre più serrata, e tutto lasciava prevedere una conclusione prossima.

§ 449. Da quanto era avvenuto Gesù trasse argomento per impartire avvisi ai suoi seguaci. La folla, in questa congiuntura di tempo, si era moltiplicata al punto da esserne in pericolo l’incolumità perso­nale degli accorsi (Luca, 12, 1): e qui Luca fa pronunziare a Gesù un discorso i cui elementi si ritrovano quasi tutti in Matteo ma spar­pagliati. – Si guardino i suoi discepoli dal fermento dei Farisei, ch’è ipocrisia (§ 393). Nessun discepolo è dappiù del proprio maestro; se dunque Gesù è stato chiamato Beelzebul (§ 444), i suoi discepoli non dovranno aspettarsi un trattamento migliore (Matteo, 10, 25). Essi tuttavia parlino con tutta apertura e franchezza: non v’è nulla di occulto che non debba esser rivelato, e ciò ch’essi hanno udito in se­greto lo palesino dall’alto dei tetti. Non temano essi di coloro che possono soltanto uccidere il corpo ma non l’anima; temano invece di colui che può mandare in rovina corpo e anima nella Geenna. Non si preoccupino della propria esistenza, ma si affidino alle predi­sposizioni del Padre celeste che sorveglia su ogni cosa; i passeri dei campi valgono un’inezia, perché se ne comprano cinque per due assi (13 centesimi), eppure nessuna di quelle bestiole è dimenticata da Dio: stiano dunque tranquilli i discepoli perché essi valgono assai più di molti passeri messi insieme, e perché tutti i capelli delle loro teste sono contati. Chiunque pertanto confesserà davanti agli uomini il figlio dell’uomo, costui lo confesserà davanti al Padre celeste e agli angeli di Dio, ma chiunque lo rinnegherà sarà da lui rinnegato. Nè si preoccupino i discepoli della propria difesa oratoria quando sa­ranno citati al giudizio delle sinagoghe e dei vari tribunali, perché lo Spirito santo insegnerà loro in quel momento ciò che dovranno dire per difendersi. Anche in quest’ultima norma Gesù si mostra capovolgitore (§ 318). Preoccupazioni di difesa oratoria non aveva avute neppure Socrate, quando si presentò al tribunale per uscirne condannato a morte: Le cose infatti stanno così. Io adesso per la prima volta sono salito in tribunale, all’età di settanta anni; sono quindi imperito e straniero al parlare di qui (Apologia di Socrate, 1). Il filosofo ateniese parlò con sincerità perfetta, con franchezza assoluta; rna il suo discorso -almeno nella forma pervenutaci – è disposto secondo tutte le norme classiche dell’oratoria forense, con esordio, proporzione, confutazione delle accuse, perorazione e controproposta di pena. Né egli parlò in virtù di altri, ma in virtù sua propria; parlò egli Socrate, non già il suo abituale (§ 194). Quel suo arcano genio ispiratore, mentre in altre occasioni gli si era opposto internamente affinché non operasse alcunché di inopportuno, in quella mattina del giudizio non intervenne in nessuna maniera: A me infatti, o uomini giudici, – e chiamandovi giudici intendo chiamarvi esattamente – e’ accaduto alcunché di meraviglioso. Infatti l’ispirazione a me abituale era sempre assai frequente in tutto il tempo passato e si opponeva anche in cose assai minute, se io fossi stato per operare a­cunché non rettamente. Adesso invece… il segno del Dio non mi si oppose né all’uscire stamane di casa, nè quando salivo qui in tribu­nale, nè in alcun punto del discorso quando stavo per dire alcunchè; eppure in altri discorsi mi trattenne a mezzo in molti punti mentre parlavo: adesso invece non mi si e’ opposto giammai in tutto ciò che ho fatto o detto in questo negozio (Apologia, 31). Nei seguaci di Ge­sù avverrà un fenomeno ben più importante di quello di Socrate. In essi lo Spirito non agirà solo negativamente, come il socra­tico che impediva il non retto ma non suggeriva il retto; invece lo Spirito stesso suggerirà le parole di difesa e porrà un’efficace apolo­gia in bocca ai calunniati. I quali perciò potranno e dovranno tra­scurare l’oratoria forense.

Questioni finanziarie. La suprema aspettativa

§ 450. Un giorno, durante questo vago peregrinare di Gesù, un tale si presentò a lui pregandolo che interponesse la sua autorità in una questione finanziaria: Maestro, dì a mio fratello di spartire con me l’eredità (Luca, 12, 13). Assai imprudentemente siffatto invito era n­volto a colui che nel Discorso della montagna aveva contrapposto nettamente Dio e Mammona (§ 331); la risposta adeguata non po­teva essere che una esortazione di lasciare l’intero Mammona a chi lo deteneva e di passar totalmente alla parte di Dio. Gesù invece dette una risposta inadeguata, non entrando neppure nell’argomento dell’invito: O uomo, chi mi costituì giudice o spartitore a vostro ri­guardo? Si direbbe quasi che il denaro per se stesso faccia ribrezzo a Gesù, e che egli tema imbrattarsi le mani anche maneggiandolo in servizio. Non vuoi saperne nulla. All’invito respinto seguirono considerazioni sulla fallacia dei beni materiali, illustrate da una parabola. C’era un uomo ricco, a cui un annata i campi fruttarono in misura abbondantissima. Su tutto quel raccolto egli si concentrò col pensiero, cercando modo di allo­garlo e conservarlo per bene. E cominciò a dire: Butterò giù i miei granai e ne costruirò di maggiori, e là disporrò convenientemente questa gran raccolta! – Tutto contento per questa sistemazione, passò a rallegrarsi con se stesso: Allegro, che hai l’abbondanza assicurata per molti anni! Sta’ tranquillo, mangia, bevi e divertiti! – Ma ecco che improvvisamente interviene come nuovo attore di scena Dio stesso, il quale dice a quel ricco beato: Stolto, questa notte tu dovrai morire, e tutti quei tuoi beni di chi saranno? – Tale è la sorte, concluse Gesù, di chi tesoreggia per se stesso, e non e’ ricco in Dio. Soggiunse poi, riannodandosi ai concetti del Discorso della montagna: Non temere, o piccolo gregge! Poiché si compiacque il vostro Padre di dare a voi il regno. Vendete le vostre sostanze e date elemosina; fatevi borse che non s’invecchiano, tesoro non manchevole nei cieli!… (§ 330) (Luca, 12, 32-33). E’ comunismo tutto ciò? E’ assai più che comunismo, perché è altruismo della carità; è precisamente quell’altruismo totale ed asso­luto, che per un principio sovrumano provvede materialmente agli altri fino a trascurare se stesso: vendete le vostre sostanze e date ele­mosina. D’altra parte il comunismo odierno, nella sua intima essen­za, non ha neppur l’ombra della dottrina di Gesù, perché non cono­sce affatto le borse che non s’invecchiano e il tesoro non manchevole nei cieli: gli manca cioè la suprema aspettativa.

§ 451. Su questa aspettativa infatti tornò di lì a poco Gesù, come sulla più profonda base di tutti i suoi insegnamenti. Perché rinunzia­re alle ricchezze? Perché confidare solo nel tesoro dei cieli? Perché considerare tutto il mondo presente come un’ombra fugace? A que­ste domande rispose Gesù ammonendo: Siano i vostri fianchi recinti e le lucerne accese (tale era la tenuta notturna dei famigli pronti a servire), e voi (siate) simili ad uomini: aspettanti il loro signore quando torni dalle nozze, affinché venuto che sia e bussato che abbia subito gli aprano. Il padrone era partito avvertendo la servitù che sarebbe andato ad una festa di nozze, e perciò il suo ritorno non poteva essere che a notte assai inoltrata (§ 281); ma i premurosi servi vogliono ch’egli non attenda alla porta neppure un istante, ed essi passano le ore notturne vegliando con i fianchi recinti e le lucerne accese e con l’orecchio teso all’arrivo di lui. Beati quei servi che il signore venuto troverà veglianti! Commos­so da tanta cura, quel buon padrone si cingerà egli stesso i fianchi, li farà adagiare a mensa e li servirà: egli infatti ha già cenato alle noz­ze, ma quei bravi servi non hanno avuto tempo di prepararsi un po’ di cibo per l’ansia di tenersi pronti mentre passavano in sollecita attesa la seconda e la terza vigilia della notte (§ 376). Nella stessa guisa un solerte padrone di casa fa sorvegliare tutta la notte, perché non sa in quale ora il ladro possa venire a scassinare la casa: volen­do il padrone esser sicuro, diffida di qualunque ora e durante l’intera notte mantiene la sorveglianza. Onde Gesù concluse: Anche voi siate preparati, perché in quell’ora che non credete il figlio dell’uomo viene. Qual è questa “venuta” del figlio dell’uomo? E’ quella che mostrerà palesemente il risultato perenne e immutabile degli insegnamenti di Gesù. Aveva egli parlato della rinunzia alle ricchezze, contrapponen­do ad esse il tesoro nei cieli. Ma perché rinunziare alle ricchezze? Perché considerare il mondo presente come un’ombra fugace? Ap­punto perché si effettuerà questa “venuta” del figlio dell’uomo; la quale dissiperà l’ombra fugace e disvelerà la realtà perenne, farà sfumare le ricchezze terrene accumulate e distribuirà l’invisibile te­soro celeste, adempirà le speranze di coloro che hanno sperato in quella “venuta” e fisserà in eterno la loro sorte beata. Beati quei servi che il signore venuto troverà veglianti!.

§ 452. Pietro domandò spiegazioni a Gesù: Signore, a noi dici que­sta parabola, o anche a tutti? Egli era rimasto colpito dell’annunzio che il padrone dei premurosi servi si metterà egli stesso a servire i servi per premiarli della loro premura, e voleva sapere se questa era la sorte di alcuni privilegiati soltanto, ovvero di tutti. Gesù rispose introducendo un elemento nuovo, cioè i servi eventualmente trascu­rati e infingardi, e stabilendo una graduazione fra i doveri e le re­sponsabilità dei servi in genere. C’è un servo zelante ch’è stato desti­nato, durante l’assenza del padrone, a dispensare i viveri agli altri servi; se egli eseguirà fedelmente questa incombenza, il padrone al suo ritorno lo premierà eleggendolo amministratore di tutti i suoi averi. Se invece quel dispensiere, approfittando della prolungata as­senza del padrone, si darà a spadroneggiare egli stesso, a battere gar­zoni e ancelle, e a far orge ed ubriacarsi, il padrone al suo improv­viso ritorno lo punirà di castigo severissimo, mentre con castighi mi­nori punirà anche gli altri servi che abbiano mancato in misure mi­nori; rimane infatti il principio generico che a chiunque fu dato molto, molto sarà ricercato a lui; e a chi fu affidato molto, maggior­mente si domanderà a lui (Luca, 12, 35-48). Dunque, la « venuta » del figlio dell’uomo apporterà come elemento comune a tutti la stabilità immutabile della propria sorte, ma in questo elemento comune vi saranno differenze e graduazioni; soprat­tutto, poi, il tempo preciso della “venuta” è ignoto.

Il segno di contraddizione. Urgenza del cambiamento di mente.

§ 453. Insegnamenti di questo genere rovesciano la stratificazione dei pensieri umani. Non erano le elucubrazioni dei casuisti Parisei sull’uovo fatto dalla gallina di sabbato (§ 251) e sulle sciacquature di mani e di stoviglie prima di mangiare: era un incendio che metteva tutto a soqquadro in quel mondo concettuale giudaico, e che più tardi propagherà le sue fiamme anche in altri mondi. Lo riconobbe Gesù stesso, proclamando dopo le precedenti dichiarazioni: Un fuoco venni a gettare sulla terra, e che voglio se e’ già acceso? Se è un fuoco, sarà una prova attraverso cui passeran­no i seguaci di Gesù. Vi passerà anzi, per primo, Gesù stesso: Ma d’un battesimo ho da esser battezzato, e come sono angustiato fino a che sia compiuto! Il metaforico battesimo di Gesù segnerà il divam­pare palese del fuoco; ma battesimo e fuoco sono ambedue una prova, il primo per Gesù, l’altro per tutta la terra. La prova della terra apporterà su essa, non già pace e concordia, ma guerra e discordia. Continua infatti Gesù descrivendo gli effetti della sua dottrina sulla terra: avverranno scissioni e lotte in una famiglia di cinque persone, e tre si schiereranno contro due, e due contro tre; il padre si metterà contro il figlio e viceversa, la madre contro la figlia e viceversa, la suocera contro la nuora e viceversa. Prima, tutti erano d’accordo; ma penetrato che sia in quelle cinque persone il messaggio di Gesù, è penetrata fra esse la discordia, perché alcuni lo benedicono e altri lo maledicono (Luca, 12, 49-53). Già il vecchio del Tempio, più di trenta anni prima, aveva contemplato Gesù quale segno contraddetto (§ 250): la persona di Gesù e la sua dottrina saranno il segno di contraddizione per tutto il genere umano. Anche qui lo storico odierno può facilmente riscontrare se queste idee espres­se venti secoli fa abbiano reale riscontro nei fatti storici di allora e dei secoli seguenti fino ad oggi. Intanto Farisei e Sadducei, mescolati con le turbe, seguivano passo passo Gesù mirando al loro scopo di raccogliere prove contro di lui. Gesù ne trasse occasione per rivolgere esortazioni in comune ad essi ed alle turbe. I giorni passano, gli eventi precipitano, e costoro invece di provvedere ai loro supremi interessi si arrovellano per ostaco­lare il regno di Dio. Ma non vedono essi ciò che accade attorno a loro? Non riconoscono i segni dei nuovi tempi morali? I segni dei tempi materiali essi sanno ben riconoscere quando di sera scorgono una nuvola che viene su da ponente, dicono subito che verrà la piog­gia; quando invece soffia vento da mezzogiorno, dicono che farà caldo; così infatti avviene. E dai segni morali manifestatisi da Gio­vanni il Battista in poi non scorgono essi, ipocriti, che è venuto il tempo di rinnovamento spirituale e di « cambiamento di mente » (§ 266)? Il vecchiume sarà inesorabilmente abolito; e vi sono ancora dei ciechi che non scorgono la novità che si attua, e pretendono ri manere attaccati al vecchiume? Aprano gli occhi, vedano, e giudi­chino essi stessi ciò ch’è necessario prima che sia troppo tardi (Luca, 12, 54-57).

§ 454. Un paio di fatti di cronaca offrirono di lì a poco occasione per tornare sullo stesso argomento. A Gesù, galileo, fu riferita in quei giorni la strage che il procuratore romano Pilato aveva fatta di cer­ti Galilei mentre offrivano sacrifizi nel Tempio (§ 26). Gesù allora, riferendosi alla vecchia opinione ebraica secondo cui il male mate­riale era sempre punizione di un male morale (§ 428), rispose: E cre­dete voi forse che quei Galilei rimasti uccisi fossero peccatori più di tutti gli altri Galilei, essendo capitata loro questa sorte? Tutt’altro; vi dico infatti che se non « cambierete di mente », tutti nella stessa guisa perirete. Col fatto recentissimo ne ricollegò poi Gesù un altro, avvenuto poco prima egualmente a Gerusalemme; ivi nel quartiere del Sibe (§ 428), cioè alla periferia dell’abitato, era crollata improv­visamente una torre che faceva parte del sistema difensivo della città, del quale scavi recenti hanno rimesso in luce varie tracce: crol­lando, la torre aveva travolto ed ucciso diciotto persone. Ebbene – soggiunse Gesù – credete voi che quei diciotto infelici fossero più colpevoli di tutti gli altri abitanti? Tutt’altro; vi dico infatti che se non abbiate “cambiato di mente”, tutti egualmente perirete (Lu­ca, 13, 1-5). Qual è la fine qui minacciata agli impenitenti. Si osservi come am­bedue i fatti citati quali esempi contengano una fine violenta, perché le vittime di Pilato muoiono di spada e le vittime della torre muoio­no schiacciate: erano le morti ordinarie nelle guerre e negli assedi di allora, e basta leggere la Guerra giudaica di Flavio Giuseppe per tro­vare ad ogni pagina morti di spada o di schiacciamento (oltreché di fame) durante tutto l’assedio di Gerusalemme. Qui dunque si minac­cia una fine tra violenze abitualmente guerresche, alle quali invece non era stato fatto alcun cenno nelle precedenti parabole dei servi che aspettano la venuta del padrone. Là infatti si trattava di un fatto assolutamente inevitabile, sebbene da attuarsi in un tempo ignoto, cioè della “venuta” del figlio dell’uomo il quale fisserà a ciascuno la propria sorte; qui invece la fine violenta è senz’altro evitabile, ba­stando a tale scopo ricorrere al “cambiamento di mente”. Le parole di Gesù sono nettissime nel loro dilemma O non cambierete di mente, e allora tutti perirete come nei due esempi; oppure cambie­rete di mente, e allora vi sottrarrete alla fine violenta degli esempi. Senza alcun dubbio il “cambiamento di mente” rappresenta qui lo scopo della missione di Gesù; questa missione è presentata come un’ultima dilazione offerta da Dio al prediletto popolo giudaico affinché si converta; in caso negativo, le minacce si eseguiranno. Tutto ciò è chiaramente confermato nella breve parabola soggiunta subito da Gesù. C’era un uomo il quale aveva nella sua vigna un albero di fichi che non faceva frutto. Disse pertanto al vignaiuolo: Son già tre anni che vengo a cercar frutti da quest’albero e non ne trovo; perciò taglialo via, giacché non dà frutto e isterilisce anche il terreno attorno! Ma il vignaiuolo intercedette: Padrone, làscialo stare ancora quest’anno. Io zapperò torno torno alle radici, ci met­terò letame, e poi vedremo: se darà frutto, bene; altrimenti, dopo quest’ultima prova, lo taglierai via! (Luca, 13, 643). Il simbolismo è trasparente. Già rilevammo che i tre anni di sterilità dell’albero sembrano alludere alla durata della vita pubblica di Ge­sù (§ 178), della quale allora correva appunto il terzo anno; ma checché sia di ciò, è chiaro che l’albero rappresenta il giudaismo, il padrone della vigna Dio, il vignaiuolo Gesù stesso. Ritorna quindi la minaccia di prima: in quest’ultima dilazione concessa all’albero, o esso darà frutti, ovvero finirà sotto i colpi d’accetta.

La donna rattrappita e l’uomo idropico. Questioni con viviali.

§ 455. Fecero effetto queste minacce? Divampava l’incendio ac­ceso da quel fuoco che Gesù era venuto a gettare sulla terra? In al­tre parole, si stava attuando il “cambiamento di mente” che ripu­diava il vecchiume formalistico e ricercava lo spirito nuovo? A queste domande Luca non dà una risposta esplicita, ma sembra be­ne che ne dia una implicita mediante un aneddoto ch’egli soggiunge alle narrazioni precedenti, e che mostra come il formalismo rabbi­nico gravasse quale cappa di piombo sugli spiriti e non fosse stato neppure scalfito dalle minacce di Gesù. L’aneddoto è quello della donna rattrappita guarita di sabbato (Luca, 13, 10-17); senonché lo stesso evangelista, indulgendo alla sua predilezione per i quadretti abbinati, poco dopo questo aneddoto fa seguire l’altro somigliantissi mo dell’uomo idropico guarito egualmente di sabbato (14, 1-6). I due quadretti si richiamano logicamente l’un l’altro, come una ripetuta e sfiduciata risposta alle precedenti domande sull’efficacia della predicazione di Gesù, ed è quindi opportuno presentarli affiancati; tutta­via, egualmente dai dati di Luca confrontato con gli altri evangelisti, appare che i due fatti sono cronologicamente staccati, e che la donna fu guarita poco prima della festa della Dedicazione e nella Giudea, l’uomo invece poco dopo quella festa e probabilmente nella Tran­sgiordania. Gesù dunque, durante la sua peregrinazione nella Giudea, si recò di sabbato in una sinagoga e si mise a predicare. Tra i presenti era una donna malata da diciotto anni – forse di artrite o anche di paralisi – e così rattrappita che non poteva in nessun modo alzar la testa e guardare in alto. Vistala, Gesù la chiamò e le disse: Donna, sei disciolta dalla tua malattia; e le impose le mani. Quella, raddrizzatasi all’istante, si dette a ringraziare e glorificare Dio. L’archisinagogo che presiedeva all’adunanza (§ 64) s’indignò per quella guarigione fatta di sabbato; non osando però abbordare direttamente Gesù, se la prese con la folla arringandola stizzito: Ci sono sei giorni in cui si deve lavorare: in essi dunque venite a farvi curare, e non nel giorno del sabbato! Per quello zelante archisinagogo la guarigione miraco­losa non significava nulla, il sabbato invece – che del resto non era stato violato – significava tutto. Gesù allora rispose a lui e agli altri della mentalità di lui: Ipocriti! ognuno di voi di sabbato non scioglie forse il suo bove o l’asino dalla mangiatoia, e (lo) conduce ad abbe­verare? Infatti, sciogliere o stringere un nodo di fune era compreso in quei 39 gruppi di azioni ch’erano proibite di sabbato (§ 70); ma nella pratica, trattandosi delle bestie domestiche, si provvedeva in una maniera o un altra al loro sostentamento. Messo ciò in chiaro, Gesù argomenta a fortiori concludendo: E costei ch’e’ figlia di Abra­mo, e che il Satana legò or e diciotto anni, non bisognava che fosse sciolta da questo legame nel giorno di sabbato? Al Satana erano fat­te risalire comunemente malattie di ogni genere (§ 78). Se dunque c’era un giorno più opportuno di tutti per dimostrare la vittoria di Dio sul Satana, cioè del Bene sul Male, era appunto il sabbato, il giorno consacrato a Dio: quindi Gesù, meglio d’ogni altro, era pe­netrato nello spirito del sabbato, operando appunto in esso quella vittoria di Dio sul Satana.

§ 456. Al ragionament6 di Gesù la folla assenti cordialmente; quan­to ai suoi avversari, Luca dice che rimasero confusi, ma ciò non significa che assentissero al ragionamento. Già vedemmo che l’osser­vanza rabbinica del sabbato era uno dei piloni su Cui troneggiavano i Farisei e che non doveva mai crollare (§ 431). Anche se i fatti mi­racolosi smentivano quell’osservanza, ciò non significava nulla si trascurassero i fatti e si bestemmiasse lo Spirito santo (§ § 444, 446), purché rimanesse il sabbato farisaico. Il quadretto corrispondente si svolge, non in sinagoga, ma in casa di un insigne Fariseo che ha invitato Gesù a prender cibo da lui. E’ di sabbato, e i Farisei stanno spiando. Ecco che un uomo idropico si presenta a Gesù, attirato forse dalla sua fama di taumaturgo e spe­rando d’esser guarito. Gesù allora si rivolge ai legisti e ai Farisei di­cendo: E’ lecito di sabbato curare o no? Quelli rimasero in silenzio, sebbene per molti casi la questione fosse già stata trattata e decisa dai dottori della Legge (§ 71). Continuando il silenzio, Gesù tira per mano a sé l’idropico, lo guarisce e lo licenzia; quindi dice ai silenzio­si: Chi di voi avendo il figlio o il bove che cada in un pozzo, non lo ritira su subito in giorno di sabbato? – Ma anche questa domanda rimane, secondo Luca, senza risposta. Appare a prima lettura che i due aneddoti sono somigliantissimi; solo che in quello dell’idropico gli avversari di Gesù non si mostrano acrimoniosi e si limitano a tacere. Poiché questo fatto sembra avve­nuto in Transgiordania, bisognerebbe concludere che i Farisei e i legisti di quella zona, più remota da Gerusalemme, fossero un po’ meno fanatici e gretti di quelli della Giudea, i quali stavano sotto l’immediata influenza della capitale.

§ 457. La mancanza d’acrimonia in questi Farisei d’oltre Giordano appare anche dalla circostanza che il convito si protrasse a lungo e vi furono trattate senza astio varie questioni, cominciando da quella dei primi posti. Quei bravi Farisei non sarebbero stati Farisei se non fossero venuti a diverbio per occupare a mensa i posti più vicini al padron di casa e più onorifici: Quel divano spetta a me! – Spetta invece a me, che sono più degno! – Più degno tu? Chi credi di essere? – Io sono più anziano e più dotto di te; cedimi il posto! – E così di seguito. Per gente che viveva soprattutto di esteriorità, siffatte questioni di eti­chetta erano capitali. Gesù intervenne commentando il diverbio, e volle confondere i litiganti mostrando come la loro vanità non fosse neppure abbastanza sagace nello scegliere i mezzi per trionfare. Disse egli: Quando (tu) sia invitato da alcuno a nozze, non ti adagiare sul primo divano, affinché non (avvenga) per caso che uno piu’ degno di te sia invitato da lui, e venuto colui che invitò te e lui ti dica: « Da’ posto a costui! » e allora (tu) cominci ad occupare con vergogna l’ultimo posto. Quando invece (tu) sia invitato, va’ ad adagiarti all’ultimo posto, affinché quando venga chi ti ha invitato ti dica: « Amico, sali piu’ in alto! ». Allora avrai gloria al cospetto di tutti i tuoi commensali: poiché chiunque s’innalza sarà abbassato, e chi s’abbassa sarà innalzato. Confusa in tal modo la vanità degli invitati con la considerazione della loro propria imperizia, restava da mettere a posto l’atteggia­mento dell’invitante, e in genere di tutti gli invitanti che troppo spesso agivano per vanagloria congiunta col tornaconto materiale; inoltre, agli invitati e agli invitanti, la lezione sul convito materiale poteva giovare per una sfera più alta, ricordando loro le norme e i vantaggi di un certo convito spirituale. Perciò Gesù, rivolgendosi al­l’invitante, proseguì: Quando (tu) faccia un pranzo o una cena, non chiamare i tuoi amici nè i tuoi fratelli né i tuoi parenti né ricchi vi­cini, affinché non (avvenga) per caso che pure essi ti invitino alla loro volta, e tu abbia il contraccambio. Ma quando (tu) faccia un ricevimento, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e beato sarai, perché non hanno da contraccambiarti! Il contraccambio infatti ti sarà dato nella resurrezione dei giusti. Strettamente affine a questa norma è quella contenuta nel logion ignoto ai quattro vangeli ma attribuito a Gesù da S. Paolo: E cosa piu’ beata dare che ricevere (§ 98). La base comune a tutte queste norme è sempre quella dei Discorso della montagna, cioè una sanzione non terrena ma ultraterrena (§ 319): qui essa è chiamata resurrezione dei giusti, altrove regno dei cieli oppure venuta del figlio dell’uomo, ma è in sostanza la stessa base che sorregge tutto l’edificio della dottrina di Gesù, mentre tolta que­sta base l’edificio crolla e la dottrina non ha più senso. Erano perfettamente logici e conseguenziari gli antichi pagani di cui parla S. Paolo, i quali, dal momento che negavano questa base ultraterrena alla dottrina di Gesù (cfr. Atti, 17, 32), trovavano che la stessa dot­trina era una stoltezza (I Corinti, 1, 23). Ancora oggi, le posizioni dialettiche non sono affatto mutate, e la dottrina di Gesù è ancora definita o stolta o divina, a seconda che si respinge o si accetta quella sua base.

§ 458. Con l’idea della ricompensa ultraterrena quegli invitati era­no stati sollevati – come appunto voleva Gesù – al pensiero di un convito spirituale. Allora uno di essi esclamò: Beato chi mangerà ci­bo nel regno d’iddio! Gesù prese occasione per presentare il regno di Dio quale un convito servendosi di una parabola, la quale è riporta­ta sia da Luca (14, 16-24) sia da Matteo (22, 2-14). Le due recen­sioni sono differenti fra loro in parecchi accessori, ma soprattutto perché quella di Matteo ha per aggiunta uno sviluppo abbastanza lungo (22, 11-14) che non trova corrispondenza nella recensione di Luca. Recitò Gesù una sola volta la parabola nella forma più am­pia di Matteo, che poi fu accorciata da Luca? Oppure la recitò nella forma più corta di Luca, che poi fu ampliata da Matteo con un frammento di altra parabola affine? Oppure la recitò più volte in forme diverse? Si è molto discusso su queste domande; la risposta più probabile sembra essere che Gesù abbia impiegato più volte nelle sue parabole questo tema generico del convito – come del resto face­vano anche i rabbini – pur con mire alquanto diverse secondo le circostanze. La recensione pertanto di Matteo risulterebbe dalla fu­sione di due parabole conviviali di Gesù: la prima (22, 2-10) corri­sponde sostanzialmente a quella di Luca; la seconda (22, 11-14) sa­rebbe soltanto la parte conclusiva di un’altra parabola, il cui ante­fatto manca perché nella redazione odierna si giudicò che la somigliante parabola di Luca lo sostituisse bastevolmente. Nella recen­sione lucana la parabola è la seguente.

§ 459. Un uomo fece una gran cena e invitò molti. All’ora oppor­tuna spedì il suo servo agli invitati pregandoli di venire perché ogni cosa era pronta; senonché tutti cominciarono ad addurre pretesti per non venire. Uno disse: Ho comprato un campo, e devo andare ad esaminarlo; scusami! – Un altro disse: Ho comprato cinque paia di buoi, e vado a provarli; scusami! – Un terzo si sbrigò con poche parole: Ho preso moglie, e quindi non ne parliamo nemmeno! – Ottenute tali risposte, il servo le riportò al padrone. Costui allora si adirò, e dette ordine al servo: Va’ per le piazze e le strade della città, e fa’ entrare al banchetto poveri, storpi, ciechi e zoppi! – L’or­dine fu eseguito, e il servo ne informò il padrone aggiungendo: Quei disgraziati sono entrati, ma ci sono ancora posti vuoti. – Il padrone allora replicò: Esci ancora per la campagna, e fà entrare quanti tro­verai lungo i sentieri e le siepi; perché la mia casa dovrà essere gre­mita di quei disgraziati, mentre nessuno degli invitati di prima gu­sterà la mia cena! Evidentemente il convito simboleggia il regno di Dio, gl’invitati riluttanti sono i Giudei, e i poveri che li sostituiscono sono i Gentili: ciò che appare anche meglio dalla recensione di Matteo. Luca termina qui; ma in Matteo la scena ha il seguito già accenna­to. Riempita la sala di quei miserabili, l’invitante (il quale in Mat­teo è un re che fa il convito di nozze a suo figlio) viene in persona nella sala a vedere i commensali. Ad un tratto scorge fra essi un tale che non ha indossato la prescritta veste nuziale (della quale, tuttavia, non è stato fatto cenno in precedenza). Il re perciò gli dice: Amico, come mai sei entrato qui senza avere la veste nuziale? – Quello tace confuso. Allora il re ordina agli inservienti: Legategli mani e pie­di, e gettatelo nella tenebra esteriore: ivi sarà pianto e stridor di denti! – Gesù infine concluse dicendo: Molti infatti sono chiamati, pochi tuttavia eletti. La parte finale di questo tratto singolare esce già dalla sfera simbo­lica e si riferisce direttamente all’oggetto vero della parabola (“pian­to e stridor di denti”). Inoltre esso aggiunge un elemento nuovo al­la parabola comune a Luca e Matteo, ed è che non tutti i nuovi in­vitati sono degni del convito, ma solo quelli che hanno la veste nu­ziale: fuori di allegoria, non tutti i Gentili che hanno sostituito i Giudei nel regno del Messia sono degni del regno, ma solo quelli che hanno le opportune disposizioni spirituali. Gesù, infatti, già ave­va ammonito Nicodemo che se alcuno non sia nato da acqua e (da) Spirito, non può entrare nel regno d’iddio (§ 288); questa rinascita intema era la condizione essenziale per entrare legittimamente nel convito messianico. L’esclamazione del commensale di Gesù: Beato chi mangerà cibo nel regno d’Iddio! era stata anche un’interrogazione, cercando in qualche maniera di sapere chi avrebbe goduto di quella beatitudine. Gesù ha risposto all’interrogazione mostrando chi avrebbe respinto e chi accettato l’invito al convito messianico, e fra quelli che l’avrei ben accettato chi se ne sarebbe mostrato degno e chi indegno.

Vita di Gesù 14ultima modifica: 2010-09-03T16:47:00+02:00da meneziade
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