La crocifissione 5

Imitazione di Cristo 1.jpg MAMMA!

Quando, nel Venerdì santo, Maria incontrò Gesù ad un crocevia che portava al Golgota, furono queste le parole che uscirono dalle loro labbra: “Mamma!”, “Figlio!”.

Intorno a loro stava la bestemmia, la ferocia, lo scherno, la curiosità, la vendetta. Perciò si intesero solo con lo sguardo, che è la parola dell’amore. Con gli occhi velati dal pianto, Madre e Figlio si guardarono, si amarono, si compresero, si compatirono, si aiutarono.

Gesù, che aveva già parlato alle donne, incitandole a piangere sui peccati del mondo (Vangelo di Luca 23,27-31), piange senza parlare quando incontra Colei che è senza peccato. La guarda attraverso il sudore, il pianto, la polvere, il sangue che fanno velo ai suoi occhi e vorrebbe abbracciarla. In quell’ora di passione, infatti, più del velo della Veronica o di ogni altro soccorso, sarebbe stato di sollievo a Gesù il bacio della sua Mamma. Ma anche questa tortura ci voleva per redimere le colpe umane più nascoste.

Maria avrebbe voluto piegare il cielo in soccorso del suo Gesù, alleviandogli non il supplizio – poiché questa doveva esser compiuto per decreto eterno – ma almeno la durata di esso. Ma non poteva. Era l’ora della Giustizia.

I loro sguardi si incontrarono, si allacciarono e poi si divisero lacerando i cuori, sotto la calca della folla che spingeva verso l’altare del sacrificio. Fu questo, per Maria, il dolore più grande: non poter abbracciare, consolare, ristorare, medicare il suo Gesù.

Dal momento della sua Immacolata Concezione e per tutta la sua vita, la Vergine ha tenuto il capo di Satana sotto il suo calcagno (Libro della Genesi 3,15). Ma non avendo questi potuto corrompere con il suo veleno il corpo e l’anima della Vergine, ha schizzato tale veleno sul suo cuore di Madre, addolorandolo senza misura. Anche adesso che Maria è nella beatitudine del paradiso, le offese che facciamo a suo Figlio salgono come frecce a ferire il suo cuore di Madre, riaprendo le ferite del Venerdì santo.

Dall’alto della croce erano scese lente le ultime parole del Cristo. Maria le aveva tutte raccolte, poiché anche un solo sospiro del Crocifisso era aspirato dalla sua sensibilità materna.

“Donna, ecco tuo figlio!” (Vangelo di Giovanni 19,26). Maria ci dà la vita dello spirito attraverso il suo dolore, poiché se Lei era immune dalla condanna della sofferenza del parto e della morte (Libro della Genesi 3,16), per cui non soffrì nel dare alla luce Gesù e non soffrì nell’esalare l’ultimo respiro, il suo cuore si spezzò per darci la vita dell’anima. Noi nasciamo alla grazia attraverso il varco aperto dal suo dolore di Madre. Per questo è proclamata Madre dell’umanità.

La parola più ripetuta da Gesù, in quel crudele pomeriggio d’aprile, era questa: “Mamma!”. Quel nome, mano a mano che l’asfissia della morte cresceva, era sempre più spesso invocato dal Crocifisso. Egli ormai aveva tutto detto e tutto compiuto. Aveva affidato l’anima al Padre, anche se il Padre chiamato non si mostrava ma anzi si ritirava in un silenzio da far paura agli angeli. E allora chi avrebbe dovuto chiamare in quel momento terribile, se non Maria? Chi più di Lei poteva sentirlo in quello sgomento? Chi più di Lei lo amava?

Gesù chiamò la Madre con urlo di lacerante dolore che trafisse i cieli. II “grande grido”, di cui parlano gli evangelisti (Vangelo dí Matteo 27,50; Vangelo dí Marco 15,37), fu questa parola. I Vangeli non lo dicono, ma lo dice lo Spirito che illumina i Vangeli. Maria raccolse quel grido e portò in sé quel lamento come una spada di fuoco sino al mattino pasquale, quando Gesù entrò sfolgorante più del sole nella stanza dove Lei pregava. Il sepolcro le aveva portato via l’Uomo-Dio, ma le restituiva il Dio-Uomo: perfetto nella sua virile Maestà e giubilante per la prova compiuta. In quel momento di paradiso, fu ancora questa la prima parola: “Mamma!”. Un richiamo non più di dolore come sulla croce, ma di gioia incontenibile, di cui Gesù faceva partecipe Maria stringendola al suo Cuore divino.

La Madre, che per prima ha portato la pesante croce con Gesù, per prima ha contemplato la gloria della risurrezione del Figlio che le apparve al primo raggio di sole nel giorno dopo il sabato. Anche in questo caso i Vangeli non lo dicono, ma lo dice lo Spirito che illumina i Vangeli.

 

LA FERITA ALLE MANI

Le ferite dei chiodi alle mani sono state inflitte così. Il pensiero dei carnefici era di appendere Gesù per i polsi, per rendere più sicura la sospensione. E infatti, dopo averlo disteso sulla croce, gli trapassarono la mano sinistra in questo punto.

Ma, dato che il costruttore del patibolo aveva segnato il buco di destra più lontano del punto dove il polso di Gesù poteva arrivare – si usava segnare i posti dei chiodi per rendere più facile l’entrata del ferro nel duro legno e più sicura la sospensione – dopo avergli stirato, con una corda, il braccio destro sino a produrre lo strappamento dei tendini, si decisero a configgere il chiodo al centro del palmo, fra osso e osso del metacarpo.

Nella Sindone ciò non si rileva perché la mano sinistra copre la destra.

Una volta alzata la croce, quando il peso del Corpo si spostò verso il basso e in avanti, il chiodo lacerò molto verso il pollice, allargando il foro più che non nella mano sinistra dove il polso resistette meglio alla trazione. Questa della mano destra fu la ferita più tormentosa, la più vasta patita da vivo, perché il chiodo, nell’entrare, spezzò i nervi e i tendini della mano, dando spasimo atroce che si propagò sino alla testa e al cuore del Crocifisso.

I pittori e gli scultori, che per senso d’arte dipinsero o scolpirono la scena della crocifissione con la mano sinistra semi aperta e la destra serrata a pugno, hanno testimoniato senza volere una verità fisica dei corpo di Gesù martirizzato, perché la mano destra realmente si serrò a pugno per la troncatura dei nervi e sempre più si chiuse, perché sempre più lo spasimo e la contrattura delle fibre nervose aumentò col passare delle ore.

 

SOFFERENZE FISICHE, SPIRITUALI E MORALI

Noi non sappiamo quanto è costato a Gesù essere Salvatore e per Maria essere al fianco dei suo Figlio. Non sappiamo con che eroismo, con che generosità, con che mitezza, Gesù e Maria hanno subìto le loro torture per la carità di salvarci.

La missione di redentori è una missione austera. La più austera di tutte. Quella rispetto alla quale la vita del monaco o della monaca della più severa regola è un

fiore rispetto ad un mucchio di spine.

Le sofferenze della Passione sono servite a riparare le nostre innumerevoli colpe. Niente nel corpo del Signore fu escluso dai patimenti, perché niente nell’uomo è esente da colpa. Gesù è venuto per annullare gli effetti del peccato col suo Sangue, lavando in esso le nostre anime e renderci solidi contro il male.

Le mani di Gesù sono state ferite e imprigionate, dopo essersi stancate di benedire e di portare la Croce, per riparare a tutti i delitti fatti dalle nostre mani di uomini. Da quelli veri e propri di reggere e manovrare un’arma contro un fratello, facendo di noi dei Caini, a quelli di rubare, di scrivere false accuse, di offendere, di fare atti contro il nostro corpo, o di oziare in cose che sono terreno propizio al sorgere dei vizi. Per le nostre illecite libertà delle mani, Gesù ha fatto crocifiggere le sue inchiodandole al legno e privandole d’ogni moto più che lecito e necessario.

I piedi del nostro Salvatore, dopo essersi affaticati e contusi sulle pietre del suo cammino di passione, sono stati trafitti, immobilizzati, per riparare a tutto il male che noi facciamo coi piedi, usandoli per andare in luoghi non benedetti dal Signore.

Col suo sangue Gesù ha segnato le vie, le piazze, le case, le scale di Gerusalemme, per purificare tutte le vie, le piazze, le scale, le case della terra da tutto il male che vi è dentro, contrario alla legge di Dio.

Le carni del Signore si sono maculate, contuse, lacerate per punire in Lui tutto il culto esagerato che noi diamo al corpo, l’idolatria di amare cose e persone più di quanto dobbiamo amare Dio.

Sopra ogni amore ed ogni vincolo della terra ci deve essere l’amore per il Signore. Nessun altro affetto deve essere superiore a questo. Amiamo i nostri cari in Dio, non sopra a Dio. Amiamo con tutto noi stessi Dio, come il comandamento insegna (Libro del Deuteronomio 6,5; Vangelo di Matteo 22,37). Ciò non assorbirà il nostro amore al punto da renderci indifferenti ai congiunti, ma anzi alimenterà il nostro amore per loro della perfezione attinta da Dio, poiché chi ama Dio ha Dio in sé e, avendo Dio, ha la

perfezione dell’amore.

Gesù ha fatto delle sue carni una piaga per levare alle nostre il veleno del senso, del non pudore, del non rispetto, dell’ambizione e ammirazione per ciò che è destinato a tornare polvere. Non è col culto al corpo che si porta il corpo alla bellezza, bensì è con l’amore verso lo spirito immortale che si dà al corpo la bellezza eterna del cielo.

La testa del Signore fu afflitta da mille torture: percosse, sole, urla, spine, per riparare alle colpe della nostra mente. Superbia, impazienza, insopportabilità, insofferenza, pensieri cattivi, pullulano come un fungaio nel nostro cervello. Gesù ha fatto di esso un organo torturato e decorato di sangue, per riparare a tutto ciò che di cattivo sgorga dal nostro pensiero.

Anche se era Re, l’unica corona che Gesù ha voluto fu quella delle spine. La corona che solo un pazzo o un suppliziato può portare. Gesù era giudicato pazzo, e pazzo, soprannaturalmente, divinamente pazzo, era, avendo voluto morire per noi che non lo amiamo o lo amiamo così poco. Egli era in balia dell’uomo: suo prigioniero, suo condannato. Gesù, Dio, condannato dall’uomo!

Quante impazienze noi abbiamo per delle inezie, quante insoffribilità per dei semplici malesseri! Ma guardiamo il nostro Salvatore! Meditiamo cosa doveva essere di straziante quel pungere continuo della corona in nuovi posti, quell’impigliarsi nelle ciocche dei capelli, quello spostarsi continuo senza dar modo di muovere il capo, di appoggiarlo in nessun modo che non desse tormento! Ma pensiamo cosa erano per la sua testa torturata, dolente, febbrile, le urla della folla, le percosse sul capo, il sole cocente! Ma riflettiamo quale dolore doveva avere nel suo povero cervello, andato all’agonia del Venerdì già tutto un dolore per lo sforzo subìto nella sera del Giovedì, al quale saliva la febbre di tutto il corpo straziato e delle intossicazioni provocate dalle torture!

E nel capo gli occhi, il naso, la bocca, la lingua ebbero il loro tormento, per riparare ai nostri sguardi così amanti di vedere ciò che è male e così dimentichi di cercare Dio, per riparare alle troppe e troppo inutili e cattive parole che diciamo invece di usare le labbra per insegnare, per pregare, per confortare; per riparare alle nostre golosità, senza pietà di chi ha fame e sprecando ciò che per molti è necessario.

Gli organi del Signore non furono esenti dal soffrire. Non uno di essi. Soffocazioni e tosse per i polmoni contusi dalla barbara flagellazione e resi edematici dalla posizione sulla croce. Affanno e dolore al cuore spostato e reso infermo dalla crudele flagellazione, dal dolore morale che l’aveva preceduta, dalla fatica della salita sotto il grave peso del legno, dall’anemia consecutiva a tutto il sangue che già aveva sparso.

Cuore, fegato, milza, reni sopraffaticati e percossi oltremisura.

E poi la sete! Quale tortura la sete! Eppure non ci fu uno, fra tanti, che in quelle ore seppe dare al Maestro una goccia d’acqua. Dalla cena del Giovedì in poi, Egli non ebbe più nessun conforto. Febbre, sole, calore, polvere, dissanguamento, sudore, gli causarono una sete fortissima. Ma Gesù non volle addolcimenti al suo patire e respinse il vino mirrato che produce intontimento al dolore (Vangelo di Marco 15,23). Solo sulla croce chiese da bere per dare compimento alle Scritture.

Questo il soffrire di Gesù nel suo corpo innocente. E non parliamo delle torture dell’affetto per sua Madre e per il suo dolore! Ci voleva anche questo, ma per Gesù è stato lo strazio più crudele. La presenza della Mamma, infatti, se è stata la cosa più desiderata dal suo Cuore divino che aveva bisogno di avere quel conforto nella solitudine infinita che lo circondava – infinita solitudine veniente da Dio e dagli uomini – fu tortura per il Figlio.

Maria doveva esser là, angelo di carne, per impedire alla disperazione di assalire il Figlio dell’uomo, come l’angelo spirituale l’aveva impedito nel Getsemani (Vangelo di Luca 22,43). Maria doveva esser là per unire il dolore di Gesù al suo, per la nostra redenzione. Maria doveva esser là per ricevere l’investitura di Madre del genere umano. Ma, vederla morire ad ogni suo fremito, fu per Gesù il più grande dolore. Neppure il tradimento, neppure la cognizione che il suo Sacrificio sarebbe stato inutile per molti – questi due dolori che poche ore prima gli erano parsi tanto grandi da farlo sudare sangue – erano paragonabili a questo di veder soffrire sua Madre e di vederla piangere.

La crocifissione 5ultima modifica: 2010-08-21T15:49:00+02:00da meneziade
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