Capitolo venticinquesimo
1 Il regno dei cieli è simile a dieci vergini che, prese le loro lampade, uscirono incontro allo sposo. 2 Cinque di
esse erano stolte e cinque sagge; 3 le stolte presero le lampade, ma non presero con sé olio; 4 le sagge
invece, insieme alle lampade, presero anche dell’olio in piccoli vasi. 5 Poiché lo sposo tardava, si assopirono
tutte e dormirono. 6 A mezzanotte si levò un grido: Ecco lo sposo, andategli incontro! 7 Allora tutte quelle
vergini si destarono e prepararono le loro lampade. 8 E le stolte dissero alle sagge: Dateci del vostro olio,
perché le nostre lampade si spengono. 9 Ma le sagge risposero: No, che non abbia a mancare per noi e per
voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene. 10 Ora, mentre quelle andavano per comprare l’olio, arrivò
lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. 11 Più tardi
arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: Signore, signore, aprici! 12 Ma egli rispose: In verità
vi dico: non vi conosco. 13 Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora.
La storia raccontata in questo pezzo di vangelo ci presenta dieci ragazze che attendono lo sposo.
Chi è lo sposo e chi sono le dieci ragazze? Lo sposo è Cristo, le dieci ragazze sono la comunità cristiana. La
storia non parla della sposa, perché le dieci ragazze sono la sposa e attendono l’arrivo non di uno sposo, ma
del loro sposo. Queste dieci ragazze sono la sposa di Cristo, la Chiesa (cf. Ef 5,22-32).
Queste dieci ragazze si dividono in due categorie: cinque sono sagge e cinque sono stolte. In che cosa si
manifesta la saggezza delle prime cinque? Hanno calcolato che l’attesa dello sposo sarebbe andata per le
lunghe: per questo “insieme con le lampade, presero anche dell’olio in piccoli vasi” (v. 4).
Avevano capito che la vita ha una durata troppo lunga per poter conservare sempre la stessa carica di fede
e di carità senza fare rifornimento. Le lampade accese significano la costante vigilanza che occorre per non
perdersi nella notte della dimenticanza e dell’infedeltà in questo mondo.
Tema di questo racconto è l’attesa del Signore che viene. Ciò non significa che la vita presente sia una sala
d’attesa della vita eterna, ma che deve essere vissuta come vita responsabilizzata in vista del Signore che
viene. L’attendere Dio presuppone la fede. L’olio delle lampade è la fede con le opere.
Le cinque ragazze sagge, che rappresentano i buoni cristiani, non sembrano poi tanto buone, anzi,
sembrano decisamente scostanti e cattivelle. Alle amiche stolte che le supplicano: “Dateci del vostro olio,
perché le nostre lampade si spengono rispondono: “No, che non abbia a mancare per noi e per voi; andate
piuttosto dai venditori e compratevene” (vv. 8-9).
Le ragazze sagge non possono dare il loro olio alle stolte perché nessuno può essere vigilante al posto di un
altro, nessuno può amare Cristo al posto di un altro: è un affare personale, è un assegno “non trasferibile”.
Questo racconto istruttivo ha lo scopo di esortare a tenersi pronti all’arrivo del Signore: un arrivo di cui non
conosciamo né il giorno né l’ora, ma che non è lontano ed è certissimo e inevitabile.
Queste ragazze stolte che chiamano Gesù: “Signore, Signore” (v. 11) hanno dimenticato l’insegnamento che
egli aveva già impartito al capitolo 7, 22-23 di questo vangelo: “Molti mi diranno in quel giorno (il giorno del
giudizio finale): Signore, Signore … Io però dichiarerò loro: Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi
operatori di iniquità”.
Queste parole non condannano la preghiera, non proibiscono di invocare Cristo come “Signore”, ma ci
insegnano che la preghiera deve essere congiunta alla pratica della vita cristiana. Bisogna fare la volontà del
Padre, diversamente la preghiera non serve.
Nell’attesa del grande giorno della venuta del Signore bisogna vegliare e non comportarsi come i cristiani di
Tessalonica che nel prolungarsi dell’attesa della venuta del Signore cominciarono a darsi all’ozio e al
vagabondaggio (1Ts 4,11; 2Ts 3,6-12). Così le ragazze del racconto evangelico (cioè noi cristiani!) devono
essere impegnate, operose e diligenti.
Matteo ha dato a questo racconto edificante una conclusione che concorda con la finale del discorso della
montagna (Matteo,5-6-7). Anche là troviamo la contrapposizione tra il saggio e lo stolto.
Nel discorso della montagna essere saggio significa: non limitarsi ad ascoltare le parole di Gesù, ma
metterle anche in pratica. Questa disposizione viene trasferita anche al presente racconto delle dieci
ragazze che rappresentano la comunità cristiana. Sono pronti ad andare incontro al Signore quei cristiani
che fanno la volontà di Dio come l’ha insegnata Gesù nel discorso della montagna.
Vigilare nell’attesa del Signore che viene in maniera improvvisa, vuol dire essere pronti; ed essere pronti
significa essere fedeli alla volontà del Padre, facendo quelle opere di amore sulla base delle quali verrà fatto
il giudizio finale. Questa è la vera “saggezza” cristiana: attuare con perseveranza la volontà del Padre che il
Signore Gesù ha definitivamente rivelato.
Nella parabola del giudizio finale (Matteo 25,31-46) il Signore ci indicherà dettagliatamente quali sono le
opere buone che dobbiamo fare nell’attesa della sua venuta.
14 Avverrà come di un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. 15
A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità, e partì. 16
Colui che aveva ricevuto cinque talenti, andò subito a impiegarli e ne guadagnò altri cinque. 17 Così anche
quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. 18 Colui invece che aveva ricevuto un solo talento,
andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. 19 Dopo molto tempo il padrone di
quei servi tornò, e volle regolare i conti con loro. 20 Colui che aveva ricevuto cinque talenti, ne presentò altri
cinque, dicendo: Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque. 21 Bene,
servo buono e fedele, gli disse il suo padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi
parte alla gioia del tuo padrone. 22 Presentatosi poi colui che aveva ricevuto due talenti, disse: Signore, mi
hai consegnato due talenti; vedi, ne ho guadagnati altri due. 23 Bene, servo buono e fedele, gli rispose il
padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone. 24 Venuto
infine colui che aveva ricevuto un solo talento, disse: Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non
hai seminato e raccogli dove non hai sparso; 25 per paura andai a nascondere il tuo talento sotterra; ecco qui
il tuo. 26 Il padrone gli rispose: Servo malvagio e infingardo, sapevi che mieto dove non ho seminato e
raccolgo dove non ho sparso; 27 avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei
ritirato il mio con l’interesse. 28 Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. 29 Perché a
chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. 30 E il servo
fannullone gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti.
Questo racconto ci insegna la vera natura del rapporto che deve intercorrere tra Dio e l’uomo. E’ tutto il
contrario di quel timore servile che cerca rifugio e sicurezza contro Dio stesso in una esatta osservanza dei
suoi comandamenti. E’ invece un rapporto di amore dal quale possono e devono scaturire coraggio,
generosità e libertà. Il servo buono e fedele è colui che, superando ogni timore servile e la gretta concezione
farisaica del dovere religioso, traduce il vangelo in atti concreti, generosi e coraggiosi. Attendere il Signore
significa assumere il rischio della propria responsabilità. A coloro che si muovono nell’amore e si assumono
il rischio delle proprie decisioni, si aprono prospettive sempre nuove (v. 28). Chi invece resta inerte e
inoperoso (v. 25) diventa sterile e improduttivo, e gli sarà tolto anche quello che ha (v. 29). Non basta non
fare il male, bisogna fare positivamente tutto il bene e a tutti.
La paralisi operativa del cristiano è provocata dalla paura nei confronti del suo Signore. Il cristiano vero
conosce Dio come amore infinito, e questo lo porta ad agire con entusiasmo e dedizione. “Per questo
l’amore ha raggiunto in noi la sua perfezione, perché abbiamo fiducia nel giorno del giudizio; perché come è
lui, così siamo anche noi, in questo mondo. Nell’amore non c’è timore, al contrario l’amore perfetto scaccia il
timore, perché il timore suppone il castigo e chi teme non è perfetto nell’amore” (1Gv 4,17-18).
Il dono dei talenti che Dio ci ha dato è un atto di fiducia nelle nostre reali capacità e nella nostra buona
volontà. Egli non vuole che siamo dei semplici dipendenti o esecutori ignari e deresponsabilizzati, ma dei
collaboratori coscienti e coscienziosi nella gestione dei suoi beni. L’osservazione maleducata, ingiusta e
malvagia che il servo fannullone butta in faccia al suo padrone: “So che sei un uomo duro e mieti dove non
hai seminato e raccogli dove non hai sparso” (v. 24) contiene una preziosa informazione sul conto di Dio,
perché riconosce la laboriosità e la capacità di questo Signore che sa trarre profitto anche dove gli altri non
riescono (Dio sa trarre il bene anche dal male, perfino dal peccato!). E vuole che i suoi servi siano come lui.
Il servo fannullone non è solo pigro, ma anche stolto. Il suo giudizio sul padrone è falso e malevolo. La sua
colpa non è solo la pigrizia, l’infingardaggine, la mancanza di capacità di rischio, ma la disistima e la
mancanza d’amore verso il suo padrone: non l’ha compreso, non si è fidato delle sue proposte.
Il racconto rappresenta la comunità cristiana impegnata nelle sue varie mansioni. La vocazione cristiana è
un capitale a rischio: un dono che bisogna far fruttificare con industriosità, saggezza e amore. Ogni fedele
deve dare, con responsabilità e coraggio, la propria prestazione.
Il premio, espresso nel raddoppiamento dei talenti e nella partecipazione alla gioia del Signore, contiene un
richiamo alla comunione di vita con Cristo. La condanna è l’esclusione dal banchetto di questa intimità. Fuori
dalla sala delle nozze eterne il servo sarà condannato all’oscurità, al freddo, al pianto.
Il momento attuale decide la nostra sorte eterna.
Matteo mette in guardia i suoi lettori contro il rischio del disimpegno che sarà condannato come mancanza di
fede e di fiducia nel Signore. La paura è il contrario della fede, come la pigrizia è il contrario dell’impegno
fruttuoso. L’intenzione di Matteo è questa: motivare un serio impegno dei cristiani nella vita presente con la
prospettiva del giudizio finale, della ricompensa e del castigo.
L’esperienza di fede per Matteo è una relazione personale con il Signore, che si esprime e si concretizza
nella fedeltà operosa come risposta alla sua iniziativa gratuita.
L’immagine di Dio è deformata dalla paura. Essa paralizza l’iniziativa dell’uomo, gli impedisce di essere
attivo e di rischiare.
Il terzo servo, invece di presentare i suoi guadagni, fa leva sulla severità del suo padrone, di cui ha un
pessimo concetto, per motivare la sua totale mancanza di intraprendenza nel far fruttare il capitale ricevuto.
In altre parole: la colpa è del Signore, non sua (vv. 24-25). La risposta del Signore si apre con due
appellativi, “malvagio e pigro”, che sono l’opposto di quelli usati per i primi due servi laboriosi e
intraprendenti, “servo buono e fedele”. Il Signore risponde riprendendo le stesse parole del servo: “Sapevi
che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso”.
Il dialogo si conclude con l’ordine di cacciare il servo malvagio e pigro. Con tale conclusione il racconto
diventa un avvertimento per tutti coloro che nell’attesa della venuta del Signore non si impegnano con
costanza e fedeltà.
Il terzo servo non ha fatto, apparentemente, nulla di male, ma, in realtà, il non corrispondere alle attese del
Signore è il massimo dei mali, se merita tanto castigo. La vita non ci è stata donata per non fare del male,
ma per fare il bene, diversamente i cadaveri sarebbero migliori di noi: non uccidono, non commettono
adulterio, non rubano, non dicono falsa testimonianza…
La frase: “A chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha” (v. 29)
può sembrare un principio ingiusto; in realtà mette in evidenza come nel seguire il Signore ci sia un
crescendo di intimità, di senso reciproco di appartenenza, che si intensifica e si approfondisce sempre di più.
Questo racconto non è una spinta all’imprenditorialismo o all’accumulo di capitali: i talenti sono i “misteri del
regno di Dio”, non i denari.
Il seguire Gesù rimane spesso bloccato perché ci si lascia dominare dalla paura, che è esattamente il
contrario della fede ardimentosa che sposta le montagne. Per concludere, esemplifichiamo: paura di
sposarsi, accettando la definitività di questa unione indissolubile per volontà di Dio; paura di fare i preti a
vita; paura di consacrarsi definitivamente a Dio nella vita religiosa; paura, paura e sempre paura…, perché
abbiamo paura di Dio.
31 Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, si sederà sul trono della sua gloria.
32 E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le
pecore dai capri, 33 e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra. 34 Allora il re dirà a quelli che
stanno alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla
fondazione del mondo. 35 Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete
dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, 36 nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato,
carcerato e siete venuti a trovarmi. 37 Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo
veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? 38 Quando ti abbiamo
visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? 39 E quando ti abbiamo visto ammalato o
in carcere e siamo venuti a visitarti? 40 Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto
queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me. 41 Poi dirà a quelli alla sua sinistra:
Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli. 42 Perché ho
avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; 43 ero forestiero e
non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato. 44 Anch’essi
allora risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato o assetato o forestiero o nudo o malato
o in carcere e non ti abbiamo assistito? 45 Ma egli risponderà: In verità vi dico: ogni volta che non avete fatto
queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l’avete fatto a me. 46 E se ne andranno, questi al
supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna”.
essere collocate a destra e a sinistra? Sono tutti i popoli, senza distinzione, o solo i cristiani? Chi designa
l’espressione “questi miei fratelli più piccoli”: qualsiasi uomo bisognoso o solo i discepoli e specialmente i
predicatori itineranti del vangelo?
Questa parabola riprende il tema della venuta del Figlio dell’uomo. L’apparato glorioso del giudizio divino,
che ricorda Zc 14,5 e il raduno di tutte le genti (cf. Mt 24,9.14; 28,19) davanti a Cristo, ci presenta un
avvenimento importante: ogni uomo si trova alla presenza del re che dà il possesso dell’eredità del regno ai
benedetti del Padre suo.
Il giudizio pronunciato su ciascuno sarà per tutti motivo di stupore: nessuno aveva coscienza di aver accolto
o rifiutato il Signore stesso nei “piccoli”. “Questi miei fratelli più piccoli” sono i discepoli di Gesù: chi accoglie
loro, accoglie Cristo stesso (cf. Mt 10,40-42; 12,48-50; 18,6.10.14; 28,10).
Il giudizio decisivo pare così basarsi sull’accoglienza degli inviati di Cristo e, attraverso di loro,
sull’accoglienza della sua stessa persona e del suo messaggio: nelle opere di misericordia e nella
sollecitudine portata ai discepoli sofferenti si raggiunge Gesù stesso che si è fatto “piccolo”, che è venuto per
servire e per dare la vita in riscatto per tutti (cf. Mt 20,28). Egli si identifica totalmente con il suo inviato
sofferente e “perseguitato per la giustizia” (cf. Mt 5,10; 10,17-18).
Ma la parabola va certamente oltre. Gesù stesso si è chinato sui poveri e i sofferenti perché vedeva in essi
dei discepoli in speranza e dei piccoli in crescita. Così l’apparente indeterminazione dell’espressione “questi
miei fratelli più piccoli” vuol certamente designare tutti i bisognosi di amore concreto e fattivo, ossia tutti.
Il messaggio di questo brano può essere riassunto in due parole: Dio nel fratello. I “benedetti” ricevono il
regno perché hanno praticato la misericordia. Le opere di misericordia sono la porta che introduce
nell’eternità. Il vangelo annuncia che la misericordia è sempre praticata nei confronti di Cristo.
Poiché la misericordia è il criterio del giudizio, il testo diventa un imperativo pressante rivolto a tutti perché
pratichino la misericordia. Il brano vuole incitare all’azione.
Per i cristiani la misericordia praticata o rifiutata è la prova certa della loro fede. A tutti Gesù ripete il detto di
Os 6,6: “Misericordia io voglio e non sacrificio” (cf. Mt 9,13; 12,7).
La beatitudine dei misericordiosi che otterranno misericordia costituisce un commento alla prima parte di
questo brano. La parabola del servo senza misericordia (cf. Mt 18,21ss) può illustrare la parte negativa di
questo brano.
Il giudizio di tutti avviene sulla base delle opere di misericordia. La fraternità è il senso per il quale è stato
creato il mondo. Il mondo è salvo quando cerca e vive la fraternità. Solo chi comprende le esigenze del
prossimo, comprende le esigenze di Gesù.
La comunione umana, in particolare la comunione con i più bisognosi, ha un senso divino che la rimanda al
di là di se stessa. Gli uomini e le donne sono immagini viventi del Dio della vita. San Clemente d’Alessandria
ha scritto: “Quando vedi il tuo fratello, vedi il tuo Dio”.
E’ l’uomo che decide liberamente per la vita eterna o per il fuoco eterno. Questa decisione non è fatta a
parole, ma con le opere di misericordia verso Cristo che si identifica con i bisognosi. E’ nella vita presente
che decidiamo per Cristo o contro Cristo. E questa scelta si manifesta nell’amore operoso per il prossimo o
nel rifiuto della nostra misericordia verso i miseri.
C’è una sola via in cui tutti gli uomini si ritrovano uguali e discepoli di Cristo: quella delle buone opere.
1Terminati tutti questi discorsi, Gesù disse ai suoi discepoli: 2″Voi sapete che fra due giorni è Pasqua e che il
Figlio dell’uomo sarà consegnato per essere crocifisso”.
3Allora i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo si riunirono nel palazzo del sommo sacerdote, che si
chiamava Caifa, 4e tennero consiglio per arrestare con un inganno Gesù e farlo morire. 5Ma dicevano: “Non
durante la festa, perché non avvengano tumulti fra il popolo”.
6Mentre Gesù si trovava a Betània, in casa di Simone il lebbroso, 7gli si avvicinò una donna con un vaso di
alabastro di olio profumato molto prezioso, e glielo versò sul capo mentre stava a mensa. 8I discepoli
vedendo ciò si sdegnarono e dissero: “Perché questo spreco? 9Lo si poteva vendere a caro prezzo per darlo
ai poveri!”. 10Ma Gesù, accortosene, disse loro: “Perché infastidite questa donna? Essa ha compiuto
un’azione buona verso di me. 11I poveri infatti li avete sempre con voi, me, invece, non sempre mi avete.
12Versando questo olio sul mio corpo, lo ha fatto in vista della mia sepoltura. 13In verità vi dico: dovunque
sarà predicato questo vangelo, nel mondo intero, sarà detto anche ciò che essa ha fatto, in ricordo di lei”.
L’attività pubblica di Gesù è conclusa. Ciò viene annunciato ai discepoli in forma solenne. Perciò il verbo del
testo originale greco oídate non va tradotto con l’indicativo “voi sapete”, ma con l’imperativo “sappiate”. Ciò
che devono sapere non è semplicemente che è vicina la Pasqua, ma che si tratta di una Pasqua particolare
nella quale Gesù è consegnato dal Padre per essere crocifisso. La Pasqua assume un senso nuovo.
Gesù non si presenta come “Servo di Jahvè” che va verso la morte e la sconfitta, ma come “Figlio dell’uomo”
che è il plenipotenziario di Dio (Dn 7,13-14) e come il Cristo risorto e glorioso (Mt 26,64). Gesù non è stato
vinto da nessuno, al contrario ha valorizzato e inserito nel progetto di salvezza del Padre amici e avversari.
La croce rappresenta una sconfitta e un’umiliazione se è imposta dagli altri, non quando è voluta dal Padre e
scelta liberamente dal Figlio. Gesù muore vittima del suo amore per il Padre e per l’umanità, non come
vittima della collera del Padre assetato di sangue versato come riparazione delle offese fatte al suo onore e
dei suoi diritti lesi.
All’inizio del racconto della passione Matteo presenta una combinazione della volontà di Gesù di compiere il
proprio cammino e della volontà dei capi giudei di eliminarlo. Si intrecciano l’elemento divino e l’elemento
umano, la conduzione divina e la colpa umana. Gesù è pronto a compiere la sua Pasqua.
I sommi sacerdoti e gli anziani del popolo rappresentano il potere religioso, politico e economico. A loro
Marco 14,1 aggiunge gli scribi, che rappresentano il potere culturale, a loro servizio. La brama di avere, di
potere e di apparire sono le tre maschere del male del mondo, che sono in ciascuno di noi. La loro violenza
sarà portata su di sé da Gesù, che non possiede nulla e non domina nessuno, ma dà tutto e libera tutti.
Questi capi del popolo vogliono impadronirsi di Gesù. Impadronirsi è la radice del male. La vita è dono:
impadronirsi è ucciderla. In questa Pasqua, mentre noi mettiamo le mani su Gesù e gli rubiamo la vita, lui si
mette nelle nostre mani e ce la consegna (Mt 26,26-27).
La scena dell’unzione si svolge a Betania (che significa “casa della povertà”). Una donna ci introduce nella
Passione e il suo gesto viene interpretato da Gesù stesso come un’anticipazione della sua sepoltura (v. 12).
In quest’ultima sezione del vangelo le donne hanno un’importanza molto rilevante: sono presenti alla
sepoltura di Gesù (27,55-56.61) e ricevono da lui la missione di annunciare ai discepoli la sua risurrezione
(28,5-10). Matteo ci presenta i discepoli che si sdegnano per il gesto compiuto dalla donna (Mc 14,4 parla di
“alcuni”; Gv 12,4 dice semplicemente che è Giuda). Mosè chiedeva a Israele che non vi fossero più poveri in
mezzo ad esso (Dt 15,4), pur prevedendo che essi non sarebbero mai scomparsi dal paese e che ci sarebbe
sempre stato bisogno di soccorrerli (Dt 15,11). Gesù vuole mostrare tutto il senso di queste parole nella
situazione concreta della sua persona. Egli approva il gesto della donna verso di lui, il povero che va verso
la povertà totale che è la morte. Ma i discepoli sono più attenti al denaro che a Cristo e ai poveri. Essi
pensano al comprare e al vendere. Sono ancora nell’economia del possesso, non in quella del dono. La
domanda: “Perché questo spreco?” è la stessa che ci facciamo tutti davanti alla croce. Chi non accetta
questo spreco, non capisce il Vangelo. L’amore è spreco, gratuito e totale, fino al dono totale di sé. Dio è
amore. Questo spreco è la rivelazione di Dio nella sua essenza, e la realizzazione piena dell’uomo a sua
immagine e somiglianza. La via più diretta verso i poveri passa attraverso Gesù perché, incontrando lui,
ognuno è rinviato ai poveri con i quali Cristo si identifica. L’azione caritativa, la giustizia economica e politica
devono essere accoglienza autentica del povero che è Gesù e dei suoi criteri di valutazione. Spesso in
nome dei poveri si riempiono le tasche i ricchi, dentro e fuori della comunità cristiana.
14 Allora uno dei Dodici, chiamato Giuda Iscariota, andò dai sommi sacerdoti 15 e disse: “Quanto mi volete
dare perché io ve lo consegni?”. E quelli gli fissarono trenta monete d’argento. 16 Da quel momento cercava
l’occasione propizia per consegnarlo.
17 Il primo giorno degli Azzimi, i discepoli si avvicinarono a Gesù e gli dissero: “Dove vuoi che ti prepariamo,
per mangiare la Pasqua?”. 18 Ed egli rispose: “Andate in città, da un tale, e ditegli: Il Maestro ti manda a dire:
Il mio tempo è vicino; farò la Pasqua da te con i miei discepoli”. 19 I discepoli fecero come aveva loro
ordinato Gesù, e prepararono la Pasqua.
20 Venuta la sera, si mise a mensa con i Dodici. 21 Mentre mangiavano disse: “In verità io vi dico, uno di voi
mi tradirà”. 22 Ed essi, addolorati profondamente, incominciarono ciascuno a domandargli: “Sono forse io,
Signore?”. 23 Ed egli rispose: “Colui che ha intinto con me la mano nel piatto, quello mi tradirà. 24 Il Figlio
dell’uomo se ne va, come è scritto di lui, ma guai a colui dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito; sarebbe
meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!”. 25 Giuda, il traditore, disse: “Rabbì, sono forse io?”. Gli
rispose: “Tu l’hai detto”.
Giuda, non avendo potuto intascare i soldi del prezzo dell’unguento (Mt 26,8-9), ha rimediato alla meglio
vendendo Gesù al prezzo di uno schiavo (cfr Es 21,32): trenta denari. Pessimo commerciante!
“L’attaccamento al denaro è la radice di tutti i mali” (1Tim 6,10).
L’indeterminatezza dell’indicazione: “Andate in città, da un tale…” (v. 18) è voluta certamente da Gesù per
non fornire indicazioni al traditore prima del tempo stabilito.
E’ anzitutto nella comunità dei discepoli che si gioca la passione di Gesù: è là che viene “consegnato” e che
egli “consegna” se stesso, donando il suo corpo e il suo sangue.
All’annuncio del tradimento da parte di uno di loro, i discepoli si addolorano profondamente. Ognuno è
toccato da questo annuncio perché ognuno si sente capace di tradire, come lo evidenzia la loro domanda:
“Sono forse io, Signore?” (v. 22) ripresa come eco da Giuda con una variante significativa: “Rabbì, sono
forse io? (v. 25). Per gli undici discepoli Gesù è il Signore, per Giuda è un semplice maestro di dottrina.
A Giuda Gesù risponde come risponderà al sommo sacerdote (v. 64) e al governatore Pilato (27,11): “Tu
l’hai detto” (v. 25). E’ l’uomo infatti che giudica se stesso attraverso il suo rapporto con il Cristo: “Poiché in
base alle tue parole sarai giudicato e in base alle tue parole sarai condannato” (Mt 12,37).
La lamentazione di Gesù su Giuda (v. 24) non è una profezia sulla dannazione finale del traditore, ma un
invito a ciascuno a esaminare la propria coscienza. “Noi tutti, così come siamo, potremmo inserire nel
vangelo il nostro nome al posto di quello di Giuda” (J. Green).
26Ora, mentre essi mangiavano, Gesù prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede ai
discepoli dicendo: “Prendete e mangiate; questo è il mio corpo”. 27Poi prese il calice e, dopo aver reso
grazie, lo diede loro, dicendo: “Bevetene tutti, 28perché questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per
molti, in remissione dei peccati. 29Io vi dico che da ora non berrò più di questo frutto della vite fino al giorno
in cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio”.
30E dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.
come cibo e il suo sangue come bevanda. Questa cena è l’ultimo pasto terreno di Gesù con i Dodici, nel
vangelo di Matteo. Al termine della cena dà loro appuntamento per il banchetto eterno nel regno del Padre
suo (v. 29).
Gesù compie una variante al rito ebraico e accompagna il gesto con parole diverse da quelle abituali,
dicendo: “Prendete e mangiate; questo è il mio corpo”. Non si tratta di una partecipazione facoltativa, ma
obbligatoria. In questa cena, come nella cena pasquale ebraica, non si può rimanere semplici spettatori, ma
occorre sentirsi direttamente coinvolti. ‘Mangiare la pasqua’ è fare proprio il messaggio e il programma di
liberazione che essa commemora. Coloro che vi prendono parte non assistono al racconto della liberazione
dei padri, ma vedono realizzarsi la propria. R. Gamaliel illustrava il senso della cena giudaica con queste
parole: “In ogni generazione l’uomo è obbligato a considerare se stesso come se fosse tratto dall’Egitto,
perciò è detto: E’ a causa di quanto ha fatto il Signore per me, quando sono uscito dall’Egitto (Es 13,8).
Perciò siamo obbligati a ringraziare, a lodare colui che ai nostri padri e a noi ha fatto queste meraviglie, colui
che dalla schiavitù ci ha tratti alla libertà, dai dispiaceri alla gioia, dalla mestizia alla festa, dal buio a una
grande luce e dalla schiavitù alla liberazione, perciò intoniamo davanti a lui: allelujah”.
Il pane spezzato che Gesù offre simboleggia il suo corpo lasciato lacerare dai suoi nemici per non aver
voluto recedere dalla volontà del Padre. Cibarsene significa fare propria la causa per cui moriva, spezzare
come lui la propria vita per il bene di tutti.
La cena pasquale si concludeva riempiendo un’ultima coppa di vino su cui si pronunciavano le parole di rito.
Anche in questo caso Gesù le sostituisce con una sua formula: “Bevetene tutti, perché questo è il mio
sangue dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati”. Anche qui troviamo un comando parallelo
a quello ricordato a proposito del pane: “Bevetene tutti”. Il vino che Gesù presenta richiama il sangue che
avrebbe versato sulla croce. Se i discepoli ricevono il comando di berne vuol dire che devono essere capaci
di versare il proprio sangue per lo stesso scopo.
Il comando di mangiare e di bere comporta la partecipazione a una cena in cui i convitati sono messi a
confronto con l’esperienza della morte in croce di Gesù non per appropriarsene semplicemente i frutti di
salvezza, ma per misurarsi con il suo coraggio, con la sua carica di amore per gli altri. Gesù non ha dato un
pezzo di pane agli uomini ma tutto se stesso, la sua vita, e chiede ai suoi discepoli di fare altrettanto.
La frase “sangue dell’alleanza” richiama le parole con cui Mosè accompagnava l’aspersione dell’altare e dei
dodici cippi mediante il sangue delle vittime immolate per sancire il patto con Dio: “Ecco il sangue
dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi” (Es 24,8). Invece che il sangue dei capri e dei giovenchi il
nuovo patto (cf. Ger 31,31) è stato concluso col sangue di Cristo, per mezzo del quale gli uomini hanno
riacquistato l’amicizia con Dio. L’accenno alle “moltitudini” ricorda l’azione del Servo di Dio che dà la vita per
tutti.
Il patto nel sangue di Cristo supera e sostituisce il patto antico perché è universale. Infatti l’espressione “per
molti” equivale a “per tutti”, all’universalità dei popoli. La partecipazione alla cena eucaristica conferisce ai
partecipanti la comunione personale con il Cristo, li accoglie nel suo patto stipulato nella sua morte e
consente loro di godere i frutti di salvezza, tra i quali è ricordata anzitutto la remissione dei peccati. Il
cristiano ha pace nel perdono di Dio quando per lui il passato non è il ricordo di quanto ha peccato, ma di
quanto gli è stato perdonato.
La prospettiva escatologica, ultraterrena, è fornita soprattutto dalle parole: “Io vi dico che da ora non berrò
più di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio” in cui si
esprime la personale speranza nel futuro e la certezza della risurrezione di Gesù. Egli annuncia che questo
è l’ultimo pasto che consuma con i suoi discepoli, ma che attende il banchetto del tempo della salvezza, al
quale egli stesso prenderà parte di nuovo insieme con i discepoli presenti. In quanto Figlio, egli attende il
compimento nel regno del Padre suo. La cena eucaristica è orientata a questo banchetto eterno e lo
anticipa; la comunione che nella pasqua attuale unisce i discepoli a Gesù, raggiungerà la sua forma
definitiva quando egli sederà di nuovo, e per sempre, a mensa con loro.
Il canto di lode conclusivo era costituito, in occasione della cena pasquale, dalla recita del piccolo Hallel che
constava del salmo 114 o dei salmi 115-118.
31Allora Gesù disse loro: “Voi tutti vi scandalizzerete per causa mia in questa notte. Sta scritto infatti:
Percuoterò il pastore e saranno disperse le pecore del gregge, 32ma dopo la mia risurrezione, vi precederò
in Galilea”. 33E Pietro gli disse: “Anche se tutti si scandalizzassero di te, io non mi scandalizzerò mai”. 34Gli
disse Gesù: “In verità ti dico: questa notte stessa, prima che il gallo canti, mi rinnegherai tre volte”. 35E Pietro
gli rispose: “Anche se dovessi morire con te, non ti rinnegherò”. Lo stesso dissero tutti gli altri discepoli.
La comunità dei discepoli non può vivere senza la presenza di Gesù in essa : “Sta scritto: Percuoterò il
pastore e saranno disperse le pecore del gregge” (v. 31). Ma questa comunità deve fare l’esperienza dello
scandalo (vv. 31-33), del rinnegamento (vv. 34-35), del tradimento (vv. 46.48), della dispersione (vv. 31.56),
per comprendere che è solo Gesù che la raduna. Tutti i discepoli passeranno attraverso questa esperienza,
compreso Pietro (v. 34). Tutto ciò che accade (vv. 54.56) è in rapporto con la volontà del Padre e Gesù
chiede, come ci ha insegnato nel Padre nostro (6,10), che accada (v. 42). Matteo mette in risalto (vv. 54.56)
l’adempimento delle Scritture, avviato nel v. 31 con la citazione di Zc 13,7.
Gesù si è preoccupato di avvertire i suoi che erano coinvolti nel suo destino. Non si tratta più della defezione
di uno, ma di “tutti”. Sono i suoi discepoli più intimi, i suoi fedelissimi che l’abbandonano. Essi si vergognano
di essere stati con lui e di aver creduto alle sue parole. Egli è un messia che non ha convinto neanche i suoi
amici e che non avrebbe riscosso molta credibilità neppure nei secoli futuri. L’espressione di Gesù: “In verità
ti dico: questa notte stessa, prima che il gallo canti, mi rinnegherai tre volte” (v. 34) sottolinea il rinnegamento
totale che Pietro farà di Cristo. Ma Pietro non è Giuda. E’ sincero col Signore e le sue ripetute parole di
fedeltà sono convinte, ma egli non conosce se stesso quanto lo conosce Gesù. Prevede la possibilità del
martirio e crede di essere capace di affrontarlo con le proprie forze. Ma la forza del martirio scaturisce solo
da Dio. Il coro dei discepoli concorda nell’esprimere questa errata fiducia in sé. Lutero commenta così
questo episodio: “Vedete dunque come i discepoli si pongono a nostro esempio. Essi continuano a insistere
nelle loro opere buone… Avevano intenzione di aiutare il Signore debole e di assisterlo… Questa
presunzione è insita in noi per natura… Ciascuno confida nella propria passione”.
La comunità apostolica si ricomporrà dopo la morte di Cristo. Gesù dà ai suoi un nuovo appuntamento
terrestre (v. 32), dopo quello che aveva dato loro nel regno del Padre (v. 29). Il Signore risorto tornerà in
Galilea, sui luoghi del suo ministero pubblico, come per convalidare con la sua nuova presenza la sua
precedente predicazione. Dopo lo smarrimento provocato dal dramma del Calvario i discepoli hanno
ritrovato Cristo e il suo messaggio in questo ritiro in Galilea.
36Allora Gesù andò con loro in un podere, chiamato Getsèmani, e disse ai discepoli: “Sedetevi qui, mentre io
vado là a pregare”. 37E presi con sé Pietro e i due figli di Zebedèo, cominciò a provare tristezza e angoscia.
38Disse loro: “La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me”. 39E avanzatosi un poco, si
prostrò con la faccia a terra e pregava dicendo: “Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però
non come voglio io, ma come vuoi tu!”. 40Poi tornò dai discepoli e li trovò che dormivano. E disse a Pietro:
“Così non siete stati capaci di vegliare un’ora sola con me? 41Vegliate e pregate, per non cadere in
tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole”. 42E di nuovo, allontanatosi, pregava dicendo: “Padre
mio, se questo calice non può passare da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà”. 43E tornato di
nuovo trovò i suoi che dormivano, perché gli occhi loro si erano appesantiti. 44E lasciatili, si allontanò di
nuovo e pregò per la terza volta, ripetendo le stesse parole. 45Poi si avvicinò ai discepoli e disse loro:
“Dormite ormai e riposate! Ecco, è giunta l’ora nella quale il Figlio dell’uomo sarà consegnato in mano ai
peccatori. 46Alzatevi, andiamo; ecco, colui che mi tradisce si avvicina”.
Gesù raggiunge il Getsemani che è un podere sul monte degli Ulivi. La probabile derivazione del termine,
che significa torchio per l’olio, rimanda alle piantagioni di ulivi esistenti a quel tempo. Il Cristo che si avvia
verso la sofferenza non è presentato come un eroe: un falso eroismo è del tutto estraneo alla passione di
Cristo. Manca pure l’immagine del martire gioioso, quale si può trovare nella letteratura giudaica (Giuseppe
Flavio: Guerra giudaica 1,653; 2,153; 7,418; Antichità giudaiche 17,169; 18,23; ecc.). Gesù nella sua
sofferenza si dimostra umano.
Non è detto ancora quale sia per Gesù il motivo di questa tristezza mortale. Egli comanda ai discepoli di
restare e di pregare con lui. Gesù è presentato come modello dei cristiani. Egli prega e vigila
incessantemente, comprende il proprio destino e lo accetta in obbedienza al Padre. Con la preghiera si
immedesima con la volontà del Padre. I discepoli devono vivere in comunione con lui anche in quest’ora di
prova. La loro debolezza non viene nascosta, ma ci è presentata come insegnamento: i cristiani vengono
meno al Vangelo perché non vigilano e non pregano! La comunione di Gesù con i discepoli, destinata a
realizzarsi compiutamente in una comunione eterna (v. 29), deve dare buona prova di sé prima nella
comunione della sofferenza. Gesù è il modello. Il suo cammino è anche il cammino del discepolo.
La volontà del Padre non è alienante, ma esige che andiamo fino in fondo a noi stessi, che realizziamo
totalmente la nostra vocazione. Anche il discepolo potrà dire: “Padre sia fatta la tua volontà” se sarà disposto
a lasciarsi condurre, attraverso l’abisso dell’angoscia e della tristezza, là dove la volontà del Padre ha
condotto Gesù.
S. Kierkegaard ha scritto: “Se si toglie il terrore all’eternità, la sequela di Cristo diventa in fondo una
fantasticheria. Infatti soltanto questa serietà dell’eternità può impegnare e anche indurre l’uomo a osare e ad
assumersi la sua responsabilità con tanta decisione da passare all’azione”. In un altro passo Kierkegaard
afferma che la sequela non può essere comandata, ma sorge dalla comprensione di ciò che Cristo ha fatto
“per me”. Il Cristo che ha paura è un sì alla vita, perché egli dimostra che il destino di morte va contro la
destinazione e la volontà di vita dell’uomo. Il destino di morte è strettamente collegato con il peccato che
Gesù prende su di sé.
47 Mentre parlava ancora, ecco arrivare Giuda, uno dei Dodici, e con lui una gran folla con spade e bastoni,
mandata dai sommi sacerdoti e dagli anziani del popolo. 48 Il traditore aveva dato loro questo segnale
dicendo: “Quello che bacerò, è lui; arrestatelo!”. 49 E subito si avvicinò a Gesù e disse: “Salve, Rabbì!”. E lo
baciò. 50 E Gesù gli disse: “Amico, per questo sei qui!”. Allora si fecero avanti e misero le mani addosso a
Gesù e lo arrestarono. 51 Ed ecco, uno di quelli che erano con Gesù, messa mano alla spada, la estrasse e
colpì il servo del sommo sacerdote staccandogli un orecchio.
52 Allora Gesù gli disse: “Rimetti la spada nel fodero, perché tutti quelli che mettono mano alla spada
periranno di spada. 53 Pensi forse che io non possa pregare il Padre mio, che mi darebbe subito più di dodici
legioni di angeli? 54 Ma come allora si adempirebbero le Scritture, secondo le quali così deve avvenire?”. 55 In
quello stesso momento Gesù disse alla folla: “Siete usciti come contro un brigante, con spade e bastoni, per
catturarmi. Ogni giorno stavo seduto nel tempio ad insegnare, e non mi avete arrestato. 56 Ma tutto questo è
avvenuto perché si adempissero le Scritture dei profeti”. Allora tutti i discepoli, abbandonatolo, fuggirono.
Gesù comanda di desistere. Nell’Antico Testamento Dio aveva detto: “Della vita dell’uomo chiedo conto a
ciascuno dei suoi fratelli. Chi versa sangue umano, il suo sangue sarà sparso dall’uomo. Poiché ad
immagine di Dio egli ha fatto l’uomo” (Gen 9,5-6). Nel Nuovo Testamento Gesù ha insegnato: “Avete inteso
che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente; ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti
percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra; e a chi ti vuole chiamare in giudizio per toglierti la tunica,
tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne due con lui. Da’ a chi ti domanda
e a chi desidera da te un prestito non volgere le spalle” (Mt 5,38-42).
Gesù è indifeso solo perché rinuncia volontariamente alla sua potenza (più di dodici legioni di angeli!). La
comunità cristiana respinge la guerra come strumento per far trionfare la causa di Dio, anche se avesse i
mezzi. Essa è pronta piuttosto a sopportare umiliazioni e condanne a morte, come ha detto e ha fatto Gesù.
Il richiamo alle “più di dodici legioni di angeli” (v. 53) che Gesù potrebbe chiedere al Padre, ci conferma la
scelta di Gesù che rifiuta risolutamente i falsi messianismi, come all’inizio del suo ministero: rifiuta la spada
degli zeloti e le armate celesti escatologiche dei qumraniani, come aveva rifiutato di apparire sul sagrato del
tempio portato dagli angeli (4,6-7). Per entrare nel regno del Padre occorre passare attraverso la realtà della
morte (cf. Lc 24,46). Gesù si lascia arrestare e tutti i discepoli lo abbandonano e fuggono: in una radicale
solitudine, la sua libertà può comunicare con la volontà del Padre.
Merita un’attenzione particolare il messaggio di pace di questo brano. Rinunciando a difendersi Gesù
interrompe la progressione della violenza, mettendo in pratica egli stesso il comandamento che aveva dato a
noi: “Io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra”
(Mt 5,39). Normalmente la violenza genera controviolenza, e così di seguito, fino a quando la catastrofe
diventa inevitabile. L’interruzione della violenza vuol far cambiare idea all’avversario e indurlo alla
riconciliazione. Ma l’esempio di Gesù dimostra che spesso l’avversario non cambia idea e che i non violenti
devono fare i conti con la possibilità di soccombere.
Ci libera dal male non chi lo fa, ma chi lo prende su di sé e lo porta via senza farlo.
57Or quelli che avevano arrestato Gesù, lo condussero dal sommo sacerdote Caifa, presso il quale già si
erano riuniti gli scribi e gli anziani. 58Pietro intanto lo aveva seguito da lontano fino al palazzo del sommo
sacerdote; ed entrato anche lui, si pose a sedere tra i servi, per vedere la conclusione.
59I sommi sacerdoti e tutto il sinedrio cercavano qualche falsa testimonianza contro Gesù, per condannarlo a
morte; 60ma non riuscirono a trovarne alcuna, pur essendosi fatti avanti molti falsi testimoni. 61Finalmente se
ne presentarono due, che affermarono: “Costui ha dichiarato: Posso distruggere il tempio di Dio e ricostruirlo
in tre giorni”. 62Alzatosi il sommo sacerdote gli disse: “Non rispondi nulla? Che cosa testimoniano costoro
contro di te?”. 63Ma Gesù taceva. Allora il sommo sacerdote gli disse: “Ti scongiuro, per il Dio vivente,
perché ci dica se tu sei il Cristo, il Figlio di Dio”. 64″Tu l’hai detto, gli rispose Gesù, anzi io vi dico: d’ora
innanzi vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra di Dio, e venire sulle nubi del cielo”.
65Allora il sommo sacerdote si stracciò le vesti dicendo: “Ha bestemmiato! Perché abbiamo ancora bisogno
di testimoni? Ecco, ora avete udito la bestemmia; 66che ve ne pare?”. E quelli risposero: “È reo di morte!”.
67Allora gli sputarono in faccia e lo schiaffeggiarono; altri lo bastonavano, 68dicendo: “Indovina, Cristo! Chi è
che ti ha percosso?”.
69Pietro intanto se ne stava seduto fuori, nel cortile. Una serva gli si avvicinò e disse: “Anche tu eri con Gesù,
il Galileo!”. 70Ed egli negò davanti a tutti: “Non capisco che cosa tu voglia dire”. 71Mentre usciva verso l’atrio,
lo vide un’altra serva e disse ai presenti: “Costui era con Gesù, il Nazareno”. 72Ma egli negò di nuovo
giurando: “Non conosco quell’uomo”. 73Dopo un poco, i presenti gli si accostarono e dissero a Pietro: “Certo
anche tu sei di quelli; la tua parlata ti tradisce!”. 74Allora egli cominciò a imprecare e a giurare: “Non conosco
quell’uomo!”. E subito un gallo cantò. 75E Pietro si ricordò delle parole dette da Gesù: “Prima che il gallo
canti, mi rinnegherai tre volte”. E uscito all’aperto, pianse amaramente.
“I sommi sacerdoti e tutto il sinedrio cercavano qualche falsa testimonianza contro Gesù, per condannarlo a
morte” (v. 59): lo volevano morto ad ogni costo! “Gesù taceva” (v. 63). Si adempiva la profezia di Isaia 53,7:
“malmenato, si lasciò umiliare, e non aprì la sua bocca”. Ma quando il sommo sacerdote prende Dio per
testimone e scongiura Gesù di rivelare la sua identità di “Cristo, il Figlio di Dio”, egli risponde come a Giuda:
“Tu l’hai detto” (v. 64). È una risposta evasiva che rinvia il sommo sacerdote alla sua coscienza. E aggiunge:
“D’ora innanzi vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra di Dio e venire sulle nubi del cielo” (v. 64).
Mettendo insieme il primo verso del Sal 110 e Dn 7,13, Gesù afferma la sua divinità in modo tale che il
sommo sacerdote grida: “Ha bestemmiato!” (v. 65). Gli sputi, gli schiaffi, le bastonature e le umiliazioni che
Gesù subisce per aver dichiarato la verità ci richiamano la profezia del Servo di Dio sofferente: “Ho
presentato il dorso ai flagellatori, la guancia a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia
agli insulti e agli sputi” (Is 50,6); “Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo” (Is 53,8).
Pietro, che a Cesarea di Filippo aveva riconosciuto in Gesù il Cristo, il Figlio del Dio vivente (16,16), non
riconosce più quest’uomo. Per tre volte nega. Notiamo il crescendo. La prima volta nega davanti a tutti e
dice: “Non capisco che cosa tu voglia dire” (v. 70). La seconda nega di nuovo giurando: “Non conosco
quell’uomo” (v. 72). La terza impreca e giura: “Non conosco quell’uomo!” (v. 74). Gesù testimonia la sua
identità fino alle estreme conseguenze, Pietro nega di conoscere non solo la sua identità di Cristo, Figlio del
Dio vivente, ma anche di semplice uomo: “Non conosco quell’uomo”. Gesù aveva detto: “Chi mi rinnegherà
davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli” (10,33). Ma il rinnegamento di
Pietro non è definitivo. Lascia l’occasione del peccato “uscendo fuori” (v. 75) e manifesta il suo stato d’animo
(pentimento, delusione, umiliazione… forse anche rabbia) con il solo linguaggio che dice tutto senza
specificare nulla: il pianto.
Questo brano ci presenta il fallimento dell’uomo e la grazia di Dio. La caduta di Pietro non è fortuita. E’
“necessaria” alla sua salvezza: deve morire alla sua giustizia di uomo per vivere della giustificazione di Dio.
Se non avesse rinnegato il Signore, avrebbe potuto pensare che il Signore è fedele perché lui gli è fedele:
non avrebbe conosciuto la fedeltà di Dio senza limiti. Se fosse morto per Cristo, avrebbe sempre pensato
che la salvezza è sacrificare la vita, e non riceverla in dono da un Dio che ama e dona la vita per lui. Gli
resterebbe ancora nascosto il mistero profondo di Dio e dell’uomo: Dio è amore senza limite, e l’uomo è
infinitamente amato da lui.
In Pietro avviene il difficile passaggio dalla Legge al Vangelo: Muore in lui l’uomo religioso che cerca la
propria perfezione, fino al sacrificio supremo di sé; e nasce l’uomo nuovo, che vive dell’amore del suo
Signore che muore per lui peccatore. Questa è la buona notizia: siamo salvati per grazia. La salvezza infatti
è l’amore; e l’amore o è gratuito o non è amore.