Capitolo terzo
1 In quei giorni comparve Giovanni il Battista a predicare nel deserto della Giudea, 2 dicendo: «Convertitevi,
perché il regno dei cieli è vicino!».
3 Egli è colui che fu annunziato dal profeta Isaia quando disse:
Voce di uno che grida nel deserto:
Preparate la via del Signore,
raddrizzate i suoi sentieri!
4 Giovanni portava un vestito di peli di cammello e una cintura di pelle attorno ai fianchi; il suo cibo erano
locuste e miele selvatico. 5 Allora accorrevano a lui da Gerusalemme, da tutta la Giudea e dalla zona
adiacente il Giordano; 6 e, confessando i loro peccati, si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano.
7 Vedendo però molti farisei e sadducei venire al suo battesimo, disse loro: «Razza di vipere! Chi vi ha
suggerito di sottrarvi all’ira imminente? 8 Fate dunque frutti degni di conversione, 9 e non crediate di poter
dire fra voi: Abbiamo Abramo per padre. Vi dico che Dio può far sorgere figli di Abramo da queste pietre. 10
Già la scure è posta alla radice degli alberi: ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato
nel fuoco. 11 Io vi battezzo con acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più potente di me
e io non sono degno neanche di portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito santo e fuoco. 12 Egli ha in
mano il ventilabro, pulirà la sua aia e raccoglierà il suo grano nel granaio, ma brucerà la pula con un fuoco
inestinguibile».
L’inizio della missione di Gesù è preceduto in tutti i vangeli dall’attività di Giovanni il Battista. Egli ha il
compito di proclamare la parola di Dio e di battezzare nel fiume Giordano.
Giovanni svolge la sua missione nel deserto, luogo in cui Dio aveva stabilito l’alleanza con Israele. Anche
Giovanni ha il compito di preparare il popolo all’incontro con Dio.
Matteo presenta la missione di Giovanni ricorrendo al testo di Is 40,3. La voce che grida nel deserto ordina
di costruire una strada che vada da Babilonia alla terra d’Israele attraverso il deserto dell’Arabia. Su di essa
tornerà in patria il popolo di Dio che si trova deportato in Babilonia. Assieme a questo popolo cammina Dio
ed è quindi per lui che viene preparata la strada. L’interpretazione cristiana di Matteo applica al Battista la
missione di preparare la strada al Signore Gesù, che è il nostro Dio.
L’abbigliamento di Giovanni ricorda quello di Elia (2Re 1,8) e il suo nutrimento è quello dei nomadi del
deserto (Gen 43,11).
Il messaggio di Giovanni concorda esattamente con quello di Gesù: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è
vicino!” (3,2; 4,17).
Per Giovanni e per Gesù la conversione non è un ritorno al passato ma un volgersi verso il regno dei cieli,
quindi verso qualcosa di nuovo che viene dal cielo e non è frutto di evoluzioni o di sforzi umani.
Nella predicazione di Giovanni la conversione ha un significato etico (v. 8), ma il verbo greco metanoéin ha
un significato più ampio. Indica il cambiamento del modo di pensare oltre che di agire. Esige la totale
spoliazione di se stessi (5,3) per dare tutto lo spazio a Dio e alle sue proposte.
L’espressione “regno dei cieli” è usata da Matteo per non nominare il nome di Dio, ma soprattutto per
indicare le dimensioni di questo regno. Esso si estende dai cieli sulla terra e abbraccia l’universo.
Giovanni è più che un profeta (11,9), è la sintesi di tutti i profeti. E, come i profeti che l’hanno preceduto, egli
denuncia l’ipocrisia dell’atteggiamento religioso solo esteriore (cf. Am 5,21-27; Is 1,10-20; Ger 71-8,3).
Il vizio d’Israele è l’adagiarsi nella sua condizione di popolo eletto (“abbiamo Abramo per padre”), mentre la
fedeltà a Dio si manifesta nelle opere buone. Il giudizio che egli annuncia consiste nella condanna del male
e nella purificazione delle coscienze; questo indicano la ripulitura dell’aia e la distruzione degli scarti col
fuoco (v. 12).
Con l’espressione “razza di vipere”, i farisei e i sadducei sono chiamati “figli del diavolo”, discendenti del
serpente che ingannò Adamo ed Eva (Gen 3).
13 In quel tempo Gesù dalla Galilea andò al Giordano da Giovanni per farsi battezzare da lui. 14 Giovanni
però voleva impedirglielo, dicendo: «Io ho bisogno di essere battezzato da te e tu vieni da me?». 15 Ma Gesù
gli disse: «Lascia fare per ora, poiché conviene che così adempiamo ogni giustizia». Allora Giovanni
acconsentì. 16 Appena battezzato, Gesù uscì dall’acqua: ed ecco, si aprirono i cieli ed egli vide lo Spirito di
Dio scendere come una colomba e venire su di lui. 17 Ed ecco una voce dal cielo che disse: «Questi è il
Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto».
Il dialogo tra il Battista e Gesù mette in evidenza i loro rispettivi battesimi. La disponibilità di Giovanni a
ricevere il battesimo di Gesù lo colloca intimamente nella comunità cristiana come membro della Chiesa di
Gesù.
La risposta di Gesù a Giovanni è molto importante perché è la prima frase che Gesù pronuncia nel vangelo
di Matteo: “Dobbiamo adempiere ogni giustizia”. Questo è il programma del Padre per Gesù, per Giovanni e
per tutti coloro che vorranno seguire Gesù. La “giustizia” nel vangelo di Matteo è la volontà di Dio che sarà
annunciata da Gesù nel vangelo. E Gesù è l’esempio dell’adempimento della volontà divina (Mt
26,39.42.44).
Accettando il battesimo di Giovanni, Gesù si presenta come il Messia dei peccatori e si fa solidale con loro.
Egli attuerà pienamente la “giustizia” sul calvario con la sua morte e risurrezione.
Uscendo dalle acque del Giordano, Gesù inizia il suo viaggio che non avrà come meta finale Gerusalemme.
I “cieli aperti” indicano la sua destinazione ultima. L’umiliazione nel battesimo di Giovanni è il punto di
partenza dell’ascensione di Gesù alla destra del Padre (cf. Gv 1,51; At 7,55-56).
Lo Spirito santo che scende su Gesù come una colomba ci fa ricordare lo spirito di Dio che aleggiava sulle
acque della creazione, dalle quali trasse la vita di tutti gli esseri viventi (cf. Gen 1,2). Lo Spirito di Dio scende
su Gesù perché in lui ha inizio la nuova creazione del mondo, quella definitiva.
L’aleggiare della colomba è anche un’allusione alla storia di Noè, il padre dei salvati dall’acqua, che attende
con trepidazione il ritorno della colomba che annuncia la fine della perdizione (cfr Gen 8,8-14).
Ma questa colomba, che canta il suo amore in ogni stagione, è soprattutto il simbolo della tenerezza e della
fedeltà di Dio che ininterrottamente canta il suo canto d’amore per l’umanità in attesa di una risposta
positiva. Gesù, il nuovo Adamo (cf. Rm 5,15-21; 1Cor 15,22.45), rappresenta il nuovo Israele, l’intera
umanità. E l’umanità, in Gesù, diviene finalmente la sposa che fa sentire allo sposo la sua risposta d’amore
(cf. Ct 2,14).
Durante la visione la voce del Padre ci dà l’autentico significato dell’avvenimento. Qui per la prima volta
Gesù viene proclamato figlio di Dio, non attraverso una citazione biblica (cf. Mt 2,15), ma dalla viva voce del
Padre: “Questi è il Figlio mio prediletto nel quale mi sono compiaciuto”.
In Gesù il cielo si congiunge alla terra, il regno dei cieli giunge a noi. Tutto ormai converge in Gesù e ogni
uomo è invitato ad ascoltare la voce del Padre che dà il significato autentico a tutto ciò che avviene. Con la
sua persona e la sua vita Gesù diventa la voce del Padre per gli uomini. Tutta la sua vita, fino alla morte e
alla risurrezione, illumina questo avvenimento.
1 Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per esser tentato dal diavolo. 2 E dopo aver digiunato
quaranta giorni e quaranta notti, ebbe fame. 3 Il tentatore allora gli si accostò e gli disse: «Se sei Figlio di
Dio, dì che questi sassi diventino pane». 4 Ma egli rispose: «Sta scritto:
Non di solo pane vivrà l’uomo,
ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio».
5 Allora il diavolo lo condusse con sé nella città santa, lo depose sul pinnacolo del tempio 6 e gli disse: «Se
sei Figlio di Dio, gettati giù, poiché sta scritto:
Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo,
ed essi ti sorreggeranno con le loro mani,
perché non abbia a urtare contro un sasso il tuo piede».
7 Gesù gli rispose: «Sta scritto anche:
Non tentare il Signore Dio tuo».
8 Di nuovo il diavolo lo condusse con sé sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo con la
loro gloria e gli disse: 9 «Tutte queste cose io ti darò, se, prostrandoti, mi adorerai». 10 Ma Gesù gli rispose:
«Vattene, satana! Sta scritto:
Adora il Signore Dio tuo
e a lui solo rendi culto».
11 Allora il diavolo lo lasciò ed ecco angeli gli si accostarono e lo servivano.
Prima di iniziare la sua vita pubblica, Gesù è tentato dal diavolo. Questo racconto è collegato a quello del
battesimo non solo dalla parola “allora”, ma soprattutto dalle parole “Figlio di Dio” (3,17; 4,3.6).
In queste tentazioni Gesù rifiuta un messianismo terrestre, nazionalista; rifiuta “i regni del mondo con la loro
gloria” (4,8) per realizzare il regno di Dio.
Il regno dei cieli si realizza nella non-violenza e nell’umiltà del Servo di Dio (cf. Is 42ss.). Gesù assume nella
sua persona tutte le dimensioni della storia del popolo di Dio: il soggiorno in Egitto (2,13-15), il passaggio
attraverso il Giordano (3,13-17) e la purificazione nel deserto (4,1-11). Egli “adempie ogni giustizia” (3,15)
facendo la volontà del Padre. Per questo vince le tentazioni alle quali invece il popolo d’Israele aveva
ceduto, e così egli si rivela come il popolo fedele, l’Israele autentico, il Figlio di Dio.
Superando le tentazioni, Gesù osserva il primo e più grande comandamento: “Tu amerai il Signore tuo Dio
con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (Dt 6,5). La tentazione ha sempre come scopo di
staccare l’uomo da Dio.
Attraverso il superamento di queste tre tentazioni diaboliche, Gesù ci insegna che solo Dio può saziare
l’uomo; che egli non gioca a fare il Figlio di Dio, ma lo è realmente; che egli non abbandona il regno dei cieli
per i regni della terra.
La citazione finale della Scrittura: “Sta scritto: Adora il signore Dio tuo e a lui solo rendi culto” riassume tutto
il racconto, perché esprime la scelta di Gesù che si schiera decisamente dalla parte del Padre e, inoltre, ci fa
capire che il senso ultimo della tentazione è di spingere l’uomo a distaccarsi da Dio. Le parole di queste
tentazioni saranno di nuovo rivolte a Gesù in croce (cf. Mt 27,39-44).
In questo brano non è in discussione il potere o l’autorità, ma il genere di potere e il modo in cui dev’essere
esercitata l’autorità. Il dominio sul mondo non deve essere esercitato nel nome del diavolo, ma nel nome di
Dio che è il Signore del mondo. Ma non è sempre facile distinguere Dio dal diavolo: sono parole di Dio quelle
che il diavolo lancia in faccia a Gesù per tentarlo (v. 6)! Gesù regnerà sugli uomini nell’amore per gli uomini
e tale sarà anche l’atteggiamento di ogni autorità che vuole essere secondo Dio: diversamente sarà
diabolica.
Gesù viene condotto dal diavolo “su un monte altissimo”, il luogo della rivelazione (Ap 21,9). Il tentatore gli
promette il potere politico su tutti i regni del mondo, esattamente come la tradizione biblica attribuiva al
Messia il possesso dei regni della terra (Sal 2,6.8; 110,1-2). Gesù è tentato a vivere un messianismo fondato
sul potere. Ma il suo potere non gli è concesso dal diavolo, ma da Dio. Su un altro monte, dove convocherà i
suoi discepoli dopo la sua morte e risurrezione, Gesù proclamerà solennemente di aver ricevuto dal Padre, e
non dal demonio, il potere universale “in cielo e in terra” non per assoggettare i popoli con la forza, ma per
inviare i suoi nella missione dell’annuncio del vangelo ad ogni creatura (cf. 28,18-20). Questa autorità di
Gesù non è il risultato di un messianismo diabolico, violento, conquistatore, ma il frutto splendido della
fedeltà al piano di Dio, che passa necessariamente attraverso la sua morte e trova la realizzazione nella sua
risurrezione.
Gli angeli inviati da Dio a servire Gesù (v. 11) confermano la validità della fiducia che Gesù aveva riposto nel
Padre suo.
Nelle tentazioni Gesù affronta un messianismo terrestre, nazionalista, come lo
concepivano gli zeloti. Vi è un legame evidente tra il battesimo e le tentazioni: è lo
Spirito, disceso nel battesimo, che conduce Gesù nel deserto per esservi tentato dal
diavolo (4,1). Il messianismo di Gesù dev’essere sottoposto alla prova; “adempiere
ogni giustizia” (3,15) è obbedire al Padre, la cui volontà è espressa nella Scrittura (cf.
cc.1-2). Il regno dei cieli si avvicina nella non-violenza e nell’umiltà del Servo di Iahvè
(cf.. Is 42ss).
La presentazione delle tentazioni è intessuta di citazioni della Scrittura. Poiché Gesù
colma l’attesa del suo popolo, egli assume tutte le dimensioni della sua storia:
soggiorno in Egitto (2,13-15), passaggio attraverso il Giordano (3,13-17),
purificazione nel deserto (4,1-11). E poiché egli “adempie ogni giustizia” (3,15)
facendo la volontà del Padre, egli trionfa sulle tentazioni alle quali invece il popolo
ebreo aveva ceduto, e così si rivela come il popolo fedele, l’Israele autentico, il Figlio
di Dio.
Nel superamento della triplice tentazione, Gesù mette in pratica il primo e più grande
comandamento: “Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e
con tutte le forze” (Dt 6,5). Il giudaismo considera infatti questo triplice atteggiamento
come le tre colonne su cui si fonda la realizzazione del mondo: la verità, la pace e la
giustizia (cf. Pirqé Aboth, I,18); così Gesù ha amato Dio “con tutto il cuore”
preferendo la verità della Parola di Dio alle proprie esigenze; “con tutta l’anima”
rifiutando il trionfo facile per portare agli uomini la pace; “con tutte le forze” optando
per la giustizia che fa rendere ad ognuno ciò che gli è dovuto.
L’introduzione del racconto (4,1; cf. Lc 4,1) manifesta una notevole affinità di
vocabolario con la versione greca di Dt 8, 2: “Ricordati di tutto il cammino per il quale
il Signore tuo Dio ti ha condotto nel deserto, per metterti alla prova, per tentarti e per
conoscere il fondo del tuo cuore”. “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola
che esce dalla bocca di Dio” (Mt 4,4; Dt 8,3). Solo Dio può saziare l’uomo, e la fame
del suo stomaco non è che l’immagine di una fame più sostanziale.
Cedere alla tentazione, sarebbe per Gesù afferrarsi all’immagine, mentre possiede la
realtà: l’uomo è stato creato a immagine di Dio; Gesù rifiuta di dare di Dio l’immagine
dell’uomo.
“Se sei Figlio di Dio, gettati giù, poiché sta scritto: Ai suoi angeli darà ordini a tuo
riguardo …”. Il diavolo non ha alcuno scrupolo a utilizzare la parola di Dio,
stravolgendola per i propri fini. Ma Gesù risponde: “Non tenterai il Signore tuo Dio” (
Mt 4,7; Dt 6,16). Gesù ha già la gloria di Figlio di Dio e non ha bisogno di cercarsi una
gloria umana attraverso dei mezzucci. Non gioca a far il Figlio di Dio: lo è.
La scena si allarga e prende le dimensioni del mondo. Rievocando la visione di Mosè,
al quale Dio mostra la terra di Canaan dove Israele stava per entrare (cf. Dt 34,1-4) il
tentatore propone uno scambio: “Tutte queste cose io ti darò, se, prostrandoti, mi
adorerai” (v. 9). Ma colui, nel quale il regno dei cieli si avvicina alla terra, riafferma il
primo comandamento dell’alleanza: “Adora il Signore tuo Dio e a lui solo rendi culto”
(Mt 4,10; Dt 6,13). Gesù non abbandona il regno dei cieli per i regni della terra.
Questa pagina evangelica ci fa capire il modo in cui Cristo ha inteso il suo ruolo di
Figlio di Dio.
12 Avendo intanto saputo che Giovanni era stato arrestato, Gesù si ritirò nella Galilea 13 e, lasciata Nazaret,
venne ad abitare a Cafarnao, presso il mare, nel territorio di Zàbulon e di Nèftali, 14 perché si adempisse ciò
che era stato detto per mezzo del profeta Isaia:
15 Il paese di Zàbulon e il paese di Nèftali,
sulla via del mare, al di là del Giordano,
Galilea delle genti;
16 il popolo immerso nelle tenebre
ha visto una grande luce;
su quelli che dimoravano in terra e ombra di morte una luce si è levata.
17 Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino».
Matteo vede il trasferimento di Gesù da Nazaret a Cafarnao come realizzazione di Is 8,23-24 e quindi come
volontà di Dio.
Isaia aveva annunciato il passaggio da un tempo di oppressione a un tempo di salvezza. Il tempo della
sventura ricorda probabilmente la conquista dei territori del nord, abitati da tribù del popolo d’Israele, da
parte del re assiro Tiglat-Pileser (cfr 2Re 15,29) nel 734 a.C. Questa invasione portò a una notevole fusione
della popolazione ebraica con i pagani. Per questo il territorio fu chiamato “provincia dei pagani” (Galìl
haggojím) da cui è derivato il nome di Galilea.
Sia in Mt 4,5 sia in 12,18-21 la salvezza dei pagani è presentata con una citazione di Isaia, perché la
salvezza universale è l’adempimento di una promessa dell’Antico Testamento. La luce è simbolo della
presenza di Dio che salva. Essa sconfigge le tenebre della perdizione e della morte.
Il v 17 è un breve sommario che riguarda la proclamazione del regno dei cieli. Non è data alcuna indicazione
precisa né del luogo né degli ascoltatori per indicare che questo annuncio è rivolto a tutti gli uomini di tutti i
tempi e di tutti i luoghi. Da questo momento la proclamazione del regno dei cieli non cesserà più. Essa
continuerà nella predicazione dei discepoli che sono inviati a diffondere il vangelo del regno in tutto il mondo
(Mt 24,14; 26,13). D’ora in avanti è per tutti tempo di decisione e di conversione.
La conversione è il punto di partenza della vita cristiana: i racconti di chiamata che seguono devono essere
letti come esempi di ciò che la conversione può esigere dall’uomo. La conversione al regno dei cieli si
realizza nel seguire Gesù e nell’entrare nella comunità dei discepoli che si stanno raccogliendo attorno a lui.
Le folle che seguono Gesù formano l’uditorio del discorso della montagna che segue nei cap. 5-7. Matteo ci
presenta Gesù come il primo missionario e l’esempio di tutti i futuri missionari. In lui parola e azione
procedono insieme. Il suo annuncio riguarda sempre il regno dei cieli, ossia ciò che Dio ha fatto e farà per la
salvezza degli uomini.
L’attività intensa svolta da Gesù in Galilea consegue un triplice risultato: la sua fama si diffonde, la gente
porta a lui i suoi malati, affluiscono grandi folle. Tutta la miseria del suo popolo sta lì davanti a lui ed egli offre
la sua salvezza a tutti i bisognosi.
L’annuncio del vangelo del regno dei cieli è soprattutto a favore dei poveri e dei sofferenti. Gesù si impegna
totalmente nella liberazione dell’uomo da tutte le sue miserie.
18 Mentre camminava lungo il mare di Galilea vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo
fratello, che gettavano la rete in mare, poiché erano pescatori.
19 E disse loro: “Seguitemi, vi farò pescatori di uomini”. 20 Ed essi subito, lasciate le reti, lo seguirono. 21
Andando oltre, vide altri due fratelli, Giacomo di Zebedèo e Giovanni suo fratello, che nella barca insieme
con Zebedèo, loro padre, riassettavano le reti; e li chiamò. 22 Ed essi subito, lasciata la barca e il padre, lo
seguirono.
Nella prima tappa del suo ministero, Gesù non compie un miracolo, né fa un discorso, ma chiama quattro
pescatori. I discepoli hanno un’importanza così fondamentale per la missione di Gesù che egli non la inizia
senza prima averli chiamati.
La chiamata-risposta dei quattro pescatori è un modello di conversione, un’adesione concreta e immediata
all’annuncio di Gesù: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino”(v. 17). La storia della loro chiamata è
esemplare per tutti i futuri discepoli: i cristiani sono dei “chiamati” (Rm 8,30; 9,24; 1Cor 1,9; 7, 15; ecc.).
A questi primi quattro discepoli Gesù comanda solo di seguirlo, come aveva fatto Elia con Eliseo (cf. 1Re
19,20-21). Aggiungendo però che ne farà dei “pescatori di uomini”, Gesù li associa subito alla sua missione.
La chiamata di Gesù non è frutto di sforzi umani o di meriti particolari, ma si rivela totalmente gratuita e
inaspettata. In tutto questo brano viene sottolineata l’azione di Gesù: è lui che cammina, vede, parla,
chiama. Questi discepoli sono chiamati a condividere il destino di Gesù, a seguirlo non solo fisicamente, ma
soprattutto spiritualmente.
Il distacco di Giacomo e Giovanni dal loro padre Zebedeo anticipa e spiega la richiesta che Gesù farà a tutti i
chiamati: “Chi ama il padre e la madre più di me, non è degno di me” (Mt 10,37) e il suo sublime
insegnamento: “Non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del
cielo” (Mt 23,9).
23 Gesù andava attorno per tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe e predicando la buona novella
del regno e curando ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo. 24 La sua fama si sparse per tutta la Siria
e così condussero a lui tutti i malati, tormentati da varie malattie e dolori, indemoniati, epilettici e paralitici; ed
egli li guariva. 25 E grandi folle cominciarono a seguirlo dalla Galilea, dalla Decàpoli, da Gerusalemme, dalla
Giudea e da oltre il Giordano.
Le folle che seguono Gesù formano l’uditorio del discorso della montagna che segue nei cap. 5-7. Matteo ci
presenta Gesù come il primo missionario e l’esempio di tutti i futuri missionari. In lui parola e azione
procedono insieme. Il suo annuncio riguarda sempre il regno dei cieli, ossia ciò che Dio ha fatto e farà per la
salvezza degli uomini.
L’attività intensa svolta da Gesù in Galilea consegue un triplice risultato: la sua fama si diffonde, la gente
porta a lui i suoi malati, affluiscono grandi folle. Tutta la miseria del suo popolo sta lì davanti a lui ed egli offre
la sua salvezza a tutti i bisognosi.
L’annuncio del vangelo del regno dei cieli è soprattutto a favore dei poveri e dei sofferenti. Gesù si impegna
totalmente nella liberazione dell’uomo da tutte le sue miserie.
Capitolo quinto
1 Vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli. 2
Prendendo allora la parola, li ammaestrava dicendo:
3 “Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli.
4 Beati gli afflitti,
perché saranno consolati.
5 Beati i miti,
perché erediteranno la terra.
6 Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,
perché saranno saziati.
7 Beati i misericordiosi,
perché troveranno misericordia.
8 Beati i puri di cuore,
perché vedranno Dio.
9 Beati gli operatori di pace,
perché saranno chiamati figli di Dio.
10 Beati i perseguitati per causa della giustizia,
perché di essi è il regno dei cieli.
11 Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi
per causa mia. 12 Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti hanno
perseguitato i profeti prima di voi.
In questo brano Matteo ha un’intenzione precisa: presentare Gesù come il nuovo Mosè, e il discorso di Gesù
sulla montagna come il compimento della legge del Sinai. Il suo messaggio si concentra sulla parola “beati”.
La beatitudine dell’uomo povero e sofferente ha il suo fondamento in Gesù: in lui Dio ci ha già dato tutto.
Questo discorso traduce l’esperienza di Cristo, che può e deve diventare l’esperienza del cristiano. Non
suggerisce le condizioni per essere frati o suore, ma semplicemente per essere cristiani.
Gesù aveva detto al tentatore: “Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla
bocca di Dio” (Mt 4,4). Ora Gesù apre solennemente la bocca per dare la vita di Dio agli uomini per mezzo
della sua parola.
“Beati i poveri in spirito”. La povertà indica prima di tutto un atteggiamento spirituale nei confronti di Dio. I
poveri in spirito attendono ogni aiuto da Dio. L’atteggiamento richiesto dalla prima beatitudine è come quello
del bambino: “Gesù chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: ‘In verità vi dico: se non vi
convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque diventerà
piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli. E chi accoglie anche uno solo di questi
bambini in nome mio, accoglie me’”(Mt 18,2-5). La beatitudine dei poveri in spirito afferma in modo
inequivocabile il primato della grazia, non quello delle opere.
Il povero in spirito è distaccato non solo dai beni materiali, che sono i meno importanti, ma anche e
soprattutto dai beni superiori dell’intelligenza e della volontà, dalle proprie idee, dal proprio modo di sentire.
Libero da se stesso, dalle sue vedute e aspirazioni umane, egli è pronto ad accogliere i beni del regno dei
cieli. Questa disposizione interiore è indispensabile per chiunque voglia mettersi al seguito di Gesù. La
salvezza è una realtà troppo grande per essere compresa dalla sola intelligenza umana. Chi pretende di
ragionare troppo, e quindi a sproposito, rimane fuori da essa. Per questo, chi non è povero non può entrare
nel regno dei cieli. Questa beatitudine è la caratteristica della persona di Gesù che noi dobbiamo imitare:
“Imparate da me che sono povero e umile di cuore” (Mt 11,29).
Poveri in spirito non si nasce, ma si diventa, combattendo contro le istintive aspirazioni dei sensi, le pretese
dell’intelligenza e le incomprensioni degli altri. Il vero povero non è colui che Dio ha umiliato, ma colui che si
è abbassato con l’amore di un figlio. La vita del povero è caratterizzata dall’obbedienza, dalla sottomissione,
dalla remissività, dall’abbandono, dal silenzio. La povertà evangelica presenta l’ideale religioso e spirituale
nella sua duplice relazione. Verso Dio si esprime come umile e fedele sottomissione, verso il prossimo come
pacifica e cordiale accoglienza.
“Beati gli afflitti”. Gesù non è stato mandato solo per annunciare il vangelo ai poveri, ma anche a consolare
gli afflitti (cfr Is 61,2). Essi non sono tali semplicemente per le disgrazie umane e le tribolazioni che
affliggono tutti, ma soprattutto a causa delle oppressioni e delle ingiustizie subite per l’attuazione del piano di
Dio. Sono afflitti perché il bene è deriso, perché la comunità cristiana è perseguitata e oppressa, perché Dio
non è conosciuto e amato.
“Beati i miti”. Nell’Antico Testamento Mosè “era molto più mite di ogni uomo che è sulla terra” (Nm 12,3) e
nel Nuovo Testamento Gesù si presenta “mite e umile di cuore” (Mt 11,29; cf. Mt 21,5). Il mite è colui che
realizza in sé l’esortazione del salmo 37,7-11: “Sta’ in silenzio davanti al Signore e spera in lui; non irritarti
per chi ha successo, per l’uomo che trama insidie. Desisti dall’ira e deponi lo sdegno, non irritarti: faresti del
male, poiché i malvagi saranno sterminati, ma chi spera nel Signore possederà la terra. Ancora un poco e
l’empio scompare, cerchi il suo posto e più non lo trovi. I miti invece possederanno la terra e godranno di
una grande pace”. Si tratta del possesso pieno e felice della salvezza promessa a quelli che seguono Gesù
“mite e umile di cuore” (Mt 11,29).
“Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia”. La giustizia è l’attuazione completa e generosa della
volontà di Dio rivelata nel vangelo di Gesù. La fame e la sete indicano il desiderio di cercare e di attuare in
se stessi questo progetto di Dio attraverso l’esercizio dell’amore (cf. Mt 25,37). Gli affamati e gli assetati
della giustizia sono coloro che hanno fatto del compimento della volontà di Dio la massima aspirazione della
propria vita, a tal punto che per loro la ricerca del piano di Dio diventa vitale come il mangiare e il bere. La
ricompensa per quelli che hanno desiderato intensamente la giustizia di Dio è la sazietà, che significa la
comunione piena e definitiva con Dio e con i fratelli.
“Beati i misericordiosi”. La prima ed essenziale esigenza del regno di Dio è la misericordia attiva che ha la
sua fonte e il suo modello nell’agire di Dio: “Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro” (Lc
6,36). L’amore misericordioso e benevolo di Dio si manifesta principalmente in due modi: perdona i peccati e
soccorre e protegge i bisognosi. Perciò il giusto davanti a Dio lo imita nel suo agire verso il prossimo
perdonando i torti ricevuti e impegnandosi a soccorrere generosamente gli indigenti. Questa è la condizione
per trovare misericordia presso Dio. Matteo presenta Gesù come l’incarnazione della bontà
compassionevole di Dio nel modo di agire e nelle scelte che ha compiuto a favore dei peccatori e dei
bisognosi (cf. Mt 9,13; 12,7; 23,23; ecc.).
“Beati i puri di cuore”. Il cuore come simbolo di interiorità spirituale e morale designa la dimensione profonda
e personale della relazione religiosa con Dio e con il prossimo in contrapposizione alla superficialità e
all’esteriorità delle forme. I puri di cuore sono coloro che sanno accettare l’insegnamento di Gesù, la persona
stessa di Gesù. Questa beatitudine richiede la piena adesione al vangelo. La visione di Dio promessa ai puri
di cuore è la salvezza definitiva del paradiso dove vedranno Dio “a faccia a faccia” (1Cor 13,12).
“Beati gli operatori di pace”. Gli operatori di pace sono i continuatori dell’opera di Gesù, gli annunciatori del
messaggio della salvezza. La pace è assenza di ogni inimicizia, è presenza di grazia e di santità. Solo chi
vive nella pace di Dio può diventare strumento di pace umana. Gli apportatori della pace sono gli
annunciatori del vangelo, tutti coloro che lavorano per la venuta del regno di Dio sulla terra. Essi meritano
l’appellativo di figli di Dio perché sono animati dagli stessi desideri di salvezza e impegnati nella sua stessa
opera. Solo la concordia e la riconciliazione con i fratelli rendono il culto accetto a Dio ed efficace la
preghiera della comunità (cf. Mt 5,23-24; 18,19-20). L’impegno di fare opera di pace tra le persone è un
modo concreto di attuare l’amore del prossimo. A questi operatori di pace è promessa la realizzazione del
rapporto di piena comunione con Dio: essere riconosciuti come suoi figli.
“Beati i perseguitati”. Il messaggio della salvezza è imperniato sulla croce: chi lo annuncia e chi lo riceve
dev’essere disposto a lasciarsi oltraggiare, calunniare, spogliare, crocifiggere. La sofferenza dell’innocente è
un mistero di cui l’uomo dell’Antico Testamento non ha saputo intravedere la soluzione (cf. Sap 3,4). La
beatificazione del dolore che il Nuovo Testamento ribadisce in numerose occasioni è un paradosso che non
trova la sua giustificazione nella logica umana, ma solo nell’esempio e nell’insegnamento di Gesù. La
persecuzione è l’eredità che Gesù lascia ai suoi discepoli, il segno che autentica la loro chiamata, ma anche
la via per conseguire la felicità e la gloria. Il testo tocca il messaggio centrale del cristianesimo: la passione,
morte e risurrezione di Cristo. La beatitudine e il possesso del regno dei cieli è la Pasqua di risurrezione del
cristiano, ma per potervi giungere egli deve prima, necessariamente, passare attraverso la sofferenza e la
morte. L’originalità di questa beatitudine è costituita dalle motivazioni che devono qualificare lo stile della
perseveranza cristiana: l’assimilazione interiore al destino di Cristo rifiutato e perseguitato (cf. Mt 10,24-25) e
l’adesione integra e pratica alla volontà di Dio, concretizzata nel progetto di vita cristiana. La persecuzione
dovrebbe provocare l’amarezza e l’abbattimento, invece produce la gioia per aver sopportato le sofferenze
richieste dalla propria fedeltà alla verità e a Cristo. I fedeli sono invitati a gioire in mezzo alle persecuzioni
perché in essi si compie il mistero di morte e di risurrezione che Gesù ha realizzato per primo nella sua vita.
Essi sono proclamati beati, felici, fortunati già ora in vista della piena e definitiva felicità che è loro promessa
da Dio.
Le beatitudini evangeliche hanno il loro modello e la garanzia della loro realizzazione in Gesù, il “povero e
umile di cuore”, rifiutato e perseguitato dagli uomini, ma riabilitato e glorificato da Dio (cf. At 5,31; Fil 2,9-11;
ecc.).
13 Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà render salato? A
null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini.
14 Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città collocata sopra un monte, 15 né si accende
una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella
casa. 16 Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano
gloria al vostro Padre che è nei cieli.
Gesù paragona i discepoli al sale della terra e alla luce del mondo. Essi portano al mondo la felicità,
trasfigurano la vita e danno sapore ad ogni realtà umana; se vengono meno non possono essere sostituiti da
nessuno. Essi devono essere testimoni trasparenti della luce di Cristo che hanno in sé, perché tutti, dentro e
fuori della Chiesa, vedano le loro opere buone e glorifichino il Padre loro che è nei cieli.
Il discorso in seconda persona (voi) collega il testo alla nona beatitudine (vv.11-12) ma anche a tutto il
discorso successivo, che solo da 7,21ss ritorna allo stile impersonale e didattico. Con ciò in certo modo si
dice che la comunità perseguitata e oltraggiata è particolarmente adatta ad essere il sale della terra e la luce
del mondo. Il v.16 però riferisce il sale e la luce alle opere buone di ogni genere.
Il potere del sale è molteplice. Esso condisce, depura, protegge dalla putrefazione. Nell’Antico Testamento
lo si usava per il sacrificio. Secondo Lv 2,13 è prescritto che in ogni sacrificio di oblazione si offra il sale. Nel
mondo greco il sale simboleggia l’ospitalità. Il significato dei discepoli per il mondo corrisponde a quello del
sale per il cibo: sono insostituibili. Ma l’accento non è posto su questo punto, ma sulla possibilità di fallire. Il
sale può diventare senza gusto, e allora non c’è più nulla con cui si possa salare.
Se i discepoli falliscono, se mancano al proprio compito, non resta loro che attendere il giudizio che gli
uomini pronunciano su di loro. Specialmente in Isaia il giudizio viene presentato come l’essere calpestati (Is
10,6). I cristiani sono il sale della terra se compiono le opere di misericordia sulle quali saranno giudicati (Mt
25,34ss).
Ai discepoli inoltre viene assegnata, senza limiti, la funzione di luce del mondo e di città sul monte. La città
sopra il monte simboleggia la forza di attrazione della comunità cristiana. Ai discepoli è affidata la luce
perché la facciano risplendere. Occultando la luce, si rendono colpevoli come il servo infingardo che ha
nascosto il talento sotto terra (Mt 25,18ss). Far risplendere la luce è la manifestazione della propria fede
davanti agli uomini (Mt 10,32-33) e ciò richiede sacrificio. Le direttive del discorso della montagna mirano a
far sì che il comportamento degli uomini sia conforme al comportamento di Dio (Mt 5,48).
I cristiani sono sale della terra e luce del mondo quando realizzano una vita buona diversa, delle opere
buone diverse da quelle del mondo, che mettano criticamente in questione la vita contraria a Dio nella
società e nei singoli.
17 Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare
compimento. 18 In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure un iota o un
segno dalla legge, senza che tutto sia compiuto. 19 Chi dunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche
minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li
osserverà e li insegnerà agli uomini, sarà considerato grande nel regno dei cieli.
Gesù adempie le Scritture realizzando nella sua persona ciò che esse dicevano di lui. L’adempimento della
Legge da parte di Gesù non è di ordine puramente dottrinale: è l’impegno stesso della sua vita e della sua
morte.
Egli non è venuto per frustrare le attese dell’Antico Testamento, ma per realizzarle: non vuota la Legge del
suo contenuto, ma la riempie fino all’ultimo livello, portandola fino alla sua più alta espressione.
Gesù non è un avversario di Mosè, ma non è nemmeno un suo discepolo; è al contrario il vero legislatore
che Dio ha inviato agli uomini di tutti i tempi, di cui Mosè era solo un precursore.
Alla venuta del Messia, Mosè è invitato a scomparire (cf. Mt 17,8). La Legge era incompleta non perché non
esprimesse la volontà di Dio, ma perché la esprimeva in un modo imperfetto e inadeguato. Anche i minimi
dettagli della Legge conservano il loro eterno valore, soprattutto se la Legge è quella rinnovata da Cristo (v.
18).
Gesù compie la Legge, che manifesta la volontà del Padre, amando i fratelli. L’amore non trascura neanche
un minimo dettaglio, anzi manifesta la propria grandezza nelle attenzioni minime.
Le realtà più solide, il cielo e la terra, potranno cadere ma non cadrà un iota, cioè la particella più piccola
della Legge, finché non sia attuata. Non si tratta di salvaguardare l’adempimento del codice fin nelle sue
minime prescrizioni, ma di comprenderne il profondo contenuto che sopravvive nel Vangelo: l’amore. Con la
proclamazione del Vangelo l’Antico Testamento non finisce, ma si attua nel Nuovo.
20 Poiché io vi dico: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel
regno dei cieli.
21 Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. 22 Ma io vi
dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà
sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna.
23 Se dunque presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, 24
lascia lì il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo
dono.
25 Mettiti presto d’accordo con il tuo avversario mentre sei per via con lui, perché l’avversario non ti consegni
al giudice e il giudice alla guardia e tu venga gettato in prigione. 26 In verità ti dico: non uscirai di là finché tu
non abbia pagato fino all’ultimo spicciolo!
La concezione della giustizia secondo Matteo non può essere confusa con quella di Paolo. Per Paolo la
giustizia è la giustificazione di Dio concessa per grazia all’uomo; per Matteo è il retto agire richiesto da Dio
all’uomo.
Gesù ha rimesso in vigore la Legge come legge di Dio e documento dell’alleanza, ripulita da tutte le storture
e le aggiunte delle tradizioni umane e delle incrostazioni depositate dai secoli.
La migliore giustizia, che deve superare quella degli scribi e dei farisei, richiesta da Cristo ai suoi discepoli
sta anche nel fatto che Gesù ha ricondotto i singoli precetti a un principio dominante: l’esigenza dell’amore di
Dio e del prossimo, da cui dipendono la Legge e i Profeti.
Gesù non propone una legge diversa, come appare chiaro in Mt 5,17: “Non pensate che io sia venuto ad
abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento”.
Gesù parla con autorità pari a quella di Dio che diede i Dieci Comandamenti. “Ma io vi dico” non contraddice
quanto è stato detto, ma lo chiarisce, lo modifica in ciò che suona concessione, e passa dalle semplici azioni
ai desideri del cuore, da cui tutto promana.
“Ma io vi dico” non è un’antitesi, ma un completamento: l’uccisione fisica viene da un’uccisione interna
dell’altro: dall’ira, dal disprezzo, dalla rottura della fraternità nei suoi confronti. L’ira è l’uccisione dell’altro nel
proprio cuore. Il disprezzo è l’uccisione interiore che prepara e permette quella esteriore.
Tutte le guerre sono precedute da una campagna denigratoria del nemico, considerato indegno di vivere e
meritevole della morte: di conseguenza, ucciderlo è un dovere; anzi, è un’opera gradita a Dio, come ci ha
detto Gesù: “Verrà l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio” (Gv 16,2).
Il comandamento dell’amore del prossimo è superiore anche a quello del culto. La pace con il fratello è
condizione indispensabile per la pace e l’incontro con il Padre. Ciò che impedisce il contatto con i fratelli
impedisce anche il contatto con Dio.
Non solo chi ha offeso, ma anche chi è stato offeso, deve riconciliarsi col fratello prima di prendere parte a
un atto di culto. Non è questione di ragione o di torto; quando c’è qualcosa che divide due membri della
stessa comunità, tale ostacolo deve scomparire per poter comunicare con Dio.
La vita è un cammino di riconciliazione con gli altri. Non importa se si ha torto o ragione: se non si va
d’accordo con i fratelli, non si è figli di Dio. La realtà di figli di Dio si manifesta necessariamente nel vivere da
fratelli in Cristo.
Se non si passa dalla logica del debito a quella del dono e del perdono, si perde la vita di figli del Padre (cf.
Mt 18,21-35).
27 Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; 28 ma io vi dico: chiunque guarda una donna per
desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore.
29 Se il tuo occhio destro ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te: conviene che perisca uno dei
tuoi membri, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geenna. 30 E se la tua mano destra ti è
occasione di scandalo, tagliala e gettala via da te: conviene che perisca uno dei tuoi membri, piuttosto che
tutto il tuo corpo vada a finire nella Geenna.
31 Fu pure detto: Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto di ripudio; 32 ma io vi dico: chiunque ripudia sua
moglie, eccetto il caso di concubinato, la espone all’adulterio e chiunque sposa una ripudiata, commette
adulterio.
Il brano di Matteo 5,21-48 è strutturato su sei antitesi: “fu detto/ io però vi dico”. In realtà non sono antitesi.
Gesù non propone una legge diversa, come appare chiaro dal v. 17: “Non sono venuto ad abolire, ma a
compiere la legge e i profeti”. La legge non è nuova, ma antica. Il compimento però è nuovo: nessuno l’ha
mai proposta e osservata in questo modo, che è quello del Figlio di Dio.
Gesù non contraddice quanto è stato detto, ma lo chiarisce e passa dalle semplici azioni ai desideri del
cuore, da cui tutto promana. Ma ciò che dice non è un’imposizione legalistica, ancora più severa della
precedente. E’ invece la “buona notizia” di ciò che Dio opera in noi mediante queste stesse parole che
hanno il potere di compiere ciò per cui sono state mandate. Vanno intese quindi non come un “codice” di
leggi bellissime ma disumane, bensì come rivelazione e dono della vita stessa del Padre per noi.
I vv. 27-32 di questo brano trattano il tema del rapporto tra uomo e donna nel matrimonio. Gesù insegna che
non basta evitare ogni attentato esterno al matrimonio (l’adulterio consumato), ma che bisogna precludere la
via agli appetiti sessuali evitando le occasioni che possono svegliarli (lo sguardo) e i contatti pericolosi (la
mano).
Il verbo desiderare (in ebraico hamad) esprime un reale compiacimento e una vera decisione peccaminosa e
non un semplice sentimento o pensiero; vuol dire impadronirsi e prendere con prepotenza e quindi comporta
atteggiamenti esterni. Ma Gesù va oltre. A Dio interessano i sentimenti, la purezza dei pensieri, la rettitudine
della volontà. Perché può accadere che un contegno esteriore irreprensibile nasconda una profonda
corruzione nel cuore. Esterno e interno devono corrispondersi, pena la doppiezza di vita e la falsità.
L’adulterio non avviene per caso, ma viene preparato nel cuore. Un detto rabbinico dice: “L’occhio vede, il
cuore desidera, il corpo commette il peccato”. Rabbì Laqish asseriva: “Tu non devi dire che solo colui che
viola il matrimonio con il corpo è adultero, lo è anche chi lo viola con gli occhi”.
Il comando di Gesù di cavarsi l’occhio destro (quello preferito) e di tagliarsi la mano destra (la migliore) vuol
dire che può essere necessario sacrificare una parte preziosa di sé per evitare la perdita totale e definitiva di
tutto se stesso.
Il comando di rilasciare alla donna ripudiata un atto di ripudio è enunciato nel Libro del Deuteronomio 24,1-3.
L’atto di ripudio doveva garantire alla donna la certezza giuridica e tutelarla dall’accusa di adulterio nel caso
si fosse risposata. Il ripudio della moglie viene respinto da Gesù e condannato come adulterio, e la
responsabilità ricade sul marito che ripudia la moglie e sull’uomo che sposa la donna ripudiata.
L’espressione “eccetto il caso di concubinato” ha avuto numerose proposte di soluzione. Quella accolta dalla
tradizione della Chiesa cattolica intende il termine greco porneía, qui tradotto con il termine concubinato, nel
senso di matrimoni tra consanguinei.
In concreto: nel caso risulti che la moglie è congiunta al marito con vincoli di parentela entro i gradi proibiti
dal Libro del Levitico 18,6-18, il marito avrebbe non solo la possibilità, ma il dovere di ripudiarla. Anche nel
decreto apostolico degli Atti 15,28-29, porneía sembra avere questo significato: matrimonio tra
consanguinei.
Il matrimonio tra consanguinei era abbastanza frequente presso i pagani. L’eccezione di Matteo forse riflette
una situazione presente nella comunità cristiana primitiva dove si ricorreva con troppa disinvoltura al
privilegio paolino (1Cor 7,12-16; cfr Lv 18,6-18) e quindi si abbandonava con facilità la moglie con cui si
viveva prima della conversione al cristianesimo.
Matteo ribadisce che un cristiano può e deve abbandonare la propria moglie solo nel caso in cui egli
provenga da un matrimonio con una consanguinea o da uno stato di poligamia, che la legge cristiana
riteneva illegittimo e illecito, e per questo da sciogliere.
33 Avete anche inteso che fu detto agli antichi: Non spergiurare, ma adempi con il Signore i tuoi giuramenti;
34 ma io vi dico: non giurate affatto: né per il cielo, perché è il trono di Dio; 35 né per la terra, perché è lo
sgabello per i suoi piedi; né per Gerusalemme, perché è la città del gran re. 36 Non giurare neppure per la
tua testa, perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello. 37 Sia invece il vostro parlare sì,
sì; no, no; il di più viene dal maligno.
Gesù proibisce ogni tipo di giuramento. Il divieto dev’essere interpretato in senso totale. Le quattro formule
di giuramento riportate dal testo e proibite da Gesù rappresentavano tutte le formule di giuramento allora in
uso.
Ogni asserzione che vada oltre il semplice sì e no ha la sua origine nel maligno il quale “quando dice il falso,
parla del suo, perché è menzognero e padre della menzogna” (Gv 8,44).
Questo comandamento richiede la veridicità sia davanti a Dio che davanti agli uomini. Chi presta giuramento
nel nome di Dio presenta una garanzia di cui assolutamente non dispone.
I giudei giuravano “sulla vita della mia testa”. Ma neppure la nostra testa è nostra, ma di Dio. Solo Dio, il
creatore, può disporre dell’uomo.
Noi oggi ci troviamo di fronte alla pratica del giuramento. Essa è contraria al comandamento di Gesù: “Non
giurate affatto”.
38 Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente; 39 ma io vi dico di non opporvi al malvagio;
anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra; 40 e a chi ti vuol chiamare in giudizio per
toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. 41 E se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due.
42 Dà a chi ti domanda e a chi desidera da te un prestito non volgere le spalle.
La frase “occhio per occhio e dente per dente” riporta la legge del taglione (Es 19,15-51; 21,24; Lv 24,20). E’
uno dei capisaldi delle legislazioni antiche (Codice di Hammurabi e Legge delle dodici tavole). Essa doveva
sostituire la legge della vendetta di sangue (Gen 4, 23). Al tempo di Gesù la legge del taglione era ancora
vigente, ma poteva essere sostituita con un risarcimento in denaro.
La non-violenza richiesta da Gesù non è vile rassegnazione, ma forza e intraprendenza dell’amore. La
potenza dell’impotenza ha la sua più alta manifestazione in Gesù che “fu crocifisso per la sua debolezza, ma
vive per la potenza di Dio” (2Cor 13, 4) e poggia sulla fede che l’impotenza della croce vince il male.
Con il principio della non-violenza Gesù contrappone alla mentalità giuridica dell’Antico Testamento il nuovo
ideale dell’amore. Il male perde la sua forza d’urto solo quando non trova resistenza.
La Chiesa perseguitata ha assunto questo atteggiamento comandato da Gesù: “Gli apostoli se ne andarono
dal sinedrio lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù” (At 5,41).
I quattro esempi elencati da Matteo hanno lo scopo di illustrare il comandamento: “Ma io vi dico di non
opporvi al malvagio”.
Lo schiaffo sulla guancia destra è particolarmente doloroso e oltraggioso perché è un manrovescio. Gesù
flagellato e schiaffeggiato conferma con il suo esempio la validità del suo insegnamento (Mt 26,67; Is 50,6).
La lite giudiziaria con chi pretende la tunica come caparra o come risarcimento danni non ha più senso per il
discepolo di Gesù, anzi, egli non farà valere per sé neppure il comandamento che vietava il pignoramento
del mantello del povero e il dovere di restituirglielo prima del tramonto del sole (Es 22,25; Dt 24,13): egli darà
la tunica e il mantello senza opporre resistenza.
Il terzo esempio che mette il discepolo a confronto con la violenza è quello della requisizione da parte di
autorità militari o statali per costringerlo a prestazioni forzate. Ne abbiamo un esempio in Mt 27,32: “Mentre
uscivano, incontrarono un uomo di Cirene, chiamato Simone, e lo costrinsero a prendere su la croce di lui”.
Il miglio (1478,70 metri) era una misura romana e quindi richiama concretamente la dominazione dell’impero
di Roma al tempo di Gesù e dell’evangelista. Quando gli saranno imposte queste prestazioni forzate, il
discepolo di Gesù non deve ribellarsi o coltivare astio nel cuore, ma prestarsi liberamente e di buon animo a
fare con gioia il doppio di quanto esige da lui la prepotenza del malvagio.
Il quarto esempio ci presenta i poveri e i richiedenti. Essi non sono dei nemici o dei malvagi, ma possono
suscitare una reazione violenta a causa delle cattive esperienze fatte in precedenza. Leggiamo nel Libro del
Siracide 29,4-10: “Molti considerano il prestito come una cosa trovata e causano fastidi a coloro che li hanno
aiutati. Prima di ricevere, ognuno bacia le mani del creditore, parla con tono umile per ottenere gli averi
dell’amico; ma alla scadenza cerca di guadagnare tempo, restituisce piagnistei e incolpa le circostanze. Se
riesce a pagare, il creditore riceverà appena la metà e dovrà considerarla come una cosa trovata. In caso
contrario il creditore sarà frodato dei suoi averi e avrà senza motivo un nuovo nemico; maledizioni e ingiurie
gli restituirà, renderà insulti invece dell’onore dovuto. Tuttavia sii longanime con il misero e non fargli
attendere troppo l’elemosina. Per il comandamento soccorri il povero secondo la sua necessità, non
rimandarlo a mani vuote. Perdi pure denaro per un fratello e amico, non si arrugginisca inutilmente sotto una
pietra”.
La motivazione del comandamento: “Da’ a chi ti domanda e a chi desidera da te un prestito non volgere le
spalle” sarà evidenziata nel seguito del vangelo da Gesù stesso che ci comanda la conformità con il
comportamento del Padre: “Il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele domandano”
(Mt 7,11).
Attraverso questi atteggiamenti i discepoli si dimostrano amici dei loro nemici e tentano di cooperare con Dio
per il ravvedimento degli ingiusti e dei malvagi come ha fatto Gesù. San Paolo ha sintetizzato questo
insegnamento in Rm 12,21: “Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male”.
Se questi princìpi e questi comportamenti entrassero nella società, essa non solo non ne avrebbe un danno,
ma vedrebbe migliorare i rapporti umani più di quanto possono ottenere tutti gli apparati della giustizia, della
prevenzione e della repressione.
43 Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; 44 ma io vi dico: amate i vostri
nemici e pregate per i vostri persecutori, 45 perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo
sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. 46 Infatti se amate quelli
che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? 47 E se date il saluto soltanto ai
vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? 48 Siate voi dunque perfetti
come è perfetto il Padre vostro celeste.
Il comandamento dell’amore, esteso indistintamente a tutti, è il supremo completamento della Legge (v. 17).
A questa conclusione Gesù è arrivato lentamente dopo aver parlato dell’astensione dall’ira e dell’immediata
riconciliazione (vv. 21-26), del rispetto verso la donna (vv. 27-30) e la propria moglie (vv. 31-32), della verità
e sincerità nei rapporti interpersonali (vv. 33-37), fino alla rinuncia alla vendetta e alle rivendicazioni (vv. 38-
42).
Il principio dell’amore del prossimo è illustrato con due esemplificazioni pratiche: pregare per i nemici e
salutare tutti senza discriminazione. La più grande sincerità di amore è chiedere a Dio benedizioni e grazie
per il nemico. Questo vertice dell’ideale evangelico si può comprendere solo alla luce dell’esempio di Cristo
(cf. Lc 23,34) e dei suoi discepoli (cfr At 7,60). Colui che prega per il suo nemico viene a congiungersi con lui
davanti a Dio. In senso cristiano la preghiera è la ricompensa che il nemico riceve in cambio del male che ha
fatto.
Il precetto della carità non tiene conto delle antipatie personali e dei comportamenti altrui. Il prossimo di
qualsiasi colore, buono o cattivo, benevolo o ingrato dev’essere amato. Il nemico è colui che ha
maggiormente bisogno di aiuto: per questo Gesù ci comanda di offrirgli il nostro soccorso.
Il comandamento dell’amore dei nemici rivoluziona i comportamenti tradizionali dell’uomo. La benevolenza
cristiana non è filantropia, ma partecipazione all’amore di Dio. La sua universalità si giustifica solo in questa
luce: “affinché siate figli del Padre vostro” (v. 45), e “siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei
cieli” (v 48). Il cristiano esprime nel modo più sicuro e più vero la sua parentela con Dio amando
indistintamente tutti.
L’amore del nemico è l’essenza del cristianesimo. Sant’Agostino ci insegna che “la misura dell’amore è
amare senza misura”, ossia infinitamente, come ama Dio.
In quanto figli di Dio i cristiani devono assomigliare al loro Padre nel modo di essere, di sentire e di agire.
L’amore verso i nemici è la via per raggiungere la sua stessa perfezione.
La perfezione di cui parla Matteo è l’imitazione dell’amore misericordioso di Dio verso tutti gli uomini, anche
se ingiusti e malvagi. Il cristiano è una nuova creatura (cf. 2Cor 5,17) e non può più agire secondo i suoi
istinti e capricci, ma conformemente alla vita nuova in cui è stato rigenerato.
Gesù pone come termine della perfezione l’agire del Padre, che è un punto inarrivabile. L’imitazione del
Padre, e conseguentemente di Gesù, è l’unica norma dell’agire cristiano, l’unica via per superare la morale
farisaica. Essere perfetti come il Padre è in concreto imitare Cristo nella sua piena ed eroica sottomissione
alla volontà del Padre, e nella sua dedizione ai fratelli. E’ perciò diventando perfetti imitatori di Cristo, che si
diventa perfetti imitatori del Padre.