Capitolo ventesimo
1 “Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la
sua vigna. 2 Accordatosi con loro per un denaro al giorno, li mandò nella sua vigna. 3 Uscito poi verso le
nove del mattino, ne vide altri che stavano sulla piazza disoccupati 4 e disse loro: Andate anche voi nella mia
vigna; quello che è giusto ve lo darò. Ed essi andarono. 5 Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre e
fece altrettanto. 6 Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano là e disse loro: Perché ve ne
state qui tutto il giorno oziosi? 7 Gli risposero: Perché nessuno ci ha presi a giornata. Ed egli disse loro:
Andate anche voi nella mia vigna.
8 Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: Chiama gli operai e dà loro la paga,
incominciando dagli ultimi fino ai primi. 9 Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un
denaro. 10 Quando arrivarono i primi, pensavano che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero un
denaro per ciascuno. 11 Nel ritirarlo però, mormoravano contro il padrone dicendo: 12 Questi ultimi hanno
lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo. 13
Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con
me per un denaro? 14 Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te. 15 Non
posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono? 16 Così gli ultimi
saranno primi, e i primi ultimi”.
I due detti di Gesù: “Molti dei primi saranno ultimi e gli ultimi i primi” (Mt 19,30) e “così gli ultimi saranno primi
e i primi gli ultimi” (Mt 20,16) servono come inclusione della parabola degli operai della vigna.
Il messaggio è questo: rinunciare ad essere grandi per diventare piccoli, accettare che l’ultimo riceva quanto
il primo. Il Regno è un dono gratuito, una grazia da accogliere.
Spontaneamente siamo tentati anche noi di mormorare contro il Signore della vigna, perché il suo modo di
agire mette a soqquadro i nostri criteri di valutazione, di retribuzione equa, di giustizia sociale, di merito. Ma
trasferendo le nostre misure sul piano della salvezza, noi poniamo il problema in modo sbagliato: essere
ingaggiati nella vigna del Signore, essere chiamati al Regno è una grazia, un onore, una gioia, una fortuna.
E se Dio chiama tutti e a tutte le ore e accorda il medesimo dono straordinario e gratuito che è la salvezza,
ciò deve farci straordinariamente felici, anche perché, erroneamente, tutti riteniamo di essere operai della
prima ora che reclamano la salvezza come un diritto, mentre in realtà ci viene concessa come dono.
Dio si riserva la libertà dalla scelta per grazia, che abbatte la presunzione umana. A imitazione di Dio, i
“primi” sono invitati a guardare agli “ultimi” con bontà e non con cuore cattivo.
L’amore di Dio raggiunge tutti gli uomini e non fa differenze. Il salario è sempre lo stesso e non può essere
diviso perché il premio della vita è Gesù Cristo.
17 Mentre saliva a Gerusalemme, Gesù prese in disparte i dodici e lungo la via disse loro: 18 “Ecco, noi
stiamo salendo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai sommi sacerdoti e agli scribi, che lo
condanneranno a morte 19 e lo consegneranno ai pagani perché sia schernito e flagellato e crocifisso; ma il
terzo giorno risusciterà”.
20 Allora gli si avvicinò la madre dei figli di Zebedèo con i suoi figli, e si prostrò per chiedergli qualcosa. 21 Egli
le disse: “Che cosa vuoi?”. Gli rispose: “Dì che questi miei figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua
sinistra nel tuo regno”. 22 Rispose Gesù: “Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io sto
per bere?”. Gli dicono: “Lo possiamo”. 23 Ed egli soggiunse: “Il mio calice lo berrete; però non sta a me
concedere che vi sediate alla mia destra o alla mia sinistra, ma è per coloro per i quali è stato preparato dal
Padre mio”.
24 Gli altri dieci, udito questo, si sdegnarono con i due fratelli; 25 ma Gesù, chiamatili a sé, disse: “I capi delle
nazioni, voi lo sapete, dominano su di esse e i grandi esercitano su di esse il potere. 26 Non così dovrà
essere tra voi; ma colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo, 27 e colui che vorrà essere il
primo tra voi, si farà vostro schiavo; 28 appunto come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per essere servito,
ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti”.
Il brano è un contrappunto tra due glorie: quella del Figlio dell’uomo e quella degli uomini. La prima consiste
nel consegnarsi, nel servire e dare la vita; la seconda consiste nel possedere, nell’asservire e dare la morte.
E’ una lotta tra l’egoismo e l’amore, dove l’amore vince con la propria sconfitta, e l’egoismo perde con la
propria vittoria.
Il racconto è un dialogo di equivoci tra Gesù e i discepoli. Ciò che la madre dei figli di Zebedeo vuole da
Gesù non è la Gloria, cioè Dio, ma la vanagloria, cioè l’avere, il potere e l’apparire.
Il brano si articola in tre parti: la vera gloria del Figlio dell’uomo (vv. 17-19), la cecità dei discepoli che la
scambiano con la gloria degli uomini (vv. 20-24) e il confronto tra le due glorie (vv. 25-28).
Questo testo ci prepara al successivo, con il quale fa un tutt’uno: l’illuminazione dei ciechi di Gerico sarà la
caduta della vanagloria, che ci impedisce di ricevere la Gloria.
La rivelazione del Figlio dell’uomo che sale a Gerusalemme è la luce che squarcia violentemente le nostre
tenebre e svela ad ogni uomo la vera identità di Dio, la cui gloria è amare, servire e dare la vita.
In questo brano si confrontano e si scontrano il modo di pensare e di agire del mondo e quello di Gesù.
L’uno è presentato nel comportamento dei grandi, nella loro volontà di oppressione e di dominio; l’altro è
caratterizzato dalla condotta di Gesù, che è venuto per servire e dare la vita per l’umanità.
L’esempio di Gesù deve indurre a un cambiamento di mentalità. L’atteggiamento richiesto da Gesù non
nasce spontaneo, non è congeniale all’uomo: richiede una conversione. S. Kierkegaard ha scritto: “Non hai
la minima partecipazione a lui (a Cristo), né la più lontana comunione con lui, se non ti sei posto in sintonia
con lui nel suo abbassamento”.
“Diventare piccoli” è l’atteggiamento contrario a quello degli uomini, assetati di potenza e di grandezza. Gesù
si è fatto piccolo fino alla morte di croce (cf. Fil 2,5-11). Tutti ci saremmo aspettati che il Figlio di Dio sarebbe
venuto per essere servito e per far morire i peccatori. E invece no. E’ venuto per servire e per dare la vita in
riscatto per tutti.
Le nazioni si organizzano come società, la Chiesa invece è una famiglia in cui non ci sono superiori e
sudditi, padroni e subalterni, ma solamente fratelli (cf. Mt 18,15.21.35). Lo spirito di supremazia o di
egemonia sui propri simili non è cristiano, ma diabolico (cfr Mt 4,1-11). Qualunque forma di autorità nella
Chiesa non deve essere un dominio, una signoria, un potere, ma un servizio. Il Signore lo dice
inequivocabilmente: “Chi vuol essere il più grande tra voi, deve essere il vostro servo; e chi vuol essere il
primo, deve essere il vostro schiavo” (vv. 26-27). C’è un tale rovesciamento nel modo di intendere le funzioni
del governo che la comunità cristiana non sembra ancora averne preso del tutto coscienza.
Il “servizio” è un concetto teologico prima ancora di essere un atteggiamento pratico. Non riguarda prima di
tutto un modo umile di esercitare il potere, ma di concepirlo. Il servo non è il responsabile della casa, non ha
nessun potere, tanto meno quello di sostituirsi al padrone, prendendo decisioni al suo posto, avocando a sé
la responsabilità degli altri. Egli è solo un inserviente che coopera al buon andamento della casa, che non è
sua, e per questo non deve considerarla tale. La Chiesa è di Dio, di Cristo (cf. Mt 16,18) che la governa
direttamente (cf. Mt 28,18-20), prima che tramite particolari incaricati.
In quanto Dio, Gesù avrebbe potuto pretendere (secondo noi!) un trattamento da “signore”, facendosi
servire. Ma invece di far valere i suoi diritti sovrani vi ha rinunciato a favore delle moltitudini facendosi loro
servo e donando la vita per il loro riscatto, ossia per la loro liberazione da assoggettamenti e schiavitù di
qualsiasi genere.
Scegliendo la condizione servile si è proposto di essere più vicino a quanti vivevano in schiavitù e ridare ad
essi la coscienza della loro dignità e libertà. Il testo ribadisce l’inno della Lettera ai Filippesi 2,5-7: pur
essendo Dio è diventato servo, realizzando con la sua morte in croce il suo servizio. Pur essendo ricco, è
diventato povero per arricchire noi (cf. 2Cor 8,9).
La vera grandezza e la libertà autentica è nell’umiltà del servire. Gesù è in mezzo a noi come colui che serve
(cf. Lc 22,27; Gv 13,1-17).
29 Mentre uscivano da Gerico, una gran folla seguiva Gesù. 30 Ed ecco che due ciechi, seduti lungo la
strada, sentendo che passava, si misero a gridare: “Signore, abbi pietà di noi, figlio di Davide!”. 31 La folla li
sgridava perché tacessero; ma essi gridavano ancora più forte: “Signore, figlio di Davide, abbi pietà di noi!”.
32 Gesù, fermatosi, li chiamò e disse: “Che volete che io vi faccia?”. 33 Gli risposero: “Signore, che i nostri
occhi si aprano!”. 34 Gesù si commosse, toccò loro gli occhi e subito ricuperarono la vista e lo seguirono.
La guarigione dei due ciechi di Gerico è l’ultimo miracolo compiuto da Gesù. A questo punto del racconto
evangelico si nota la contrapposizione tra i discepoli e i due ciechi. I discepoli non comprendono la via della
croce e manifestano la loro perplessità, i due ciechi invece “subito riacquistarono la vista e lo seguirono” (v.
34). Il modello da imitare sono loro, non i discepoli. Questo miracolo illustra la frase di Gesù: “Questo è
impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile” (19,26): due uomini erano ciechi e poi ci vedono, erano
seduti e poi seguono Gesù lungo la via. La lezione è chiara: la potenza di Dio sa trasformare uomini
impotenti in discepoli coraggiosi. Questi due “piccoli” handicappati, sgridati dalla folla e zittiti perché
pregavano il “Signore, figlio di Davide” con umiltà (“abbi pietà di noi”) sono veramente grandi: il Signore si
commuove, li tocca, li guarisce.
Gesù è la luce del mondo. La Chiesa è fatta di persone illuminate dalla sua luce, che lo seguono nel suo
cammino.
Capitolo 21
1 Quando furono vicini a Gerusalemme e giunsero presso Bètfage, verso il monte degli Ulivi, Gesù mandò
due dei suoi discepoli 2 dicendo loro: “Andate nel villaggio che vi sta di fronte: subito troverete un’asina
legata e con essa un puledro. Scioglieteli e conduceteli a me. 3 Se qualcuno poi vi dirà qualche cosa,
risponderete: Il Signore ne ha bisogno, ma li rimanderà subito”. 4 Ora questo avvenne perché si adempisse
ciò che era stato annunziato dal profeta:
5 Dite alla figlia di Sion:
Ecco, il tuo re viene a te
mite, seduto su un’asina,
con un puledro figlio di bestia da soma.
6 I discepoli andarono e fecero quello che aveva ordinato loro Gesù: 7 condussero l’asina e il puledro, misero
su di essi i mantelli ed egli vi si pose a sedere. 8 La folla numerosissima stese i suoi mantelli sulla strada
mentre altri tagliavano rami dagli alberi e li stendevano sulla via. 9 La folla che andava innanzi e quella che
veniva dietro, gridava:
Osanna al figlio di Davide!
Benedetto colui che viene nel nome del Signore!
Osanna nel più alto dei cieli!
10 Entrato Gesù in Gerusalemme, tutta la città fu in agitazione e la gente si chiedeva: “Chi è costui?”. 11 E la
folla rispondeva: “Questi è il profeta Gesù, da Nazaret di Galilea”.
Per Matteo il centro dell’attività di Gesù è la Galilea. Gerusalemme è la città del rifiuto, il popolo che gli
prepara la croce. L’ingresso in Gerusalemme va letto sotto questo aspetto. Il centro del brano è Gesù; i
discepoli e le folle sono soltanto comparse.
Il monte degli Ulivi domina la città da oriente (Ez 11,23) e dista da Gerusalemme il cammino di un sabato (At
1,12), cinque stadi (= 952 metri). Al tempo di Gesù era considerato il luogo dal quale il Messia, con ogni
probabilità, si sarebbe mostrato.
Il dettaglio dell’asina legata è comprensibile se ci si rifà a Gen 49,11 che descrive la benedizione di
Giacobbe al figlio Giuda: “Egli lega il suo asino alla sua vite, a scelto vitigno il puledro della sua asina”.
Questo passo ha carattere messianico e il Messia è atteso dalla tribù di Giuda. Il versetto precedente, Gen
49,10 dice: “Non si allontana lo scettro da Giuda, né il bastone del comando dai suoi piedi, finché venga il
suo dominatore, e a lui obbediscono i popoli”. Con Gesù arriva il dominatore dei popoli preannunciato dal
patriarca Giacobbe.
Il proprietario degli animali non può far altro che obbedire al Signore che ne ha bisogno. Una citazione
dell’Antico Testamento chiarisce che tutto ciò accadde secondo le Scritture, cioè che è stato predisposto da
Dio. Gesù agisce secondo la volontà di Dio.
Sia Is 62,11 sia Zc 9,9 annunciano per Gerusalemme il salvatore che viene e porta la pace, ed esortano
Gerusalemme a salutarlo con gioia. L’appellativo “figlia di Sion” è rivolto alla popolazione della città. Ma
Gerusalemme non reagisce con esultanza (v. 10).
Gesù viene nelle vesti del re mansueto, non come re che punisce e giudica. Egli offre a Gerusalemme la
salvezza, e Gerusalemme è invitata ad accoglierla.
I due discepoli agiscono secondo la direttiva di Gesù senza trovare ostacoli. Essi pongono sulle due bestie
dei mantelli come sella o come ornamento e Gesù siede sull’asina e sul suo puledro.
Non si può eliminare la difficoltà dell’espressione intendendo che Gesù sia seduto sui mantelli. In oriente gli
asini si cavalcano in modo tale da tenere entrambe le gambe dalla stessa parte. Gesù, seduto sull’asina, ha
usato il puledro, più basso dell’asina, per appoggiarvi i piedi. L’immagine dell’asina e del suo puledro era il
segno dal quale Gerusalemme avrebbe dovuto riconoscere il suo re.
La folla enorme che accompagna Gesù è quella dei pellegrini, che arrivavano a Gerusalemme per la festa di
Pasqua, non quella degli abitanti di Gerusalemme. In vista della città questi pellegrini stendono sulla strada i
loro mantelli e rami recisi dagli alberi. Il primo gesto è parte costitutiva del rituale di intronizzazione (2Re
9,13); il secondo può essere considerato un atto di omaggio.
Il grido di saluto rivolto a Gesù “osanna!” significa letteralmente “soccorrici, dunque!”. Qui è inteso nel senso
di un grido di evviva. Esso è rivolto al Messia, il Figlio di Davide, che visita la sua città.
L’acclamazione “benedetto colui che viene nel nome del Signore” (Sal 118,26) – in origine un grido di saluto
per i pellegrini alla porta del tempio – qui ha un significato escatologico: anche il Cristo della parusia sarà
salutato così (Mt 23,39). L’osanna conclusivo invita gli angeli del cielo a unirsi all’esultanza.
Soltanto quando Gesù entra nella città, questa reagisce con eccitazione e panico. I suoi abitanti non gli sono
andati incontro: è lo stesso atteggiamento tenuto all’annuncio della sua nascita (Mt 2,3-8).
Gesù è uno sconosciuto per gli abitanti di Gerusalemme. L’informazione può essere considerata anche con
una punta di polemica rivolta contro di essa. Il profeta Gesù viene a lei da un angolo sconosciuto della
Galilea, da Nazaret.
Gesù che entra in Gerusalemme è un’immagine del Dio misericordioso. Gesù si mostra re misericordioso
proprio verso i peccatori. L’immagine del Dio misericordioso può essere colta soltanto nella fede, che è in
grado di scorgere sotto la povertà la ricchezza, sotto la vergogna l’onore, sotto la morte la vita.
Un altro motivo importante è la pace che viene portata da questo re che disprezza la violenza. Il re senza
spada e senza scudo diventa la vittima della sua città.
12 Gesù entrò poi nel tempio e scacciò tutti quelli che vi trovò a comprare e a vendere; rovesciò i tavoli dei
cambiavalute e le sedie dei venditori di colombe 13 e disse loro: “La Scrittura dice:
La mia casa sarà chiamata casa di preghiera
ma voi ne fate una spelonca di ladri”.
14 Gli si avvicinarono ciechi e storpi nel tempio ed egli li guarì. 15 Ma i sommi sacerdoti e gli scribi, vedendo le
meraviglie che faceva e i fanciulli che acclamavano nel tempio: “Osanna al figlio di Davide”, si sdegnarono 16
e gli dissero: “Non senti quello che dicono?”. Gesù rispose loro: “Sì, non avete mai letto:
Dalla bocca dei bambini e dei lattanti
ti sei procurata una lode?”.
17 E, lasciatili, uscì fuori dalla città, verso Betània, e là trascorse la notte.
La città è scossa dall’arrivo del suo re (v. 10) ma egli l’abbandonerà (v. 17): questa inclusione annuncia già il
giudizio finale (23,38-39). Continuando il suo cammino egli prende possesso del tempio con un nuovo gesto
profetico (v. 12): come aveva fatto Neemia al suo ritorno in Gerusalemme (Ne 13,7-9), Gesù purifica la casa
di Dio e ne scaccia i mercanti. Il v. 13 allude alle invettive dei profeti (Is 56,7 e Ger 7,11) contro coloro che
hanno fiducia nel tempio, ma non hanno una religione autentica. Anche il profeta Zc 14,21 aveva
preannunciato: “non vi saranno più mercanti nel tempio di Jahvè degli eserciti, in quel giorno”.
È ancora in questa prospettiva messianica che solo Matteo ricorda le guarigioni operate da Gesù nel tempio,
il cui accesso era proibito ai ciechi e agli zoppi (2Sam 5,8; Lv 21,18). Introducendo questi malati nel recinto
del tempio e guarendoli, il figlio di Davide realizza le profezie messianiche di Isaia 35,5-6. Matteo pone sulla
scena i malati e i fanciulli, che comprendono il significato messianico di Gesù in Gerusalemme e nel tempio,
mentre i misteri del regno restano nascosti ai sapienti e agli intelligenti (Mt 11,15; 13,11-15): Gesù è il
messia dei malati e dei bambini, degli umili e dei poveri.
Gesù scaccia i mercanti ma accoglie i poveri e gli umili che vengono a lui pieni di fede. Il gesto contro i
rivenditori poteva far apparire che egli era un giudice inappellabile, i prodigi sui ciechi e sugli zoppi
dimostrano invece che egli è un medico misericordioso. Mentre purifica il tempio e scaccia i profanatori,
controbilancia questo atto di forza con un atto di clemenza verso i poveri e i sofferenti. I miracoli sono
sempre segni della messianicità del Salvatore, per questo provocano un’acclamazione in tal senso da parte
dei ‘fanciulli’. Essi fanno parte della categoria dei discepoli di Gesù, cioè dei poveri e degli umili, sempre
pronti ad accogliere i suoi annunci. In questo caso il loro improvviso riconoscimento serve ad attuare
l’oracolo del Sal 8,3, ritenuto unanimemente messianico. Le grida gioiose dei fanciulli vengono smorzate e
soffocate dall’intervento dei capi del popolo. Essi levano un coro di protesta e pretendono da Gesù una
smentita alle acclamazioni dei fanciulli, ma egli non accoglie la loro richiesta. Ormai i fanciulli e i piccoli
hanno sostituito per sempre i grandi e i potenti. Gesù, come il protagonista del salmo 8, accetta il canto di
lode dei piccoli “per ridurre al silenzio nemici e ribelli”.
18 La mattina dopo, mentre rientrava in città, ebbe fame. 19 Vedendo un fico sulla strada, gli si avvicinò, ma
non vi trovò altro che foglie, e gli disse: “Non nasca mai più frutto da te”. E subito quel fico si seccò. 20
Vedendo ciò i discepoli rimasero stupiti e dissero: “Come mai il fico si è seccato immediatamente?”. 21
Rispose Gesù: “In verità vi dico: Se avrete fede e non dubiterete, non solo potrete fare ciò che è accaduto a
questo fico, ma anche se direte a questo monte: Levati di lì e gettati nel mare, ciò avverrà. 22 E tutto quello
che chiederete con fede nella preghiera, lo otterrete”.
La fame di Gesù esprime il suo desiderio ardente di farsi conoscere in tutta la sua verità. Questo desiderio è
deluso dalla cecità di Israele, simboleggiato dal fico. Egli condanna il fico adempiendo la profezia di
Geremia: “Li mieto e li anniento, dice il Signore, non c’è più uva nella vigna né frutti sui fichi; anche le foglie
sono avvizzite” (8,13). Il messia rivela la sterilità del suo popolo, incapace di fare frutti (cf. 21,43). Rifiutando
Gesù, Israele perde il contatto con la fonte della salvezza; diventa secco, perché rifiuta di attingere alla vera
vita.
In questo brano, fede e incredulità sono confrontate tra loro. Per Matteo la fede è anzitutto fiducia nella
parola di Gesù. L’elemento fondamentale di questa fede è l’orientamento alla volontà di Dio.
La preghiera è un’espressione della fede. La fede suscita la fiducia che Dio verrà in aiuto. Il come di questo
intervento non può essere stabilito da colui che prega. Anzi, quanto più l’orante crescerà nella fede
fiduciosa, tanto più lascerà fare a Dio.
23 Entrato nel tempio, mentre insegnava gli si avvicinarono i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo e gli
dissero: “Con quale autorità fai questo? Chi ti ha dato questa autorità?”. 24 Gesù rispose: “Vi farò anch’io una
domanda e se voi mi rispondete, vi dirò anche con quale autorità faccio questo. 25 Il battesimo di Giovanni da
dove veniva? Dal cielo o dagli uomini?”. Ed essi riflettevano tra sé dicendo: “Se diciamo: “dal Cielo”, ci
risponderà: “perché dunque non gli avete creduto?”; 26 se diciamo “dagli uomini”, abbiamo timore della folla,
perché tutti considerano Giovanni un profeta”. 27 Rispondendo perciò a Gesù, dissero: “Non lo sappiamo”.
Allora anch’egli disse loro: “Neanch’io vi dico con quale autorità faccio queste cose”.
I gesti di Gesù irritano i responsabili del culto e della dottrina. Si erano già sdegnati il giorno prima per la
cacciata dei venditori dal tempio e per le acclamazioni dei bambini. Ma Gesù li aveva zittiti citando il Sal 8,3.
Ora gli pongono esplicitamente la domanda: “Con quale autorità hai fatto questo? Chi ti ha dato questa
autorità?” (21,23). Gesù però non risponde e pone a sua volta una domanda. Il loro rifiuto a pronunciarsi è la
prova che la loro ricerca non è sincera. Non avevano creduto a Giovanni Battista che annunciava i tempi
messianici: “Colui che viene dopo di me è più potente di me…, egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco”
(3,11), ora non credono a Gesù. Rifiutare di credere a Giovanni Battista è mettersi nella situazione di non
credere a Gesù.
Nel Vangelo di Matteo, Giovanni Battista è in tutto e per tutto in funzione di Gesù. Partendo dal Battista si
può argomentare in favore di Gesù e del suo Vangelo (cf. Mt 11,7-15).
Questo brano ci insegna che l’incredulità non può essere convinta con argomentazioni razionali. La fede
dev’essere preceduta da una svolta interiore. La prima esigenza che Gesù pone è la conversione (Mt 4,17).
28 “Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli; rivoltosi al primo disse: Figlio, va’ oggi a lavorare nella vigna. 29
Ed egli rispose: Sì, signore; ma non andò. 30 Rivoltosi al secondo, gli disse lo stesso. Ed egli rispose: Non ne
ho voglia; ma poi, pentitosi, ci andò. 31 Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?”. Dicono: “L’ultimo”. E
Gesù disse loro: “In verità vi dico: I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. 32 E’ venuto
a voi Giovanni nella via della giustizia e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno
creduto. Voi, al contrario, pur avendo visto queste cose, non vi siete nemmeno pentiti per credergli.
Matteo ha fatto confluire in questa parabola elementi molto diversi: oltre all’opposizione tra il dire e il fare che
concludeva il discorso della montagna (7,21; cf. 23,3), si vede apparire quello del pentimento, mentre viene
ripresa l’allusione a Giovanni Battista e alla fede (cf. 21,23-27); il tutto nel quadro di una vigna che richiama
la parabola degli operai (19,30—20,16) e annuncia quella dei vignaioli omicidi (21,33-46).
Nel regno di Dio contano i fatti, non le parole. I due figli sono i “giusti” e i “peccatori” (cf. 9,13). Un detto
rabbinico insegna: “I giusti promettono poco e fanno molto; gli empi parlano molto e non fanno nulla”.
Il test è la docilità o meno all’appello di Giovanni Battista. I pubblicani e le prostitute, che in un primo tempo
avevano rifiutato la volontà del Padre manifestata nelle legge, hanno creduto a Giovanni Battista e, tramite
lui, hanno scoperto la via della salvezza nel regno annunciato da Gesù, mentre i capi d’Israele non lo
ascoltarono e non gli credettero.
Noi, che siamo giusti e saggi, ovviamente benpensanti perché benestanti, davanti a Dio siamo molto più
indietro dei furfanti e delle prostitute. Siamo noi i veri briganti, che derubano i fratelli e impongono loro
balzelli insopportabili (cf. Mt 23,1ss), percependo “la tangente del pio”; siamo noi le vere prostitute che
riducono l’amore di Dio a un puro rapporto di interesse. Pubblicani e prostitute hanno la patente di peccatori
riconosciuti. Noi, finché non ci identifichiamo con loro, non abbiamo neanche la dignità di sapere che siamo
tali.
Questo brano trasmette molta consolazione e fiducia. Nessun peccatore deve scoraggiarsi. Questo testo
annuncia un nuovo ordinamento di Dio, che contrasta con il modo di vedere umano e lo supera.
33 Ascoltate un’altra parabola: C’era un padrone che piantò una vigna e la circondò con una siepe, vi scavò
un frantoio, vi costruì una torre, poi l’affidò a dei vignaioli e se ne andò. 34 Quando fu il tempo dei frutti,
mandò i suoi servi da quei vignaioli a ritirare il raccolto. 35 Ma quei vignaioli presero i servi e uno lo
bastonarono, l’altro lo uccisero, l’altro lo lapidarono. 36 Di nuovo mandò altri servi più numerosi dei primi, ma
quelli si comportarono nello stesso modo. 37 Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: Avranno rispetto
di mio figlio! 38 Ma quei vignaioli, visto il figlio, dissero tra sé: Costui è l’erede; venite, uccidiamolo, e avremo
noi l’eredità. 39 E, presolo, lo cacciarono fuori della vigna e l’uccisero. 40 Quando dunque verrà il padrone
della vigna che farà a quei vignaioli?». 41 Gli rispondono: «Farà morire miseramente quei malvagi e darà la
vigna ad altri vignaioli che gli consegneranno i frutti a suo tempo». 42 E Gesù disse loro: «Non avete mai letto
nelle Scritture:
La pietra che i costruttori hanno scartata
è diventata testata d’angolo;
dal Signore è stato fatto questo
ed è mirabile agli occhi nostri?
43 Perciò io vi dico: vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare. 44 Chi cadrà
sopra questa pietra sarà sfracellato; e qualora essa cada su qualcuno, lo stritolerà».
45 Udite queste parabole, i sommi sacerdoti e i farisei capirono che parlava di loro 46 e cercavano di
catturarlo; ma avevano paura della folla che lo considerava un profeta.
Gesù interpella di nuovo i capi del popolo facendo loro capire che è il momento dei frutti, il momento nel
quale Dio chiede conto della sua vigna. L’applicazione è chiara: dopo aver rifiutato i profeti, i responsabili
d’Israele possono ancora cogliere l’ultima occasione per pentirsi: accogliere il Figlio, l’erede. La parabola
presenta la morte del Figlio come un crimine premeditato.
Dopo aver chiesto ai suoi interlocutori di tirare essi stessi le conclusioni della parabola (nel senso di Is 5,5-
7), Gesù rende esplicito il loro giudizio. A chi sarà tolto il regno di Dio? Non a Israele, rappresentato dalla
vigna, ma ai sommi sacerdoti e ai farisei, i quali “capirono che parlava di loro” (v. 45). E a chi sarà dato
questo regno? “A un popolo che lo farà fruttificare” (v. 43). Per Matteo si tratta ancora di Israele, ma
trasfigurato attraverso la presenza del Cristo risuscitato che adempie l’alleanza di Dio con gli uomini e fa loro
produrre i suoi frutti.
I servitori mandati dal padrone della vigna sono i profeti. Ricordiamo due passi dell’Antico Testamento: “Il
Signore inviò loro profeti perché li facessero ritornare a lui. Essi comunicarono loro il proprio messaggio, ma
non furono ascoltati” (2Cr 24,19); “Da quando i vostri padri uscirono dal paese d’Egitto fino ad oggi, ho
mandato a voi in continuazione tutti i servitori, i profeti. Ma non fui ascoltato e non mi si prestò orecchio; anzi
rimasero ostinati e agirono peggio dei loro padri” (Ger 7,25-26). Neemia 9,26 constata in sintesi: “I tuoi
profeti li ammonirono, ma essi li uccisero e commisero grandi iniquità”.
Il Messia umiliato e ucciso diventerà, dal giorno della sua risurrezione, la pietra angolare della Chiesa, il suo
fondamento incrollabile.
Fin dall’inizio la parabola ha richiamato la nostra attenzione sui frutti. I frutti del regno di Dio coincidono con
la fedeltà nell’amore attivo, che è la sintesi della volontà di Dio. Alla fine il giudizio sarà in base ai frutti
dell’amore fedele e attivo e non sull’appartenenza a Israele o alla Chiesa.
Capitolo ventiduesimo
1 Gesù riprese a parlar loro in parabole e disse: 2 “Il regno dei cieli è simile a un re che fece un banchetto di
nozze per suo figlio. 3 Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non vollero venire.
4 Di nuovo mandò altri servi a dire: Ecco ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e i miei animali ingrassati
sono già macellati e tutto è pronto; venite alle nozze. 5 Ma costoro non se ne curarono e andarono chi al
proprio campo, chi ai propri affari; 6 altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero.
7 Allora il re si indignò e, mandate le sue truppe, uccise quegli assassini e diede alle fiamme la loro città. 8
Poi disse ai suoi servi: Il banchetto nuziale è pronto, ma gli invitati non ne erano degni; 9 andate ora ai
crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze. 10 Usciti nelle strade, quei servi
raccolsero quanti ne trovarono, buoni e cattivi, e la sala si riempì di commensali. 11 Il re entrò per vedere i
commensali e, scorto un tale che non indossava l’abito nuziale, 12 gli disse: Amico, come hai potuto entrare
qui senz’abito nuziale? Ed egli ammutolì. 13 Allora il re ordinò ai servi: Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori
nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti. 14 Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti”.
Il banchetto è organizzato da un re per le nozze del figlio. I primi invitati, il popolo d’Israele, manifestano
indifferenza colpevole (v. 5). I vv. 6-7 sono ispirati alla parabola dei vignaioli. Probabilmente Matteo ha
presente le persecuzioni contro i predicatori cristiani e la distruzione di Gerusalemme nell’anno 70.
Dopo il rifiuto dei primi chiamati, l’invito è rivolto a tutti, “buoni e cattivi” (v. 10).La sala piena di commensali è
immagine della Chiesa.
La parabola è un appello a tutti perché sappiano che il momento è decisivo e non si può differire: “Tutto è
pronto” (v. 4). Di fronte alla chiamata del vangelo non c’è niente di più importante da fare.
Per stare nella sala del banchetto (la Chiesa) bisogna accettare di ricevere il vestito di nozze: la
conversione, la fede, la grazia. La comparsa del re nella sala significa il giudizio dei convitati. Il giudizio non
riguarda solo i primi invitati che hanno rifiutato l’invito alle nozze. I secondi non si illudano che basti essere
nella Chiesa per essere salvati.
L’avvertimento finale della parabola ricorda ai convitati della comunità cristiana l’esigenza della loro vita
secondo il battesimo e la serietà del loro impegno.
La chiamata di Dio non pone condizioni preliminari: la Chiesa è il luogo del grande raduno e gli invitati sono
tutti peccatori. Ma peccatori che si convertono.
Il detto riguardante i chiamati e gli eletti non invita a fare i conti sui salvati e i dannati: sarebbe in
contraddizione con l’uno senza abito di nozze tra i tanti invitati che riempivano la sala. Questa frase è una
interpellanza personale all’ascoltatore perché cerchi di non essere nella condizione di colui che viene gettato
nelle tenebre.
15 Allora i farisei, ritiratisi, tennero consiglio per vedere di coglierlo in fallo nei suoi discorsi. 16 Mandarono
dunque a lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: “Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via
di Dio secondo verità e non hai soggezione di nessuno perché non guardi in faccia ad alcuno. 17 Dicci
dunque il tuo parere: E’ lecito o no pagare il tributo a Cesare?”. 18 Ma Gesù, conoscendo la loro malizia,
rispose: “Ipocriti, perché mi tentate? 19 Mostratemi la moneta del tributo”. Ed essi gli presentarono un denaro.
20 Egli domandò loro: “Di chi è questa immagine e l’iscrizione?”. 21 Gli risposero: “Di Cesare”. Allora disse
loro: “Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”. 22 A queste parole
rimasero sorpresi e, lasciatolo, se ne andarono.
Sulla liceità o meno di pagare il tributo all’imperatore romano c’erano diverse posizioni: gli erodiani erano
favorevoli, gli zeloti erano contrari, i farisei pagavano purché venisse loro garantita la libertà religiosa.
Qualunque fosse la risposta di Gesù, egli si sarebbe attirato l’ira di una parte dei presenti. Gesù porta il
discorso al suo giusto livello: la giusta dipendenza da Dio ci fa trovare la giusta libertà di fronte allo stato. Dio
e Cesare non sono sullo stesso piano: in ogni situazione vengono prima i diritti di Dio. Ci sono anche i diritti
dello stato: quando lo stato rimane nel suo ambito, questi diritti diventano doveri di coscienza per i cittadini.
Ma lo stato non può erigersi a valore assoluto, non può arrogarsi i diritti che competono a Dio, non può
sostituirsi alla coscienza dell’uomo.
La richiesta di Gesù di mostrargli una moneta del tributo fa pensare a due cose. Gesù non dispone di
denaro, è povero (Mt 8,2). Inoltre occorre ricordare che questo fatto avviene nell’area del tempio.
L’immagine dell’imperatore sul denaro offende la dignità del luogo. Mostrando a Gesù un denaro nell’area
del tempio, essi comprovano la loro colpevolezza.
La moneta è il simbolo del potere. Immagine e iscrizione lo comprovano. L’area del dominio di un imperatore
o re coincideva con l’area in cui avevano corso le sue monete. L’immagine dell’imperatore impressa sulla
moneta è presa da Gesù come argomento per provare che all’imperatore è dovuto il tributo. Ma il culmine
della risposta sta nella giustapposizione di imperatore e Dio. Nel riconoscere la legittimità del tributo
imperiale si dichiara che anche Dio dev’essere considerato come colui al quale spetta l’obbedienza
maggiore. Nella predicazione del regno di Dio, il potere imperiale appare nella sua caducità, mentre il regno
di Dio è permanente e definitivo. In caso di conflitto si deve negare l’obbedienza all’imperatore per obbedire
soltanto a Dio.
La bimillenaria storia della Chiesa ci ha messo davanti agli occhi una molteplicità di rapporti felici e infelici tra
stato e Chiesa. Solo la fede vera è in grado, volta per volta, di cogliere la netta distinzione tra Dio e il mondo.
In ogni caso Dio non dev’essere circoscritto nel tempio o nella cella dei monaci, ma deve permeare la vita
attiva, tutti gli atti umani, la società, la storia.
23 In quello stesso giorno vennero a lui dei sadducei, i quali affermano che non c’è risurrezione, e lo
interrogarono: 24 “Maestro, Mosè ha detto: Se qualcuno muore senza figli, il fratello ne sposerà la vedova e
così susciterà una discendenza al suo fratello. 25 Ora, c’erano tra noi sette fratelli; il primo appena sposato
morì e, non avendo discendenza, lasciò la moglie a suo fratello. 26 Così anche il secondo, e il terzo, fino al
settimo. 27 Alla fine, dopo tutti, morì anche la donna. 28 Alla risurrezione, di quale dei sette essa sarà moglie?
Poiché tutti l’hanno avuta”. 29 E Gesù rispose loro: “Voi vi ingannate, non conoscendo né le Scritture né la
potenza di Dio. 30 Alla risurrezione infatti non si prende né moglie né marito, ma si è come angeli nel cielo. 31
Quanto poi alla risurrezione dei morti, non avete letto quello che vi è stato detto da Dio: 32 Io sono il Dio di
Abramo e il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe? Ora, non è Dio dei morti, ma dei vivi”. 33 Udendo ciò, la folla
era sbalordita per la sua dottrina.
Il caso sottoposto al giudizio di Gesù è un’applicazione della legge del levirato (Dt 25,5-10) secondo la quale
un cognato doveva sposare la cognata se il marito di lei fosse morto senza figli maschi, allo scopo di
assicurare al defunto una discendenza. Come nel brano sul tributo a Cesare, Gesù va al cuore del
problema, rinviando gli interroganti all’essenziale della rivelazione: la alleanza che unisce Dio agli uomini.
Dio è il Dio della vita, non della morte (Es 3,6). La morte è la nemica numero uno del Dio della vita e
dell’uomo creato da lui per la vita. Non è pensabile lo smacco del Dio vivente e onnipotente di fronte alla
morte. Appartenere al Dio dell’alleanza è partecipare alla sua vita (Ez 37; Is 26,19; ecc.). Questa risposta
non è solo contro i sadducei che si ingannavano perché non conoscevano né le Scritture, né la potenza di
Dio (cf. v. 29), ma anche contro i farisei che concepivano la risurrezione come un semplice ritorno alla vita
attuale, prestandosi così all’ironia dei sadducei.
sull’idea che nell’al di là continuino le condizioni della vita terrena, e quindi ci si sposi. Gesù non condivide la
concezione popolare e farisaica sull’al di là. Egli rimanda gli avversari alle Scritture e alla potenza di Dio. Per
Gesù la risurrezione non è un ritorno alla vita precedente, ma una vita nuova che sarà prodotta dalla
potenza di Dio. In questo modo la vicenda esposta dagli avversari cade.
34 Allora i farisei, udito che egli aveva chiuso la bocca ai sadducei, si riunirono insieme 35 e uno di loro, un
dottore della legge, lo interrogò per metterlo alla prova: 36 “Maestro, qual è il più grande comandamento della
legge?”. 37 Gli rispose: ” Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua
mente. 38 Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. 39 E il secondo è simile al primo: Amerai il
prossimo tuo come te stesso. 40 Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti”.
Questa terza controversia tocca un argomento scottante per il giudaismo. I rabbini ripartivano i 613 precetti
della Legge in 365 proibizioni (numero dei giorni dell’anno) e in 248 comandamenti (numero delle
componenti del corpo umano). Si trattava di sapere qual era il precetto fondamentale.
La risposta di Gesù unisce tra loro l’amore di Dio e l’amore del prossimo (Dt 6,5 e Lv 19,18). Tutta la Legge
è adempiuta in questi due amori che diventano un solo amore in Gesù, nel quale Dio e l’uomo si uniscono in
una sola persona. E’ nella capacità di tenerli uniti anche nella vita del cristiano che si misura la fede.
L’unione dell’amore di Dio e dell’amore del prossimo come culmine della Legge è un concetto
specificamente cristiano e costituisce la sostanza di questo brano e di tutto il vangelo di Gesù. Occorre però
ricordare che Gesù ha ridefinito il concetto di prossimo (cf. Lc 10,30-37). L’amore del prossimo ha come
presupposto l’amore di se stessi. Ma l’amore evangelico di se stessi!
In Cristo si è manifestato l’amore di Dio e del prossimo in forma assoluta ed esemplare. E’ lui l’unico
modello.
41 Trovandosi i farisei riuniti insieme, Gesù chiese loro: 42 “Che ne pensate del Messia? Di chi è figlio?”. Gli
risposero: “Di Davide”. 43 Ed egli a loro: “Come mai allora Davide, sotto ispirazione, lo chiama Signore,
dicendo: 44 Ha detto il Signore al mio Signore: Siedi alla mia destra, finché io non abbia posto i tuoi nemici
sotto i tuoi piedi?
45 Se dunque Davide lo chiama Signore, come può essere suo figlio?”. 46 Nessuno era in grado di
rispondergli nulla; e nessuno, da quel giorno in poi, osò interrogarlo.
Dopo le domande poste con malizia dai suoi avversari, anche Gesù rivolge loro una domanda: “Che ne
pensate del Messia? Di chi è figlio?” (v. 42). La risposta è immediata e quasi automatica: “Di Davide”. Ma la
concezione del Messia come figlio di Davide deve essere sviluppata ulteriormente secondo il Sal 110,1 che
è una delle frasi più citate dagli autori del Nuovo Testamento. Essi ne fanno uso per provare, in base alla
Scrittura, la risurrezione-esaltazione-intronizzazione di Gesù alla destra di Dio (At 2,34-35; 1Cor 15,25; Eb
1,13). Davide ha parlato nel Sal 110 come autore ispirato da Dio, nello Spirito Santo. Il salmo tratta
dell’intronizzazione del re in Gerusalemme. Il re è invitato a prendere posto alla destra di Dio. Nella sua
applicazione al Cristo Gesù, il salmo ne afferma l’esaltazione alla destra del Dio. La frase è talmente
importante che è entrata a far parte della professione di fede: siede alla destra del Padre. Con questo brano
Gesù vuole provare che egli non è solo figlio di Davide, ma anche Figlio di Dio. La sua domanda iniziale: “Di
chi è Figlio?” mirava a questo.
La Chiesa primitiva, sulla scia di Pietro (16,16) e alla luce della risurrezione ha scoperto la verità contenuta
nelle Scritture (2Sam 7; Sal 110,1): il Messia è figlio di Davide per la sua discendenza umana ed è allo
stesso tempo Figlio del Dio vivente. I farisei non possono dare una risposta. In questo momento decisivo
sono incapaci di riconoscere in Gesù questo carattere divino che lo rende superiore a Davide, e di
ammettere che egli riceve dal Padre la sua autorità perché è suo Figlio. Per questo stesso motivo lo
condanneranno a morte (26,63-66).