LA VITA PRIVATA
« Toto orbe in pace composito »
§ 225. Gli ultimi anni avanti l’Era Volgare l’Impero romano, ossia l’orbis terrarum, fu in pace. Nell’anno 15 av. Cr. Tiberio e Druso, figliastri di Augusto, avevano sottomesso la Rezia, la Vindelicia e il Norico, fra le Alpi e il Danubio; nel 13 i Dalmati e i Pannoni erano stati ridotti all’obbedienza mediante una spedizione iniziata da Agrippa, genero d’Augusto, e terminata da Tiberio; dal 12 in poi Druso aveva diretto le operazioni guerresche contro i Germani, stabilendo saldamente il dominio di Roma lungo il Reno. Dall’anno 8 av. Cr. comincia un periodo di pace, che non sarà più turbata se non dopo l’Era Volgare con le nuove sollevazioni dei Germani, Dalmati e Pannoni, culminate con la disfatta di Quintilio Varo a Teutoburgo (9 d. Cr.). A Roma, l’Ara Pacis Augustae era stata inaugurata già nel gennaio del 9 av. Cr.; il tempio di Giano, che era stato chiuso due sole volte da Augusto, fu da lui chiuso per la terza volta appunto nell’8 av. Cr., essendo toto orbe in pace composito, come proclama ogni anno la Chiesa in occasione della nascita di Gesù. Augusto, autore di questa pax romana, aveva raggiunto la vetta della sua piramide di gloria, trovandosi in quel periodo per cui non avrebbe dovuto mai morire. Si disse infatti di Augusto che, per il bene di Roma, avrebbe dovuto o non mai nascere o non mai morire: il periodo anteriore al suo dominio assoluto sarebbe quello per cui non avrebbe dovuto mai nascere, e il periodo in cui egli rimase unico padrone del mondo sarebbe quello per cui non avrebbe dovuto morire. E a tale padrone del mondo, appunto in questo secondo periodo, erano riserbati onori fino allora sconosciuti nell’Impero: gli si dedicavano templi e città intere, era proclamato di stirpe non già umana ma divina, egli era il nuovo Giove, era il Giove Salvatore, era l’astro che sorge sul mondo. Non risulta invece che, fra tanti eccelsi titoli, fosse dato ad Augusto quello di principe di pace, che pure non era da lui immeritato nel suo secondo periodo. Ma sette secoli prima un profeta ebreo aveva ben impiegato questo titolo, e insieme con altri che ricordano quelli d’Augusto lo aveva attribuito, precisamente come ultimo e conclusivo titolo, al futuro Messia: è nato un pargolo, ci fu largito un figlio: fu posto l’impero sull’omero suo. Suo nome sarà “Ammirabile”, “Consigliere”, “Dio”, “Forte”, “Padre sempiterno”, “Principe di pace”. Isaia, 9, 5. E’ vero che in ebraico l’espressione “principe di pace” ha un significato più ampio del latino princeps pacis, perché in ebraico “pace” (shalom) designa il “benessere”, la “felicità” perfetta; tuttavia il futuro Messia, essendo stato previsto come “principe”, non avrebbe mancato di apportare nel suo regno, insieme con la “felicità”, anche la pax nel senso latino di esclusione della guerra, giacché ov’è guerra non è pax e tanto meno “felicità”.
L’annunzio a Zacharia
§ 226. Si era pertanto in tempo di pace, sotto l’imperatore Augusto, ai giorni di Erode re della Giudea (Luca, 1, 5), e correva l’anno 747 di Roma (7 av. Cr.). Viveva allora un sacerdote del Tempio di Gerusalemme, di nome Zacharia, ch’era ammogliato con una donna di stirpe sacerdotale di nome Elisabetta, ed abitava nella “regione montagnosa” di Giuda (Giudea); la città ov’egli dimorava è innominata, ma una tradizione risalente fin verso il secolo V la identifica con l’odierna Ain-Karim (S. Giovanni in Montana), a circa 7 chilometri a sud-ovest di Gerusalemme. I due coniugi erano avanzati in età ambedue, e non avevano ricevuto la prima e più gioconda benedizione di un focolare ebraico, cioè la figliolanza: nella loro solitudine s’attristavano, e consci di aver sempre menato una vita tutta dedicata ai grandi principii della religiosità ebraica si chiedevano perché mai Dio li avesse lasciati privi di quella consolazione. Ora, essendo giunto il turno dì servizio al Tempio per la classe a cui apparteneva Zacharia, che era l’ottava classe presieduta da Abia (§ 54), egli dalla sua dimora rurale si trasferì a Gerusalemme; essendosi poi fatta l’assegnazione dei singoli uffici per mezzo delle sorti, a Zacharia toccò l’onorevole incarico di offrire l’incenso sull’altare dei profumi, il che avveniva due volte il giorno nel sacrifizio mattutino e in quello vespertino. L’altare dei profumi era collocato nel “santo” (§ 47) ove potevano entrare soltanto i sacerdoti, mentre i laici restavano fuori seguendo da lontano con lo sguardo le cerimonie del sacerdote che entrava e usciva dal “santuario”. Entrato pertanto Zacharia, tutta la moltitudine del popolo stava pregando al di fuori all’ora dell’incenso; ma apparve a lui un angelo del Signore, stante ritto a destra dell’altare dell’incenso. E si turbò Zacharia al vederlo, e timore cadde su lui. Ma l’angelo gli disse: Non temere, Zacharia, perché la tua preghiera fu esaudita, e tua moglie Elisabetta ti partorirà un figlio, e tu gli metterai nome Giovanni (Luca, 1, 10-13). Per gli Ebrei più che per gli altri popoli il nomen era un omen, un presagio: nel nostro caso Giovanni, significava Jahve’ (Dio d’Israele) fu misericordioso. L’angelo infatti prosegui assicurando lo sbigottito Zacharia che, per quella nascita, il padre e molti altri godrebbero: il fanciullo sarebbe un grande al cospetto di Dio, si asterrebbe dal vino e da ogni bevanda inebriante, sarebbe ripieno di Spirito santo ancor nel seno di sua madre, richiamerebbe molti Israeliti al loro Dio, anzi sarebbe un precursore che con lo spirito e la possanza di Elia incederebbe avanti a Dio stesso per preparare al Signore una degna accoglienza da parte del popolo ben disposto.
§ 227. L’annunzio dell’angelo oltrepassava tutte le previsioni umane. Dal vino e dalle bevande inebrianti si astenevano coloro che facevano voto di “nazireato”, ma di solito era un voto temporaneo e non perpetuo: lo Spirito santo secondo le Scritture sacre aveva riempito alcuni profeti o altri personaggi in occasioni speciali, ma del solo Geremia si leggeva ch’era stato destinato da Dio a un’alta missione già nel seno di sua madre; un precursore dell’atteso Messia era stato predetto anticamente dal profeta Malachia (Mal., 3, 1; 4, 5-6) e tutti ritenevano che questo battistrada spirituale sarebbe stato il profeta Elia già salito al cielo su un carro di fuoco, ma il celestiale profeta non avrebbe potuto rinascere quale figlio di Zacharia né trasfondere in altri il suo spirito e la sua possanza. Per queste considerazioni al primo sbigottimento successe in Zacharia una differente sospensione d’animo. E Zacharia disse all’angelo: A che (segno) conoscerò (vero) questo? Io infatti sono anziano e mia moglie è avanzata nei suoi giorni. – E l’angelo rispondendo gli disse: lo sono Gabriele che sto alla presenza d’Iddio (§ 78), e fui inviato per parlarti e dirti questa buona novella. Ecco però che sarai muto e non potrai parlare fino al giorno che avverranno queste cose, perché non credesti alle mie parole che si adempiranno a tempo loro (Luca, 1, 18-20). La punizione, se pur fu tale, serviva da nuova prova della straordinaria promessa; come già negli antichi tempi Abramo, Mosè, e altri personaggi avevano chiesto e ricevuto da Dio qualche “segno” a conferma di promesse divine, così Zacharia ne aveva chiesto uno e lo riceveva di tal genere sulla propria persona che fosse anche una purificazione spirituale. I tempi nuovi, già da antico promessi ad Israele, cominciavano; e il loro annunzio era stato dato inaspettatamente, ma durante la liturgia perenne d’Israele e in un periodo di pace per il mondo intero. Frattanto il popolo fuori del “santuario” attendeva che uscisse il sacerdote, per intonare l’inno che accompagnava il sacrificio da compiersi sull’altare degli olocausti, e si meravigliava dello straordinario indugio. Finalmente Zacharia ricomparve sulla soglia, ma non pronunziò la solita benedizione sul popolo né poteva parlare a quelli, e conobbero che aveva contemplato una visione nel santuario; egli poi faceva dei gesti, e rimase muto (Luca, 1, 22). La mutolezza di Zacharia probabilmente impedì che il popolo risapesse il preciso oggetto della visione e le promesse comunicate al veggente; si parlò genericamente d’apparizione, come doveva parlarsene spesso in quel tempo o a ragione o a torto. Terminata la settimana di servizio al Tempio, il muto Zacharia ritornò alla sua città. Poco dopo sua moglie Elisabetta divenne gravida, e si tenne nascosta per cinque mesi, dicendo: Cosi il Signore ha agito con me ai giorni in cui volse lo sguardo a toglier via l’obbrobrio mio di tra gli uomini (Luca, 1, 24-25). L’obbrobrio era la sterilità deprecatissima dagli Ebrei; e ciò è sufficiente a dimostrare che il riserbo in cui si tenne Elisabetta nei primi cinque mesi non era per nascondere la gravidanza, che l’avrebbe invece onorata presso la gente, bensì per ragioni più alte; al sesto mese, infatti, la sua condizione sarà rivelata a un’altra donna a cui servirà da prova di disegni divini. I quali intanto si venivano attuando senza alcuno strepitìo, fra il riserbo di Elisabetta e la mutolezza di Zacharia. A questo episodio l’evangelista Luca, che vuoi procedere con ordinamento (§§ 114, 140) e predilige le narrazioni abbinate, soggiunge immediatamente un altro episodio che ha parecchi tratti somiglianti al precedente, ma nello stesso tempo segna un grande progresso nell’attuazione dei disegni divini: all’annunzio e concepimento del precursore segue l’annunzio e il concepimento dello stesso Messia Gesù.
L’annunzio a Maria
§ 228. Per il nuovo episodio la scena è portata lontano da Gerusalemme e dal suo Tempio, e collocata nella Palestina settentrionale, in Galilea. Ivi, a 140 chilometri da Gerusalemme per la strada odierna, sorge Nazareth, oggi amena cittadina che conta circa 25.000 abitanti, ma che ai tempi di Gesù doveva essere tutt’altro che amena e niente più che trascurabile villaggio. Di Nazareth non si trova alcuna menzione né nell’Antico Testamento, né in Flavio Giuseppe, né nel Talmud; i vangeli, che soli ne parlano, riportano anche il giudizio sprezzante dato da un uomo di quei dintorni: Da Nazareth ci può esser qualcosa di buono? (Giovanni, 1, 46). Tuttavia l’insediamento umano vi doveva essere molto antico; recenti investigazioni archeologiche, fatte attorno al santuario locale dell’Annunciazione, hanno riportato in luce numerose grotte aperte artificialmente nel pendio della collina; le quali, se più rozze e spoglie, servivano da depositi di vettovaglie, se invece erano più comode e vi era stata aggiunta sul davanti qualche elementare costruzione servivano anche da abitazioni. La Nazareth dei tempi di Gesù doveva restringersi alla parte orientale dell’odierna cittadina, quella che guarda dall’alto verso la vallata di Esdrelon. Siccome poi nella Palestina antica un insediamento umano appare provocato sempre da una sorgente d’acqua, anche a Nazareth non mancava una fonte; è quella chiamata oggi “Fontana della Madonna” attorno a cui gli Apocrifi lavorano parecchio di fantasia, ma che ai tempi di Gesù doveva essere forse il solo richiamo verso il villaggio per le assetate carovane che passavano lungo i dintorni. Forse la sua posizione alta rispetto alla pianura orientale aveva procurato a quell’accolta di stamberghe semi-trogloditiche il nome di Nasrath, Nasrah col significato originario di “guardiana”, “custodiente” (più che di “fiore” o “germoglio”). Ora, in uno degli abituri di Nazareth viveva una vergine fidanzata ad un uomo di nome Giuseppe, del casato di David, e il nome della vergine (era) Maria (Luca, 1, 27). Al casato di David apparteneva, oltre a Giuseppe, anche Maria: né deve far meraviglia di trovare discendenti di un casato anticamente così glorioso confinati in un villaggio così meschino e anche così lontano dalla culla del casato, che era Beth-lehem; già da secoli la stirpe di David viveva una vita oscura ed appartata, e neppure al tempo del risorgimento nazionale sotto i Maccabei essa si era segnalata per benemerenze speciali; questa vita da semplici privati aveva favorito anche l’allontanamento dei discendenti del casato dal centro originario, molti dei quali erano andati a stabilirsi nei vari luoghi della Palestina ove i loro interessi li chiamavano, senza però dimenticare i propri legami col luogo d’origine.
§ 229. Il nome Maria, in ebraico Mirjam, era assai frequente ai tempi di Gesù, mentre nell’antica storia ebraica appare portato soltanto dalla sorella di Mosè: il suo significato è del tutto incerto, nonostante le moltissime interpretazioni (più d’una sessantina) che se ne sono proposte; del resto sembra che ai tempi di Gesù la pronunzia ebraica originaria fosse stata mutata in quella di Marjam, con introduzione d’un nuovo significato. Della famiglia di Maria nulla dicono i vangeli canonici, mentre gli Apocrifi dicono anche troppe cose: solo incidentalmente è ricordata una sua “sorella” (Giovanni, 19, 25). D’altra parte ci vien detto che Elisabetta era parente di Maria (Luca, 1, 36); ma questa parentela, di cui non si può precisare il grado, era certamente il risultato di un precedente matrimonio fra estranei, perché Elisabetta era di stirpe sacerdotale (§ 226) e quindi apparteneva alla tribù di Levi, mentre Maria essendo del casato di David apparteneva alla tribù di Giuda: forse Elisabetta discendeva da padre Levita e da madre del casato di David.
§ 230. Ora, il sesto rrse della gravidanza di Elisabetta (Luca, 1, 26), lo stesso angelo Gabriele che aveva preannunziato quel concepimento, fu da Dio inviato a Nazareth da Maria, ed entrato da lei disse: Salve, piena di grazia! il Signore (e’) con te! Ma ella a quel discorso si turbò, e andava ragionando seco che genere di saluto fosse questo (Luca, 1, 28~29). Come nel precedente episodio di Zacharia, abbiamo anche qui l’apparizione inaspettata e il turbamento di chi la contempla; ma questa volta il turbamento è prodotto, non dalla visione in sè, bensì dalle grandiose parole udite ch’erano stimate sproporzionate alla destinataria. Era dunque il turbamento dello spirito ch’è umile ed ha coscienza della propria bassezza ( Luca, 1, 48): non era il turbamento che raggiungesse lo spavento, perché anche in presenza dell’apparizione Maria andava ragionando seco. Secondo l’apocrifo Protovangelo di Giacomo (§ 97) l’apparizione sarebbe avvenuta presso la fontana di Nazareth, mentre Maria si preparava ad attinger acqua; è infatti inclinazione degli Apocrifi far accadere i fatti in palese, ma la narrazione evangelica mostra che il nuovo episodio accadde in segreto, perché l’angelo parlò a Maria entrato da lei, cioè in sua casa, ch’era certamente una delle umilissime del villaggio. E l’angelo le disse: Non temere, Maria! Trovasti infatti grazia presso iddio. Ed ecco concepirai in seno e partorirai un figlio, e lo chiamerai col nome di Gesu’. Costui sarò grande, e figlio dell’Altissimo sarà chiamato; e il Signore Iddio darò a lui il trono di David padre suo, e regnerà sul casato di Giacobbe per i secoli e il suo regno non avrò fine (Luca, 1, 30-33). Questo annunzio, sebbene solennissimo, è stato in qualche maniera preparato dal grandioso saluto dell’angelo stesso; chi è piena di grazia ed ha il Signore con sé trova la spiegazione di queste sue prerogative nei fatti presentati dall’annunzio: il quale poi si riferisce direttamente al Messia, e usa concetti messianici dell’Antico Testamento (cfr. II Samuele, 7, 16; Salmo ebr. 89, 30.37; Isaia, 9, 6; Michea, 4, 7; Daniele, 7, 14; ecc;). Lo stesso nome da imporsi al nascituro è preannunziato, come il nome del figlio di Zacharia: infatti Gesù, in ebraico Jeshu(forma abbreviata di Jehoshu ossia “Giosuè”), significa Jahve’ salvò, quindi l’ufficio del nascituro sarà quello di operare una salvezza da parte del Dio Jahvè. In conclusione, l’angelo ha annunziato a Maria che diverrà madre del futuro Messia. L’annunziata non discute il messaggio, nè imita Zacharia nel chiedere una prova dimostrativa: prende benì a considerare la maniera meno onorifica per lei in cui poteva avvenire quella sua maternità, ch’era la maniera del concepimento naturale comune a tutti gli uomini, non escluso il figlio di Zacharia tuttora in gestazione. Contro questa maniera Maria ha una sua obiezione, ch’ella presenta come domanda di schiarimento: Disse però Maria all’angelo: Come sarò ciò, poiché non conosco uomo? E’ la frase eufemistica, usuale in ebraico, per alludere alla causa del concepimento avvenuto in una donna secondo le leggi naturali. Per valutare il significato di questa frase in quanto pronunziata da Maria bisogna aver presente ciò che Luca poco prima ha detto di lei, cioè che era una vergine fidanzata ad un uomo di nome Giuseppe (§ 228).
§ 231. Presso i Giudei il matrimonio legale si compiva, dopo alcune trattative preparatorie, con due procedimenti successivi, che erano il fidanzamento e le nozze. Il fidanzamento non era, come presso di noi oggi, la semplice promessa di futuro matrimonio, bensì era il perfetto contratto legale di matrimonio, ossia il vero matrimonium ratum: quindi la donna fidanzata era già moglie, poteva ricevere la scritta di divorzio dal suo fidanzato-marito, alla morte di costui diventava regolarmente vedova, e in caso d’infedeltà era punita come vera adultera conforme alla norma del Deuteronomio, 22, 23-24; questo stato giuridico è riassunto con esattezza da Filone quando afferma che presso i Giudei, contemporanei di lui e di Gesù, il fidanzamento vale quanto il matrimonio (De special. leg., III, 12). Compiuto questo fidanzamento-matrimonio, i due fidanzati-coniugi restavano nelle rispettive famiglie ancora per qualche tempo, che di solito si protraeva fino a un anno se la fidanzata era una vergine e fino a un mese se era una vedova: questo tempo era impiegato nei preparativi per la nuova casa e per l’arredo familiare. Fra i due fidanzati-coniugi non avrebbero dovuto avvenire, a rigore, relazioni matrimoniali; ma in realtà queste avvenivano comunemente, come attesta la tradizione rabbinica (Ketuboth, 1, 5; Jebamòth, iv, 10; babri Ketubàth, 12 a; ecc.), la quale informa anche che tale disordine si riscontrava nella Giudea ma non nella Galilea. Le nozze avvenivano quand’era trascorso il tempo suddetto, e consistevano nell’introduzione solenne della sposa in casa dello sposo: cominciava allora la coabitazione pubblica, e con ciò le formalità legali del matrimonio erano compiute. Generalmente il fidanzamento di una vergine avveniva quando essa era in età fra i 12 e i 13 anni, ma talvolta anche alquanto prima: quindi le nozze, in conseguenza di quanto si è visto sopra, cadevano di solito fra i 13 e i 14 anni. Tale era probabilmente l’età di Maria all’apparizione dell’angelo. L’uomo si fidanzava fra i 18 e i 24, e perciò questa doveva essere l’età di Giuseppe. Concludendo, sappiamo da Luca che Maria era una vergine in questa condizione di fidanzata; inoltre, da Matteo, 1, 18, apprendiamo che ella divenne gravida prima che andasse a coabitare con Giuseppe, cioè prima delle nozze giudaiche. Alla luce di queste notizie, quale significato hanno le sue parole rivolte all’angelo: Come sarò ciò, poiché non conosco uomo.
§ 232. Prese isolatamente in se stesse, non possono avere che uno di questi due sensi: o richiamare alta memoria la nota legge di natura per cui ogni figlio presuppone un padre; oppure esprimere per il futuro il proposito di non sottoporsi a questa legge e quindi di rinunziare alla figliolanza. Un terzo senso, per quanto ci si pensi, non è dato scoprirlo. Ora, in bocca a Maria, fidanzata giudea, le parole in questione non possono avere il primo di questi due sensi, perché sarebbero state di una puerilità sconcertante, tale da costituire un vero non-senso; a chi avesse espresso un pensiero di tal genere, se era una fidanzata giudea, era facile replicare: “Ciò che non è avvenuto fino ad oggi, può avvenire regolarmente domani”. E’ quindi inevitabile il secondo senso, nel quale il verbo non conosco non si riferisce soltanto alle condizioni presenti ma si estende anche alle future, esprimendo cioè un proposito per l’avvenire: tutte le lingue, infatti, conoscono questo impiego del presente esteso al futuro, tanto più se tra presente e futuro non cade interruzione e se si tratta di uno stato sociale (non mi sposo; non mi fo prete, avvocato, ecc.). Se Maria non fosse stata una fidanzata-coniuge le sue parole, un po’ forzatamente, avrebbero potuto interpretarsi come un implicito desiderio di avere un compagno nella propria vita: ma nel caso effettivo di Maria il compagno già c’era, legittimo e regolare; quindi, se l’annunzio dell’angelo avesse dovuto avverarsi in maniera naturale, non esisteva alcun ostacolo. E invece l’ostacolo esisteva: era rappresentato da quel non conosco, che valeva come un proposito per il futuro, e che giustificava pienamente la domanda come sarò ciò? L’unanime tradizione cristiana, che ha interpretato in tal senso il non conosco, ha battuto una strada che è certamente la più agevole e facile ma anche l’unica ragionevole e logica. Se però Maria aveva fatto il proposito di rimaner vergine, perché aveva in precedenza acconsentito a contrarre il giudaico fidanzamento-matrimonio? Su questo punto i vangeli non offrono spiegazioni, ma se ne possono trovare riportandosi alle usanze giudaiche contemporanee. Certamente nell’antico ebraismo lo stato celibe o nubile non era affatto apprezzato, e la principale preoccupazione familiare era la figliolanza e più numerosa possibile: la mancanza di figli era reputata una maledizione di Dio (Deuteronomio, 7, 14). Si conoscono soltanto, fra gli uomini, l’antico caso del profeta Geremia rimasto celibe per dedicarsi totalmente alla sua missione di profeta (Geremia, 16, 2 segg.), e ai tempi di Gesù il caso degli Esseni che contraevano matrimonio o eccezionalmente o forse mai (§ 44). Quanto alle donne, non si saprebbe che caso citare; la donna senza marito e senza figli era per gli Ebrei un essere lugubre. Allorché S. Paolo incidentalmente ci fa sapere che c’erano padri i quali reputavano indecoroso d’avere in casa figlie da marito tuttora nubili (I Corinti, 7, 36) non fa che confermare quanto già aveva detto il Siracida, secondo cui un padre non riesce a prender sonno la notte perché ripensa a sua figlia che si fa anziana senza trovar marito (Ecclesiastico, 42, 9), e quanto più tardi diranno le fonti rabbiniche, secondo cui bisogna sposare la propria figlia appena in età da marito. La donna senza marito era per gli Ebrei come una persona umana senza testa, perché l’uomo e la testa della donna (Efesi, 5, 23): e come pensavano in questa maniera gli Ebrei e in genere gli altri Semiti antichi, così pensano ancora oggi gli Arabi, fra cui vige il proverbio che per una ragazza non c’è che un solo corteo, o quello nuziale o quello funebre.
§ 233. Cedendo dunque a questa tirannica usanza comune, Maria si era fidanzata; ma il suo stesso proposito, così fiduciosamentte obiettato all’angelo, illumina di riflesso anche la disposizione del suo fidanzato Giuseppe, il quale non sarebbe mai stato accettato come fidanzato se non avesse deciso di rispettare il proposito di Maria: la disposizione di Giuseppe, poi, trova un bel parallelo storico nel celibato degli Esseni testé ricordato. Più in là di questo i vangeli non dicono; ma come il proposito di Maria risulta nitidamente dalle sue parole, cosi le altre conseguenze risultano da una conoscenza anche superficiale delle usanze contemporanee. E’ quanto già aveva scorto S. Agostino, con la sua abituale perspicacia, quando scriveva: Ciò indicano le parole con cui Maria rispose all’angelo che le annunziava un figlio: “Come” disse “sarà ciò, poiché non conosco uomo?”. Il che certamente non avrebbe detto, se già dapprima non avesse fatto voto di sé come vergine a Dio. Ma poiché le costumanze degli Israeliti ancora non ammettevano ciò, ella si sposò con un uomo giusto, il quale avrebbe, non già tolto via con violenza, bensì custodito contro i violenti, ciò di cui ella già aveva fatto voto (De sancta virginitate, 4). Alla segreta intenzione delle parole di Maria si riferisce l’angelo nella sua replica. E rispondendo l’angelo le disse: Spirito santo sopravverrà su te, e potenza d’Altissimo adombrerà su te; perciò anche il nato (sarà) santo, sarà chiamato figlio di Dio (Luca, 1, 35). La questione proposta da Maria Come sarà ciò…? è risolta, e insieme il suo proposito è salvadaguardato: la potenza di Dio scenderà direttamente su Maria, e come anticamente nel deserto la gloria di Jahvè si posava a guisa di nuvola sul tabernacolo ebraico adombrandolo (Esodo, 40, 34-35), cosi adombrerà questo tabernacolo vivente di vergine, e il figlio che da lei nascerà non avrà altro padre che Dio. Questo figlio avvererà in sé l’appellativo di figlio di Dio in maniera perfetta, mentre ad altri personaggi dell’Antico Testamento lo stesso appellativo era stato applicato in maniera incompiuta. Il Messia non avrebbe potuto esser chiamato “figlio” se non da Dio che gli dava dall’eternità la natura divina, e dalla vergine sua madre che gli dava natura umana: nessun’altra creatura umana l’avrebbe chiamato, a rigore di termine, con quel nome. Oramai la proposta dell’angelo è pienamente presentata; Maria che, pur non dubitando, ha chiesto uno schiarimento, lo ha ottenuto. Non manca che l’assenso di lei, perché tutto si compia. Ma il parallelismo, e anche l’intreccio, di questo episodio con quello precedente di Zacharia continua ancora: come l’annunzio, così una prova del nuovo annunzio è data egualmente a Maria che non l’aveva richiesta. Perciò l’angelo continuò: Ed ecco Elisabetta, la parente tua, anch’essa ha concepito un figlio nella sua vecchiaia, e questo e’ il sesto mese (di gravidanza) per lei ch’e’ chiamata sterile; poiché non é impossibile presso Iddio qualunque cosa (Luca, 1, 36-37).
§ 234. Alla non richiesta prova Maria non replica, ma risponde soltanto: Ecco la schiava del Signore: avvenga a me secondo la tua parola! (Luca, 1, 38). L’abitatrice del tugurio di Nazareth, benché eletta ad esser madre del Messia, ha tuttora perfetta coscienza della sua bassezza (§ 230) e perciò si chiama, non già ministra o cooperatrice di Dio, bensì una schiava, cioè una di quelle miserabili creature ch’erano al livello più basso della società umana; solo dopo ciò ella dà il suo assenso alla proposta dell’angelo. E allora il Verbo diventò carne (Giovanni, 1, 14), ossia l’umanità numerò tra i suoi figli il Messia. Già sette secoli prima, il profeta Isaia aveva preannunziato uno straordinario segno divino con queste parole: Ecco, la vergine e’ gravida e partoriente un figlio, ed ella lo chiamerà col nome di “Immanu ‘EI” (“Con-noi-Dio”) (Isaia, 7, I 4) Matteo, premuroso di far rilevare l’avveramento delle antiche profezie messianiche (§ 125), cita questa profezia di Isaia come adempiutasi in Gesù e nella sua madre (Matteo, I, 22-23). Al contrario per la tradizione giudaica la profezia di Isaia rimase un libro chiuso con sette sigilli, e negli scritti rabbinici non esiste il più lontano accenno alla partenogenesi del Messia.
Nascita di Giovanni il Battista
§ 235. Narrati i due episodi paralleli, Luca subito appresso mette in contatto fra loro le due protagoniste. Maria, a cui era stato addotto come prova ciò ch’era avvenuto ad Elisabetta, andò a visitare la sua parente, sia per felicitarsi con lei, sia perché le parole dell’angelo avevano lasciato chiaramente intravedere che particolari legami avrebbero congiunto i due nascituri come già avevano congiunto le due madri. Per recarsi da Nazareth alla « regione montagnosa » della Giudea (§ 226) il viaggio non era breve: supponendo che la città di Zacharia fosse realmente Ain-Karim, vi s’impiegavano circa tre giorni di carovana. Forse Maria già aveva fatto quel viaggio recandosi a Gerusalemme per le « feste di pellegrinaggio » (§ 74), e in qualche occasione aveva anche visitato la sua parente soggiornando alquanto presso di lei. Ma subito dopo l’annunciazione vi si recò con sollecitudine, entrò inaspettata in casa di Zacharia e salutò Elisabetta. A quell’incontro le due madri furono oggetto di particolari illuminazioni divine. A Zacharia l’angelo aveva preannunziato che il suo figlio nascituro sarebbe stato ripieno di Spirito santo ancor nel seno di sua madre; costei a sua volta, racchiusasi nel suo riserbo equivalente alla mutolezza di Zacharia, credeva forse che il suo stato di gestante non fosse noto ad alcuno, come a lei non era certamente noto lo stato di gestante di Maria. Ma l’arrivo di Maria fece improvvisa luce su tutto. E avvenne che, appena Elisabetta udì il saluto di Maria, sobbalzò l’infante nel seno di lei: ed Elisabetta fu ripiena di Spirito santo, e gridando ad alta voce disse: Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del seno tuo! E donde a me questo, che venisse la madre del mio Signore a me? Ecco infatti, appena la voce del tuo saluto fu nelle mie orecchie, sobbalzò in esultanza l’infante nel seno mio! E beata colei la quale credette che vi sarà adempimento alle cose dette a lei da parte del Signore! (Luca, 1, 41-45). Prima di quell’incontro molte delle cose avvenute erano chiare alle due donne in misura diversa fra loro, ma non poche altre cose rimanevano ancora velate in una misteriosa penombra: quell’incontro fu come una subitanea aurora che getti la sua vivida luce tutt’intorno e faccia riconoscere nitidamente il paesaggio. Era il paesaggio dei disegni di Dio. Elisabetta si trovava conosciuta dentro al suo riserho, conosceva a sua volta il segreto di Maria, e riconosceva in lei la madre del suo Signore.
§ 236. In Oriente la gioia porta facilmente al canto e all’improvvisazione poetica. Avevano improvvisato anticamente, in occasioni solenni, Maria sorella di Mosè, Debora la profetessa, Anna madre di Samuele, i cui carmi erano conservati nelle Scritture sacre e noti certamente a Maria; e anche fra i Semiti odierni non di rado la donna diventa declamatrice davanti a gioie o a dolori grandi, ed esprime i propri sentimenti in accenni brevi ma incisivi, retti da un vago ritmo più che da rigoroso metro, ispirantisi ordinariamente a temi tradizionali con un’impronta più o meno personale. E in quell’ora di giubilo pure Maria si mostrò poetessa; ispirandosi frà altre Scritture soprattutto al carme di Anna (ti Samuele, 2, i segg.), ella declamò il suo Magnificat (Luca3 1, 46-55): Magnifica l’anima mia il Signore, ed esulta lo spirito mio sul Dio salvatore mio, poiché rimirò sulla bassezza della schiava sua. Ecco, invero, da ora mi chiameranno beata tutte le generazioni, poiché fece a me cose grandi il Possente, e santo (e’) il nome suo. E la misericordia di lui di età in età per quei che lo temono. Operò potenza col braccio suo, disperse orgogliosi nel pensamento del cuor loro. Tirò giu’ potenti dai troni, e in alto mise bassi; affamati riempì di beni, e ricchi rimandò vuoti. Soccorse Israele servo suo, rammentandosi di misericordia: conforme parlò ai padri nostri, ad Abramo ed alla sua stirpe in eterno. L’originale di questo carme fu certamente in semitico, e in realtà sono state proposte varie ritraduzioni (molto facili del resto) dall’odierno testo greco in ebraico. Le reminiscenze letterarie bibliche vi sono insistenti. Ma più insistente ancora è, nel campo psicologico, il contrasto tra bassezza e grandezza, tra tapinità esaltata e orgoglio depresso, tra fame saziata e sazietà affamata: Maria scorge in sè stessa soltanto bassezza da schiava, ma trova anche che il braccio potente di Dio ha sollevato la piccolezza di lei collocandola sul trono, compiendo in lei cose grandi, tanto ch’ella prevede che la chiameranno beata in tutte le generazioni. Si poteva immaginare una predizione più « inverosimile » di questa? Era circa l’anno 6 av. Cr., e una fanciulla di neppur 15 anni, sprovvista di beni di fortuna e d’ogni altro titolo sociale, sconosciuta ai suoi connazionali e dimorante in un villaggio egualmente ad essi sconosciuto, proclamava fiduciosamente che la chiameranno beata tutt’ le generazioni. C’era da prenderla in parola quella fanciulla vaticinante, con la sicurezza assoluta di vederla smentita fin dalla prima generazione! Oggi sono passati venti secoli, e il confronto fra la predizione e la realtà si può fare. Ormai la storia ha tutto l’agio di riscontrare se Maria ha previsto giusto, e se realmente l’umanità oggi esalti lei più che Erode il Grande allora arbitro della Palestina, e più che Caio Giulio Cesare Ottaviano Augusto allora arbitro del mondo.
§ 237. Presso Elisabetta Maria rimase tre mesi, cioè fino al tempo del parto della ospitante, e poi tornò a Nazareth: non risulta con certezza se era ancora in casa di Zacharia al tempo del parto, essendovi ragioni pro e contro. A suo tempo Elisabetta partorì un figlio, e sparsasi la notizia del caso straordinario parenti e vicini vennero a congratularsi con lei. L’ottavo giorno dalla nascita, come era prescrizione (§ 69), si doveva circoncidere il neonato e imporgli il nome; ma, su quest’ultimo punto, sorse dissenso. Di solito s’imponeva il nome del nonno, per continuare l’onomastica di famiglia e nello stesso tempo evitare confusioni col padre; ma in quel caso straordinario, con un padre muto e vecchio quanto un nonno, si poteva ben fare un’eccezione all’usanza e continuare l’onomastica di famiglia imponendo al figlio il nome del padre. Tutti infatti sostenevano che il bambino doveva chiamarsi Zacharia; la madre, invece, sosteneva che doveva chiamarsi Giovanni, ed ella ne sapeva ben la ragione (§ 226).
Ma gli zelanti amici non si spiegavano quella stranezza, tanto più che nessuno nel casato di Zacharia si chiamava Giovanni. Sulla decisione della madre poteva prevalere solo quella del padre: quindi gli zelanti si rivolsero al padre. Ma egli era muto, e forse anche sordo, e perciò solo a mezzo di gesti gli fecero comprendere la loro domanda. Il muto allora chiese una tavoletta cerata, di quelle usate per brevi scritture, e vi scrisse sopra: Giovanni è il suo nome. Il nome era fissato, e tutti rimasero meravigliati. Ma, ormai, anche il seguo di prova e di purificazione dato dall’angelo a Zacharia, cioè la sua mutolezza, non aveva più ragione di essere, perché tutto si era adempiuto, e la futura sorte del neonato era stata delineata bastevolmente dalle varie circostanze della sua nascita. Quindi, subito dopo fissato il nome del figlio (Luca, I, 64), Zacharia riacquistò la favella e parlò benedicendo Dio. Tutti gli astanti, stupiti, previdero grandi cose riguardo al bambino, e Zacharia fu riempito di Spirito santo e profetò dicendo: Benedetto il Signore, Iddio d’israele, ecc. E’ il cantico Benedictus (Luca, 1, 68-79), usitatissimo nella liturgia cristiana, che esalta l’adempimento delle promesse di salvezza fatte da Dio ad Israele, e vede nel neonato il precursore di questo adempimento, essendo egli colui che andrà innanzi al Signore a preparare le vie di lui. Il salvatore dunque era imminente, essendo già comparso il suo battistrada. Se il mondo potente d’allora, in Israele e fuori d’israele, non sapeva ancora nulla né dell’uno né dell’altro, ciò non aveva importanza, perché le vie del salvatore e del suo battistrada non erano le vie del mondo, e non già i potenti andava Dio scegliendo per attuare il suo piano dì salvezza, bensì gli ignoti, gli appartati, gli umili, quali erano Zacharia, Elisabetta, Maria. Una sola cosa aveva accettato Dio dal mondo dei potenti d’allora, quasi condizione indispensabile al piano di salvezza, cioè la pace: e allora nel mondo regnava la pace, sotto l’autorità di Roma. Prima di lasciare la narrazione del neonato Giovanni per riprendere quella di Maria, Luca fa un anticipo cronologico comunicando sommariamente che il bambino cresceva e s’afforzava di spirito e stava nei deserti fino al giorno della sua manifestazione ad Israele (Luca, 1, 80). I deserti a cui qui si allude, e in cui Giovanni si sarà trasferito quand’era giovanetto già maturo, erano probabilmente le regioni a sud-est di Gerusalemme note come il deserto della Giudea (cfr. Matteo, 3, 1).
Giuseppe sposo di Maria
§ 238. Finora il nostro informatore è stato Luca, ma a questo punto è necessario anche ascoltare Matteo, che narra lo stesso fatto del concepimento di Gesù molto più stringatamente, non senza però aggiungervi qualche elemento nuovo. Nella narrazione di Matteo figura in primo piano Giuseppe, che invece nella narrazione di Luca era stato appena nominato: ora, come riguardo a Luca argomentiamo a buon diritto che la principale informatrice sia stata Maria stessa o immediatamente o per il tramite di Giovanni (§ 142), così riguardo a Matteo possiamo ragionevolmente supporre che per questo argomento egli sia ricorso a informatori della Galilea, già in relazioni particolari con Giuseppe, quale poteva essere ad esempio Giacomo il “fratello” di Gesù. Per Matteo, Maria è fidanzata di Giuseppe e prima che coabitino (§ 231) diviene gravida; circa la soprannaturalità del concepimento Giuseppe non è preavvisato, ma solo s’avvede del fatto già compiuto (Matteo, 1, 18). Questa scoperta non poté avvenire se non dopo il ritorno di Maria dalla visita a Elisabetta, cioè fra il quarto e il quinto mese di gravidanza; tornata ella a Nazareth, da cui era partita subito dopo l’annunciazione, le sue condizioni fisiche furono ben presto rilevate da Giuseppe che ne ignorava i precedenti. Ora Giuseppe, suo marito, essendo giusto e non volendo esporla, deliberò di dimetterla segretamente (Matteo, 1,19). Dopo ciò che già sappiamo circa le condizioni giuridiche dei fidanzati-coniugi presso i Giudei (§ 231), i termini sono chiari: Giuseppe, come legittimo marito, avrebbe potuto dimettere Maria consegnandole la scritta di divorzio, il quale provvedimento avrebbe avuto per conseguenza di esporre la ripudiata alla pubblica disistima; ma, per evitare ciò, Giuseppe pensa di dimetterla segretamente, e prende questa deliberazione essendo (egli) giusto. Di tutto il periodo, quest’ultima frase è la più importante e la vera chiave di spiegazione. In un caso di quel genere un Giudeo retto e onesto, che fosse stato convinto della colpevolezza della donna, le avrebbe consegnato senz’altro la scritta di divorzio, stimandosi non solo in diritto, ma forse anche in dovere, di agire così, poiché una silenziosa e inerte tolleranza poteva sembrare approvazione e complicità. Giuseppe invece, appunto essendo giusto, non agisce così; dunque, egli era convinto dell’innocenza di Maria, e per conseguenza giudicò procedimento iniquo sottoporla al disonore di un divorzio pubblico. D’altra parte come poteva Giuseppe spiegare lo stato attuale di Maria? Avrà egli pensato ad una violenza patita da lei incolpevolmente durante i tre mesi d’assenza? Il silenzio programmatico di Maria su quel punto – silenzio spontaneo presso una riservata fanciulla in quelle condizioni – poteva ben suscitare un sospetto di questo genere. Oppure, avvicinandosi anche più alla realtà, Giuseppe intravide nell’accaduto alcunché di soprannaturale, di divino? Noi non sappiamo, perché Matteo non dice nulla al riguardo: solo che dalla deliberazione di Giuseppe, di rompere il suo legame con Maria segretamente cioè senza danneggiare la fama di lei, concludiamo che agì sia da persona convinta dell’innocenza di Maria, sia da giusto.
§ 239. La perplessità di Giuseppe non fu lunga. Quando però egli ebbe preso questa deliberazione, ecco che un angelo del Signore gli comparve in sogno, dicendo: Giuseppe figlio di David, non temere di prendere con te Maria, tua moglie, poiché il generato in lei e’ da Spirito santo; partorirà poi un figlio, e lo chiamerai col nome di Gesu’, egli infatti salverà il suo popolo dai loro peccati (Matteo, 1, 20-21). Il sogno era stato un mezzo non infrequente nell’Antico Testamento con cui Dio aveva comunicato i suoi voleri agli uomini; Matteo, l’evangelista più interessato per l’Antico Testamento (§§ 125, 234), ricorda varie comunicazioni divine per mezzo di sogni (oltre questa, cfr. Matteo, 2, 12. 13. 19.22; 27, 19) che non sono ricordate dagli altri evangelisti. Il nome di Gesù da imporsi al nascituro era già stato comunicato alla madre (§ 230): qui si aggiunge il motivo di questa imposizione, salverà, ecc., fondata sul significato etimologico del nome stesso. Dopo questa dichiarazione imperativa dell’angelo, Giuseppe prese in casa sua Maria. Si saranno celebrate le cerimonie solite in simili nozze; parenti ed amici saranno accorsi per la meschina festicciuola esteriore, ma rimasero certamente ignari dell’arcano segreto che si celava in seno a quella nuova famiglia. E Giuseppe, l’uomo della tribù di Giuda e del casato di David, il carpentiere di mestiere, fu capo legale di quella famiglia.
Nascita di Gesù
§ 240. L’appartenenza di Giuseppe e della sua famiglia al casato di David, che era originario di Beth-lehem, ebbe ben presto una conseguenza nel campo civile in occasione del censimento ordinato da Roma ed eseguito sotto Quirinio. Di questo famoso censimento abbiamo trattato a parte (§ 183 segg.), e perciò qui supponiamo già note le osservazioni fatte. In Oriente l’attaccamento al proprio luogo d’origine era, ed è tutt’ora, tenace. Presso gli Ebrei una tribù si divideva in grandi “famiglie”, le famiglie si suddividevano in casati “paterni” e i casati paterni si frazionavano man mano in nuovi casati che potevano sciamare dall’alveare umano di loro ongine e trasferirsi altrove; ma, ovunque andassero, i nuovi raggruppamenti familiari conservavano tenacemente il ricordo dell’alveare originario, sia demograficamente sia geograficamente. Si sapeva, cioè, che il decimo o il ventesimo antenato della propria famiglia era il Tale figlio del Tale, il quale aveva dimorato nella tale borgata, ivi aveva impiantato il suo casato e di là altre discendenze avevano sciamato. La storia degli Arabi è intessuta di nomi quali Banu X, Banu Y, cioè figli di X, figli di Y, come i Banu Quraish a cui appartenne Maometto; e anche oggi non è affatto difficile trovare un arabo, musulmano o cristiano, emigrato in Europa od America che sappia dire appuntino a quale grande casato egli appartenga e quale regione o borgata sia il centro geografico originario del suo casato. Questo attaccamento al proprio luogo d’origine formava presso i Giudei la base di un censimento, e i Romani nel primo censimento di Quirinio seguirono questa norma locale, sia per le ragioni politiche che già sappiamo (§ 188), sia per frenare in qualche maniera lo spopolamento delle campagne causato dall’inurbanesimo. Perciò, bandito che fu il censimento, su Giuseppe incombé l’obbligo di presentarsi agli ufficiali dell’anagrafe in Beth-lehem, giacché egli era del “casato” e della “famiglia” di David (Luca, 2, 4) la quale era originaria di Beth-lehem.
§ 241. Beth-lehem è oggi una cittadina di circa 20.000 abitanti, situata 9 chilometri a sud di Gerusalemme all’altezza di 770 metri sul mare. Il suo nome era originariamente Beth-Lahamu “casa del (dio) Lahamu”, divinità dei Babilonesi venerata anche dai Cananei del posto; sottentrati poi gli Ebrei ai Cananei, il nome finì per essere interpretato nel senso dell’ebraico beth-lehem, ”casa del pane”. Con l’avvento degli Ebrei in Palestina, s’insediò ivi il casato di Efrata (I Cronache, 2, 50-54; 4, 4), quindi il luogo fu chiamato sia Efrata sia Beth-lehem (Genesi, 35, 19; Ruth, 1, 2; 4, 11). Ivi, discendendo dal ramo di Isai (Jesse), era nato David (Ruth, 4, 22; I Cron., 2, 13-15). Se Nazareth era d’importanza così scarsa da non essere menzionata da nessun documento antico (§ 228), Beth-Iehem a sua volta era un villaggio assai meschino ai tempi di Gesù. Già nel secolo VIII av. Cr. il profeta Michea (5, I ebr.) aveva chiamato Beth-lehem piccola fra le ripartizioni della tribù di Giuda; il villaggio col territorio circostante doveva albergare poco più di 1000 abitanti, in massima parte pastori o poveri contadini. Era però un luogo di passaggio per le carovane che da Gerusalemme scendevano in Egitto: difatti una sosta per carovane, ossia un caravanserraglio vi fu costruita da Chamaam, ch’era forse figlio d’un amico di David (II Samuele, 19, 37 segg.), e perciò fu chiamata “foresteria di Chamaam” (Geremia, 41, 17). Da Nazareth a Beth-lehem sono per la strada odierna 150 chilometri, e ai tempi di Gesù poteva esservi una piccola differenza in meno: era dunque un viaggio di tre o quattro giorni per le carovane d’allora. Non consta con certezza se a presentarsi personalmente in Beth-lehem fosse obbligato soltanto Giuseppe, ovvero pure Maria; ma anche se Maria non era inclusa nella legge, sta di fatto che Giuseppe vi si recò insieme con Maria, la fidanzata di lui, ch’era gravida (Luca, 2, 5). Queste parole possono benissimo valere come delicato accenno ad una almeno delle ragioni per cui venne anche Maria, cioè la vicinanza del parto in cui essa non doveva essere lasciata sola. Ma un’altra ragione – oltre al possibile obbligo di legge – poté essere che i due coniugi pensassero di trasferirsi stabilmente nel luogo originario del casato di David: poiché l’angelo aveva annunziato che Dio avrebbe dato al nascituro il trono di David padre suo (§ 230), quale pensiero più naturale che far ritorno alla patria di David per aspettare ivi l’attuazione dei misteriosi disegni divini? Già da vari secoli il profeta Michea aveva additato appunto la piccola Beth-lehem come luogo di provenienza di colui che avrebbe dominato su Israele (§ 254).
§ 242. Il viaggio dovette essere spossante per Maria, ch’era al nono mese di gravidanza. Le strade della regione, non ancora tracciate e mantenute dai Romani maestri in materia, erano cattive e appena adatte per carovane di cammelli e asini; in quei giorni poi, col subbuglio del censimento, saranno state più frequentate del solito e quindi anche più scomode. I due coniugi, nella migliore delle ipotesi, avranno avuto a loro disposizione un asino, che sarà stato caricato anche delle cibarie e degli oggetti più necessari, uno di quegli asini che ancora oggi in Palestina si vedono precedere una fila di camelli o seguire un gruppetto di pedoni i tre o quattro pernottamenti del viaggio saranno stati fatti o in qualche casa amica, o più probabilmente nei luoghi pubblici di sosta sdraiandosi a terra fra gli altri viandanti in mezzo a un camello ed un asino. Giunti a Bethlehem, le condizioni furono peggiori. Il piccolo villaggio rigurgitava di gente, che si era allogata un po’ dappertutto a cominciare dal caravanserraglio. Questo era forse la vecchia costruzione di Chamaam (§ 241) riattata lungo i secoli; Luca la chiama l’albergo, ma la parola italiana non deve trarre in errore facendo pensare a un’azienda che rassomigli anche lontanamente a una modestissima locanda dei nostri villaggi. Il caravanserraglio d’allora era in sostanza l’odierno khan palestinese (§ 439), cioè un mediocre spazio a cielo scoperto recinto da un muro piuttosto alto e fornito di un’unica porta; internamente, lungo uno o più lati del muro, correva un portico di riparo che per un certo tratto poteva esser chiuso da muretti, e così formava uno stanzone con a fianco qualche altra cameretta più piccola. L’”albergo” era tutto qui; le bestie erano radunate in mezzo, nel cortile a cielo scoperto, e i viandanti si ricoveravano sotto il portico o dentro lo stanzone finché c’era posto, altrimenti s’accampavano fra le bestie: le camerette più piccole, se esistevano, erano riservate a chi poteva permettersi quella comodità pagando. E là, fra quell’ammasso di uomini e di bestie, tutto alla rinfusa si questionava d’affari e si pregava Dio, si cantava e si dormiva, si mangiava e si defecava, si poteva nascere e si poteva morire, tutto fra quel sudiciume e quel lezzo che appestano ancora oggi gli accampamenti di beduini palestinesi in viaggio.
§ 243. Luca ci fa sapere che, quando Giuseppe e Maria giunsero a Beth-lehem, non c’era posto per essi nell’albergo (2,7). Questa frase è più studiata di quanto sembri all’apparenza. Se Luca avesse voluto dire soltanto che il caravanserraglio non poteva contenere più alcuno, gli sarebbe bastato dire che ivi non c’era posto; egli invece aggiunge per essi, non senza riferirsi implicitamente alle loro particolari condizioni, cioè a quelle di Maria nell’imminenza del parto. Potrà sembrare una sottigliezza, ma non è. In Beth-lehem Giuseppe avrà avuto senza dubbio conoscenti o anche parenti a cui domandare ospitalità; sia pure che il villaggio era gremito, ma un angoletto per due persone cosi semplici e dimesse si poteva sempre trovare in Oriente: quando a Gerusalemme affluivano centinaia di migliaia di pellegrini in occasione della Pasqua (§ 74), la capitale rigurgitava non meno che la Beth-lehem del censimento, eppure tutti trovavano posto adattandosi. Ma naturalmente, in circostanze di quel genere, diventavano simili a caravanserragli anche le squallide case private, che consistevano di solito in un unico stanzone a pianterreno: tutto vi era in comune, tutto si faceva in pubblico, non c’era riserbo o segretezza di sorta. Perciò si comprende perché Luca specifichi che “non c’era posto per essi”: nell’imminenza del parto, ciò che Maria ricercava era soltanto riserbo e segretezza. E avvenne che, mentre essi erano colà, si compirono i giorni per il parto di lei, e partoì il suo figlio primogenito, e lo infasciò e lo pose a giacere in una mangiatoia (Luca, 2, 6-7). Qui si parla solo di mangiatoia, ma questo è un indizio ben sicuro alla luce delle costumanze contemporanee. La mangiatoia svela una stalla, e la stalla esige secondo le costumanze d’allora una grotta, una piccola caverna, scavata sul fianco di qualche collinetta nei pressi del villaggio: grotte di questo genere e destinate a questo uso si trovano tuttora in Palestina nei dintorni di gruppi di case. Quella stalla su cui misero gli occhi i due coniugi sarà stata forse occupata parzialmente da bestie, sarà stata tetra e sudicia di letame, ma era alquanto discosta dal villaggio e quindi solitaria e tranquilla; ciò bastava alla futura madre. Perciò, giunti i due a Beth-lehem e vista quell’affluenza di gente, si alloggiarono alla meglio in quella grotta solitaria, in attesa sia di compiere le formalità del censimento, sia del parto che la gestante sentiva imminente. Giuseppe avrà predisposto alla meglio un angolo meno disadatto e meno sudicio, vi avrà preparato un giaciglio di paglia pulita, avrà estratto dalla bisaccia di viaggio le provviste e qualche altra cosa più necessaria disponendole sulla mangiatoia fissata al muro, e tutto fu lì: altre comodità non potevano esigere allora in Palestina quei due viandanti di quel grado sociale, i quali per di più si erano segregati spontaneamente in una grotta da bestie. In conclusione, povertà e purità furono le cause storiche per cui Gesù nacque in una grotta da bestie: la povertà del suo padre legale, che non aveva denaro per affittarsi fra tanti concorrenti una stanza appartata; la purità della sua madre naturale, che volle circondare il suo parto di riverente riserbo.
§ 244. La grotta, fra i luoghi archeologici della vita di Gesù, è quello che ha in suo favore testimonianze più antiche e autorevoli, fuor dei vangeli. Anche astraendo da vari Apocrifi che ci ricamano attorno molto, nel secolo II Giustino martire ch’era palestinese di nascita offre questa preziosa testimonianza: Essendo nato allora il bambino in Beth-lehem, poiché Giuseppe non aveva in quel villaggio dove albergare, albergò in una certa grotta dappresso al villaggio e allora, essendo essi colà, Maria partorì il Cristo e lo pose in una mangiatoia, ecc. Nei primi decenni del secolo III Origene attesta egualmente la grotta e la mangiatoia, e si appella alla tradizione notissima in quei posti e anche presso gli alieni dalla fede (Contra Celsum, 1, 51). Sulla base di questa tradizione Costantino nel 325 ordina che si costruisca sulla grotta la grandiosa basilica (cfr. Eusebio, Vita Constantini, m, 41-43), che nel 333 è ammirata dal pellegrino di Ilordeaux e che rispettata nel 614 dai Persiani invasori è tuttora superstite.
§ 245. Venuto alla luce Gesù in questa grotta, Maria l’infasciò e lo pose a giacere in una mangiatoia. Queste parole del delicato evangelista medico fanno intendere abbastanza chiaramente che il parto avvenne senza l’usuale assistenza d’altre persone: la madre da se stessa accudisce al neonato, l’infascia e lo ripone sulla mangiatoia. Neppure Giuseppe è nominato. Soltanto le successive narrazioni apocrife s’affanneranno a far venire la levatrice, inviando in giro Giuseppe a cercarla (Protovangelo di Giacomo, 19-20); ma nel racconto di Luca non c’è posto per essa. Non per nulla la futura madre aveva cercato con cura si premurosa un luogo solitario e tranquillo. Così dunque Maria partorì il suo figlio primogenito, che l’angelo le aveva preannunziato come erede del trono di David padre suo 230). Senonché il futuro regno del neonato – stando almeno a quelle prime manifestazioni – si prevedeva ben diverso dai regni d’allora, giacché questo erede dinastico aveva per aula regia una stalla, per trono una mangiatoia, per baldacchino le ragnatele pendenti dal soffitto, per nubi d’incenso le esalazioni del letame, per cortigiani due creature umane senza casa. Tuttavia il regno di quell’erede dinastico si annunziava fin d’allora con talune note caratteristiche davvero nuove e del tutto ignote ai regni contemporanei: delle tre persone componenti quella corte stalliera, una rappresentava la verginità, una l’indigenza, tutte e tre l’umiltà e l’innocenza. Esattamente 9 chilometri più a settentrione sfolgoreggiava la corte indorata di Erode il Grande, in cui la verginità era parola affatto sconosciuta, l’indigenza era aborrita, l’umiltà e l’innocenza si manifestavano nell’attentare alla vita del proprio padre, nel mettere a morte i propri figli, nell’adulterio, nell’incesto e nella sodomia. Il vero contrasto storico fra le due corti non era tanto fra il letame dell’una e gli ori dell’altra, quanto fra le loro caratteristiche morali.
§ 246. Ad ogni modo al neonato discendente di David spettava bene un omaggio di cortigiani, i quali fossero in condizione sociale non troppo differente da quella di David, già pastore di pecore, e da quella dei due cortigiani fissi che stavano presso al suo trono-mangiatoia; inoltre, poiché l’angelo aveva detto che il neonato sarebbe stato chiamato figlio dell’Altissimo, gli spettava anche più un omaggio di cortigiani dell’Altissimo che si accomunassero in quell’ossequio con i cortigiani bassissimi della terra. Ora, Beth-lehem era ed è ancora oggi sui limiti della steppa, ossia di quell’estensione abbandonata e incolta che può essere sfruttata solo a pascolo di greggi. I pochi ovini posseduti dagli abitanti del villaggio erano fatti rientrare durante la notte nelle stalle circostanti, ma i greggi numerosi rimanevano continuamente all’aperto là nella steppa con qualche uomo di guardia: fosse giorno o notte, estate o inverno (§ 174), quelle molte bestie e quei pochi uomini formavano tutta una collettività che viveva della steppa e nella steppa. Pecorai di tal genere riscotevano pessima reputazione presso i Farisei e gli Scribi: in primo luogo la loro stessa vita nomade nella steppa scarseggiante d’acqua li rendeva lerci, fetenti, ignari di tutte le fondamentalissime leggi sulla lavanda delle mani, sulla purità delle stoviglie, sulla scelta dei cibi, e quindi: essi più di chiunque altro costituivano quel “popolo della terra” ch’era degno per i Farisei del più cordiale disprezzo (§ 40); inoltre, passavano per ladri tutti quanti, e si consigliava di non comperar da loro né lana né latte che potevano essere cose refurtive. D’altra parte non si poteva insistere troppo con loro per ricondurli alle osservanze della “tradizione”, persuadendoli a lavarsi bene le mani e a sciacquar bene le stoviglie prima di mangiare; erano infatti uomini di nerbo e di fegato, e come non temevano di spaccare col loro bastone la testa al lupo che infastidiva il gregge, così non avrebbero esitato a spaccarla al Fariseo od allo Scriba che avesse infastidito la loro coscienza. Perciò questi esseri abietti e maneschi erano esclusi dai tribunali, e la loro testimonianza – al pari di quella dei ladri e dei rei d’estorsione – non era accettata in giudizio.
§ 247. Senonché, esclusi dalla corte giudiziaria dei Farisei, questi bassissimi pecorai entrano nella corte regale del neonato figlio di David, e vi sono invitati dai celestiali cortigiani dell’Altissimo. C’erano pastori in quella stessa contrada, che dimoravano sul campo e facevano la guardia nella notte sul loro gregge. E un angelo del Signore s’appressò a loro, e la gloria del Signore rifulse attorno a loro, e temettero di gran timore; e l’angelo disse loro: Non temete! Ecco, infatti, vi do la buona novella d’una grande gioia la quale sarà per tutto il popolo, perché fu partorito per voi oggi un salvatore, che e’ Cristo signore, nel(la) città di David; e segno per voi sia questo: troverete un bambino in fasciato e giacente in una mangiatoia. E ad un tratto fu insieme con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodavano Dio e dicevano: Gloria negli altissimi a Dio, e sulla terra pace negli uomini di beneplacito! 2 Luca, 2, 8-14. Questa scena segue immediatamente il racoonto della nascita, e senza dubbio è intenzione del narratore far intendere che tra i due fatti non intercorse se non qualche ora. Dunque Gesù nacque di notte, come notturna è l’apparizione ai pastori.
§ 248. A costoro, dopo la dovuta lode a Dio nei cieli altissimi, si annunzia soltanto una cosa, la pace sulla terra. Veramente la pace allora c’era (§ 225); ma era una pace transitoria, di pochi anni, che equivalgono a pochi secondi sul grande orologio dell’umanità. Di quei pochi secondi aveva approfittato, come di un’istantanea tregua nella procella, per nascere tra gli uomini il salvatore cioè il Cristo (Messia) signore, e cominciava col fare annunziare dai suoi cortigiani celestiali la pace. Ma la sua era una pace di nuovo conio, sottoposta a una nuova condizione. La pace di quei pochi anni era sottoposta alla condizione dell’impero di Roma; era la pax Romana, garantita da 25 legioni, le quali tuttavia qualche anno dopo si mostrarono insufficienti a Teutoburgo amareggiando gli ultimi anni di Augusto. La nuova pace del Cristo signore era sottoposta alla condizione del beneplacito di Dio: coloro che con le loro opere si rendono degui di quel beneplacito e sui quali esso viene a posarsi (i due fatti si richiamano l’un l’altro) otterranno la nuova pace. Costoro sono gli operanti pace e saranno proclamati beati perché ad essi spetta l’appellativo di figli d’Iddio (§ 321). Dalla mirabile apparizione dell’angelo e dalle sue parole i pastori compresero ch’era nato il Messia. Erano uomini rozzi, si, che non sapevano nulla dell’immensa dottrina dei Farisei; ma, da Israeliti semplici e d’antico stampo, sapevano del Messia promesso dai profeti al loro popolo, e ne avranno spesso parlato durante le lunghe veglie di guardia al gregge. L’angelo, adesso, ne aveva dato anche il segno, un bambino infasciato e giacente su una mangiatoia; forse avrà anche indicato la direzione da prendere per giungere alla grotta. Quei pecorai continuarono cosi a ritrovarsi nel loro ambiente: nelle grotte, se potevano, si rifugiavano anch’essi quand’era gran pioggia o gran freddo; forse più d’uno aveva ricoverato la propria moglie sopra parto egualmente in una grotta, e aveva deposto il suo neonato egualmente dentro una mangiatoia. E adesso sentivano, da chi non poteva ingannare, che pure il Messia si trovava nelle stesse loro condizioni. Andarono quindi verso di lui frettolosi, dice Luca (2, 16), di quella fretta cioè ch’è mossa da familiarità gioiosa: mentre forse con la lentezza appesantita da perpiessità ritrosa si sarebbero avviati verso la corte di Erode, se là fosse nato il Messia. Giunsero alla grotta. Trovarono Maria, Giuseppe e il neonato. Ammirarono. Essendo poveri di denaro ma signori di spirito non chiesero nulla, e ritornarono senz’altro alle loro pecore: soltanto sentirono un gran bisogno di lodare Dio e di far sapere ad altri del posto quanto era accaduto. Prima di terminare, l’accorto Luca ammonisce: Maria però conservava tutte queste parole convolgendole nel suo cuore. Già sappiamo che ciò è una delicata allusione alla fonte delle notizie (§142).
La purificazione di Maria
§ 249. La dimora dei tre nella grotta dovette esser breve, forse di pochi giorni soltanto. Man mano che il censimento progrediva, la gente ripartiva e le case si sfollavano: una di esse fu occupata da Giuseppe che vi si trasferì con gli altri due, e fu la casa ove si presentarono alcune settimane dopo i Magi (Matteo, 2, 11). Forse già in questa casa avvenne la circoncisione del neonato, praticata secondo la prescrizione otto giorni dopo la nascita (§ 69), e in tale occasione gli fu imposto il nome di Gesù notificato dall’angelo sia a Maria sia a Giuseppe (§§ 230, 239). L’angelo infatti aveva detto che il nascituro sarebbe stato chiamato figlio dell’Altissimo; ma di fatto era comparso nel mondo come discendente d’Israele per il casato di David, né dall’angelo era stata comunicata alcuna istruzione che esimesse questo nuovo Israelita dagli obblighi comuni a tutti gli Israeliti: perciò Giuseppe e Maria compirono tali obblighi a suo riguardo. E li compirono anche riguardo a se stessi. La Legge ebraica prescriveva che la donna dopo il parto fosse considerata impura, e rimanesse segregata 40 giorni se aveva fatto maschio, e 80 se femmina dopo di che doveva presentarsi al Tempio per purificarsi legalmente, e farvi un’offerta che per i poveri era limitata a due tortore o due piccioni. Se poi il bambino era primogenito, esso di legge apparteneva al Dio Jahvè, come tutti i primogeniti degli animali domestici e le primizie dei campi; perciò i suoi genitori dovevano riscattarlo pagando al Tempio, in cambio del primogenito, cinque sicli. Non era obbligo portare materialmente il neonato primogenito al Tempio per presentarlo a Dio, ma di solito le giovani madri lo portavano per invocare su lui le benedizioni celesti. Ambedue queste usanze furono seguite riguardo a Gesù: dopo 40 giorni Maria si recò al Tempio per la propria purificazione, offrendo ciò ch’era prescritto per i poveri, e portò con sé Gesù per presentarlo a Dio, pagando i cinque sicli. Se i due piccioni o tortore per la purificazione valevano ben poco, i cinque Sicli per il riscatto del primogenito furono assai gravi per la povertà dei due coniugi; infatti cinque sicli d’argento, che equivalevano a un po’ più di 20 lire nostre in oro, era quanto un artigiano come Giuseppe avrebbe guadagnato a mala pena con una ventina di giornate di lavoro, mentre poi in quei giorni a Beth-lehem egli avrà potuto poco o nulla lavorare: tuttavia alla spesa straordinaria ma prevista si sarà fatto fronte con qualche risparmiuccio che i due si saranno portati appresso da Nazareth come scorta. Quel gruppetto di tre persone che entravano nel Tempio di Gerusalemme non era fatto per attirare su di sé gli sguardi della gente, che stava là a oziare o a sentire le dissertazioni dei maestri farisei o a commerciare nell’”atrio dei gentili” (§ 48): erano tante le madri le quali ogni giorno venivano là a purificarsi dopo il parto e a presentare i loro primogeniti, che quel gruppetto di tre persone non meritava davvero uno sguardo particolare. Ma proprio quel giorno c’era qualcuno, là nell’atrio, che aveva uno sguardo differente dagli altri e poteva scorgere ciò che gli altri non scorgevano; era un uomo di Gerusalemme, di nome Simeone, e quest’uomo (era) giusto e timorato, aspettava la consolazione d’Israele e Spirito santo era su lui; e gli era stato rivelato dallo Spirito santo che non avrebbe visto morte prima che avesse visto il Cristo del Signore (Luca, 2, 25-26).
§ 250. Il nome Simeone era comunissimo fra i Giudei di quel tempo: e qui si dice di lui soltanto ch’era uomo giusto e timorato, e tutt’al più dalle parole ch’egli pronunzierà si può argomentare che era ben avanti negli anni; nulla però induce a credere che egli fosse sacerdote, e tanto meno il sommo sacerdote come vorrebbe un Apocrifo. L’uguaglianza poi del nome non basta per identificario, come taluni hanno suggerito, con Rabban Simeon figlio del grande Hillel e padre del Gamaliel maestro di S. Paolo, mentre contro questa identificazione stanno gravi difficoltà cronologiche. Questo laico era dunque un privato qualunque che si teneva a parte dai grandi avvenimenti dei politicanti di Gerusalemme, viveva tra le sue opere di giustizia e di timor di Dio come i pecorai di Eeth-lehem vivevano tra le loro pecore, e come quelli aspettava la consolazione d’Israele, cioè il promesso Messia: e nella stessa guisa che i pecorai furono avvisati dall’angelo, cosi Simeone era stato preavvisato dallo Spirito santo che la sua amorosa aspettativa sarebbe stata appagata. Cosicché quel giorno egli venne nello Spirito al tempio; e mentre i genitori introducevano il bambino Gesu’ per far con lui secondo il consueto della legge, egli lo ricevette sulle braccia, e benedisse Iddio e disse: Ora dimetti lo schiavo tuo, o Padrone, – secondo la tua parola – in pace! Perché videro gli occhi miei la tua salvezza, che preparasti al cospetto di tutti i popoli: luce a rivelazione di genti, e gloria del tuo popolo d’Israele Luca, 2, 27-32. La salvezza che appagava l’aspettativa di costui era rappresentata da quell’infante di quaranta giorni, che esteriormente non aveva niente di straordinario: e fin qui si poteva lasciar correre. Ma se lì presso ci fosse stato un Fariseo, di quelli più genuini e piu tipici, non avrebbe potuto reprimere il suo sdegno a udir quelle parole, secondo cui il Messia (chiunque fosse) avrebbe operato la salvezza per tutti i popoli e sarebbe stato una rivelazione di genti, cioè di quelle genti pagane che non facevano parte dell’eletta nazione d’Israele. Siffatte affermazioni erano scandalose e sovversive! E’ vero che in fondo si aggiungeva che lo stesso Messia sarebbe stato la gloria del popolo d’Israele; ma questa aggiunta finale rappresentava un compenso troppo scarso, era un misero piatto di lenticchie con cui si pretendeva compensare una spirituale primogenitura – o meglio unigenitura – perduta. Il futuro Messia, invece, doveva apparire in Israele e per Israele soltanto, e le altre genti, tutt’al più sarebbero stati ammessi come umili sudditi e discepoli d’Israele nei trionfali tempi del Messia; equiparare Israele e le genti agli effetti della salvezza messianica era un’eresia e una rivoluzione! Il genuino e tipico Fariseo avrebbe avuto ragione, come Fariseo: infatti il vaticinante Simeone non avrebbe potuto appoggiare la sua affermazione su nessuna sentenza dei grandi maestri farisei. Tuttavia, risalendo più su di costoro, l’avrebbe appoggiata su sentenze di Dio stesso, il quale nella Scrittura sara aveva proclamato al futuro Messia Metterò te qual patto di popolo, quale luce di genti Isaia, 42, 6, e aveva confermato poco appresso metterò te quale luce di genti, per esser la mia salvezza fino all’estremità della terra Isaia, 49, 6. Il nazionalismo escludente aveva fatto dimenticare la parola di Dio, ma Simeone passava sopra al particolarismo geloso dei Farisei e rievocava il decreto universalistico di Dio. Fatto ciò e contemplato il Messia, il vecchio non desiderava altro, e poteva partire per il viaggio senza ritorno. Tuttavia alle sue parole perfino il padre di lui (del bambino) e la madre erano meravigliati (Luca, 2, 33); onde il contemplativo si rivolse anche ad essi. Ma essi erano in realtà la sola Maria, alla quale perciò egli soggiunse: Ecco, costui é posto a caduta e resurrezione di molti in Israele e a segno contraddetto – e a te stessa trapasserà l’anima una spada – affinché siano rivelati i pensieri da molti cuori (2, 34-35). Dunque, il contemplativo scorge bensì la luce del Messia brillare su tutti i popoli, ma non già fugare tutte le tenebre; in Israele stesso molti procomberanno a causa di quella luce, la quale sarà un segno di contraddizione, un “segno d’immensa invidia – e di pietà profonda, – d’inestinguibile odio – e d’indomato amor”. E i colpi vibrati contro quel segno non raggiungeranno solo esso, ma anche la madre di lui, la cui anima sarà trafitta da acuta spada. Forseché, nella salvezza operata da quel bambino, la madre sarebbe stata unita col figlio, e non si sarebbe potuto colpire il figlio senza trapastare insieme la madre?
§ 251. Amante dei quadretti abbinati, Luca soggiunge immediatamente all’episodio di Simeone quello di Anna (2, 36-38). Egli la chiama profetessa, com’erano state altre donne nell’antico Israele. Ancora un settantennio più tardi Flavio Giuseppe presenterà se stesso come conoscitore di eventi futuri (Guerra giud., su, 351-353, 400 segg.), e a Roma Svetonio lo prenderà sul serio e gli darà ragione (Vespasian., 5): ma Giuseppe era tutt’altro che il “profeta”, “uomo di Dio” il quale viveva e moriva per la sua fede. La profetessa Anna invece era veramente donna di Dio: rimasta vedova dopo sette anni di matrimonio, aveva passato la sua vita negli atrii del Tempio fra digiuni e preghiere, raggiungendo l’età di 84 anni. Anch’ella, sopravvenuta in quella stessa ora, rendeva a sua volta lode a Dio, e parlava di lui (del bambino Gesù) a tutti quei che aspettavano la liberazione di Gerusalemme (2, 38). Di questi aspettanti Luca ha presentato i soli Simeone ed Anna; ma appresso a quei due dovevano stare molti altri, e verso ognuno di loro si sarebbe potuto esclamare: Guarda! Uno davvero Israelita, in cui non e’ inganno! (Giovanni, 1, 47): tutta gente ignota agli alti ceti sacerdotali, aliena da beghe politiche, ignara di sottigliezze casuistiche, ma che aveva concentrato la sua esistenza in una ansiosissima attesa, quella del Messia promesso da secoli ad Israele. Tuttavia in quei giorni a Gerusalemme erano certamente piu’ numerosi coloro la cui ansiosissima attesa era di conoscere le decisioni dei sommi dottori Hillel e Shammai su una formidabile questione che allora si discuteva, quella di sapere se era lecito o no mangiare un uovo fatto dalla gallina durante il sacro riposo del sabbato (Besah, I, 1; Eddujjòth, iv, 1).
I Magi
§ 252. Attorno al neonato Messia, Luca finora ha condotto, oltre ai cortigiani celestiali, soltanto gente umile in funzione di cortigiani terreni, i pecorai della steppa e i due vecchi della città. Su tutti costoro tace Matteo; il quale invece gli conduce dappresso non solo personaggi insigni ma ciò che può sorprendere nel pio israelita fra i quattro evangelisti – personaggi precisamente non israeliti e appartenenti agli aborriti. Se questo nuovo episodio fosse stato narrato da Luca, si sarebbe detto ch’era stato introdotto per dimostrare avverato l’annunzio di Simeone riguardo alla rivelazione di genti; ma trattandosi di Matteo, non rimane che da richiamarsi alla realtà dei fatti selezionata diversamente dai diversi narratori. Essendo dunque nato Gesu’, ecco che magi da Oriente si presentarono a Gerusalemme dicendo: Dov’e’ il nato re dei Giudei? Vedemmo infatti La stella di lui nell’Oriente, e venimmo ad adorano. Allora, avendo udito (ciò), il re Erode si turbò, e tutta Gerusalemme con lui; e avendo adunato tutti i sommi sacerdoti e gli Scribi del popolo, ricercava da essi dove il Cristo debba nascere. E quelli gli dissero: in Beth-lehem della Giudea; così infatti e’ stato scritto per mezzo del profeta “ tu Beth-lehem, terra di Giuda, non sei in alcun modo la minima fra i duci di Giuda; da te infatti uscirà un duce il quale pascolerà il popolo mio Israele“(Matteo, 2, 1-6. GI’inaspettati stranieri, dunque, erano magi e venivano da Oriente; questi sono a loro riguardo i soli dati sicuri, ma anche vaghi. Il piu’ vago è oriente, che geograficamente designa tutte le legioni di là dal Giordano, ove procedendo verso levante s’incontra dapprima l’immenso deserto siro-arabico, quindi la Mesopotamia (Babilonia), e infine la Persia: e infatti nell’Antico Testamento tutte e tre queste vegioni sono designate oome Oriente, anche la lontanissima Persia (come appare da lsaia, 41, 2, ove si allude al persiano Cino il Grande). Ma precisamente in Persia, a preferenza delle altre due regioni piu’ prossime, ci conduce il termine magi che è originariamente persiano e strettamente legato alla persona e alla dottrina di Zarathushtra (Zoroastro). Di Zarathush tra i magi furono originariamente discepoli; ad essi aveva egli affidato la sua dottrina riformatrice delle popolazioni dell’Iran, ed essi ne furono poi i custodi e i trasmettitori. La loro classe appare molto potente fin nei tempi più antichi, già all’epoca dei Medi e ancor più a quella degli Achemenidi: era un “mago” quel Gaumata (il “falso Smerdi”) che usurpò il trono achemenide nel 522 av. Cr. durante la campagna di Cambise in Egitto; ma, anche dopo l’uccisione di Gaumata, i magi si mantennero sempre potenti nell’Impero persiano e nei regimi successivi, fin verso il secolo VIII dopo Cr. Nel campo culturale essi si saranno anche occupati del corso degli astri come tutte le persone colte a quei tempi e in quelle regioni, ma astrologi e fattucchieri certamente non erano: ché anzi, come discepoli di Zarathushtra e fedeli trasmettitori dell’Avesta, essi dovevano essere i naturali nemici delle dottrine astrologiche e mantiche dei Caldei, le quali sono recisamente condannate nell’Avesta.
§ 253. I Magi venuti a Gerusalemme avevano dunque visto una stella in Oriente, avevano compreso ch’era la stella del “re dei Giudei”, e perciò si erano messi in viaggio dall’Oriente per venire ad adorarlo. Riguardo alla stella abbiamo già espresso la nostra opinione secondo cui Matteo intende presentarla come un fatto miracoloso, da non potersi identificare con un fenomeno naturale (§ 174) poco appresso egli dirà che, usciti i Magi da Gerusalemme, la stella li precederà a guisa di fiaccola indicatrice della strada e si fermerà proprio sul posto dove stava il bambino ricercato (Matteo, 2, 9). Se del re Mitridate si narrava che alla sua nascita e all’inizio del suo regno era spuntata una cometa (Giustino, Hist., XXXVII, 2), e altrettanto si affermava di Augusto per l’inizio del suo impero (Servio, in Eneide, X, 272), nessuno però aveva mai detto che tali comete avessero indicato ad uomini un dato cammino passo passo, aspettandoli anche nelle soste, e poi rimovendosi, e infine fermandosi definitivamente sopra alla mèta. Stabilito pertanto questo carattere miracoloso, come si spiega che i Magi, veduta la stella, la riconoscono come quella del “re dei Giudei”? Che sapevano in precedenza essi, nella lontana Persia, di un re dei Giudei aspettato come salvatore in Palestina? Il riconoscimento della stella da parte dei Magi è, nella narrazione di Matteo, strettamente legato col carattere della stella: la miracolosa stella miracolosamente si fa riconoscere da essi come segno del neonato. Ma riguardo alle predisposizioni culturali dei Magi, e alla loro possibile conoscenza dell’aspettativa messianica dei Giudei, siamo oggi informati da recenti studi meglio che per l’addietro, e possiamo affermare che in Persia si aspettava per tradizione interna una specie di salvatore e inoltre si sapeva che una analoga aspettativa esisteva in Palestina. Trattiamo di ciò in nota come di questione troppo lunga per discutersi qui, ma troppo importante per esser tralasciata. Matteo non dice quanti fossero i Magi venuti; la tradizione popolare tardiva li credette più o meno numerosi, da un minimo di due a un massimo di una dozzina, ma con preferenza del numero tre suggerito certamente dai tre doni ch’essi offrirono: di questi tre, già da prima del secolo IX, si seppero anche i nomi, Gaspare, Melchiore e Baldassare.
§ 254. Erano proprio stranieri quei Magi e non sapevano proprio nulla delle condizioni politiche di Gerusalemme, giacché appena entrati si dànno a domandare: Dov’e’ il nato re dei Giudei? Di re dei Giudei non c’era altri che Erode; bastava del resto conoscere un pochino il carattere di costui (§ 9 segg.) per star sicuri che un suo eventuale competitore, appena si fosse mostrato, avrebbe avuto i giorni e anche le ore contate. Perciò, nell’interesse stesso del bambino ricercato, quella domanda era pericolosa nella sua ingenuità. I primi cittadini interpellati rimasero stupiti, e anche un po’ turbati, perché una domanda di quel genere fatta da quegli ignoti personaggi induceva a subodorare tenebrose congiure, le quali si sarebbero portate appresso i soliti sconvolgimenti civili e le stragi di gente sospetta. Passando di bocca in bocca la domanda pervenne a gente della corte, e quindi anche ad Erode. Il vecchio monarca, che per sospetti di congiure aveva già ammazzato due figli e stava per ammazzarne un terzo, non poté non turbarsene; ma capì subito che, se una minaccia c’era, era ben diversa dalle altre. La sua polizia segreta, egregiamente organizzata, lo teneva informato dei minimi fatti che accadevano in città, e in quei giorni non era stato riferito assolutamente nulla d’inquietante; d’altra parte dalla lontana Persia non si dirigevano facilmente le fila d’una congiura, nè si sarebbero inviate sul posto persone cosi inesperte e ingenue come quei Magi. No, qui doveva esserci sotto qualcosa d’altro genere, qualche ubbia religiosa, molto probabilmente la fisima di quel Re-Messia che i suoi sudditi aspettavano ma che egli non aspettava affatto. Ad ogni modo era bene premunirsi, dapprima informandosi chiaramente in proposito, eppoi giocando d’astuzia. Trattandosi di beghe religiose, Erode consultò non l’intero Sinedrio (§ 58) ma quei suoi due gruppi ch’erano più versati in simili faccende, cioè i sommi sacerdoti e gli Scribi del popolo (§§ 41, 50), e propose loro il quesito astratto e generico dove il Cristo (Messia) debba nascere. Egli cioè voleva sapere quale sarebbe stato, secondo le tradizioni giudaiche, il luogo di nascita dell’aspettato Messia: saputo ciò, avrebbe provveduto egli a servirsi di quei semplicioni di Magi per fare i suoi propri conti col neonato re dei Giudei. I consultati risposero che il Messia doveva nascere a Beth-lehem, e citarono a prova il passo di Michea, 5, 1-2, che nel testo ebraico dice: E tu Beth-lehem Efrata, piccola pur essendo nelle ripartizioni di Giuda, da te per me uscirà (colui che) sarà dominatore tn Israele, le cui uscite (origini) dall’antichità, dai giorni eterni. Perciò (Dio) li consegnerà (in potere dei nemici), fino al tempo in cui la partoriente partorirà. Si noterà che questo passo non è riprodotto nè integralmente nè con queste precise parole dalla risposta dei dottori consultati, qual è riferita da Matteo (§ 252); ad ogni modo c’è l’essenziale, cioè la designazione di Beth-lehem come luogo d’origine del Messia, e in tal senso si esprime anche il Targum allo stesso passo. Questa designazione era dunque tradizionale nel giudaismo di quei tempi. Ottenuta questa risposta, Erode dovette rimanere perplesso. Beth-lehem era un paesucolo qualunque, in cui la sua polizia segreta non gli segnalava assolutamente nulla di sospetto; tuttavia quel complesso di stella, di sconosciuti Magi, e specialmente quell’appellativo di re dei Giudei, mentre da una parte stuzzicavano la sua curiosità, dall’altra disturbavano alquanto la sua tranquillità. Per soddisfare dunque alla prima e provvedere alla seconda, non rimaneva che servirsi degli stessi Magi, in maniera tale da non destare i sospetti nè di loro né di altri.
§ 255. Questo piano fu attuato. Erode fece chiamare i Magi di nascosto (Matteo, 2, 7), perché non voleva nè apparire troppo credulo dando importanza a gente forse squilibrata, nè rinunciare alle sue misure di precauzione. Interrogatili quindi accuratamente sul tempo e modo dell’apparizione della stella, li lasciò andare a Beth-lehem: cercassero bene il neonato, e appena trovatolo ne informassero lui, perché sarebbe venuto anch’egli laggiu’ ad adorarlo. Mandare appresso a quei buffi orientali un manipolo di soldati con qualche ordine segreto sarebbe stato un provvedimento più sicuro, dispensando il vecchio monarca dall’aspettare la notizia che il bambino era stato trovato: ma lo avrebbe anche esposto alle beffe dei suoi sudditi, giacché in tutta Gerusalemme non si faceva che parlare di quella strana comitiva, pur prevedendosi con certezza che tutto sarebbe finito in una scena da ridere e che quegli orientali sarebbero risultati sognatori esaltati. Ad ogni modo essi, com’erano passati allora per Gerusalemme, così dovevano ripassarci al loro ritorno, e quindi Erode li avrebbe avuti sempre a sua disposizione. I Magi, dopo l’udienza reale, partirono. Ed ecco la stella, che videro nell’Oriente, li precedeva finché venendo stette sopra dov’era il bambino. Ora vedendo la stella, godettero di gaudio assai grande. E venuti nella casa, videro il bambino con Maria la sua madre, e caduti l’adorarono: e aperti i loro forzieri, gli presentarono doni, oro, incenso e mirra. E ricevuta rivelazione per sogno di non ritornare da Erode, per altra strada si ricondussero alla loro regione (Matteo, 2, 9-12). La narrazione è ristretta alle sole linee principali e astrae da tempo e da luogo. Se ne raccoglie tuttavia che i Magi passarono almeno una notte a Beth-lehem, giacché vi ricevettero rivelazione per sogno, e non è escluso che vi rimanessero anche più d’un solo giorno; Si raccoglie pure che la famiglia di Giuseppe, abbandonata la grotta, si era ricoverata in una casa (§ 249). Avviandosi per rendere omaggio a un “re”, i Magi avevano preparato donativi come esigeva l’etichetta orientale. La reggia di Erode in Gerusalemme splendeva d’oro, e lungo i suoi ambulacri i bruciaprofumi esalavano vapori d’incenso e di resine odorifere. Altrettanto avveniva in quel suo suntuoso Herodium ove il suo fiero costruttore sarebbe stato sepolto fra pochi mesi e che si elevava a poca distanza da Beth-lehem (§ 12); forse più d’una volta i pastori di là, aggirandosi alle falde della sua collinetta, ne avevano intravisto i riflessi aurei delle sale ed erano stati raggiunti dalle folate di profumo che ne uscivano. Conforme al cerimoniale delle grandi corti i Magi offrirono oro, incenso e quella resina profumata che tutti i Semiti chiamavano mor, da cui il nostro nome di mirra. Erode stesso largheggiava in donativi con altri monarchi, specialmente se più potenti di lui: ad esempio, proprio in quei giorni, egli nel suo testamento lasciava ad Augusto un legato di ben 1000 o anche 1500 talenti (Guerra giud., I, 646:11, 10; cfr. Antichità giud., XVII, 323), somma altissima anche per quei tempi, che però fu rifiutata signorilmente da Augusto. I Magi certamente non poterono essere munifici quanto Erode, ma in compenso ebbero la gioia di vedere accettati i loro doni e inoltre d’accorgersi ch’erano opportunissimi: se tutti e tre i doni riconoscevano la dignità regale del neonato, specialmente l’oro anivava come una provvidenza per restaurare le finanze di quella corte, la quale di suo non aveva né un tetto e forse neanche un mezzo siclo, dopo averne lasciati cinque interi al Tempio di Gerusalemme (§ 249). Compiuti gli omaggi, i viaggiatori dopo qualche tempo ripartirono alla volta del loro paese, ma non passarono per Gerusalemme e Getico, bensì forse per l’altra strada che toccando la fortezza erodiana di Masada costeggiava la spiaggia occidentale del Mar Morto. E di loro non si seppe più nulla.