Vita di Gesù 10

croceresurrezione.jpg La strage degli innocenti

§ 256. Intanto Erode aspettava il ritorno dei Magi. Ma, come i gior­ni passavano e nessuno compariva, dovette sospettare che il suo piano non era stato abbastanza astuto, e che invece di temere le beffe dei Gerosolimitani e di fare assegnamento sull’inconscia cooperazio­ne dei Magi, avrebbe fatto meglio a spedire con loro quattro dei suoi scherani che lo liberassero subito da ogni apprensione. Quando l’in­certezza divenne certezza, l’uomo ritrovò se stesso e, in uno di quegli scoppi d’ira che precedevano abitualmente i suoi ordini di stragi, pre­se una decisione tipicamente erodiana: inviò l’ordine di uccidere tut­ti i bambini minori di due anni che si trovavano a Eeth-lehem e nel territorio da essa dipendente. Nel fissare questo termine di due anni egli si era basato su ciò che gli avevano detto i Magi riguardo al tempo dell’apparizione della stella, e partendo di là aveva fatto i suoi calcoli con molta abbondanza per esser sicuro che questa volta il bambino non gli sfuggisse (§173). E invece il bambino gli sfuggì; perché il neonato di Beth-lehem, an­che se non aveva a suo servizio la polizia segreta di Erode, aveva attorno a sé quei cortigiani celestiali che già avevano prestato servizio per la prima volta la notte della sua nascita. Prima che arrivas­sero gli scherani di Erode, un angelo apparve in sogno a Giuseppe e gli disse Alzati! Prendi con te il bambino e la madre di lui e fuggi in Egitto, e sta’ là fino a che te lo dica (io); giacché Erode sta per cercare il bambino per farlo perire (Matteo, 2, 13). L’ordine non ammetteva indugi. In quella notte stessa Giuseppe si mise in viaggio, per la strada opposta a quella di Gerusalemme, alla volta dell’Egit­to: questa regione in cui la famiglia di Abramo era diventata na­zione, e che lungo i secoli era stata sempre un luogo di scampo per i discendenti di Abramo insediati in Palestina, ricoverava adesso quel “primo e ultimo” fra i discendenti di Abramo. Nel tempo che i tre fuggiaschi, accompagnati forse dal solito asinello, si fermavano a Hebron o a Beersheva per fare qualche provvista onde affrontare il deserto, si stava eseguendo a Beth-lehem l’ordine di Erode. I bam­bini da due anni in giù vi furono tutti scannati.

§ 257. Quante saranno state le vittime? Partendo da un dato abba­stanza verosimile, che cioè Beth-lehem col suo territorio potesse con­tare poco più di 1000 abitanti, se ne conclude che circa 30 erano i bambini nati ivi ogni anno; quindi, in due anni, erano circa 60. Ma poiché i due sessi a un dipresso si equilibrano per numerosità ed Erode non aveva alcun motivo di far morire le femmine, gli esposti alla sua crudeltà furono soltanto una metà di neonati, cioè i 30 maschi. Tuttavia anche questa cifra probabilmente è troppo elevata, perché la mortalità infantile in Oriente è molto alta e buon numero di neonati non giunge ai due anni. Quindi le vittime saranno state circa da 20 a 25. La bestialissima strage, come già vedemmo (§ 10), è di un valore sto­rico incontestabile accordandosi perfettamente col carattere morale di Erode. Ma anche a Roma, se realmente Augusto ne fu informato come vorrebbe Macrobio nel passo già citato (§ 9), la notizia non dovette fare molta impressione, perché anche a Roma circolavano voci di un fatto simile riguardante Augusto stesso. Narra Svetonio (August., 94) che, pochi mesi prima della nascita di Augusto, avven­ne a Roma un portento il quale fu interpretato come preannunzio che stesse per nascere un re al popolo romano; il Senato, composto di tenaci repubblicani, ne fu spaventato, e per scongiurare la sventura d’una monarchia ordinò che nessun bambino nato in quell’anno fosse allevato e cresciuto: tuttavia quelli fra i senatori che avevano la moglie gravida, allentarono in quell’occasione la propria tenacia repubblicana, per il motivo quod ad se quisque spem traheret, e si adoperarono affinché l’ordine del Senato non passasse agli atti. Ora, sul carattere storico di questo episodio si potrà legittimamente dubitare: ma il fatto che a Roma circolasse tale voce raccolta da Svetonio, fa comprendere che se nell’Urbe arrivò la notizia della strage di Beth-lehem sarà stata accolta con sghignazzamenti, quasicché il vecchio monarca avesse ammazzato niente più che una venti­na di pulci. La realtà storica è questa: e non si poteva certo pre­tendere che i Quiriti, per una ventina di piccoli barbari scannati, si commovessero più che per centinaia dei loro propri figli che avevano corso un somigliante pericolo. Pochi mesi dopo la strage di Beth-lehem, l’aguzzino incoronato che l’aveva ordinata, già ridotto da qualche tempo a un ammasso di car­ni putrefatte, morì roso alle pudende dai vermi (cfr. Guerra giud., i, 656 segg.). Tuttavia la vera finezza della nemesi storica, più che nella sua morte, si ritrova nella sua sepoltura: essa ebbe luogo all’Herodìum dalla cui cima si vedeva il posto della grotta ov’era nato il suo temuto rivale e quello dov’erano stati sepolti i lattanti scannati. L’esser sepolto lì fu la sua vera inferia, non già quella cele­bratasi con tanta suntuosità e poi descritta con tanta ammirazione da Flavio Giuseppe (Guerra giud., I, 670-678). Oggi, esplorando con lo sguardo dall’alto dell’Herodium, non si scorgono che ruderi e desolazione di morte. Soltanto in direzione di Beth-lehem si vedono segni di vita.

La dimora in Egitto

§ 258. Frattanto i tre fuggiaschi di Beth-lehem s’erano inoltrati nel deserto. Passo passo col loro asinello, studiandosi di seguire le piste carovaniere meno battute, guardandosi ogni tanto addietro per ve­dere se arrivava gente armata, s’allontanarono sempre più da ogni consorzio umano e ne rimasero separati almeno per una settimana, quanto dovette durare il viaggio. Scendendo giù da Beth-lehem, essi per far più presto seguirono cer­tamente la comoda strada che passava per Hebron e Beersheva; ma ad un certo punto dovettero piegare a destra per ricongiungersi con l’antica strada carovaniera che rasentando il Mediterraneo congiun­geva la Palestina con l’Egitto. A Beersheva comincia, oggi come al­lora, la steppa vuota e squallida, ma con suolo ancora compatto; più in giù invece, avvicinandosi ancora al delta del Nilo, s’estende il classico deserto, il “mare di sabbia”, ove non si trova né un cespu­glio nè un filo d’erba nè un sasso: nulla, se non sabbia. A sentire i vangeli apocrifi la traversata di questa regione sarebbe stata per i tre fuggiaschi un viaggio trionfale, perché le bestie feroci sarebbero corse ad accucciarsi mansuete ai piedi di Gesù e i palmizi avrebbero abbassato spontanei i loro rami per far cogliere i datteri; ma in realtà il viaggio dovette essere durissimo ed estenuante, soprattutto per la mancanza d’acqua. Nel 55 av. Cr. la stessa traversata era stata fatta dagli ufficiali romani di Gabinio che di viaggi faticosi s’intendevano, e che tuttavia temevano quella traversata più della stessa guerra che li aspettava in Egitto (Plutarco, Antonio, 3); nel 70 dopo Cr. fu fatta in senso inverso dall’esercito di Tito, che saliva dall’Egitto per espugnare Ge­rusalemme, ma con tutta l’assistenza degli accurati servizi militari romani (cfr. Guerra giud., Iv, 658-663); un esercito che, in tempi re­centi, ha compiuto la traversata è stato quello degli Inglesi che du­rante la prima guerra mondiale sono risaliti dall’Egitto in Palestina, ma essi oltre al resto stabilivano una permanente conduttura d’acqua man mano che s’avanzavano, portando così l’acqua del Nilo per ol­tre 150 chilometri fino a el-Arish, l’antica Rhinocolura. I tre profughi, invece, dovettero trascinarsi faticosamente di giorno sulle sabbie mobili e nell’arsura spossante, passar la notte stesi a terra, e fare assegnamento solo su quel poco d’acqua e di cibo che si portavano appresso: ciò per una buona settimana. Per farsi un’idea di tali traversate l’europeo odierno deve aver passato notti insonni allo scoperto nella desolata Idumea (il Negeb della Bibbia), e di giorno deve aver intravisto attraverso la nebulosità sabbiosa sospesa sul deserto di el-Arish passarsi dappresso un gruppetto di pochi uo­mini, accompagnati da un asinello carico di provviste o anche di una donna con un bambino al petto, e tutti pensosi e taciturni come per fatale rassegnazione allontanarsi nella solitudine verso un’ignota mèta; chi ha fatto tali esperienze e tali incontri in quel deserto ha visto, più che scene di colore locale, documenti storici riguardanti il viaggio dei tre profughi di Beth-lehem. A Rhinocolura la minac­cia di Erode svanì, perché là erano i confini fra il regno di Erode e l’Egitto romano. Da Rhinocolura a Pelusio il viaggio fu, se non meno faticoso, più calmo. A Pelusio, passaggio abituale per chi en­trava in Egitto, si ritrovarono esseri umani e comodità di vita, e più che mai in questa occasione l’oro offerto dai Magi dovette apparire provvidenziale e rendere eccellenti servizi. Né del luogo nè del tempo della permanenza in Egitto ci sono date notizie da Matteo (molte, come al solito, dagli Apocrifi e da tardive leggende); tuttavia riguardo al tempo possiamo ritenere con sicurez­za che fu breve. Se Gesù è nato sullo scorcio dell’anno 748 di Roma (§173), la fuga in Egitto non poté avvenire che dopo qualche mese, cioè dopo i 40 giorni della purificazione di Maria aumentati dell’in­terstizio fra la purificazione e l’arrivo dei Magi; poiché questo inter­stizio poté essere sia di qualche settimana sia di qualche mese, con­venzionalmente si potrà assegnare la fuga alla primavera o all’estate dell’anno 749. I fuggiaschi pertanto stavano da alcuni mesi in Egitto, quando vi giunse la notizia della morte di Erode avvenuta nel marzo-aprile del 750 (§ 12); e allora nuovamente un angelo apparve in sogno a Giu­seppe, ordinandogli di far ritorno col bambino e la madre nella terra d’Israele (Matteo, 2, 20). Il comando fu eseguito subito, e i profughi tornarono in patria.

Nazareth

§ 259. Rientrato che fu in Palestina, Giuseppe apprese che Archelao figlio di Erode era al governo della Giudea, e perciò di Gerusa­lemme e di Beth-lehem: ciò l’indusse a non far più ritorno alla pre­cedente dimora, per la pessima fama che aveva il nuovo monarca (§ 14), rinunziando così al progetto – se realmente era stato fatto (§ 241) – di stabilirsi a Beth-lehem, luogo originario del casato di David. Nella sua perplessità egli ricevette un’altra rivelazione oni­rica, in conseguenza della quale ritornò a Nazareth, ove non gover­nava Archelao ma Antipa (§§ 13, 15). Matteo chiude la narrazione dicendo che l’insediamento a Nazareth avvenne affinché s’adempisse il detto per mezzo dei profeti “Nazoreo sarà chiamato” (2, 23). Queste precise parole non si ritrovano in nessuno scritto profetico della Bibbia odierna: supporre che ne riportino qualche tratto che sia andato perduto più tardi, è un’ipotesi arbitraria, come sarebbe contro ogni verosimiglianza supporre che provengano da qualche sconosciuto Apocrifo. Molto più fondata è l’opinione di S. Girola­mo, benché soltanto negativa, il quale fa notare che Matteo citando i “profeti” al plurale, mostra d’aver preso dalle Scritture non le parole ma il senso; Matteo, cioè, non intenderebbe allegare un deter­minato passo bensì un concetto, né si riferisce a precise parole bensì ad un pensiero. Troviamo di fatti che simili citazioni concettuali erano già state impiegate nell’Antico Testamento, come saranno an­cora usate dai rabbini successivi. Ma qual è il senso o concetto a cui si riferisce Matteo? La que­stione non ha ancora ricevuto una risposta sicura, e si riconnette in parte con la questione filologica della doppia forma Nazoreo e Nazareno.Ma, comunque si risolva la questione filologica, nel no­stro caso si poté alludere a un determinato concetto anche soltanto mediante una somiglianza o assonanza verbale, come egualmente si era già fatto nell’Antico Testamento soprattutto per nomi di per­sona o di luogo. Ammessa questa elasticità di relazione, si presenta come possibile più d’una allusione. In primo luogo quella a Isaia, 11, 1, ove del futuro Messia si dice: Uscirà un virgulto dal tronco di Isai (Jesse, padre di David) e un germoglio dalle sue radici fiorirà; poiché germoglio è in ebraico neser, Matteo vi può aver visto un richiamo verbale al nome di Nazareth (§ 228), tanto più che anche la tradizione rabbinica ri­feriva al futuro Messia il passo di Isaia. Può darsi anche, almeno in maniera concomitante e secondaria, si sia pensato allo stato del nazir, cioè di colui che era “nazireo” per consacrazione della sua persona a Dio; è vero che in ebraico nazir è scritto con una lettera differente (N Z R) da quelle del nome di Nazareth (N S R), ma per questi riavvicinamenti onomastico-simbolici bastava una certa corrispondenza empirica o assonanza, come era bastata in casi simili dell’Antico Testamento (Genesi, 11, 9; 17, 5; Esodo, 2, 10): e forse più distintamente si è visto un simbolo prefigurativo del Messia in Sansone, salvatore del suo popolo e chiamato « nazir » di Dio fin dalla sua fanciullezza, come si legge nel libro dei Giudici, 13, 5, che appartiene appunto ai « profeti anteriori » della Bibbia ebraica. Qua­le di queste possibilità, e di molte altre proposte dagli studiosi an­tichi e moderni, corrisponda alla realtà non è dato di sapere.

§ 260. Quando Giuseppe venne di nuovo a stabilirsi a Nazareth, cioè nell’anno 750 di Roma inoltrato, il bambino Gesù aveva circa due anni di età (§ 173). Da questo tempo fino all’inizio della sua vita pubblica (§ 175) corrono più di 30 anni, che costituiscono la sua vita nascosta. Di cosi’ lungo periodo non ci sono comunicate notizie, salvo due, di cui una riguarda un fatto permanente e l’altra un episodio solitario. Ambedue le notizie, com’era da aspettarsi, so­no comunicate da Luca, lo storico che attinge le sue informazioni dai ricordi personali della madre di Gesù. In primo luogo l’evangelista medico, dimostrando quasi un occhio clinico spirituale, afferma una prima volta che, giunti i tre a Naza­reth, il bambino cresceva e s’afforzava pieno di sapienza, e grazia di Dio era su lui (Luca, 2, 40); poco dopo, come per far notare che questo era un fatto permanente, ripete una seconda volta che, all’età di 12 anni, Gesù progrediva nella sapienza e statura e gra­zia presso Dio ed uomini (2, 52). C’era dunque in Gesù uno sviluppo ed un accrescimento, e non soltanto esteriore davanti agli uomini, ma anche interiore davanti a Dio. Come egli cresceva fisicamente e si sviluppavano le sue fa­coltà sensitive e intellettive, così crescevano le sue cognizioni spe­rimentali, ed egli man mano diventava fanciullo, ragazzo, giovane, uomo maturo, fisicamente ed intellettualmente. Gli antichi Doceti negarono la realtà di questo sviluppo e lo con­siderarono solo apparente e fittizio, perché sembrava loro incompatibile con la divinità del Cristo; ma appunto Cirillo d’Alessandria, l’implacabile avversario di Nestorio e strenuo assertore dell’unità di Cristo (Quod unus sit Ghristus, in Migne, Patr. Gr., 75′ 1332), sostiene che in Gesù le leggi della natura umana conservarono tutto il loro valore compresa quella dello sviluppo progressivo fisico ed intellettuale.

§ 261. L’altra notizia comunicata da Luca è l’episodio dello smar­rimento e ritrovamento di Gesù a Gerusalemme. I genitori di Gesù – così li chiama semplicemente Luca (2, 41), – si recavano ogni anno a Gerusalemme in occasione della Pasqua, come faceva ogni buon Israelita per questa principale tra le “feste di pellegrinaggio” (§ 74). Secondo le prescrizioni legali Maria, come donna, non era obbligata a questo viaggio, e neppure Gesù prima del suoi 30 anni; tuttavia molte donne accompagnavano spontaneamente i loro mariti, e quanto ai figli i padri più osservanti li conducevano seco anche prima dei 13 anni: i rabbini della scuola di Shamrnai esigevano che si portasse al Tempio il bambino che potesse reggersi a cavalcioni sulla spalla del padre, mentre quelli della scuola di Hillel restringevano l’obbligo al bam­bino che potesse salire i gradini del Tempio sorretto dalla mano del padre. Ad ogni modo, a cavalcioni o a piedi, molti bambini e moltissimi ragazzi facevano il pellegrinaggio della Pasqua, accre­scendo sempre più la fiumana di gente che vi accorreva (§ 74). Certamente Gesù vi fu condotto anche nella sua fanciullezza, ma quando vi andò che aveva 12 anni avvenne l’episodio narrato da Luca. Il pellegrinaggio, se moveva da luoghi piuttosto lontani come Na­zareth, si compieva a gruppi di parenti e amici, formando piccole carovane che viaggiavano e pernottavano insieme nelle soste lungo il cammino. Da Nazareth a Gerusalemme le soste di pernottamento dovevano essere tre (o quattro), perché la strada s’aggirava sui 120 chilometri (oggi 140); a Gerusalemme si giungeva uno o due gior­ni prima del 14 Nisan (§ 74) e si rimaneva o fino a tutto il 15 o anche per l’intera ottava, cioè fino a tutto il 21 con cui terminavano le solennità pasquali. Quell’anno, quando si fu alla partenza di ritorno, il ragazzo Gesù rimase a Gerusalemme senza che i suoi genitori se ne accorgessero. Non vedendolo presso di sé, i due non avevano motivo di sospettare che fosse rimasto in città. La carovana in Oriente ha una disciplina singolare, non militaresca, non rigida, per cui ognuno s’attiene genericamente ai tempi di partenza e d’arrivo, e per il resto rimane libero di sé; lungo il cammino la comitiva si divide e suddivide in tanti gruppi che procedono a una certa distanza fra loro, che si accrescono od assot­tigliano a beneplacito dei viandanti, e solo alla sera giunti alla sosta di pernottamento tutti si ritrovano insieme. Un qualsiasi ra­gazzo di 12 anni, ch’era quasi sui iuris presso i Giudei, partecipava a siffatta elasticità di disciplina carovaniera al pari e anche più d’un uomo maturo, perché mentre sapeva benissimo come rego­larsi aveva anche in suo favore la vivacità dell’età sua. Cosicché, lungo la prima giornata di cammino, i genitori credettero che Gesù si fosse unito a qualche gruppo della carovana diverso dal loro; ma quando si giunse alla prima sosta di pernottamento, cercatolo in­vano nei vari gruppi riuniti insieme, s’avvidero che mancava.

§ 262. Affannati, i due fecero ritorno a Gerusalemme, e la gior­nata seguente allo smarrimento fu da essi consumata parte nel viaggio e parte nelle prime ricerche in città. Ma le ricerche rima­sero vane, e perciò furono proseguite nel terzo giorno; allora lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai dottori e ascoltandoli e interrogandoli; stupefatti erano tutti che l’ascoltavano, per l’intel­ligenza e le risposte di lui. E vedendolo (i genitori) furono colpiti, e gli disse sua madre: “Figlio, perché facesti a noi così? Ecco, tuo padre ed io addolorati ti cercavamo!”. E disse loro: “Perché mi cercavate? Non sapevate che nella (casa) del Padre mio e’ necessario ch’io sia?”. Ed essi non capirono la parola che pronunziò loro (Luca, 2, 46-50). Alla fine di quello stesso secolo Flavio Giuseppe, scrivendo la sua biografia (Vita, 9), racconterà che quando egli aveva 14 anni, cioè verso il 52 dopo Cr., era già famoso in Gerusalemme per la sua perizia nella Legge, e che i sommi sacerdoti e altre insigni persone della città si radunavano abitualmente in casa sua per consuitarlo su questioni difficili. Chi narra questo fatto risulta un millantatore e un blagueur da molti luoghi dei suoi scritti, e quindi con pieno diritto si potrà negar fede a ciò che egli qui racconta: tuttavia un piccolo nocciolo di verità ci può essere, in quanto cioè, essendo egli d’ingegno svegliato, avrà per caso sostenuto una volta tanto una specie di disputa con alcuni Dottori della Legge riunitisi per altre ragioni a casa sua. I rabbini infatti accettavano nelle loro scuole fanciulletti già di sei anni: “e da sei anni in su noi accettiamo (il bambino, e per mezzo della Legge) lo ingrassiamo come’ un bove” (Baba bathra, 21 a); e naturalmente con i bambini o ragazzi che apparivano più perspicaci e intelligenti essi erano più premurosi, non disdegnando d’entrare in discussioni con loro come da pari a pari. Ma la scena di Luca è tutta diversa da quella di Flavio Giu­seppe. Gesù è nel Tempio, in uno dei suoi atrii dove abitualmente s’adunavano i Dottori a discutere (§ 48); egli non detta sentenze come il futuro liberto di Vespasiano, bensì si uniforma al metodo accademico dei rabbini che consisteva in ascoltare, rivolgere do­mande di schiarimento e procedere per ordine, in modo da far progredire il risolvimento della questione mediante il contributo di tutti i partecipanti. Ma il contributo di quello sconosciuto ragazzo era così straordinario, per aggiustatezza di domande e perspicacia d’osservazioni, che primi ne stupivano i sottili giuristi di Gerusa­lemme. Ne stupirono anche Maria e Giuseppe, che certamente assistettero a parte di una disputa aspettandone la fine: tuttavia lo stupore di questi due fu diverso da quello dei Dottori, essendo la meraviglia di chi sa molte cose ma non ne ha ancora previste tutte le conse­guenze e specialmente non ha ancora riscontrato tali conseguenze tradotte in atto. La madre, nella sua addolorata esclamazione, parla giustamente da madre. Il figlio, nella sua risposta, le risponde più da figlio di un Padre celeste che di una madre terrestre: se egli ha abbandonato momentaneamente la sua famiglia umana, è stato per l’unica ragione capace di indurlo a tale abbandono, quella di essere nella spirituale casa del Padre celeste. La risposta di Gesù riassume tutta la sua vita futura. Luca, che scrive post eventum, interpreta bene in questo senso la risposta di Gesù, e non la riferisce già al materiale Tempio di Ge­rusalemme come sonava la parola. Ma il sottile storico aggiunge subito che i genitori, a cui Gesù rispondeva, non capirono la parola che pronunziò loro. Non la capirono, benché già sapessero tante cose di Gesù, per la stessa ragione per cui stupirono al ritrovarlo fra i Dottori: non prevedevano cioè tutte le conseguenze delle cose che già sapevano. E chi poté mai confessare questa antica incomprensione della risposta di Gesù se non Maria stessa, quando ne parlava post eventum allorché suo figlio era morto e risorto? Perciò Luca anche qui ripete la sua preziosa allusione: La madre di lui serbava tutte le parole nel suo cuore (2, 51). Che è quanto indicare, con riguardosa discrezione, la fonte delle notizie (§§ 142, 248).

§ 263. Per tutti i 30 anni passati da Gesù a Nazareth non sappia­mo altro: tornato lassù dopo l’episodio del Tempio, egli era sottoposto ad essi (2, 15), a Giuseppe e a Maria. Penetrare nell’arcano di quei 30 anni sarebbe certamente vivo desiderio di ogni mente eletta, ma chi s’introdurrà in quel santuario senza un’autorevole guida? Le nostre guide ufficiali si sono fermate al di fuori, limi­tandosi a dirci che là dentro Gesù era sottoposto ad essi. Quel re messianico ch’era nato in una reggia le cui caratteristiche erano state la purità e la povertà, seguitava le tradizioni di quella sua prima corte. Adesso la stalla era stata sostituita parte da una bottega da carpentiere e parte da una casettaccia mezzo scavata nella collina; la purità si era conservata nelle stesse forme e per­sone di prima; la povertà aveva preso l’aspetto di necessità di la­vorare, e a suo fianco e a sua conferma era apparsa la soggezione volontaria. In quei 30 anni, in giro per il mondo, avvenivano cose grosse. A Roma si riapriva il tempio di Giano, essendo finito il pe­riodo del toto orbe in pace composz’to (§ 225); in Giudea Archelao partiva per l’esilio, e i procuratori romani prendevano il suo posto; Augusto in età di 76 anni cessava di essere il padrone di questo mondo, e subito dopo per decreto del Senato diventava un dio dell’altro mondo; Germanico dopo le vittorie sui Barbari del Setten­trione moriva in Oriente; a Roma spadroneggiava Seiano, mentre da Capri vigilava su lui Tiberio pronto a spacciarlo. Nel frattempo, a Nazareth, Gesù era come se non esistesse. Simile esteriormente in tutto ai suoi coetanei, prima bambini, poi ragazzi, infine giovani, egli dapprima saltellò sulle ginocchia della madre, poi le prestò i suoi piccoli servigi, quindi assistette Giuseppe nella bottega, più tardi cominciò a leggere e a scrivere, recitò lo Shema (§ 66) e le altre preghiere abituali, frequentò la sinagoga; da giovane maturo si sarà interessato di campi e vigne, di lavori che Giuseppe man mano eseguiva dentro Nazareth e nei suoi ameni dintorni, di que­stioni sulla Legge giudaica, di Farisei e di Sadducei, di avvenimenti politici della Palestina e dell’estero. All’apparenza, i suoi giorni pas­savano semplicemente così. Il suo idioma usuale era l’aramaico, pronunziato con quell’accento particolare ai Galilei che li faceva riconoscere appena cominciavano a parlare. Ma la Galilea, periferica qual era ed in continue rela­zioni con circostanti popolazioni ellenistiche, esigeva quasi necessariamente un certo impiego del greco; è probabile che Gesù si servisse talvolta anche del greco, e anche più probabile che facesse altrettanto dell’ebraico.

§ 264. Gesù aveva anche dei parenti come sua madre aveva una “sorella” (Giovanni, 19, 25), così egli aveva “fratelli” e “so­relle” più volte ricordati dagli evangelisti (e anche da Paolo, I Cor., 9, 5). Di quattro di questi “fratelli” ci è trasmesso anche il nome, e si chiamavano Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda (Matteo, 13, 55; Marco, 6, 3); le sue “sorelle” non sono nominate, ma dove­vano esser parecchie giacché si parla di “tutte… le sorelle di lui” (Matteo, 13, 56). La designazione di questo ampio stuolo parentale corrisponde bene ai costumi d’Oriente, ove i legami di sangue sono perseguiti anche nelle loro lontane e tenui ramificazioni, cosicché i collaterali più vicini sono designati genericamente come “fratelli” e “sorelle”, pur essendo soltanto cugini di vario grado; già nella Bibbia ebraica i nomi “fratello”, “sorella”, designano spesso parenti di grado molto più lontano che il fratello o la so­rella carnali, tanto più che nell’ebraico antico non si ritrova un preciso vocabolo per indicare esclusivamente il cugino. Cugini, dun­que, erano i “fratelli” e le “sorelle” di Gesù. Ora, questa numerosa parentela non era tutta favorevole a lui. Nel pieno della sua operosità pubblica ci viene comunicato che nep­pure i fratelli di lui credevano in lui (Giovanni, 7, 5); né si può credere che questa avversione, o alienazione che fosse, si formasse per la prima volta quando Gesù iniziò la sua operosità pubblica. Doveva essere piuttosto la manifestazione aperta di un vecchio sen­timento, che nel cuore di cotesti consanguinei covava già al tempo della vita nascosta di Nazareth. Di questo rancore domestico è co­municata da Gesù stesso una ragione, ma è generica: Non è profeta inonorato se non nella patria di lui e nei parenti di lui e nella casa di lui (Marco, 6, 4). Ad ogni modo, a fianco a cotesti astiosi pa­renti ve ne furono di fedelissimi che gli si mantennero uniti usque ad mortem et ultra, e che certamente lo avevano circondato della loro benevolenza fin da quand’era oscuro ragazzo e giovane a Na­zareth. Primi fra tutti Maria e Giuseppe; quindi Giacomo, il fra­tello del Signore (Galati, 1, 19), cioè Giacomo il Minore, e poi anche altri (Atti, 1, 14), di cui forse taluni ripulitisi con l’andar del tempo dalla loro antica ruggine. Dope i fatti dell’infanzia di Gesù non si trova più alcuna menzione di Giuseppe, né la figura di lui s’intravede minimamente durante la vita pubblica. Tanto induce a credere che il padre legale di Gesù morisse durante i 30 anni di vita nascosta del figlio; se egli fosse stato superstite a quei 30 anni, come Maria, qualche accenno se ne sarebbe facilmente conservato nell’antica catechesi e quindi anche nei vangeli che da essa dipendono. Di lui rimase ufficialmen­te soltanto l’appellativo paterno, ch’egli lasciò insieme col mestiere al suo figlio legale: Non e’ costui il figlio del carpentiere? (Matteo, 13, 55); Non e’ costui il carpentiere, il figlio di Maria…? (Marco, 6, 3).

ALL’INIZIO DELLA VITA PUBBLICA FINO ALLA PRIMA PASQUA

Giovanni il Battista e il battesimo di Gesù.

§ 265. La narrazione di Luca è stata fin qui ripartita parallela­mente fra Giovanni il Battista e Gesù; l’evangelista ha terminato lasciandoli ambedue ragazzi, l’uno nel deserto e l’altro a Nazareth, e si è congedato da loro col dire sia dell’uno che dell’altro che cre­scevano e s’afforzavano (§ § 237, 260). Trascorso questo trentennio di penombra, Giovanni compare in pub­blico e poco dopo gli tiene dietro Gesù, quasi per riprodurre la breve distanza di tempo che ha separato le loro nascite; precur­sore o battistrada è stato preannunziato Giovanni, e tale deve egli essere molto più per l’operosità pubblica che per la silenziosa na­scita. Con la comparsa di Giovanni cominciava l’argomento ordinario del­la primitiva catechesi cristiana (§ 113); perciò in questo nuovo periodo della narrazione s’affiancano a Luca tutti gli altri evangelisti, compresi il brevissimo Marco e il non sinottico Giovanni. Nella sua lunga permanenza in luoghi deserti Giovanni aveva menato vita solitaria ed austera; se egli comparve in pubblico vestito di peli di camello con una cintura di pelle intorno ai suoi fianchi, e mangiando locuste e miele selvatico (Marco, 1, 6), questo tenore di vita era certamente quello da lui già seguito nei suoi lunghi anni di solitudine. Del resto, cibo e vestito di quel genere erano abituali a chi menava allora vita eremitica per un principio ascetico, come ancora oggi i beduini palestinesi intessono ordinariamente i loro mantelli di peli di cammello e in mancanza di meglio mangiano lo­custe, mettendole talvolta anche in serbo dopo averle seccate. Circa 25 anni dopo la comparsa di Giovanni, Flavio Giuseppe per un ideale ascetico rimase tre anni presso un solitario di nome Bano o Banno, il quale viveva nel deserto, servendosi di vestimento (for­nito) da alberi e nutrendosi di cibarie nate spontaneamente (Vita, 11). Eremiti di questo genere non dovevano essere molto rari, spe­cialmente nella solitudine ad oriente di Gerusalemme e lungo il Giordano; nulla tuttavia c’induce a ritenere che fossero affiliati agli Esseni, ché anzi la vita cenobitica ch’era di prescrizione per gli Es­seni (§ 44) escluderebbe di per se stessa la vita eremitica di questi solitari. Quando giunse l’anno decimoquinto di Tiberio (§175), la parola di Dio fu su Giovanni figlio di Zacharia nel deserto (Luca, 3, 2). Comincia la sua missione di preparare la strada all’imminente Mes­sia, ed egli inizia questa missione proclamando: Pentitevi, poiché si e’ avvicinato il regno dei cieli! (Marco, 3, 2). Dopo questo an­nunzio generico, egli scende al particolare: in primo luogo esige da coloro che accorrono a lui due riti, cioè una lavanda materiale e inoltre l’aperta confessione dei peccati commessi; in secondo luo­go, scorgendo fra coloro che accorrono molti Farisei e Sadducei, li accoglie con queste parole: Razza di vipere! Chi vi ha insegnato a sfuggire all’ira imminente? Fate, dunque, frutto degno della penitenza! E non crediate di dire dentro di voi:”Per padre abbiamo Abramo”; giacché vi dico che iddio può da queste pietre suscitare figli ad Abramo. Già la scure è posta alla radice degli alberi: dun­que, ogni albero che non fa frutto e’ tagliato via e gettato nel fuoco (Matteo, 3, 7-10).

§ 266. Predicatori di tipo messianico ce ne furono molti, prima e dopo Giovanni, ma tutti d’altra indole. Subito dopo la morte di Erode il Grande si erano fatti avanti dap­prima in Perea un Simone, che aveva dato fuoco alla reggia di Gerico e si era proclamato re; poi in Giudea un pastore di nome Athronges, che aveva impiantato un regolare governo; quindi in Galilea un Giuda figlio d’Ezechia, che si era impadronito per prima cosa del deposito d’armi a Sefforis; in seguito venne Giuda il Ga­lileo, che iniziò la corrente degli Zeloti (§ 43); più tardi ancora vennero Teuda, e il predicatore egiziano, e gli altri accennati da Flavio Giuseppe, e certamente anche altri più numerosi sebbene non menzionati distintamente. Ma costoro seguivano altri metodi: tutti indistintamente afferma­vano che i figli d’Abramo erano il primo popolo della terra, e per assicurar loro l’effettiva supremazia politica mettevano mano alle armi; molti si presentavano come re effettivi; altri asserivano di far miracoli, o almeno li promettevano; qualcuno faceva man bassa sulle proprietà altrui ed esponeva la vita altrui, ben di rado la propria: assolutamente nessuno pensava a rendere i suoi seguaci moralmente migliori. Giovanni batteva la strada precisamente opposta. Affermava che figli d’Abramo potevano saltar su anche dalle pietre; non promet­teva dominii e supremazie; non toccava né invocava armi; non s’occupava di politica; non faceva miracoli; era povero e nudo: ma in compenso tutta la sua predicazione si riassumeva in un ammonimento morale: E’ imminente il regno di Dio, perciò cambiate maniera di pensare! Infatti, la prima parola del suo proclama, Pentitevi!… significava appunto questo: Cambiate maniera di pensare! In greco è cambiate di mente; in ebraico si usava il verbo shub, che si­gnifica ritornare addietro da una falsa strada per rimettersi su quel­la buona: ma in ambedue le lingue il significato concettuale è il medesimo, quello di operare una trasformazione totale nell’interno dell’uomo. Ora, poiché un profondo sentimento interno si manifesta sponta­neamente anche all’esterno, e un atto materiale esterno può essere una raffigurazione dimostrativa dell’atto spirituale interno: perciò Giovanni, a coloro che “cambiavano maniera di pensare”, richiedeva come manifestazione esterna di questo cambiamento che confessassero i peccati commessi, e come raffigurazione dimostrativa che ricevessero una lavanda materiale.

§ 267. Già in altre religioni antiche il pubblico riconoscimento del­le proprie colpe e l’abluzione corporale facevano parte di riti spe­ciali, per la semplice ragione che il primo corrisponde ad una na­turale inclinazione dell’animo umano allorché comprenda d’aver agi­to male, e la seconda è il simbolo più spontaneo e più facile della mondezza spirituale. Lo stesso giudaismo praticava i due riti in varie occasioni: ad esempio, nel giorno dell’Espiazione o Kippur (§77), il sommo sa­cerdote li praticava ambedue insieme, giacché confessava le colpe di tutto il popolo (Levitico, 16, 21) e compiva su di sé una par­ticolare abluzione (IVI, 16, 24). Giovanni, dunque, non usciva dal gran quadro del giudaismo; ma la sua novità consisteva in questo, che i suoi due riti erano chiesti come preparazione al regno di Dio da lui annunziato ormai come imminente. Era dunque un regno che mirava soprattutto allo spirito come ap­punto vi miravano quei due riti, e un regno che differiva total­mente da quelli annunziati dagli altri predicatori messianici. Co­storo badavano soltanto a denaro, ad armi, ad angeli che calassero dal cielo con le spade in pugno a sbaragliare i Romani, a dominio politico d’Israele sui pagani, e a simili cose molto facili e molto vecchie; al contrario, il regno annunziato da Giovanni era molto difficile e molto nuovo. Se non era del tutto nuovo l’insegnamento di Giovanni, ciò avveniva perché esso si ricollegava direttamente con l’antico insegnamento degli autentici profeti d’Israele; già essi avevano insistito molto più sulle opere di giustizia che sulle cerimonie liturgiche (Isaia, 1, e segg.), molto più sulla circoncisione del cuore e dell’udito che su quella della carne (Geremia, 4, 4; 6, 10), inoltrandosi molto più sulla strada dello spirito che su quella delle formalità rituali: e precisamente su quella strada dello spirito, troppo abbandonata dal giudaismo contemporaneo, adesso s’inoltrava nuovamente Giovanni. Gli antichi vessilli d’Israele, i profeti, erano scomparsi da molto tempo; già da qualche secolo era risonato il lamento: I nostri vessilli piu’ non vediamo; non c’è piu’ profeta, non c’è fra noi chi sappia aIcunch~ Salmo 74 ebr., 9 Adesso si levava su Giovanni, come ultimo e conclusivo profeta. Dirà infatti più tardi Gesù: La legge e i Profeti, fino a Giovanni; da allora del regno d’iddio si dà la buona novella (Luca, 16, 16).

§ 268. Alla predicazione di Giovanni accorsero moltissimi dalla Giu­dea e da Gerusalemme; anche Flavio Giuseppe conferma la grande autorità ch’egli acquistò sulle folle (Antichità giud., XVIII, 116-119). I suoi discepoli diretti e stabili menavano vita assai austera (Luca, 5, 33), ma verso l’altra gente che accorreva egli si mostrava molto condiscendente e remissivo: né ai pubblicani né ai soldati impo­neva d’abbandonare il loro mestiere, ma si limitava a comandare ai primi di non commettere estorsioni e ai secondi di non commet­tere violenze. Questo atteggiamento cosi mite d’un uomo così austero spiacque a quei Farisei e Sadducei che accorsero insieme con la folla, e che perciò s’attirarono da Giovanni la non mite invettiva riportata sopra (§ 265); ma alla loro volta essi, specialmente i Fa­risei e gli Scribi, si vendicarono più tardi richiamando in dubbio o negando apertamente la legittimità della missione di Giovanni (Luca, 7, 29-30; cfr. 20, 1-8). Nonostante questi ostacoli, la corrente iniziata da Giovanni fu lentissima. Molti discepoli di Giovanni seguirono più tardi Gesù, e di costoro conosciamo nominatamente Andrea e Pietro, Giacomo e Giovanni; altri invece rimasero attaccati alla persona del precur­sore, più che allo spirito del suo insegnamento, e si mantennero appartati sulla soglia del cristianesimo anche dopo la morte di Gio­vanni e di Gesù (cfr. Atti, 18, 25; 19, 34): non mancarono poi ma­nifestazioni di gelosia da parte di taluni discepoli di Giovanni verso Gesù, mentre ambedue erano ancora in vita (Giovanni, 3, 26).

§ 269. Giovanni s’intratteneva per lo più lungo il Giordano, in quel tratto di fiume ch’è più accessibile a chi venga da Gerusalem­me, cioè poco sopra al suo sbocco nel Mar Morto ivi era comodità di praticare la cerimonia dell’abluzione nell’acqua del fiume. Tut­tavia alcune volte si trasferiva altrove5 probabilmente quando per abbondanti piogge le rive del fiume erano sdriicciolevoli e fangose o la corrente era pericolosa; sceglieva allora altri luoghi forniti d’ac­qua, di cui sono nominati occasionalmente due, Bethania di là dal Giordano che era appunto un’ampia e tranquilla insenatura fatta dal fiume (§ 162), e Amon presso Salim che è stato riconosciuto in un luogo 12 chilometri a sud di Beisan (Scitopoli) fin dal IV se­colo (Eusebio, Onomasticon, pag. 40). Frattanto le folle che accorrevano a Giovanni crescevano, e tra loro aveva anche cominciato a circolar la domanda se non fosse proprio egli il Messia tanto atteso: la profonda differenza morale tra lui e gli altri banditori del regno messianico aveva impressionato tutti. Ma Giovanni tagliò corto a quella dubbiosa speranza con una dichiarazione ben netta e precisa. No, egli non era il grande ven­turo; egli praticava l’immersione – il greco “battesimo” – soltanto in acqua, ma dietro a lui sarebbe venuto uno ben più potente di lui che avrebbe praticato l’immersione in Spirito santo e fuoco. Que­sto venturo sarebbe stato anche un vagliatore: col ventilabro alla mano avrebbe egli mondato la sua aia, separando e raccogliendo il grano nel suo granaio, e gettando invece la pula nel fuoco. Parole rivoluzionarie, queste, all’orecchio degli Scribi e dei Farisei. L’aia, evidentemente, era l’eletta nazione d’Israele; ma chi era il grano e chi la pula? Se il buon grano erano i discepoli dei rab­bini osservanti delle “tradizioni” e la pula erano tutti gli altri, s’andava d’accordo con Giovanni; ma quel singolare predicatore dava ben poche garanzie di pensare così, non foss’altro per la be­nignità stessa con cui trattava i pubblicani e i soldati, che invece dovevano essere respinti come appartenenti al sozzo e impuro “popolo della terra” (§ 40). Basta: non rimaneva che aspettare quel grande venturo preannun­ziato da Giovanni, e frattanto vigilare su questo suo precursore.

§ 270. Un giorno, insieme con la folla, si presentò anche Gesù; veniva da Nazareth, certamente insieme con altri Galilei perché an­che in Galilea si doveva esser diffusa la fama di Giovanni e l’en­tusiasmo per lui. Era mescolato fra gli altri penitenti, uno fra i tanti: nessuno lo conosceva, neppure Giovanni suo parente. Più tardi, riferendosi a questo giorno del primo incontro, Giovanni atte­stò di Gesù: Io non lo conoscevo; ma Chi m’inviò a battezzare in acqua, Colui mi disse:”Su chi tu veda lo Spirito discendente e fermantesi su lui, egli è il battezzante in Spirito santo” (Giovanni, 1, 33). Questa ignoranza per la persona di Gesù non sorprenderà chi abbia presenti le vicende di Giovanni: già da ragazzo egli si era allon­tanato dalla casa paterna per darsi al deserto (§ 237), e nulla ci dice ch’egli sia rientrato talvolta tra i suoi familiari nel ventennio circa di sua solitudine. Nel frattempo i suoi già vecchi genitori do­vevano esser morti ambedue, ma ambedue e specialmente la ma­dre gli erano spiritualrnente presenti anche nella solitudine. Per qual ragione, del resto, si era egli ritirato nel deserto, se non per le straordinarie cose che gli avevano narrate della sua nascita i geni­tori e specialmente la madre? Egli era un uomo che aveva avuto fede, e viveva totalmente della sua fede. Perciò anche non si era curato di conoscere materialmente quel mi­sterioso figlio di Maria nato sei mesi dopo di lui; lo conosceva frat­tanto spiritualmente, e per il resto aveva fede che a suo tempo Iddio glielo avrebbe fatto conoscere anche materialmente. Ma un certo presentimento l’aveva; quando scorse Gesù tra la folla che si pre­parava al battesimo, la voce dello Spirito e anche quella del sangue gli fecero divinare, in quell’uno fra i tanti, il Messia e il suo pa­rente, sebbene ancora non avesse visto su lui il segno prestabilito (Matteo, 3, 14-15). Vinta la prudente riluttanza di Giovanni, Gesù fu da lui battezzato, e allora la divinazione si tramutò in certezza. Avvenne infatti il segno di riconoscimento. Gesù in apparenza di penitente, ma senza confessare alcun peccato, era sceso in acqua: ed ecco che quando ne risalì, s’aprì’ il cielo al di sopra, lo Spirito in forma di colomba discese su lui e si udì dall’alto una voce: Tu sei il figlio mio diletto; in te mi compiae qui (Marco, 1, 11). La manifestazione celeste fa ripensare all’altra sulla grotta di Beth­lehem (§ 247): il Messia là iniziava la sua vita fisica, qua il suo ministero; là è dato un annunzio a pecorai, qua è dato un segno al precursore innocente e un annunzio a peccatori pentiti. Ma, come avvenne per l’annunzio di Beth-lehem, anche questo delle rive del Giordano ebbe un’efficacia assai limitata quanto al tempo e quan­to al numero dei destinatari. Pochi mesi appresso, due discepoli di Giovanni verranno inviati dal loro stesso maestro a domandare a Gesù se egli era proprio l’atteso Messia (§ 339).

Il deserto e le tentazioni

§ 271. Compiendo su di sé il rito del suo precursore, Gesù si ri­collegava all’operosità di lui ed iniziava la propria. Ma ogni grande impresa è preceduta da una preparazione prossima, oltre a quella remota, e Gesù accettò anche questa comune norma e premise al suo ministero pubblico un periodo di preparazione. Il periodo durò quaranta giorni. Quaranta, infatti, è un numero tipico nell’Antico Testamento, e riferito a giorni o ad anni ricorre in molti casi biblici: i più analoghi al nostro sono quello di Mosè, che stette sul monte Sinai alla presenza di Jahvè 40 giorni e 40 notti: pane non mangiò e acqua non bevve (Esodo, 34, 28), e l’altro di Elia che dopo aver mangiato il cibo apportatogli dall’angelo camminò per la forza di quel cibo 40 giorni e 40 notti fino in Horeb, monte di Dio (i [III] Re, 19, 8). Di Gesù è narrato che, dopo il suo battesimo, fu condotto su nel deserto dallo Spirito per essere tentato dal diavolo; e avendo digiunato 40 giorni e 40 notti, dopo ebbe fame (Matteo, 4, 1-2). Non è da pensare che questo di Gesù fosse l’ordina­rio digiuno giudaico rinnovato per 40 giorni di seguito: il digiuno giudaico obbligava fino al tramonto del sole, ma al calar della sera si prendeva cibo (come ancor oggi presso i musulmani nel Ramadan), mentre il digiuno di Gesù è ininterrotto per 40 giorni e 40 notti, ap­punto come quelli di Mosè e di Elia. E’ evidente che il fatto è presen­tato come assolutamente soprannaturale. Inoltre, l’informatore dal quale la catechesi primitiva ha saputo il fatto non può essere stato altri che Gesù. In quei 40 giorni infatti egli rimase senza alcun te­stimonio; era con le fiere come dice Marco (1, 13), il quale riassume in poche parole questo periodo quadragesimale esposto più ampia­mente dagli altri due Sinottici. Perciò la scarsezza di precisione, e soprattutto il carattere sopran­naturale dei singoli episodi, rendono questa quadragesima arduissi­ma a spiegarsi, molto più di altre pagine evangeliche su cui oggi tanto si discute; ma le pagine oggi tanto discusse passeranno certamente in seconda linea quando un certo spiritualismo – foss’anche non cristiano – avrà sostituito il greve positivismo imperante oggi sugli studiosi, al contrario la quadragesima del deserto rimarrà per qualunque tempo e per qualunque mentalità un libro chiuso di cui è dato leggere in tralice solo poche parole. Tuttavia il titolo del libro, ossia il suo contenuto generico, è ben leggibile; e fu esattamente decifrato appunto dalla catechesi primi­tiva, la quale ammoni: Non abbiamo un sommo sacerdote inca­pace di compatire alle infermità nostre, bensì uno tentato in tutte le cose a somiglianza (nostra), senza peccato (Ebrei, 4, 15; cfr. 2, 17-18). In altre parole per la catechesi primitiva il significato, ge­nerico ma genuino, della quadragesima nel deserto fu che Gesù permise di esser tentato per compiere la somiglianza con i suoi seguaci, esposti egualmente a tentazione, e per dare ad essi un e­sempio e un conforto nelle loro infermità: la quale interpretazione, oltre tutto il resto, corrisponde ad una ben fondata norma psi­cologica. Questo, il titolo del chiuso libro come fu letto dai primi diffusori della buona novella: la lettura dei suoi tre capitoli fu lasciata alle possibilità e all’abilità dei singoli.

§ 272. Il luogo ove Gesù passò questa quadragesima è, secondo una tradizione attestata nel secolo VII ma risalente forse al IV, il monte chiamato oggi dagli Arabi “della Quarantena” (Gebel Qarantal) e la cui cima ai tempi dei Maccabei era chiamata Duq (« osserva­torio »); quella cima, su cui stava il fortilizio ove fu assassinato Si­mone, ultimo dei Maccabei, s’eleva circa 500 metri sulla vallata del Giordano, e tutto il monte chiude verso occidente questa val­lata sovrastante a Gerico; il luogo è sempre stato più o meno de­serto, e solo dal secolo V le grotte che s’aprono numerose lungo le pendici del monte servirono da stabile dimora a monaci bizantini. Se dunque Gesù fu battezzato nel Giordano circa all’altezza di Ge­rico – com’è probabile (§ 269) – il cammino dal luogo di batte­simo a quello del ritiro fu di pochi chilometri. Quoties inter homines fui, minor homo redii, esclamerà a Roma alcuni anni più tardi un filosofo la cui pratica non s’accordava con la teoria. Gesù, alla vigilia di entrare fra gli uomini, sta lontano totalmente da essi per 40 giorni, quasi per fare ampia provvista di quella umanità di cui gli uomini erano privi e ch’egli avrebbe diffuso tra loro. Le condizioni straordinarie, anche fisicamente, in cui Gesù passò quei 40 giorni sembrano potersi intravedere dalle parole dei due evangelisti, secondo le quali egli ebbe fame dopo quei giorni (Mat­teo, 4, 2) ossia finiti che furono quelli (Luca, 4, 2). In precedenza, dunque, non sentì egli lo stimolo della fame? Passò egli forse la quadragesima in condizioni di estasi così alta ed astratta, che i pro­cedimenti organici della vita fisica erano quasi sospesi? Sono domande, queste, a cui lo storico non ha elementi da rispondere, e lascerà liberamente il campo, più che al teologo, al mistico.

§ 273. Avvertita la fame dopo i 40 giorni, si presenta a lui il ten­tatore, chiamato soltanto Satana (§ 78) da Marco, soltanto diavolo da Luca, con ambedue i termini nella narrazione di Matteo. La riassuntiva narrazione di Marco non specifica le singole tentazioni, come del resto non fa alcun accenno neppure al digiuno; negli altri due Sinottici le tentazioni sono tre, ma enumerate secondo una serie differente: la serie seguita da Matteo sembra preferibile. Il tentatore gli disse: Se figlio sei d’Iddio, di’ che questi sassi diven­tino pani! – Ma egli rispondendo disse: Sta scritto “Non di pane solo vivrà l’uomo, ma d’ogni parola uscente per la bocca di Dio” (Matteo, 4, 3-4). Il passo citato sta in Deuteronomio, 8, 3, e la citazione è fatta da Matteo conforme al greco dei Settanta; ma Gesù citò certamente conforme all’originale ebraico, il quale suona “Non di pane solo vive l’uomo; ma di tutto ciò che esce dalla bocca di Jahve’ vive l’uomo”. Queste ultime parole si riferiscono alla man­na, menzionata ivi poco prima, ch’era stata prodotta per ordine della bocca di Jahve’ onde nutrire gli Ebrei nel deserto. Il tentatore aveva sfidato Gesù ad impiegare il potere taumaturgi­co, ch’egli aveva come figlio di Dio, per ottenere uno scopo rag­giungibile con mezzi non taumaturgici; Gesù risponde che il pane necessario può essere ottenuto, oltreché per i soliti mezzi umani, anche per predisposizione divina come nel caso della manna, sen­za impiegare sconsideratamente poteri taumaturgici per istigazione altrui. La mira del tentatore, che aveva voluto esplorare se Gesù fosse ed avesse coscienza d’esser figlio di Dio, era fallita; la sua isti­gazione ad operare un miracolo superfluo era rimasta inefficace; la cura del sostentamento materiale, a cui il tentatore aveva subor­dinato il potere taumaturgico, era invece subordinata da Gesù alla provvidenza di Dio.

§ 274. La seconda tentazione, come anche la terza, si svolgono in una sfera tutta sovrumana. Allora il diavolo lo prende seco (conducendolo) nella santa città e lo collocò sopra il pinnacolo del tempio, e gli dice: Se figlio sei d’iddio, gettati giu’; sta scritto infatti “Agli angeli di lui darà ordine riguardo a te, e sulle mani ti solleveranno affinché mai tu urti contro un sasso il piede tuo”. Disse a lui Gesu’: Sta scritto pur anche “Non tenterai il Signore, il Dio tuo” (Matteo, 4, 5-7). La città santa, com’è chiamata ancor oggi dagli Arabi (el Quds), è Gerusalemme, nominata esplicitamente nel parallelo Luca; il pinnacolo del tempio – non del santuario – era l’angolo dove il ”portico di Salomone” si congiungeva col “portico regio” (§ 48), che sovrastava altissi­mo alla valle del Cedron. Il diavolo invita dunque Gesù ad una prova messianica: se egli è il figlio di Dio, ne sarà una splendida dimostrazione davanti al po­polo affollato negli atrii del Tempio quella di gettarsi nel vuoto, giacché gli angeli accorreranno a sostenere il lanciato Messia, si che tocchi terra dolcemente come foglia staccatasi da un albero e che cali cullata da un venticello. Sotto l’aspetto storico si riscontra che l’opinione del diavolo non era solitaria, bensì condivisa da molti Giudei contemporanei. Un ventennio più tardi, sotto il procuratore Antonio Felice (anni 52-60), i taumaturghi messianici pullùlarono come fungaia e ne fu uccisa dai Romani una gran moltitudine; cosi dice Flavio Giuseppe (Guer­ra giud., Il, 259 segg.), il quale ricorda in particolare che un falso profeta egiziano, raccolti migliaia di seguaci sul Monte degli Olivi, aveva promesso che di là sarebbe entrato nella sottostante Gerusa­lemme sbaragliando i Romani, certo in virtù di qualche strabiliante aiuto celestiale. In sostanza, l’egiziano seguiva il consiglio dato dal diavolo a Gesu’, con la sola differenza che il gran giuoco di presti­gio messianico sarebbe avvenuto nel lato orientale della valle del Cedron, invece che sul lato occidentale dov’era il pinnacolo del Tempio. Come aveva fatto Gesù nella tentazione precedente, anche il dia­volo questa volta cita la Scrittura, cioè il Salmo 91 (ebr.), 11-12. Ma, come osserva ironicamente S. Girolamo, il diavolo qui si di­mostra cattivo esegeta, perché il Salmo promette la protezione di­vina a chi si comporti da pio ed osservante, non già a chi provochi arrogantemente Dio. La nuova citazione di Gesù, presa dal Deute­ronomio, 6, 16, rettifica il contorcimento scritturistico del diavolo. In che maniera avvennero questa tentazione e quella seguente, in maniera reale ed oggettiva o soltanto in suggestione e visione sog­gettiva? Dal Medioevo si cominciò a credere che tutto avvenisse in visione, perché si giudicò indegno del Cristo che fosse trasportato dal diavolo qua o là e rimanesse anche limitatamente in potere di lui. Gli antichi Padri, tuttavia, non trovarono in ciò alcuna difficoltà, e interpretarono comunemente i fatti come reali ed oggettivi. Con i Padri, inoltre, sembra che abbia pensato anche Luca, allor­ché chiudendo il racconto di tutte e tre le tentazioni accenna vela­tamente ai fatti della passione di Gesù come a nuovi assalti del diavolo (§ 276): e la passione fu costituita indubbiamente da fatti reali ed oggettivi.

§ 275. Nuovamente il diavolo lo prende seco (conducendolo) in un monte elevato assai, e gli mostra tutti i regni del mondo e la loro gloria, e gli disse: Queste cose ti darò tutte quante, se caduto (ai miei piedi) mi adori! – Allora gli dice Gesu’: Vattene, Satana! Sta scritto infatti”(Il) Signore il Dio tuo adorerai, e a lui solo ren­derai culto” (Matteo, 4, 8-10). A questa relazione Luca (4, 5-8) aggiunge alcuni particolari: cioè, che la visione di tutti i regni del mondo avvenne in un punto di tempo o come diremmo noi “in un batter d’occhio”; inoltre, che il diavolo mo­strando la possanza dei regni e la loro gloria dichiarò perché a me e’ stata concessa e a chi voglio la do. In quest’ultima dichiarazione il padre della menzogna mentiva forse meno dell’ordinario; ad ogni modo il millantato credito era evidente, poiché nella sacra Scrit­tura era stato affermato molte volte che tutti i regni della terra appartenevano, non già al diavolo, ma a Jahvè Dio d’Israele (Isaia, 37, 16; 11 Cronache, 20, 6; ecc.) e insieme al suo Messia (Daniele, 2, 44; Salmo 72 ebr., 8-11; ecc.). E’ notevole però che in questa terza tentazione, narrata come seconda da Luca, il diavolo non ripete la proposizione condizionale di sfida se figlio sei d’iddio, con cui aveva cominciato le altre due volte; si era egli forse convinto del contra­rio, ovvero in quest’ultimo e più violento assalto giudicò inutile quella formula dubitativa? Non ne sappiamo nulla, come nulla sappiamo del monte elevato assai su cui avvenne la visione dei regni e che da Luca non è neppur ricordato; pensare al Tabor o al Nebo, come fecero alcuni commentatori del passato, è da inesperti della Palestina perché quei due monti sono d’altezza modesta – il Tabor di 562 metri sul Me­diterraneo, e il Nebo di 835 metri – e chi è salito su quelle due cime sa benissimo che il panorama non s’estende neppure a tutta la Palestina; ma anche se fosse stato il Monte Bianco o un altro anche più elevato non si sarebbero certamente scorti tutti i regni del mondo per visione naturale. Fu dunque una visione, avvenuta si in cima all’ignoto monte, ma ottenuta con mezzi preternaturali a noi ignoti. Al tentato, il diavolo richiede l’omaggio che si usava con i monar­chi della terra e col Dio del cielo, quello di prostrarsi a terra ado­rando: è l’atto di chi si ritiene moralmente più basso dell’adorato, e ne accetta la superiorità su di sé. Alla proposta Gesù risponde citando la Scrittura, cioè Deuteronomio, 6, 13, che giace nel con­testo da cui è tolta la prima parte dello Shemac (§ 66); tuttavia il passo citato suona nell’oritinale ebraico alquanto diversamente da come è allegato nei due Sinottici, cioè Jahve’ Dio tuo temerai, e lui servirai, sebbene il senso dell’allegazione evangelica sia implicito nell’originale ebraico.

§ 276. Tutte e tre le tentazioni mostrano una chiara relazione con l’ufficio messianico di Gesù, al quale contrastano. La prima lo vor­rebbe indurre ad un messianismo comodo ed agiato; la seconda, ad un messianismo raccomandato a vuote esibizioni taumaturgiche; la terza, ad un messianismo che si esaurisca nella gloria politica. Come Gesù ha superato adesso queste tre tentazioni, così nella sua operosità successiva continuerà a contraddire ai principii su cui esse si fondano. Dopo la terza tentazione Matteo aggiunge che il diavolo, quasi per eseguire il comando di Gesù “Vattene, Satana!”, effettivamente si partì da lui, ed ecco che gli angeli si fecero dap presso e ministra­vano a lui (Matteo, 4, 11). Luca non accenna agli angeli, ma offre una particolarità riguardo alla partenza del diavolo, il quale si allontanò da Lui fino a tempo (opportuno) (Luca, 4, 13). Non c’è da ingannarsi su questo tempo (opportuno): è la futura passione di Gesù, allorché egli esclamerà rivolto alla turba di Giuda questa e’ l’ora vostra e la potestà della tenebra (Luca, 22, 53), e al­lorché Satana entrerà nell’interno di Giuda (ivi, 3) e vaglierà gli Apostoli come grano (ivi, 31). In quell’occasione Gesù dirà agli Apostoli di pregare per non entrare in tentazione (ivi, 40), ed egli stesso entrato nella suprema angoscia pregherà più intensamente (ivi, 44); ora appunto in quell’occasione Luca, che non ha ricordato gli angeli ministranti a lui dopo le tre tentazioni, parlerà dell’angelo disceso dal cielo per confortarlo (ivi, 43). La passione dunque, nel pensiero di Luca, fu il tempo (opportuno) riservatosi da Satana per mùovere il più violento e l’ultimo assalto.

Giovanni declinante e Gesu’ ascendente.

§ 277. Nel frattempo Giovanni il Battista continuava il suo ministero, e tanto più continuavano a vigilarlo i potentati di Gerusa­lemme (§ 269). Ma, insomma, chi era quel solitario indipendente, nè Fariseo nè Sadduceo, nè Zelota nè romanofilo, nè Esseno nè Erodiano, che amministrava un battesimo non incluso nel cerimoniale giudaico e predicava un “cambiamento di mente” (§ 266) non contemplato dalla casuistica degli Scribi? Pazienza poi se fosse rimasto solitario nel suo deserto, tutt’al più con un gramo codazzo di discepoli appresso; costui invece si trascinava appresso le folle, e correvano a lui da Gerusalemme e dalla Giudea non meno che dalla lontana Galilea. Indubbiamente quell’uomo era una forza morale di prim’ordine, e coloro che in Gerusalemme tenevano in mano le briglie del giudaismo non potevano lasciarlo ancora sbrigliato. O con loro, o contro di loro. Dichiarasse una buona volta apertamente chi era e che cosa voleva! Per sapere questo si ricorse, naturalmente, a una commissione. Sic­come poi lo scopo interessava più o meno tutti, così si scelse una commissione mista in cui entrarono sia sacerdoti e Leviti, cioè in maggioranza Sadducei, sia autentici Farisei, e tutti insieme da Gerusalemme si recarono a Bethania d’oltre il Giordano (§ 269), ove in quel tempo s’intratteneva Giovanni. La commissione si presenta, non come accusatrice, ma solo come investigatrice; essa rappresenta i maggiorenti e i benpensanti del giudaismo che hanno diritto di sapere, quindi domanda a Giovanni: Tu chi sei? (Giovanni, 1, 19). Circa quattro secoli e mezzo prima, dai maggiorenti e benpensanti di Atene era stata rivolta l’identica domanda a Socrate: Tu, insom­ma, chi sei? (Arriano, Epitteto, III, 1, 22). Ma la domanda dei Ge­rosolimitani, pur nella sua imprecisione, mirava ad uno scopo ben preciso; poiché le grandi folle che accorrevano a Giovanni si chie­devano sempre più insistentemente se egli fosse il Messia, la coni-missione voleva investigare che cosa pensasse su ciò Giovanni stesso. Ma Giovanni confessò e non negò, e confessò: Io non sono il Cristo (Messia) (Giovanni, I, 20). Quelli replicarono: Sei Elia, che tutti aspettano come precursore del Messia? Sei il profeta, quello pari a Mosè che dovrà apparire ai tempi messianici? – A ogni domanda Giovanni risponde: No! – Ma dunque chi sei, insistono i commis­sari, perché dovremo pur riportare una risposta a Gerusalemme! – Io sono la voce di chi grida nel deserto: “Raddrizzate la via del Signore”, come dice il profeta Isaia (Isaia, 40, 3). La risposta non soddisfece i commissari, specialmente i Farisei. Perciò questi replicarono: Ma allora, se tu non sei nè il Cristo nè Elia né il profeta, perché battezzi? – E allora Giovanni ripeté a loro l’annunzio già dato alle folle: egli battezzava in acqua ma in mezzo a loro stava uno ch’essi non conoscevano, che veniva dopo di lui, e del quale egli non era degno di sciogliere il legaccio dei calzari.

§ 278 Il giorno appresso a questo incontro, avendo finito la sua quadragesima, Gesù venne di nuovo a Giovanni presso il fiume. Giovanni lo scorse tra la folla e additandolo ai propri discepoli esclamò: Guarda! L’agnello d’Iddio, quello che toglie il peccato del mondo! Questi e’ colui del quale io dissi “Dopo di me viene un uomo che avanti a me è stato (promosso), perché prima di me era”; e dopo aver alluso all’apparizione avvenuta al battesimo di Gesù, concluse: E io ho veduto e ho attestato che questi e’ il figlio d’iddio (Giov., 1, 29… 34). La metafora di Giovanni, che chiamava Gesù l’agnello d’iddio, fa­ceva insieme tornare alla mente degli uditori giudei i veri agnelli che erano sacrificati nel Tempio di Gerusalemme ogni giorno, e soprattutto alla Pasqua: a qualche uditore più versato nelle scrit­ture poteva anche ricordare che, in esse, il futuro Messia era stato contemplato come un agnello portato a scannare per i delitti altrui (Isala, 53, 7 e 4), e che pure altri profeti vi erano stati rassomigliati a quel mite animale destinato ordinariamente a vittima (Geremia, 11, 19) Il collegamento fra i due concetti di agnello-vittima e di figlio di Dio sarà sfuggito probabilmente a quasi tutti gli uditori, ma a Giovanni doveva stare molto a cuore, tanto che vi ritornò sopra il giorno appresso. Il giorno seguente (questa precisione cronologica è dell’accurato evan­gelista non sinottico: (Giov., 1, 35; cfr. § 163), mentre Giovanni s’intratteneva con due soli discepoli, vide nuovamente Gesù che pas­sava lì presso, e additandolo esclamò ancora: Guarda! L’agnello d’Iddio! I due discepoli, colpiti dalla frase e dalla sua insistenza, discostatisi da Giovanni si misero a seguire Gesù che si allontanava. Scortili Gesù, domandò loro: Che cercate? – Quelli risposero: Rab­bi, ove dimori? – E Gesù a loro: Venite e vedrete. – S’accompa­gnarono infatti con lui alla sua dimora, la quale a causa della molta gente accorsa a Giovanni poteva essere una di quelle capanne per guardiani di campi usate ancora oggi nella vallata di Gerico. Erano circa le quattro del pomeriggio. I due discepoli di Giovanni ri­masero cosi dominati dalla potenza dello sconosciuto Rabbi, che s’intrattennero con lui il resto di quel giorno e certo anche la notte seguente. I due erano scesi giù dalla Galilea: uno era Andrea, fratello di Si­mone Pietro: l’altro è innominato, ma ciò basta in questa narrazione a farlo riconoscere come se fosse anch’egli nominato. E’ l’evangelista Giovanni, il testimone che può narrare questi fatti con tanta pre­cisione di giorni e di ore; è l’adolescente neppur ventenne destinato a diventare il discepolo che Gesu’ amava (§ 155), e che in quel pri­mo giorno in cui incontrò Gesù avrebbe potuto scrivere nel libro di sua vita, con veracità ben più alta che l’Alighieri il giorno che incontrò Beatrice, Incipit vita nova. Dopo quella prima permanenza con Gesù, il fervido Andrea volle accomunare nella propria letizia suo fratello Simone. Rintracciatolo, gli dice: Sai? Abbiamo trovato il Messia! – Lo accompagna quindi a Gesù. Gesù lo guarda, e poi gli dice: Tu sei Simone figlio di Giovanni; tu però ti chiamerai Kepha. – In aramaico kepha significa “roccia”, ma come nome personale non appare usato nell’Antico Testamento e neppure ai tempi di Gesù; a sentirsi rivolgere quelle inaspettate parole è molto probabile che Simone non ne capisse nulla, o tutt’al più giudicasse che l’ignoto Rabbi con la sua mente correva appresso a idee tutte sue personali (§ 397).

In Galilea

§ 279. Nel giorno ancora seguente, come ci dice l’evangelista testi­mone dei fatti, Gesù volle ritornare in Galilea; il congiungimento spirituale fra la sua missione e quella del precursore era compiuto, e nulla più lo riteneva per ora in Giudea. Questo primo ritorno in Galilea non è ricordato dai Sinottici; i quali parlano soltanto del secondo ritorno, quello avvenuto dopo l’imprigionamento del pre­cursore (§ 298). L’evangelista Giovanni, come al solito, supplisce alla loro omissione; non si trattiene però a descrivere il viaggio (mentre descriverà il viaggio del secondo ritorno omesso dagli altri; § 293), e passa a parlare di Gesù già tornato in Galilea. Ivi perciò avven­nero i fatti successivi. Insieme con Gesù dovettero tornare in Galilea i tre discepoli ch’e­rano passati a lui dalla sequela del precursore, e ch’erano di Beth­saida sui confini della Galilea (§ 19), cioè i due fratelli Andrea e Simone Pietro e l’innominato Giovanni. Giunti lassù, i tre fervorosi non mancarono certamente di raccontare a familiari ed amici quan­to sapevano sul conto di Gesù e di additarlo con entusiasmo in Bethsaida, che pare fosse la prima sosta dopo il viaggio. Fra queste accoglienze Gesù incontra uno del paese, certo Filippo, e gli dice: Viemmi appresso! – Non si trattava di una sequela di poche ore, ma abituale, e Filippo che già doveva essere entusiasmato dai rac­conti dei tre compaesani accettò con fervore. Anzi, a sua volta, cominciò a parlare ad altri dell’ammirato Rabbi; ma qui invece incontrò una gelida accoglienza. Trovatosi con un suo amico, Nathanael, gli confidò tutto vibrante di gioia: Sai? Ab­biamo trovato colui di cui parlano Mosè e i Profeti! lì Gesù figlio di Giuseppe, quello di: Nazareth! – Nathanael doveva essere un uomo molto calmo e posato; per di più era di Cana (Giovanni, 21, 2) vi­cina a Nazareth, e quindi conosceva bene la patria del decantato Rabbi. A sentire che costui veniva fuori da quel miserabile ammasso di tuguri, rispose spregiosamente: Da Nazareth ci può esser qual­cosa di buono? (§ 228). La sfiduciante risposta non raffreddò il fervore di Filippo, che ri­corse alle prove di fatto. Vieni e vedi! replicò egli; e Nathanael – come già Giulio Cesare – venne, vide, ma invece di vincere rimase vinto.

§ 280. Appena Gesù scorse il diffidente che si avvicinava esclamò: Guarda! Uno davvero Israelita, in cui non e’ inganno! (§ 251). La lode era certamente meritata, e una prova ne può essere la diffi­denza stessa mostrata da Nathanael al primo annunzio ch’era stato trovato il Messia; fra tanti esaltati o ciarlatani che andavano in giro additando in sé o in altri il Messia, un Israelita sincero aveva ogni diritto di diffidare. Perciò l’Israelita richiese: Donde mi conosci? – Rispose Gesu’ e gli disse: Prima che Filippo ti chiamasse, mentre eri sotto il fico, ti vidi! (Giovanni, 1, 48). Era una vecchia tradizione in Palestina di avere vicino alla propria casetta un denso albero di fico, per passare sotto quell’ombra ore riposate e serene (cfr. I [III] Re, 4, 25; Michea, 4, 4; Zacharia, 3,10); ai tempi di Gesù i rabbini vi s’intrattenevano volentieri per studiare indisturbati la Legge. Se dunque Gesù dice qui a Nathanael di averlo scorto sotto l’ombroso ritiro, non annunzia una scoperta ma­terialmente straordinaria; ma la sorpresa dovette essere straordina­ria spiritualmente, in quanto cioè i pensieri che Nathanael rivolgeva in mente là in quel suo ritiro dovevano avere qualche relazione con l’imminente incontro. Pensava egli forse al vero Messia, avendo udito le strane voci che correvano in paese a proposito di Gesù testé giunto? Domandava egli in cuor suo a Dio un “segno” in proposito, come lo aveva domandato Zacharia (§ 227)? Non siamo in grado di rispondere con precisione; tuttavia è chiaro che Natha­nael trovò perfettamente vera la parola rivoltagli: Gesù l’aveva ve­ramente visto nell’interno dei suoi pensieri, più che nella situazione della sua persona. Il retto Israelita rimase sgomento, e l’uomo calmo e posato fu in­vaso a un tratto da fervore: Rabbi, tu sei il figlio d’iddio! Tu sei re d’israele! Nathanael dunque concordava adesso con Filippo nel riconoscere Gesù come Messia. Era un generoso, ma forse anche troppo. Gesù infatti gli rispose: Perché ti dissi che ti vidi sotto il fico, credi? Cose maggiori di queste vedrai; volgendosi poi anche a Filippo e forse ad altri presenti continuò: in verità, in verità vi dico, vedrete il cielo aperto e gli angeli d’iddio ascendenti e discen­denti sul figlio dell’uomo! L’allusione si riferisce al sogno di Gia­cobbe (Israele), che vide gli angeli ascendere e discendere lungo la misteriosa scala (Genesi, 28, 12); analoga a quella scala che colle­gava la terra col cielo, sarà la missione di Gesù della quale saranno testimoni quei suoi primi discepoli, discendenti da Giacobbe e dav­vero israeliti. Questo Nathanael non è mai nominato dai Sinottici, ma solo da Giovanni; al contrario i Sinottici nominano fra gli Apostoli un Bar­tolomeo, che non è mai nominato da Giovanni. lì molto probabile che, come avveniva spesso a quei tempi, la stessa persona avesse i due nomi di Nathanael e di Bartolomeo, tanto più che nelle liste degli Apostoli Bartolomeo è nominato di solito insieme con Filippo, cioè proprio l’amico di Nathanael.

Le nozze di Cana

§ 281. Il colloquio con Nathanael è un nuovo punto di partenza per la cronologia dell’evangelista Giovanni; egli fa sapere che il terzo giorno dopo quel colloquio si fecero nozze in Gana della Ga­lilea, ed era la madre di Gesu’ colà; e fu invitato anche Gesu’, e i suoi discepoli, alle nozze (Giov., 2, 1-2). Poiché, come abbiamo visto, Nathanael era appunto di Cana, è verosimile che egli stesso abbia invitato Gesù e i suoi discepoli Andrea, Pietro, Giovanni e Filippo alle nozze, le quali saranno state di qualche parente o amico di Nathanael stesso; tuttavia dalle parole di Giovanni sembra risultare chiaramente che era la madre di Gesu’ colà anche prima dell’arrivo del figlio, e ciò induce a congetturare che pure tra Maria e uno degli sposi esistesse qualche legame: come parente o amica, ella si sarà recata là qualche giorno prima per aiutare le donne di casa nei preparativi, specialmente della sposa, ch’erano lunghi. Non han­no invece alcuna verosimiglianza certi almanaccamenti tardivi che vedono nello sposo o Nathanael stesso, l’evangelista Giovanni, o altri. La Cana visitata comunemente oggi in Palestina è Kefr Kenna, che seguendo la strada maestra sta circa a 10 chilometri a nord-est di Nazareth sul percorso verso Tiberiade e Cafarnao, mentre ai tempi di Gesù la distanza fra questa Cana e Nazareth era 3 o 4 chilometri più breve. Ma anticamente esisteva un’altra Cana ridotta oggi a un campo di ruderi, Kirbet Qana, a 14 chilometri a nord di Nazareth. Si disputa fra gli archeologi quale di questi due luo­ghi sia la Cana del IV vangelo; in favore di ambedue i luoghi esi­stono ragioni non spregevoli, sebbene non decisive, e le stesse rela­zioni scritte degli antichi visitatori sono applicate in favore dell’uno o dell’altro. La questione dunque è tuttora incerta, e d’altra parte non è cosa indispensabile risolverla. Le nozze di Cana furono i nissu’in del cerimoniale giudaico (§ 231). La festa che li accompagnava era certamente la più solenne di tutta la vita per la gente di basso e medio grado sociale, e poteva du­rare anche più giorni. La sposa usciva dalle mani delle parenti e delle amiche tutta ag­ghindata pomposamente, con una corona in testa, imbellettata in viso, con gli occhi splendenti di collirio, con i capelli e le unghie dipinti, carica di collane, braccialetti e altri monili per lo più falsi o presi in prestito. Lo sposo, incoronato anch’esso e circondato da­gli “amici dello sposo”, andava sul far della sera a rilevare la sposa dalla casa di lei, per condurla alla propria; la sposa io atten­deva circondata dalle sue amiche, munite di lampade ed acclamanti al giunger dello sposo. Dalla casa della sposa a quella dello sposo si procedeva in corteo, a cui prendeva parte tutto il paese, con luminarie, suoni, canti, danze e grida festose. Tanta era l’autorità morale di siffatti cortei, che perfino i rabbini interrompevano le lezioni nelle scuole della Legge ed uscivano con i loro discepoli a festeggiare gli sposi. A casa dello sposo si teneva il pranzo, con canti e discorsi augurali, i quali talvolta non erano immuni da allusioni ardite, specialmente quando il pranzo era inoltrato e la comitiva era tutta più o meno brilla. Si beveva infatti senza parsimonia, si tracannava cordialmente, es­sendone tanto rara l’occasione per gente che tutto l’anno faceva vita grama e stentata. E si bevevano vini speciali, messi in serbo da gran tempo e custoditi appunto per quella festa; ancora oggi si possono scorgere in un oscuro angolo di qualche casa araba file di misteriose giarre, e il padrone di casa dirà con compunzione grave che non devono toccarsi perché è vino per nozze. Del resto nelle sacre Scritture ebraiche si leggeva che il vino letifica il cuore del­l’uomo, e quella gente voleva obbedire alle Scritture almeno nella letizia nuziale.

§ 282. A tale festa così cordiale, così umana anche nelle sue debolezze, volle partecipare Gesù, come certamente pure Maria avrà con­tribuito al pomposo rivestimento della sposa. Quando Gesù era an­cora ragazzo a Nazareth, sua madre gli avrà più volte narrato che un po’ di festicciuola era stata fatta anche quando si erano celebrati i nissu’in per lei, ed ella era entrata in casa di Giuseppe (§ 239). Allora era sorta una nuova famiglia, che Gesù aveva onorata e santificata con un’obbedienza trentennale; adesso, ch’egli sta per uscire da questa famiglia, quasi si volge addietro con rimpianto e vuole onorare e santificarne il principio morale costitutivo. Per questa ragione Gesù, il nato da vergine e che morirà vergine, in­terviene a nozze al termine della sua vita privata e al cominciare di quella pubblica. Anzi, la cominciò con un miracolo tale che, mentre dimostrava la potenza di lui, direttamente servì a rendere sempre più liete e fe­stose quelle nozze. Accortamente Giovanni (2, 11), dopo aver raccontato il miracolo, conclude osservando che quello di Cana fu l’inizio dei “segni” miracolosi di Gesù. A Cana Gesù ritrovò sua madre dopo circa due mesi d’assenza. Era stata forse la prima lunga assenza di lui dalla casa paterna; essendo già morto Giuseppe, la bottega in quel tempo era rimasta inope­rosa e Maria senza compagnia. In quella prima solitudine, più che mai, ella avrà ripensato a lui, alla sua nascita e alla sua preannun­ziata missione, intravedendo che questa stava per cominciare: e avrà fatto ciò, mentre doveva schermirsi dalle domande delle indi­screte donne del paese, o anche dai frizzi degli acrimoniosi parenti (§ 264), che avranno voluto sapere perché Gesù l’avesse la­sciata sola, e dove fosse andato, e a quale scopo, e quando sarebbe tornato. Adesso, a Cana, ella se lo rivedeva davanti, già chiamato Rabbi, considerato come un maestro e circondato da alcuni fervo­rosi discepoli: indubbiamente la previsione fatta nella sua solitudine stava per avverarsi. Ma, anche davanti al Rabbi, Maria rimase sem­pre madre, quale si era mostrata davanti al ragazzo dodicenne di­sputante nel Tempio. Da buona madre di famiglia Maria, durante quel pranzo di nozze, avrà sorvegliato insieme con le altre donne che tutto procedesse regolarmente, e le vivande e ogni cosa fossero pronte. Senonché sul finire del pranzo – o perché si erano fatti male i calcoli, o perché erano sopraggiunti convitati imprevisti – venne a mancare proprio il principale, il vino. Le massaie che amministravano ne furono costernate. Era il diso­nore per la famiglia che ospitava; i convitati non avrebbero rispar­miato proteste e schemi, e la festa sarebbe finita bruscamente e ignominiosamente, come quando a teatro in una scena decisiva viene a mancare la luce.

§ 283. Maria s’avvide subito della mancanza, e previde la vergogna degli ospitanti; tuttavia non ne fu costernata come le altre donne. Al suo spirito la presenza del suo figlio Rabbi diceva tante cose che non diceva agli altri; soprattutto ella ricollegava quella presenza con la previsione da lei fatta nella sua solitudine di Na­zareth. Non era forse giunta l’ora di lui? Dominata da questi pensieri Maria, fra lo smarrimento generale a mala pena dissimulato, dice sommessamente a Gesù: “Non han­no vino”. E dice a lei Gesu’: “Che cosa (é) a me e a te, donna? Non ancora e’ giunta l’ora mia” (Giov., 2, 3-4). Gesù pronunziò queste parole in aramaico, e secondo questa lingua esse vanno interpretate. In primo luogo donna era un appellativo di rispetto, circa come l’appellativo (ma) donna nel Trecento italiano. Un figlio chiamava ordinariamente madre la donna che lo aveva ge­nerato, ma in circostanze particolari poteva chiamarla per maggior riverenza donna. E donna chiamerà nuovamente Gesù sua madre dall’alto della croce (Giov., 19, 26); ma anche prima, secondo un aneddoto rabbinico, un mendicante giudeo aveva chiamato donna la moglie del grande Hillel, come Augusto aveva chiamato donna Cleopatra (Cassio Dione, LI, 12), e così in altri casi. Più tipica è l’altra espressione che cosa (e’) a me e a te…?, è certamente traduzione della fra­se fondamentale ebraica mahlz wal (ak) che ricorre più volte nella Bibbia. Ora, il significato di questa frase era precisato nell’uso molto più dalle circostanze del discorso, dal tono della voce, del gesto, ecc., che dal semplice valore delle parole; tutte le lingue han­no di tali frasi idiomatiche in cui le parole sono rimaste un semplice pretesto per esprimere un pensiero, e che verbalmente non si possono tradurre in altra lingua. Nel caso nostro una parafrasi, che tenga qualche conto anche delle parole ebraiche, potrebb’esser que­sta: Che (motivo fa fare) a me e a te (questo discorso)?; il che, indipendentemente dalle parole, equivale all’espressione italiana: Per­ché mi fai questo discorso? Era insomma una frase ellittica con la quale si ricercava la recondita ragione per cui tra due persone av­veniva un discorso, un fatto, e simili. Con questa risposta Gesù declinava l’invito fattogli da Maria, e ne adduceva come ragione il fatto che ancora non era giunta l’ora sua. Dunque in quelle tre sole parole di Maria non hanno vino (seppure furono dette quelle tre sole) era nascosto l’invito a com­piere un miracolo, e la mira dell’invito era nettamente designata dalle circostanze esterne ma soprattutto dai pensieri interni e dal volto materno di colei che invitava. Gesù, che si rende ben conto di tutto, rifiuta, come già nel Tempio aveva rifiutato di subordi­nare la sua presenza nella casa del Padre celeste a quella nella sua famiglia terrena (§ 262): ancora non è giunta l’ora di dimostrare con miracoli l’autorità della propria missione, poiché il precursore Giovanni sta ancora svolgendo la sua. Tuttavia il dialogo fra Maria e Gesù non è finito; anzi le sue più importanti parole non furono mai pronunziate da labbro, ma solo trasmesse da sguardo a sguardo. Come già nel Tempio Gesù dopo il rifiuto aveva obbedito lasciando subito la casa del Padre celeste, così dopo questo nuovo rifiuto accede senz’altro all’invito di Maria. La madre, nel dialogo muto seguito al dialogo parlato viene assicurata che il figlio acconsente; perciò senza perder tempo si volge agli inservienti e dice loro: Fate tutto ciò che vi dirà!

§ 284. Nell’atrio di quella casa erano sei grandi pile destinate alle abluzioni delle mani e delle stoviglie prescritte dal giudaismo: per­ciò le pile erano di pietra, perché secondo i rabbini la pietra non contraeva impurità come la terracotta. Ed erano pile grandi, contenendo ciascuna due o tre volte la normale ”misura” giudaica, la quale si aggirava sui 39 litri; dunque, tutte insieme avevano una capacità di circa 600 litri. Naturalmente il pranzo era lungo, i con­vitati erano molti, e quindi tutta quell’acqua necessaria era stata in gran parte consumata e le pile erano quasi vuote. Gesù allora dette ordine di riempire totalmente le pile; gl’inservienti corsero al pozzo o alla cisterna vicina, e in pochi viaggi le pile fu­rono colme. Non c’era altro da fare; e dice a quelli: “Attingete adesso, e portate al direttore di mensa”. E quelli portarono (Giov., 2, 8). Tutto si era svolto in pochi minuti, anche prima che il direttore di mensa notasse lo smarrimento delle donne e s’avvedesse che non c’era più vino; la discretezza di Maria aveva impedito an­che il dilagar dello scandalo familiare. Quando il direttore di mensa si vide davanti una nuova specie di vino, e l’ebbe assaggiata com’era suo ufficio, rimase strabiliato, tan­to che dimenticò anche il sussiego della sua carica e parlò con la schiettezza del buon popolano. Avvicinatosi allo sposo, gli dice: Ogni uomo passa prima il vino buono, e quando sono brilli quello peg­giore; tu (invece) hai serbato il vino buono fin qui! (Giov., 2, 10). Le parole del direttore di mensa non alludono a qualche uso cor­rente, che non ci è attestato da nessun documento antico; vogliono esser piuttosto un complimento spiritoso, che fa notare quanto fosse inaspettata sul finire del pranzo quell’ambresia e in quella quan­tità. Ma, a quelle parole, lo sposo probabilmente guardò ben bene in faccia il direttore di mensa, domandandosi se proprio lui non fosse il più brillo di tutti: egli, lo sposo, non si era mai sognato di riserbare per la fine del pranzo quella sorpresa del vino miglio­re. Alcune poche interrogazioni rivolte agli inservienti e alle don­ne indirizzarono le ricerche su Maria e poi su Gesù, e tutto fu spiegato. Così questo primo miracolo, dice Giovanni, Gesù manifestò la sua gloria e credettero in luie i suoi discepoli. Ciò non meraviglia, se si pensa all’entusiasmo che già avevano per Gesù i suoi pochi disce­poli. Ma quale sarà stata l’impressione prodotta sui commensali dal miracolo? Dissipati i fumi del convito e dimenticato i1 sapore di quel misterioso vino, avranno essi ripensato al significato morale dell’avvenimento?

§ 285. Dopo la festicciuola e il miracolo Gesù si recò a Cafarnao, egli e la madre di lui e i fratelli e discepoli di lui, e colà rima­sero non molti giorni (Giovanni, 2, 12). Questa permanenza a Cafarnao fu breve, perché Gesù aveva deciso dì recarsi a Gerusalemme per l’imminente Pasqua; ma fin da allora Cafarnao servì a Gesù come abituale dimora in Galilea, divenendo sua patria adottiva invece di Nazareth. Dalla sua famiglia egli già si era staccato, e all’istituzione familiare aveva anche dedicato in omaggio il suo primo miracolo: adesso si staccava anche dall’umi­lissimo suo paese, trasferendosi in luogo più opportuno per la sua missione che cominciava. Cafarnao era sulla riva nord-occidentale del lago di Tiberiade non lontano dallo sbocco del Giordano nel lago. Situata a 13 chilometri a nord della città di Tiberiade e a circa 30 a oriente di Nazareth, era presso i confini fra il territorio di Erode Antipa e quello di Fi­lippo; perciò era fornita anche d’un ufficio di dogana, ed era luogo di transito. Sul lago aveva un piccolo porto conveniente per i pe­scatori. La vita religiosa vi doveva essere intensa e non molto di­sturbata dall’ellenismo insediato poco sopra; suo presidio ivi era, come sempre, l’edificio della sinagoga oggi fortunatamente conservato e ritornato alla luce, sebbene nella precisa forma in cui è stato ri­trovato sembri appartenere a tempi posteriori a quelli di Gesù. Il suo nome Kephar Nahum, “ villaggio di Nahum”, proveniva da un personaggio Nahum a noi ignoto; in tempi molto posteriori si venerò ivi la tomba di un rabbino Tanhum, il cui nome fu poi de­formato in Teli Hum, che è l’odierno nome del luogo. A imitazione di Gesù, man mano verranno a stabilirsi a Cafarnao anche i suoi primi discepoli oriundi della vicina Bethsaida, quali Simone Pietro e Andrea. Quanto a Simone Pietro, è probabile che già avesse a Cafarnao legami di parentela; se egli, genero generoso, alberga ivi in casa sua la propria suocera (§ 300), non è arrischiato supporre che la moglie di lui fosse appunto di Cafarnao. Più tardi poi, per designare Cafarnao, si finirà per chiamarla senz’altro la città propria di Gesù (Matteo, 9, 1), sebbene lo stesso documento poco appresso designi Nazareth ancora come la patria di lui (Mat­teo, 13, 54).

Vita di Gesù 10ultima modifica: 2010-08-30T16:36:00+02:00da meneziade
Reposta per primo quest’articolo