Vita di Gesù 2

6.jpgI procuratori romani: Ponzio Pilato

§ 20. Quando l’etnarca Archelao fu deposto ed esiliato, Augusto annesse all’Impero i territori a lui sottoposti, cioè la Giudea, Samaria e Idumea: in tal modo egli appagò allora, che si era presentata l’oc­casione buona, il desiderio di quella delegazione di Giudei che dieci anni prima era venuta appositamente a Roma a chiedergli l’annes­sione della Palestina all’Impero (§ 13). Quando una regione passava sotto la diretta amministrazione di Roma, veniva eretta in provincia oppure veniva unita ad una delle province già esistenti. Nel 27 av. Cr. Augusto aveva spartito fra sé e il Senato le province: quelle di frontiera e meno sicure, presidiate da forti guarnigioni, le aveva tenute per sé; mentre quelle interne, tranquille e debolmente presidiate, le aveva lasciate al Senato. Di qui la divisione in province senatorie ed imperiali. Le senatorie era­no governate, come in antico, da proconsoli (legati pro consule) eletti di solito annualmente; per quelle imperiali, invece, fungeva da proconsole comune a tutte Augusto stesso, il quale però le governava inviandovi i suoi legati Augusti pro praetore designati da lui. Il legatus di provincia apparteneva sempre all’ordine dei se­nàtori. Ma in alcune province che esigevano particolare delicatezza di governo (ad esempio l’Egitto) Augusto spediva, non un legatus, ma un praefectus: così’ pure in altre regioni annesse recentemente all’Impero, e che offrivano speciali difficoltà, era spedito un pro­curator il quale però apparteneva all’ordine dei cavalieri. Veramen­te la carica di procurator fu dapprima di natura finan­ziaria, ed esisteva anche nelle province senatorie; ma in pratica, specialmente dopo Augusto, il titolo di procurator sostitui’ quello di praefectus nelle regioni recentemente annesse (salvo che in Egitto). I territori lasciati da Archelao furono annessi alla sovrastante pro­vincia della Siria, la quale era imperiale e fra le più importanti a causa della sua posizione geografica. Tuttavia non fu una annessione piena e totale, ma piuttosto una subordinazione di poteri; nei nuo­vi territori, cioè, fu inviato un procurator dell’ordine dei cavalieri, che doveva esserne il governatore diretto e ordinario; egli tuttavia era invigilato nel suo ufficio dal legatus della provincia di Siria, il quale aveva pure facoltà nei casi più gravi d’intervenire nei terriori del procurator. La notoria difficoltà di governare i Giudei aveva indotto il prudente Augusto a questa subordinazione di poteri, in maniera che la giurisdizione ordinaria del procuratore fosse coadiu­vata ed eventualmente rettificata dalla giurisdizione superiore del vicino legato.

§ 21. Il procuratore romano della Giudea risiedeva abitualmente a Cesarea marittima, la città recentemente Costruita con suntuosità da Erode il Grande, l’unica fornita di porto e giustamente chiamata da Tacito “capitale della Giudea” sotto l’aspetto politico; tuttavia spesso il procuratore si trasferiva a Gerusalemme, capitale religiosa e nazionale, specialmente in occasione di feste (ad es. la Pasqua), trovandosi ivi in miglior centro di vigilanza. Tanto a Ce­sarea quanto a Gerusalemme, i due rispettivi palazzi di Erode servivano da praetorium, com’era chiamata la residenza del procuratore: ma in Gerusalemme egli si serviva per il disbrigo di affari anche della potentissima e comoda fortezza Antonia, che sovrastava al Tem­pio (§ 49). Nell’Antonia aveva anche il proprio quartiere la guar­nigione militare di Gerusalemme. Quale comandante militare della regione, il procuratore aveva alle sue dipendenze non legioni romane, ch’erano composte di cives romani e stazionavano nella provincia della Siria, bensi’ truppe au­siliarie reclutate di solito fra Samaritani, Siri e Greci, godendo i Giudei dell’antico privilegio di esenzione dal servizio miltare. Que­ste truppe erano di solito divise in “coorti” per la fanteria3 e in “ali” per la cavalleria. Le truppe della Giudea, a quanto sembra, erano costituite da cinque “coorti” e da una “ala”, raggiungendo complessivamente la forza di poco più di tremila uomini: una coorte era di stanza permanente a Gerusalemme. Quale capo amministrativo, il procuratore presiedeva alla esazione delle imposte e gabelle varie. Le imposte, di natura o fondiaria o personale o di reddito, erano dovute dalla regione in quanto tribu­taria di Augusto e perciò finivano nel fiscus o cassa imperiale (men­tre le imposte delle province senatorie finivano nell’aerarium o cassa del Senato): nel riscuotere queste imposte il procuratore si serviva di agenti statali, coadiuvati tuttavia dalle autorità locali. Le gabelle poi comprendevano diritti diversi, quali dazi, pedaggi, affitti di luo­ghi pubblici, mercati e altri; la loro riscossione, come nel resto dell’Impero, era data in appalto a ricchi imprenditori i pubbcani che pagavano al procuratore una certa somma, di cui si rifacevano con la riscossione di una determinata partita di ga­belle: gli impiegati dipendenti da questi appaltatori generali erano gli exactores o portitores. E’ superfluo dire quanto fossero odiati dal popolo tutti costoro, sia publicani sia exactores, e quanti soprusi ed estonsioni avvenissero, specialmente se gli appaltatori subaffittavano il loro appalto come spesso accadeva: tutto il peso di questo complicato bagarinaggio finiva col gravare sul contribuente.

§ 22. Quale amministratore della giustizia il procuratore aveva il suo tribunale, in cui esercitava il ius gladii con potestà di pronunziare sentenze capitali; chi godeva della cittadinanza romana poteva ap­pellare dal suo tribunale a quello dell’imperatore a Roma, mentre per gli altri non esisteva appello. Ma per i casi ordinari continua­rono ad esistere e a funzionare liberamente in Giudea i tribunali lò­cali della nazione, e in primo luogo quello del Sinedrio a Gerusa­lemme (§ 57 segg.): esso aveva conservato anche autorità legislativa, sia in materia religiosa sia parzialmente in quella civile e tributaria, che si estendeva ai membri della nazione. Tuttavia al Sinedrio era stata tolta la potestà di pronunziare sentenze capitali (§ 59). In sostanza, sotto i procuratori, l’antico ordinamento nazionale del giudaismo era stato conservato. Il vero capo della nazione restava sempre il sommo sacerdote: in realtà la sua elezione e deposizione spettavano al procuratore e al legato di Siria, ma costoro procede­vano ad esse accordandosi con le più autorevoli famiglie sacerdotali, finché dall’anno 50 in poi rinunziarono anche a questi diritti ceden­doli ai principi della dinastia erodiana. A fianco al sommo sacerdote, dopo l’annessione all’Impero, stette il procuratore quale sorvegliante politico e rappresentante del fisco imperiale. Nel campo religioso le autorità romane, conforme alla loro antica tradizione, seguirono costantemente la norma del rispetto assoluto, non solo alle autorevoli istituzioni della nazione, ma spesso anche a pregiudizi e stravaganze; alcune volte, è vero, questa norma ebbe eccezioni più o meno gravi per colpa di singoli magistrati, ma presto queste imprudenze furono sconfessate con atti opposti. Si cercò an­che di associarsi in certi casi alle costumanze tradizionali, per mo­strare verso di esse non soltanto rispetto ma anche simpatia; ad esempio, giunsero più volte dalla famiglia imperiale di Roma offerte per il Tempio di Gerusalemme, e Augusto stesso volle che vi fossero sacrificati ogni giorno un bove e due agnelli per Cesare e per il popolo romano (cfr. Guerra giud., IT, 197) sostenendone la spesa – a quanto sembra – l’imperatore stesso (cfr. Filone, Lega. ad Caium, 23, 40).

§ 23. Molti furono i privilegi mantenuti o concessi da Roma alla nazione giudaica, anche sotto il regime dei procuratori. Per riguardo al riposo del sabbato i Giudei erano esenti dal servizio militare e non potevano essere citati in giudizio in quel giorno. Per riguardo alla norma giuridica che proibiva qualsiasi raffigurazione di esseri animati viventi, i soldati romani che entravano di presidio a Geru­salemme avevano ordine di non portare con sé i vessilli su cui era effigiato l’imperatore; per lo stesso motivo le monete romane co­niate in Giudea – le quali erano soltanto di bronzo – non avevano l’effigie dell’imperatore, ma solo il suo nome con simboli ammessi dal giudaismo: vi circolavano tuttavia anche monete d’oro e d’ar­gento che recavano la riprovata immagine, ma perché erano state coniate fuori della Giudea (§ 514). Tanto meno fu imposto nella Giudea il culto per la persona del­l’imperatore, che pure nelle altre province dell’Impero era un atto fondamentale d’ordinario governo: la sola eccezione a questo pri­vilegio fu tentata da Caligola nel 40, allorché lo squilibrato impera­tore si mise in testa di avere una propria statua eretta dentro il Tempio di Gerusalemme, ma il tentativo non riuscì per la fermezza. dei Giudei e per la prudenza di Petronio legato di Siria. In conclusione, la Giudea governata da procuratori romani non si trovò affatto in condizioni peggiori della Giudea governata da Erode il Grande o anche da taluni dei precedenti Asmonei. Naturalmen­te molto dipendeva dal senno e dalla rettitudine dei singoli procu­ratori: e qui in verità le deficienze furono numerose e gravi special­mente negli ultimi anni avanti alla guerra e alla catastrofe dell’anno 70, allorché a governare un popolo sempre più intollerante e far­neticante erano inviati procuratori sempre più venali e brutali.

§ 24. Dai primi procuratori della Giudea sappiamo poco o nulla che abbia diretta relazione con Gesù. Il primo fu Coponio che entrò in carica nell’anno 6 dopo Cr., cioè appena deposto Archelao; giunto sul luogo, egli insieme col legato di Siria, Sulpicio Quirinio, esegui’ il censimento (§ 183 segg.) della regione nuovamente annessa, giacché secondo i principii romani soltanto un regolare censimento delle persone e dei beni poteva fornire la base della futura amministra­zione nonostante gravi difficoltà, il censimento fu portato a termi­ne. Coponio rimase in carica tre anni (6-9), e altrettanto i suoi suc­cessori Marco Ambivio (o Ambibulo) (9-12) e Annio Rufo (12-15), che fu l’ultimo eletto da Augusto. Il primo eletto da Tiberio fu Valerio Grato (15-26). Costui da prin­cipio ebbe difficoltà a trovare un sommo sacerdote con cui andasse d’accordo, giacché depose subito quello trovato in carica, cioè Anano (Anna), e in quattro anni gli dette quattro successori, cioè Ismaele, Eleazaro, Simone e Giuseppe detto Qajapha (Caifa): con quest’ul­timo pare che andasse d’accordo. A Valerio Grato successe Ponzio Pilato nell’anno 26.

§ 25. Di Pilato parlano, oltre ai vangeli, anche Filone (Legat. ad Caium, 38) e Flavio Giuseppe, e da tutte e tre le fonti il minimo che risulti è che Pilato era uno scontroso e un ostinato; ma il re Erode Agrippa I, che ne sapeva parecchie cose per esperienza per­sonale, lo dipinge anche come venale, violento, rapinatore, anga­riatore e tirannico nel suo governo (in Filone, ivi). Forse queste ac­cuse addotte dal re giudeo sono esagerate; ad ogni modo è certo che Pilato, come procuratore, dette cattiva prova nell’interesse stes­so di Roma. Per i suoi governati egli ebbe un cordiale disprezzo, non fece nulla per guadagnarsene l’animo, cercando piuttosto ogni occasione per stuzzicarli ed offenderli, e non soltanto li odiava, ma sentiva anche un prepotente bisogno di mostrare loro questo suo odio. Se fosse dipeso da lui, li avrebbe mandati volentieri tutti a la­vorare negli ergastula e ad metalla; ma c’era di mezzo l’imperatore di Roma, e anche il legato di Siria che sorvegliava e riferiva all’im­peratore, e perciò il cavaliere Ponzio Pilato doveva frenarsi e im­porre dei limiti agli sfoghi del suo astio. Tuttavia anche questo ti­more servile ebbe il suo contrapposto; infatti già nel 19 dopo Cr. Tiberio, avendo scacciato i Giudei da Roma, sembrava essere en­trato in un periodo d’ostilità contro il giudaismo in genere, e pro­prio durante questo periodo Pilato era stato inviato a governare la Giudea: egli quindi, specialmente nei primi anni, poté stimare che la sua avversione contro i pnopri governati ricopiasse con opportuna cortigianeria gli esempi che venivano dall’Italia.

§ 26. Probabilmente fin dal principio del suo procuratorato, egli, accoppiando i due sentimenti di cortigianeria verso l’imperatore e di disprezzo verso i Giudei, dette ordine ai soldati che da Cesarea salivano a presidiare Gerusalemme di entrarvi portando con sé, per la prima volta, i vessilli con l’effigie dell’imperatore; tuttavia, astu­tamente, fece introdurre i vessilli di notte, per non suscitare resi­stenze e per metter la città davanti al fatto compiuto. Il giorno appresso, costernati da tanta profanazione, molti Giudei corsero a Cesarea e per cinque giorni e cinque notti di seguito rimasero a supplicare il procuratore di rimuovere i vessilli dalla città santa. Pilato non cedette; anzi al sesto giorno, seccato dall’insistenza, li fece circondare in pubblica udienza dalle sue truppe, minacciando di ucciderli se non tornavano subito alle loro case. Ma qui, quei ma­gnifici tradizionalisti, vinsero il cinico romano; quando si videro circondati dai soldati, essi si prostesero a terra, si denudarono il collo, e si dichiararono pronti a farsi scannare piuttosto che rinunciare ai propri principii. Pilato, che non si aspettava tanto, cedette e fece ri­muovere i vessilli. Più tardi ci fu la questione dell’acquedotto. Per portar acqua a Ge­rusalemme, che ne aveva molto bisogno anche per i servizi del Tem­pio, Pilato decise la costruzione di un acquedotto che convogliasse le acque delle ampie riserve situate a sud-est di Beth-lehem (le cosiddette “vasche di Salomone” odierne), e a pagare tale lavoro destinò alcuni fondi del tesoro del Tempio. Questo impiego del de­naro sacro provocò dimostrazioni e tumulti da parte dei Giudei. Pilato allora fece sparpagliare fra i tumultuanti molti suoi soldati tra­vestiti da Giudei; al momento stabilito i travestiti estrassero i ran­delli che tenevano nascosti e si dettero a malmenare la folla, la­sciando sul terreno parecchi morti e feriti. In seguito il litigioso procuratore ripeté un tentativo analogo a quello dei vessilli militari, facendo appendere al palazzo di Erode in Geru­salemme certi scudi dorati recanti il nome dell’imperatore. Si è pen­sato che questo nuovo tentativo – di cui abbiamo notizia solo da Filone – possa essere uno sdoppiamento del precedente fatto dei vessilli: ma il dubbio non sembra fondato, sia per il carattere punti­glioso di Pilato, sia perché questo nuovo tentativo dovette avvenire molto più tardi dell’altro. Questa volta una delegazione inviata a Pilato, di cui facevano parte anche quattro figli di Erode il Grande, non ottenne la desiderata rimozione degli scudi; allora i Giudei si rivolsero a Tiberio stesso, e l’imperatore spedi l’ordine di trasportare i contrastati scudi nel tempio d’Augusto a Cesarea. Questa arrendevolezza di Tiberio induce a credere che il fatto sia accaduto dopo la morte di Seiano (31 dopo Cr.), ch’era stato onnipotente ministro di Tiberio e gran nemico dei Giudei. Del tutto occasionale è la notizia di fonte evangelica (Luca, 13, 1) secondo cui Pilato fece uccidere certi Galilei – che perciò erano sud­diti di Erode Antipa – mentre offrivano sacrifizi nel Tempio di Ge­rusalemme; ma non abbiamo particolari su questo fatto Possiamo invece sospettare che l’ostilità fra Pilato e Antipa, attestata dalla fonte evangelica (Luca, 23, 12), avesse come parziale motivo questa strage di sudditi di Antipa; ma un altro motivo fu, probabilmente, la parte di spia che Antipa faceva presso Tiberio a carico dei ma­gistrati romani (§ 15).

§ 27. Alla fine Pilato fù vittima del suo modo di governare. Nel 35 un falso profeta, che aveva acquistato gran nome in Samaria, promise ai suoi seguaci di mostrare gli arredi sacri dei tempi di Mosè che si credevano nascosti nel monte Garizim, vicino a Samaria. Ma, il giorno fissato, Pilato fece occupare dai soldati la sommità del mon­te: egli infatti voleva impedire l’assembramento, non tanto perché desse importanza alla vana promessa del falso profeta, quanto per­ché sapeva che i Samaritani erano stanchi delle oppressioni del procuratore e sospettava in essi propositi di rivolta. Formatosi ugual­mente un numeroso assembramento, i soldati lo assalirono: molti Samaritani rimasero uccisi, molti furono fatti prigionieri, e i più insigni di costoro furono poi messi a morte da Pilato. Di questa ir­ragionevole strage la comunità dei Samaritani presentò formale ac­cusa contro Pilato presso Vitellio, ch’era legato di Siria e munito di pieni poteri in Oriente; l’accusa fu accolta con premura, perché i Samaritani erano noti per la loro fedeltà a Roma, e Vitellio senz’al­tro destituì Pilato e l’inviò a Roma a rispondere del suo operato davanti all’imperatore. Era lo scorcio dell’anno 36. Quando Pilato giunse a Roma, trovò che Tiberio era morto (16 mar­zo del 37). In che maniera finisse il condannatore di Gesù, non è noto alla vera storia: è invece noto alla leggenda, che gli attribui mirabili avventure in questo e nell’altro mondo, e lo destinò tal­volta al fondo dell’inferno e talvolta invece al paradiso come vero santo.

Sadducei, Farisei, Scribi e altri gruppi giudaici

§ 28. Ai tempi di Gesù i Saduducei e i Farisei formavano, dentro il popolo giudaico, i suoi due principali raggruppamenti. I quali però non erano delle “sette” nel senso rigoroso della parola, perché non erano staccati dalla compagine morale della nazione; neppure erano confraternite religiose come gli Esseni (§ 44), quantunque i loro prin­cipii fondamentali fossero religiosi; e nemmeno mostravano quale prima nota caratteristica un dato atteggiamento politico come gli Erodiani (§ 45), sebbene avessero grande importanza anche nel cam­po politico e sociale. Erano invece due correnti o tendenze che par­tivano ambedue da principii solenni nella nazione giudaica, pur es­sendo fra loro in assoluto contrasto. Esaminandole contemporaneamente, il loro stesso contrasto giova a definirle con precisione. Si crede di solito che i Farisei rappresentassero la corrente conser­vatrice, e i Sadducei quella liberale e innovatrice: ciò potrà esser vero nel campo pratico, ma in quello giuridico-religioso la designa­zione dovrebb’essere inversa, perché i Sadducei dal loro punto di vi­sta si presentavano quali conservatori del vero patrimonio morale dei giudaismo, e respingevano come innovazioni le dottrine particolari ai Farisei. Le due correnti, infatti, sorsero dal diverso atteggiamento che i vari ceti della nazione presero di fronte all’ellenismo, quando questo venne in urto col giudaismo, cioè dall’epoca dei Maccabei (16 av. Cr.) in poi.

§ 29. L’insurrezione dei Maccabei, diretta contro la politica elleniz­zatrice dei monarchi Seleucidi, fu sostenuta specialmente da quei po­polani di basso ceto, cordialmente avversi a istituzioni straniere, che si chiamarono gli Asidei “pii”; al contrario, in seno alla nazione stessa, si mostrarono favorevoli all’ellenismo parec­chi altri Giudei ch’erano rimasti abbarbagliati dallo splendore di quel­la civiltà straniera, ed appartenevano specialmente a classi sacerdotali e facoltose. Rimasta però vincitrice l’insurrezione nazionale-religiosa, gli aristocratici fautori dell’ellenismo entro la nazione giudaica scom­parvero o tacquero. Tuttavia poco dopo, stabilitasi la dinastia nazio­nale degli Asmonei discendenti dai Maccabei, le due correnti ricomparvero apertamente, sebbene con provenienza alquanto mutata; avvenne, cioè, che proprio quei sovrani Asmonei che dovevano il loro trono ai popolani Asidei, si mettessero in contrasto con questi, e si appoggiassero invece sulle classi sacerdotali ed aristocratiche. La ragione del mutamento è chiara. L’ellenismo premeva dall’esterno cosi gravemente sullo Stato giudaico ricostituito, che i governanti Asmonei non potevano praticamente evitare ogni relazione politica con esso, né impedire numerose infiltrazioni di quella civiltà pagana nei loro territori; senonché quelle relazioni e infiltrazioni parvero sconfitte politiche e soprattutto apostasie religiose agli Asidei, che perciò si alienarono man mano dai già favoriti Asmonei e divennero ad essi ostili. Passando all’opposizione, essi si chiamarono i “Separati”: in ebrai­co Peruhzm, in aramaico Perishajja, donde Farisei. I loro avversari, in maggioranza di stirpe sacerdotale, si chiamarono Sadducei, dal nome di Sadoq antico capostipite d’un insigne casato sacerdotale.

§ 30. Ma da chi, o da che cosa, i Farisei si consideravano “sepa­rati”? Il criterio della loro separazione era soprattutto nazionale-religioso, e solo conseguentemente civile e politico: essi si tenevano separati da tutto ciò che non era giudaico e che per tal ragione era anche irreligioso ed impuro, giacché giudaismo, religione e purità legale erano concetti che praticamente non si potevano staccare l’uno dall’altro. Ma qui sorgeva il contrasto, anche dottrinale, con i Sadducei: qual era la vera norma fondamentale del giudaismo? quale il supremo e inappellabile statuto che doveva governare la nazione eletta? A questa domanda i Sadducei rispondevano che era la Torah, cioè la “Legge” per eccellenza, la “Legge scritta” consegnata da Mosè alla nazione come statuto fondamentale e unico. I Farisei invece rispondevano che la Torah, la “Legge scritta”, era soltanto una parte, e neppure la principale, dello statuto nazionale-religioso: in­sieme con essa, e più ampia di essa, esisteva la “Legge orale”, co­stituita dagl’innumerevoli precetti della “tradizione”. Questa Legge orale era costituita da un materiale immenso: essa comprendeva, oltre ad elementi narrativi e di altro genere, anche tutto un elaborato sistema di precetti pratici, che si estendeva alle più svariate azioni della vita civile e religiosa, e andava perciò dalle complicate norme per i sacrifizi del culto fino alla lavanda delle stoviglie prima dei pasti, dalla minuziosa procedura dei pubblici tribunali fino a decidere se era lecito o no mangiare un frutto caduto spontaneamente dall’albero durante il riposo del sab­bato. Tutta questa congerie di credenze e di costumanze tradizio­nali non aveva quasi mai un vero collegamento con la Torah scritta; ma i Farisei scoprivano spesso siffatto collegamento sottoponendo a un’esegesi arbitraria il testo della Torah: e anche quando non ri­correvano a tale metodo, si richiamavano al loro principio fondamentale che Dio aveva dato a Mosè sul Sinai la Torah scritta con­tenente solo 613 precetti, e inoltre la Legge orale molto più ampia ma non meno obbligatoria.

§ 31. Anzi, anche più obbligatoria. Troviamo infatti che con l’an­dar del tempo, man mano che i dottori della Legge o Scribi ela­boravano sistematicamente l’immenso materiale della tradizione, que­sto veniva ad assumere un’importanza pratica, se non teoretica, mag­giore della Torah scritta. Nel Talmud, che è in sostanza la tradizione codificata, sono contenute sentenze corne queste: Maggior forza hanno le parole degli Scribi che le parole della Torah; perciò anche è peggior cosa andar contro alle parole degli Scribi che alle parole della Torah (Sanhedrin, XI, 3); infatti le parole della Torah conten­gono cose proibite e cose permesse; precetti leggieri e precetti gravi: ma le parole degli Scribi sono tutte gravi (Berakoth pai., i, 3 b). E’ chiaro che, stabilito questo principio fondamentale, i Farisei erano in regola, e potevano legiferare quanto volevano estraendo ogni de­cisione dalla loro Legge orale. Ma appunto questo principio era re­spinto dai Sadducei, i quali non riconoscevano altro che la Legge scritta, la Torah, non accettando punto la Legge orale e la “tradi­zione” dei Farisei. Codeste cose – dicevano i Sadducei – erano tutte innovazioni, tutte deformazioni dell’antico e semplice spirito ebrai­co; essi, i Sadducei, erano i fedeli custodi di quello spirito, i veri “conservatori”, e perciò si opponevano agli arbitrari e interessati sofismi messi fuori da quei modernisti di Farisei. La risposta dei Sadducei era abile senza dubbio; tanto più che con quella parvenza di conservatorismo si evitavano legalmente i carichi pesanti (Matteo, 23, 4) imposti dai Farisei, e si lasciava una porta aperta per intendersi con l’ellenismo e la civiltà greco-romana. Perciò i Sadducei si appoggiarono sui ceti della nobiltà e di governo, che necessariamente dovevano mantenere relazioni con la civiltà straniera; i Farisei al contrario si appoggiarono sulla plebe, avversa a tutto ciò ch’era forestiero ed invece attaccatissima a quelle costu­manze tradizionali da cui i Farisei estraevano la loro Legge orale. Di qui anche il paradosso per cui i Sadducei erano giuridicamente conservatori ma praticamente lassisti; i Farisei invece apparivano come innovatori riguardo alla Torah scritta, mentre la loro inno­vazione voleva essere una salvaguardia e una protezione dell’an­tico.

§ 32. Le due correnti di Farisei e di Sadducei compaiono per la prima volta, già ben definite e in contrasto, al tempo del primo degli Asmonei, Giovanni Ircano (134-104 av. Cr.), ch’era anche figlio di Simone ultimo dei Maccabei: benché tale, egli era già in aperta ostilità con i Farisei. L’ostilità divenne furibonda sotto Alessandro Janneo (103-76 av. Cr.), e fra monarca e Farisei si ebbe una guerra di sei anni che fece cinquantamila vittime (Antichità giud., XIII, 376). Al contrario sotto il regno di Alessandra Salome (76-67 av. Cr.) i Farisei ebbero il loro periodo d’oro, poiché la regina lasciò fare ogni cosa ai Farisei, e comandò che anche il popolo obbedisse a loro…; ella quindi aveva il nome di regina, ma i Farisei avevano il potere (ivi, 408). Seguirono, naturalmente, le intemperanze della vittoria: gli sconfitti Sadducei, che avevano avuto fino allora la maggioranza nel consiglio del gran Sinedrio, vi rimasero per allora in minoranza esigua; gli antichi avversari dei Farisei o furono messi a morte o presero la via dell’esilio; si arrivò al punto che l’intero paese stava quieto, fatta eccezione dei Farisei (ivi, 410). Appunto da questo tem­po in poi il giudaismo fu sempre improntato dalle dottrine fari­saiche. Una certa reazione da parte dei Sadducei si ebbe sotto Aristobulo Il, per cui essi parteggiavano, mentre per il suo rivale fratello Ircano Il parteggiavano i Farisei: ma in seguito la massa del popolo divenne dominio quasi assoluto dei Farisei, i quali contavano taluni se­guaci anche fra i bassi ceti sacerdotali; cosicché, negli ultimi tempi prima del 70, i Sadducei restrinsero la loro autorità al Tempio ed alle grandi famiglie sacerdotali o facoltose accentrate attorno ad esso.

§ 33. Con la catastrofe dell’anno 70 i Sadducei scomparvero dalla storia, e naturalmente il giudaismo posteriore, dominato totalmente dai Farisei, conservò un pessimo ricordo dei Sadducei. Ecco come, sul finire del secolo I dopo Cr., si giudicavano i grandi casati sa­cerdotali che negli ultimi tempi prima della catastrofe erano stati più famosi: Guai a me dal casato di Boeto, guai a me dal loro scudiscio! Guai a me dal casato di Cantharos, guai a me dal loro calamo! Guai a me dal casato di Anna, guai a me dal loro sibilo! Guai a me dal casato d’Jsmael pglio di Fiabi, guai a me dal loro pugno! Sommi sacerdoti sono essi, tesorieri i loro figli; magistrati del Tempio i loro suoceri, i loro servi vengono con mazze a randellarci! E questo documento (Tosefta Menahoth, XIII, 21; non è solitario nei testi rabbinici: inoltre violenze e rapine compiute dall’alto sacerdozio a danno del clero inferiore sono ricordate anche da Flavio Giuseppe (Antichità giud., XX, 179-181).

§ 34. Quanto alle dottrine delle due correnti, ecco come si esprime il loro più antico storico, Flavio Giuseppe: (I Farisei) hanno fama d’interpretare con accuratezza le leggi e dirigono la setta principale; attribuiscono ogni cosa al Destino e a Dio, (ri­tenendo che) l’operare giustamente o no dipende in massima parte dall’uomo, ma il Destino coopera in ciascuna (azione); ogni anima e incorruttibile, ma soltanto quelle dei malvagi sono punite con un castigo eterno. I Sadducei invece, che sono il secondo gruppo, sopprimono assolutamente il Destino, e pongono Dio fuori (della possibilità) di fare alcunché di male o (anche solo) di scorgerlo; essi dicono che e’ in potere dell’uomo la scelta del bene e del male, e che secondo la decisione di ciascuno avviene la sopravvivenza dell’anima, come pure la punizione e i premi giu’ nell’Ade. I Farisei sono affezionati fra loro, e promuovono il buon accordo con la co­munità; i Sadducei invece sono piuttosto rudi per abitudine anche tra loro, e nelle relazioni con i (loro) simili sono scortesi come con gli stranieri. Si vedono chiaramente, in questi due sistemi di dottrine, le conseguenze del criterio principale che divideva i Sadducei dai Farisei. I primi accettavano la sola Legge scritta: e poiché in essa non tro­vavano chiaramente formulata una dottrina sulla resurrezione o sull’oltretomba, negavano questi punti; secondo Atti, 23, 8, essi non ammettevano neanche l’esistenza degli angeli e degli spiriti. Quanto al Destino che i Sadducei negavano secondo Flavio Giuseppe, è da vedersi piuttosto la Provvidenza o la Grazia divina. In sostanza, i Sadducei filosoficamente si rassomigliavano agli Epi­curei e teologicamente ai Pelagiani. Nel campo pratico la rudezza, attribuita loro dallo storico, doveva essere effetto della loro arro­ganza aristocratica; ma ci si dice pure che essi, nei giudizi forensi, erano rigorosissimi a differenza dei Farisei che inclinavano alla mitezza.

§ 35. I Farisei estraevano dalla “tradizione” le dottrine respinte dai Sadducei; e poiché lo studio della Legge, specialmente di quella orale, era il dovere più stretto e l’occupazione più nobile per ogni Giudeo, essi si dedicavano totalmente a questo studio. Fu detto, fra l’altro, che è maggiore lo studio della Torah che la costruzione del Tempio, anzi che è maggiore della venerazione per il padre e per la madre (ivi), e che l’uomo non deve ritrarsi dalla casa di studio (della Legge) e allontanarsi dalle parole della Torah neppure all’ora della morte; inoltre la To­rah e’ maggiore del sacerdozio e della regalità, perché la regalità esige 30 requisiti, il sacerdozio 24, mentre la Torah si acquista con 48, e segue l’enumerazione dei 48 requisiti. Né è da credere che queste norme rimanessero lettera morta per­ché moltissimi sono gli esempi di Farisei che consacrarono tutta la loro vita allo studio della Legge trascurando ogni altra occupazione, salvo forse l’esercizio di un mestiere manuale per poche ore al gior­no, tanto per procurarsi da vivere. Cotesti studiosi della Legge erano consci della loro grandezza: la Legge infatti era l’armamentario da cui doveva estrarsi ogni norma per la vita pubblica e privata, religiosa e civile; quindi essi, custodi di quell’armamentario, erano dappiù del sacerdozio e della regalità. In una nazione ove la massa del popolo accettava pienamente l’idea teocratica, siffatto ragiona­mento era perfetto; e perciò i Farisei sentivano che la loro forza poggiava, non sulle classi aristocratiche o dell’alto sacerdozio o della corte, bensì’ sulla massa del popolo.

§ 36. Lo studio farisaico della Legge verteva su tre argomenti prin­cipali, che erano il riposo del sabbato (§ 70), il pagamento delle decime e la purità rituale (§ 72): ma, oltre a questi, moltissimi altri argomenti formavano oggetto di lunghe investigazioni. Il metodo di studio si basava in primo luogo sulla conoscenza delle sentenze già emanate dalla tradizione, e secondariamente sull’applicazione estensiva e sull’ulteriore sviluppo di esse. Il contenuto del Talmud, che fissò in iscritto ciò che per secoli avevano trasmesso a memona i dottori della Legge, non è in massima parte che una raccolta di tali sentenze (§ 87). Era evidente, in siffatto metodo, il pericolo del formalismo e della casistica, infarciti di sottigliezze ma privi di spirito; e nel pericolo si cadde in massima parte. Chi si trasferisca nell’ambiente storico d’allora, non rimarrà tanto meravigliato di trovare un trattato del Talmud intitolato dai Nidi degli uccelli, e un altro dai Vasi, e un altro dai Picciuoli delle frutta, e altri ancora da argomenti meno decorosi e puliti (§ 72); si domanderà piuttosto su quale impalca­tura spirituale poggiava tutto questo immenso scenario giuridico che sembrerebbe campato in aria. L’impalcatura, in realtà, esisteva: era costituita dal sedimento che nell’animo della nazione aveva depositato la predicazione degli an­tichi profeti, tutta di altissima moralità e di intima religiosità, la quale nei secoli passati era risonata fra il popolo ed anche allora era riecheggiata dalle Scritture sacre lette nelle sinagoghe. Ma trop­po poco si badava allora al valore spirituale di quella predicazione, e invece troppi gingillamenti si facevano attorno alla materialità della sua applicazione. Il profluvio dell’ispirazione divina finiva nel­la morta gora della casistica umana: alla sorgente d’acque vive si preferivano cisterne screpolate che non serbano acqua, come già aveva detto Geremia (2, 13), il quale però aveva anche gridato il rimprovero (8, 8): Come potete dire: “Sapienti noi siamo, e la Torah di Jahve’ con noi? Ecco, invero, a menzogna l’ha ridotta lo stilo menzognero degli scribi!

§ 37. Sarebbe falso ed ingiusto dire che tutta l’elaborazione della Legge compiuta dai Farisei fosse menzogna: ma moltissimo ciar­pame era certamente. In un mare di futilità e di pedanterie erano contenute vere perle preziose, che rappresentavano l’eredità dello spirituale insegnamento profetico: ma troppa sproporzione correva tra l’ampiezza del mare e la scarsità delle perle, tra lo smisurato scenario giuridico e l’esigua impalcatura spirituale, cosicché l’utile restava affogato fra tanto disutile. Ad esempio, sentenza senza dub bio sublime è quella attribuita al celebre Hillel, anteriore a Gesù di pochi anni, il quale ad un pagano, che gli aveva chiesto d’insegnargli tutta la Legge nel breve tempo che fosse riuscito a reggersi su un piede solo, rispose: Ciò che non desideri per te, non fare al prossimo tuo. Questa e’ tutta la Legge; il Testo e’ solo commento. Va’ e impara (Shabbath, 31 a). Ma sta di fatto che il commento, qui collocato giustamente in seconda linea, in pratica passava in prima linea, e faceva dimenticare la Legge stessa. Peggio ancora: talvolta il commento contraddiceva alla Legge. E’ noto che Gesù in un determinato caso rimproverò ai Farisei: Trasgredite il precetto d’iddio per la tradizione vostra (Matteo, 15, 3, 6; Marco, 7, 9 estendendosi poi dal caso singolo all’abitudine generale, aggiunse: E cose simili di tal genere fate molte (Marco, 7, 13). Le prove di queste trasgressioni si tro­verebbero facilmente negli antichi scritti rabbinici; ma è importan­te rilevare come, appunto riguardo allo studio della Legge, fu sen­tenziato: Un pagano che si occupa dello studio della Torah e’ degno di morte, ciò che non era né nella lettera né nel­lo spirito della Legge, ma solo nella gelosia nazionalistica dei Farisei considerata come elemento di “tradizione”.

§ 38. Anche riguardo alla condotta pratica dei Farisei non si po­trebbe dare un giudizio valevole per tutti. Oltre a maestri veramen­te insigni, quali Hillel, Gamaliel il Vecchio (cfr. Atti, 5, 34 segg.) che fu maestro di S. Paolo (ivi, 22, 3), e altri, non erano pochi gli onesti ed i sinceri anche fra le persone oscure. Anche da parte cristiana troviamo Gesù in relazioni amichevoli con Farisei, quali Simone, Nicodemo, Giuseppe di Arimatea; perfino S. Paolo, mentre proclama l’abolizione della Legge ebraica, si afferma Ebreo da Ebrei, secondo la Legge Fariseo (Filipp., 3, 5). Tuttavia le invettive più severe di Gesù sono dirette appunto contro i Farisei, non già contro i Sadducei, come appunto nei Farisei egli trovò gli oppositori più tenaci alla sua missione. Il cap. 23 di Matteo è tutto una formale accusa di Gesù contro i Farisei, con allegazione di fatti ben precisi (§ 518). Ma se ciò non sorprende da parte di Gesù, è storicamente impor­tante trovare che accuse simili sono rivolte ai Farisei anche da parte rabbinica. Il Talmud enumera sette tipi diversi di Fariseo che denomina con i precisi termini seguenti il «Fariseo-Sichem », ossia chi è Fariseo per vantaggi materiali (allude al fatto di Sichem, narrato in Genesi, 34); il « Fariseo-niqpi», cioè quatto-quatto, che con la maniera stentata di camminare fa mostra affettata di umiltà; il «Fariseo-salasso », che si procura frequenti emorragie battendo la testa contro i muri, per non guardare donne; il « Fariseo-pestello », che cammina tutto curvo nella persona da sembrare un pestello nel mortaio; il “fariseo-qual-è-il-mio-dovere-perch’io-lo-faccia?”, cioè colui che non già si esibisce pronto a compiere tutti i suoi doveri, bensi afferma di non poterne compiere altri essendo già occupatissimo; il «Fariseo-per-amore», che opera per amore interessato del­la mercede, non già per devozione verso Dio; il «Fariseo-per-timo­re», che opera per timor di Dio, ossia per vero sentimento religioso (Sotah, 22 b, Bar.). Dei sette tipi, dunque, solamente l’ultimo merita lode, e certamente ogni tipo era rappresentato da numerosi indi­vidui. Questo elenco tuttavia, per quanto sarcastico, non è violento. Invece già verso il 10 dopo Cr., cioè prima ancora che Gesù pronun­ziasse le sue invettive contro i Farisei, poté essere scritto da un anonimo Fariseo il seguente passo, la cui violenza non è certo inferiore a quella usata da Gesù: Sorgeranno su essi (sugli Israeliti) uomini perversi ed empi, che si proclameranno giusti. Essi ecciteranno lo sdegno dei loro amici perché saranno uomini menzogneri, viventi solo per piacere a se stessi, camuffati in tutte le guise, banchettanti volentieri ad ogni ora del giorno e tracannando con la gola… ai poveri (?) divorando i beni, asserendo d’agire per compassione… re­pellenti, litigiosi, ingannatori, nascondendosi per non lasciarsi cono­scere, empi, colmi di delitto e d’iniquità, ripetenti da mane a sera: “ Vogliamo aver gozzoviglie ed opulenza, mangiare e bere… ed at­teggiarci a principi!”. Le mani e i cuori loro tratteranno cose impure, la bocca loro proferirà cose superbe, eppure diranno: “Non mi toccare, ché tu mi rendi impuro!“. Assai probabilmente il disilluso Fariseo che dipinge questo quadro impiega tinte più scure del giusto; ma l’amarezza d’animo, che gli fa scegliere queste tinte, doveva ben essere stata cagionata da fatti reali. Ad ogni modo le invettive di Gesù si riferivano alla condotta pratica dei Farisei più che alle loro dottrine, almeno considerate ge­nericamente; sono chiare in tal senso le sue parole: Sulla cattedra di Mose si sedettero gli Scribi ed i Farisei. Perciò, tutte quante le cose che vi dicano, fate ed osservate, ma conforme alle opere loro non fate (Matteo, 23, 2-3).

§ 39. Quanto alla numerosità dei Farisei, da un passo di Flavio Giuseppe (Antichità giud., XIII, 383) sembra risultare che si aggi­rassero sugli 8000 ai tempi del re Alessandro Janneo: circa un se­colo più tardi, sotto Erode il Grande, si parla di piu’ che 6000 (ivi, XVII, 42) che dovrebbero essere tutti i Fatisei d’allora. Ma probabilmente queste cifre non sono esatte, come spesso avviene in Flavio Giuseppe, e dovranno essere alquanto aumentate. Provenienti dalle varie classi sociali, e in piccola parte anche da quella sacerdotale meno alta, i Farisei erano stretti fra loro con vincoli ben saldi, che miravano al grande scopo di osservare la purità legale e mantenersi “separati” (§ 29) dall’impuro. Tra loro si chiamavano haberim, cioè etimologicamente “collegati”, e l’associazione era una haberuth ossia “colleganza”. I membri dell’associazione, poveri o ricchi che fossero, dovevano essere di un rigore minuziosissimo nell’osservare i tre gruppi principali di precetti, cioè il riposo del sabbato, le nor­me di purità legale e le leggi del culto (decime, ecc.): chi poi aveva anche una cultura sufficiente per discutere su questioni legali, era un hakam, cioè un “dotto”, mentre chi non l’aveva era un privato qualsiasi.

§ 40. Tutti gli altri Giudei, che non appartenevano alla ”colleganza” dei Farisei, erano chiamati da costoro il “popolo della ter­ra”. Il termine era dispregiativo, ma anche più di­spregiativo era il contegno tenuto dai Farisei verso questi loro con­nazionali. Anche qui le testimonianze, da parte tanto cristiana quanto giu­daica, sono concordi. In Giovanni, 7, 49, i Farisei esclamano: Que­sta folla, che non conosce la Legge, sono maledetti; ove la folla designa i non Farisei, cioè il “popolo della terra”, il quale non conosce la Legge ed è tutto di maledetti. I documenti giudaici, Poi, confermano questa maledizione. E’ sentenza appunto del grande Hiilel che nessun tanghero teme il peccato, e il popolo della terra non e’ pio: ove tanghero è sinonimo di chi appartenga al popolo della terra. Quindi un vero Fariseo non doveva avere alcun contatto col “popolo della terra”, bensi mostrarsi fariseo cioè “separato” nei riguardi di esso. Per questa ragione un rabbino sentenziava: Partecipare ad un’assemblea del popolo della terra produce la morte (ivi, III, 10); il celebre Giuda il Santo si rammaricava: Ahime’! Ho dato del pane a uno del po­polo della terra! e Rabbi Eleazar prescriveva: E’lecito trafiggere uno del popolo della terra anche nel giorno del Kippur che cadesse di sabbato. In molti altri passi è proibito al Fariseo di vendere frutta a uno del “popolo della ter­ra”, di dargli ospitalità o riceverne, di contrarre parentela matri­moniale con lui, e simili (Demai, Il, 3; ecc.). E’ superfluo dire che, agli occhi dei Farisei, poteva essere “tanghero” e “popolo della terra” anche un Giudeo aristocratico e facoltoso, o un membro dell’alto sacerdozio: il criterio per giudicarlo era la pratica e la conoscenza della Legge secondo i principii farisei, e l’appartenenza alla eletta casta dei “separati”. Solo raramente a siffatto disprezzo di casta si rispondeva da parte degli estranei col disprezzo e con l’ostilità. Il popolino, specialmente nelle città e soprattutto le donne, stavano cordialmente per i Fa­risei tanta potenza hanno sulla folla, che pure se dicano alcunché contro il re o contro il sommo sacerdote sono immediatamente cre­duti (Antichità giud., XIII, 288). Siffatta base democratica era la vera forza di cotesti aristocratici dottrinali.

§ 41. Resta da esaminare il preciso concetto di Scriba, e le sue relazioni con quello di Fariseo. I vangeli accomunano spessissimo Scribi e Farisei, e giustamente sotto l’aspetto della realtà contem­peranea; ma in teoria non tutti gli Scribi erano Farisei, come in pratica non ogni Fariseo era Scriba perché poteva non averne la scienza necessaria, ossia non essere un hakam (§ 39). Il concetto di Scriba era quello di essere per eccellenza l’uomo del­la Legge, astraendo dalla sua condizione sacerdotale o laica e dai suoi principii sadducei o farisei; ma in pratica, ai tempi di Gesù, solo pochissimi Scribi erano di condizione sacerdotale e di principii sadducei, mentre la stragrande maggioranza era costituita da laici di principii farisei. Di qui il pratico pareggiamento di Scribi e Fa­risei presso i vangeli. Quando nell’esilio di Babilonia il popolo giudaico si trovò privato di tutti i suoi beni materiali e morali salvo che della Legge (Torah), già allora – prima cioè che esistessero le due correnti di Sadducei e Farisei – vi furono uomini che consacrarono tutta l’operosità e la vita loro all’unico bene superstite, alla Legge, onde conservarlo con ogni cura, trasmetterlo con tutta esattezza, investigarlo ed appli­carlo con la più scrupolosa indagine. Un uomo siffatto fu per ec­cellenza l’uomo del libro (sepher), non soltanto perché ne era il dligentissimo scriba, ma soprattutto perché ne era nel più ampio senso il maestro. Egli fu dun­que il legista e a lui fu riserbato il ti­tolo onorifico di Rab, Rabbi (« grande », mio grande »). Grandissima era l’autorità dello Scriba già verso il 200 av. Cr., come appare anche dal lirico encomio che ne fa il Siracida (Ecclesiastico, capp. 38-39); ma più tardi essa crebbe ancora, fino a diventare un vero trono di gloria contrapposto al trono del sacerdozio. Ai tempi di Gesù, infatti, il sacerdozio aveva bensi conservato il suo ufficio liturgico e il suo grado gerarchico nella costituzione teocratica del giudaismo, tuttavia esso aveva perduto quasi ogni efficacia sulla formazione spirituale delle masse il vero « padre spirituale » del popolo, il suo catechista, la sua guida morale, non era più il sa­cerdote ma lo Scriba. Man mano che il sacerdozio si era disinteressato della Legge, il laicato lo aveva sostituito nella direzione spi­rituale del giudaismo; mano mano che il sacerdozio si era imme­desimato con la corrente sadducea, il laicato legista era diventato sempre più fariseo: cosicché a un certo tempo l’azione del sacer­dozio rimase circoscritta alla liturgia del Tempio e ai maneggi della politica, mentre lo Scriba laico s’assise quale maestro nelle scuole della Legge, predicò quale rappresentante di Mosè nelle sinagoghe, s’aggirò quale modello di santità nelle vie e nelle case della vene­rabonda plebe. Scriba poteva divenire qualunque discendente d’Abramo, ma la via per toccare la mèta era lunga. Spesso si cominciava fin dalla puerizia a percorrerla, istruendosi – come fece S. Paolo (Atti, 22, 3) – “ai piedi” di qualche autorevole maestro (che insegnava seduto, mentre i discepoli si accoccolavano ai suoi piedi). Difficilmente un discepolo aveva percorso tutta la sua via ed era in grado a sua volta d’insegnare, prima che fosse in età di quaranta anni e in tutto questo tempo egli, quasi sempre povero, aveva esercitato un mestiere manuale per vivere (§ 167). Ma quando l’amore per la conoscenza della Legge era entrato nel cuore di uno di questi uo­mini, non si badava a privazioni d’ogni genere, a veglie diuturne, a tirocini laboriosi, a esercitazioni mnemoniche estenuanti, pur di possedere la Legge. Il possessore di questo tesoro era più ricco d’ogni ricchissimo, più glorioso d’un re e d’un sommo sacerdote, come già vedemmo a proposito dei Farisei (§ 35).

§ 42. Della corrente dei Farisei, secondo ogni verosimiglianza, sono derivazioni le correnti degli Zeloti e dei Sicari. Flavio Giuseppe, troppo incline a ravvicinare il mondo giudaico a quello greco-romano, presenta la corrente degli Zeloti come una quarta filosofia (Antichità giud., XVIII, 9), dopo le tre degli Esseni, Farisei e Sadducei; ma in realtà gli Zeloti, oltre a non rappresentare una filosofia, non formavano neppure una quarta corrente, perché erano sostanzialmente Farisei. Lo stesso Flavio Giuseppe afferma poco appresso che gli Zeloti in tutto il resto s’accordano con l’opi­nione dei Farisei, solo che hanno un ardentissimo amore per la li­bertà e ammettono come unico capo e signore Dio; non badano punto a subire le morti piu’ straordinarie e punizioni di parenti e d’amici, pur di non riconoscere come signore alcun uomo (ivi, 23). E’ evidente in questo atteggiamento l’adesione al principio nazio­nale-teocratico, ch’era essenziale nel fariseismo: ma la divergenza avveniva nella pratica, perché i Farisei comuni non applicavano quel principio nel campo politico, mentre gli Zeloti ve l’applicavano con rigore fino alle ultime conseguenze. E perciò si chiamarono “Zeloti”, ossia zelanti applicatori della Legge nazionale-religiosa. Il termine era stato impiegato già da Mat­tatia, padre dei Maccabei, il quale in punto di morte aveva racco­mandato ai suoi figli: “E ora, figli, siate gli zelanti della Torah e date le vostre vite per l’alleanza dei nostri padri” (i Macc., 2, 50). Infatti i cinque figli del morente finirono tutti uccisi per la causa nazionale-religiosa; e proprio dalla vittoria di questa causa uscirono gli Asidei, dai quali discesero i Farisei (§ 29). Ora, gli Zeloti ri­presero in pieno il programma del padre dei Maccabei: vollero essere Farisei integralisti in ogni campo, anche in quello politico.

§ 43. E in realtà fu un’ occasione politica che fece sorgere gli Ze­lotL Quando nell’anno 6 dopo Cr., Sulpicio Quirinio iniziò il cen­simento della Giudea testé annessa all’Impero romano (§ 24), il popolo vide nel censimento la prova tangibile che la nazione eletta dai Dio Jahvè era sottoposta sacrilegamente al dominio di impuri stranieri; tuttavia la gran massa, persuasa anche da insigni sacer­doti, si sottomise e si lasciò censire, e altrettanto fece la maggior parte dei Farisei. Resistette invece un certo Giuda di Gamala, detto il Galileo, che, unitosi con un autorevole Fariseo di nome Sadduc, indusse i paesani a ribellione insultandoli se… avessero tollerato, dopo Dio, padroni mortali. La rivolta fu do­mata dai Romani, e una trentina d’anni appresso il Fariseo Gama­liel la ricordava ancora come un episodio celebre (Atti, 5, 37). Tuttavia, con questa prima sconfitta, gli Zeloti non cedettero. Di­spersi ed occulti davanti alle autorità romane, essi mantennero sem­pre vivo lo spirito d’implacabile avversione politica contro gli stra­nieri, che poi divampò apertamente nella rivolta finale. Con ciò essi si distinsero sempre più dai Farisei comuni, che di fronte ai Romani si mostravano passivi e cedevoli. Più tardi, anzi, gli Zeloti fecero un ulteriore passo sulla via della ribellione operosa. Quando l’esperienza dimostrò che ogni sollevazione in massa non aveva al­cuna probabilità di prevalere Contro i Romani, i dissimulati Zeloti ricorsero alle congiure contro individui isolati e ai colpi di mano contro luoghi determinati, per toglier di mezzo i singoli domina­tori se non l’intero dominio straniero, rimanendo essi stessi nell’om­bra. In tali imprese l’arma più adoperata era il corto pugnale che i Romani chiamavano sica: perciò questi Zeloti si chiamarono “Sicari”. Se dunque gli Zeloti furono i Farisei intransigenti anche nel campo politico, i Sicari alla loro volta possono considerarsi come le squadre volanti, le avanguardie d’assalto, mandate avanti dagli Zeloti. Supponendo al centro la massa del giudaismo comune, alla sua destra stavano schierati sempre più in là dapprima i tradizionalisti Farisei, poi gl’intransigenti Zeloti, infine gli aggressivi Sicari. Ma Zeloti e Sicari, che furono i principali responsabili dell’insurrezione degli anni 66-70, ne furono anche le vittime, perché scomparvero quando i Romani debellarono gli ultimi focolai della rivolta e specialmente la fortezza di Masada, la cui tragica fine è narrata con somma precisione archeologica da Flavio Giuseppe. Invece i Farisei, loro padri spirituali, superarono la grande prova: il giudaismo superstite, riordinato secondo i principii del­le scuole rabbiniche, fu genuina opera loro, e tale è rimasto fino ad oggi. Fra i discepoli di Gesù, l’apostolo Simone è chiamato lo Zelota (Luca, 6, 15; Atti, I, 13) o anche il Cananeo (Matteo, 10, 4; Marco, 3, 18). Questo secondo termine non proviene dal nome degli antichi abitatori della Palestina, i Cananei, bensi è la forma ara­maica, qan’ana; e significa “zelante” ossia Zelota. I Sicari, nel Nuovo Testamento, sono menzionati solo inci­dentalmente in Atti, 21, 38.

§ 44. Sia nel Nuovo sia nell’Antico Testamento non sono mai nominati gli Esseni, di cui parla a lungo Flavio Giuseppe oltre a Filone, a Plinio ed altri. Gli Esseni formavano una vera associazione religiosa, ch’esisteva già verso la me­tà del secolo II av. Cr. in vari luoghi della Palestina, ma col suo centro principale nell’oasi di Engaddi sulla sponda occidentale del Mar Morto. Erano in tutto circa 4000. Le regole principali di questa associazione, molto simile agli ordini monastici del cristianesimo, erano le seguenti. Per esservi ammessi bisognava fare un noviziato di un anno, alla fine del quale si rice­veva un battesimo; seguivano altri due anni di probandato, dopo dei quali avveniva l’affiliazione definitiva mediante solenni giuramenti. Tra gli affiliati e i novizi esisteva gran differenza quanto a di­gnità e a purità legale, tantoché se un novizio toccava per caso un affi­liato, costui contraeva una certa impurità da cui doveva mondarsi. I beni materiali erano posseduti in comunismo perfetto ed amministrati da ufficiali eletti a tale scopo; tutti lavoravano, specialmente nell’agricoltura, e i proventi andavano nel fondo comune. Erano proibite la mercatura, la fabbricazione d’armi, la schiavitù. Il celi­bato era lo stato normale: il solo Flavio Giuseppe dà notizia di un particolare gruppo di Esseni che contraevano matrimonio sotto condizioni speciali, ma il fatto non è ben certo, e ad ogni modo non sarà stato che una limitata ecce­zione alla norma comune: secondo Plinio gli Esseni sono una gens… in qua meno nascitur (in Natur. hist., v, 17). Questa mancanza di procreazione faceva si che accettassero a scopo di proselitismo an­che fanciulli, come probabili candidati all’associazione. La gionnata era divisa fra il lavoro e la preghiera. Di prima mat­tina una preghiera comune era rivolta al Sole. I pasti, consumati in comune, avevano un carattere di cerimonià sacra, perché erano primi in luogo speciale, dopo aver praticato particolari abluzioni e indossato abiti sacri, ed erano preceduti e seguiti da particolari preghiere anche i cibi, semplicissimi, erano preparati da sacerdoti secondo regole speciali In tutta la giornata si osservava abituale silenzio. Il rispetto per il riposo del sabbato era di un rigore singolare: tanto che per questo rispetto, come pure per un accresciuto riguardo alla purità legale, in detto giorno non si soddisfaceva alle necessità cor­porali maggiori (§ 70). Per Mosè si aveva somma venerazione e chi ne bestemmiava il nome era punito di morte. Di sabbato si leggeva in comune la Legge di lui, e se ne facevano spiegazioni; ma oltre ai libri di Mosè l’associazione usava altri libri segreti, ch’e­rano studiati egualmente di sabbato. D’altra parte non tutte le pre­scrizioni di Mosè erano praticate, perché al Tempio di Gerusalem­me gli Esseni inviavano offerte di vario genere, ma non sacrifizi cruenti d’animali. Salvo il giuramento per l’affiliazione ogni sorta di giuramento era rigorosamente proibita; ci si dice infatti Ogni loro detto ha piìi forza d’un giuramento; ma dal giurare si astengono considerandolo peggiore dello spergiuro, giacché dicono che risulta già condannato colui che non e creduto senza un appello a Dio; probabile che nelle consuetudini degli Esseni e nelle loro dottrine, il cui fondo principale proveniva certamente dal patrimonio ebrai­co, si fossero infiltrati elementi stranieri: tali ad esempio la dot­trina loro attribuita della preesistenza delle anime, ignota all’ebrai­smo, e la pratica del celibato giammai tenuto in onore presso gli Ebrei. Ma la precisa provenienza di questi elementi non ebraici rimane dubbia, nonostante le molte congetture che si sono fatte in proposito. Sembra che gli Esseni esercitassero un influenza scarsissima sul re­stante del giudaismo contemporaneo, dal quale erano segregati an­che materialmente da tante norme di vita pratica. Essi dovevano apparire come un hortus con clusus, che si ammirava volentieri ma ri­manendone al di fuori; tuttavia, oltre a coloro che entravano sta­bilmente nell’associazione, v’erano taluni che ne seguivano solo per qualche tempo il tenore di vita mossi da un vago desiderio ascetico, come narra d’aver fatto nella prima giovinezza Flavio Giuseppe (Vita, 10-12). Di questioni politiche gli Esseni ordinariamente non si occupavano, mostrandosi ossequenti verso le autorità costituite. Tuttavia nella grande rivolta contro Roma, alcuni di essi si lasciarono vincere dal­l’entusiasmo e presero le armi: un Giovanni Esseno è ricordato con funzioni di comando tra i Giudei insorti (Guerra giud., II, 567; III, 11,19). Dai vincitori Romani essi ebbero a soffrire gravissimi tormen­ti (ivi, ri, 152-153), ma non per questo violarono i giuramenti della loro associazione. Dopo questo tempo scompaiono del tutto dalla storia.

§ 45. Nei vangeli sono nominati anche gli “Erodiani” (Marco, 3, 6; 12, 13; Matteo, 22, 16). Questi tuttavia non costituivano un vero e proprio partito politico, e tanto meno un’associazione o una corrente religiosa; piuttosto dovevano essere Giudei che apertamen­te sostenevano la dinastia degli Erodi in genere e particolarmente il suo più autorevole rappresentante d’allora, ch’era il tetrarca Erode Antipa (§ 15 segg.), seppure non erano proprio gente di sua corte. Numerosi non potevano essere, e neppur godere di gran credito sul popolo.

Tempio e sacerdozio.

§ 46. Il giudaismo, conservando anche sotto la dominazione di Roma il suo ordinamento teocratico-nazionale, continuò ad avere il suo centro spirituale in Gerusalemme: ivi, infatti, stava l’unico Tem­pio eretto legittimamente a Jahvè, il Dio della Nazione, ed in quel Tempio ministrava la gerarchia sacerdotale ch’era al vertice del­l’ordinamento teocratico. La nazionalità giudaica implicava la religione giudaica: la religio­ne richiedeva il Tempio di Gerusalemme: il Tempio esigeva il sa­cerdozio. Non solo da tutta la Palestina, ma anche dalle regioni vicine e lontane su cui si era riversata mediante la Diaspora la na­zione di Jahvè, si guardava a Gerusalemme e al sommo sacerdote, come al luogo più santo e all’uomo più vicino a Dio. Il Tempio frequentato da Gesù fu quello di Erode il Grande. Era dunque, materialmente, il terzo Tempio; il primo infatti, quello costruito da Salomone, era stato distrutto da Nabucodonosor quan­do aveva espugnato Gerusalemme nel 586 av. Cr.; il secondo, ri­costruito dai reduci dell’esilio babilonese e inaugurato nel 515 av. Cr., era durato fino a Erode; costui lo aveva demolito totalmente per costruire il terzo. Tuttavia i rabbini chiamavano « secondo tem­pio » anche quello di Erode, considerandolo moralmente tutt’uno col Tempio costruito dai reduci dell’esilio. Erede cominciò i lavori del Tempio l’anno 180 del suo regno, cioè nel 20-19 av. Cr.; già da prima, per dimostrare al popolo le sue serie intenzioni, egli aveva accumulato materiali in quantità enor­me, aveva impegnato diecimila operai che lavorassero alle parti esterne, e aveva fatto imparare l’arte muraria a mille sacerdoti che lavorassero nelle parti interne del Tempio inaccessibili ai laici se­condo la Legge ebraica. I lavori per le parti interne, costituenti il vero « santuario », durarono un anno e mezzo; quelli per le parti esterne, costituenti gli amplissimi atrii, durarono otto anni: durante i lavori il servizio liturgico non vi fu mai interrotto, perché man mano che si demoliva una parte dell’edificio interno si procedeva subito alla sua ricostruzione. Dopo nove anni e mezzo dall’inizio dei lavori, Erode celebrò la dedicazione del ricostruito Tempio nell’anniversario della sua salita al trono; tuttavia, come avviene d’or­dinario nelle grandi costruzioni, i lavori di rifinitura si prolunga­rono ancora per molti anni (cfr. Giovanni, 2, 20) e non termina­rono del tutto se non ai tempi del procuratore Albino (anni 62-64), cioè poco prima che il Tempio fosse distrutto dai Romani.

§ 47. Nel Tempio di Erode il “santuario” interno era in tutto analogo a quello del Tempio di Salomone, ma con elevazione mag­giore; al contrario, le costruzioni esterne che circondavano il ”san­tuario” furono ampliate grandemente. Poiché l’antico Tempio sor­geva sulla collina orientale della città, il piano superiore della col­lina fu dilatato quasi del doppio per mezzo di costruzioni compiute ai suoi fianchi: sullo spazio cosi ottenuto sorsero tre portici o atrii, ch’erano uno più elevato dell’altro, procedendo dalla periferia verso il “santuario” interno. Il primo e più periferico era accessibile a chiunque, e perciò era chiamato “atrio dei gentili”, potendo esser frequentato anche dai pagani; ma, procedendo verso l’interno, ad un certo punto quest’atrio era sbarrato da una balaustra di pie­tra che segnava il limite accessibile ai pagani: iscrizioni greche e latine, ivi apposte, ricordavano a costoro la proibizione di passare oltre sotto pena di morte (una di queste iscrizioni, in greco, fu ri­trovata nel 1871). Oltrepassata la balaustra e saliti più in là alcuni gradini, si entrava nell’” atrio interno”, protetto da grossissimi muri e suddiviso in due parti: la parte più esterna era detta “atrio delle donne”, perché fin li potevano penetrare le donne israelite, e la più interna era detta “atrio degli Israeliti”, accessibile ai soli uo­mini. Procedendo e salendo ancora, veniva l’”atrio dei sacerdoti”, ove stava l’altare degli olocausti a cielo scoperto; infine, dopo altri gradini, si giungeva al vero “santuario”. Il “santuario” aveva sul davanti un vestibolo, e internamente era diviso in due parti. Quella anteriore era chiamata il “santo”, e conteneva l’altare d’oro per i profumi, la mensa per i pani della proposizione e il candelabro d’oro a sette bracci. La parte posteriore era il “santo dei santi”, perché considerata dimora del Dio d’Israe­le e quindi il luogo “santissimo” di tutta la terra. Ivi, nel Tempio di Salomone, era stata l’Arca dell’Alleanza; ma, distrutta questa, il “santo dei santi” del nuovo Tempio rimase una stanza miste­riosamente oscura e vuota. Pompeo Magno, che vi penetrò nel 63 av. Cr., vi trovò nulla intus deum effigie vacuam sedem et mania arcana (Tacito, Hist., v, 9). Nel “santo dei santi” entrava sol­tanto il sommo sacerdote un solo giorno all’anno, nella ricorrenza del Kippur o Espiazione (§ 77); secondo una tradizione rabbinica il sommo sacerdote entrato colà, deponeva il turibolo su una pietra alta tre dita che ricordava il posto ove anticamente era stata l’Arca.

§ 48. L’”atrio dei gentili” era fiancheggiato, a oriente e a mez­zogiorno, da due famosi portici. L’orientale, che guardava dall’alto sopra il torrente Cedron, era chiamato comunemente ma senza ra­gione archeologica “portico di Salomone” (Giovanni, 10, 23; Atti, 3, li; 5, 12); il meridionale, chiamato ”portico regio”, toccava con i suoi due capi la valle del Cedron a oriente, e la valle del Tyropeon a occidente. Questo “portico regio” era costruzione vera­mente insigne, degna di stare a fianco delle più famose di Atene e di Roma, ma mostrava carattere totalmente greco e non aveva nulla di ebraico: era formato da centosessantadue grandi colonne sormontate da finissimi capitelli corinti e disposte in quadruplice fila in modo da costituire una triplice navata. L’”atrio dei gentili” era il gran luogo di convegno per chi abitava o si trovava di passaggio a Gerusalemme. I pagani vi andavano per trattare i loro affari, come nelle loro città sarebbero andati al foro; i Giudei vi si recavano per udire famosi dottori della Legge, che circondati dai loro discepoli tenevano scuola o disputavano fra loro, e più genericamente vi erano attirati dalle mille curiosità del luogo frequentatissimo e dalle notizie d’ogni sorta che vi si pote­vano raccogliere. Specialmente in occasione delle grandi feste ebraiche l’” atrio dei gentili” diventava un pubblico mercato. I venditori, istallatisi sotto i portici o nel piazzale scoperto, offrivano ai pellegrini giunti dalla Palestina e dall’estero buoi, pecore, ed ogni altra cosa necessaria per i sacrifizi liturgici, mentre i cambiavalute tenevano esposti su banchetti improvvisati i vari tipi di monete palestinesi, pronti a cambiarle con moneta straniera ai pellegrini venuti dall’estero. Sol­tanto dopo aver oltrepassato quest’inferno di clamore e di fetore, si giungeva al purgatorio, ove al solo Israelita era lecito purgarsi dei suoi peccati davanti a Dio, nel silenzio e nella preghiera.

§ 49. All’angolo nord-ovest del Tempio, e congiunta con esso, s’al­zava la fortezza Antonia, anch’essa costruita totalmente da Erode sul posto d’una precedente torre. La grandiosa potenza di questa costruzione fu dimostrata all’atto pratico nella guerra contro Roma, allorché Tito trovò in essa un enorme ostacolo alla conquista del Tempio e della città; Flavio Giuseppe, che ne dà una minuta de­scrizione, termina con queste importanti notizie archeologiche: Dal­le parti ove (la fortezza) si ricongiungeva con i portici del Tempio, aveva in ambedue i lati delle scale per le quali discendevano le guardie – giacché in essa risiedeva sempre una schiera di Romani – e si distribuivano con le armi lungo i portici durante le festività, vi­gilando che il popolo non tramasse innovazioni. Infatti, alla città sovrastava, come presidio, il Tempio, e al Tempio (sovrastava) l’An­tonia; ma in questa stavano le guarnigioni di tutti e tre (i luoghi: città, Tempio e Antonia) (Guerra giud., v, 243-245). Per questo motivo pratico come anche per la sua vicinanza al Tempio, l’An­tonia serviva spesso al procuratore romano – come già accennammo (§ 21) – per il disbrigo d’affari di governo, specialmente se richie­devano un diretto contatto con masse di popolo: in tali casi il pa­lazzo reale di Erode, più lontano dal Tempio e più aristocratico, si prestava meno bene.

§ 50. Nel Tempio dominava il sacerdozio levitico, che aveva a capo il sommo sacerdote: perciò, in forza dell’ordinamento teocratico, il sommo sacerdote era anche il capo di tutta la nazione giudaica, e riuniva in sé la suprema autorità religiosa e anche quella civile. Cosi era in teoria: ma in pratica, specialmente ai tempi di Gesù, il potere effettivo del sommo sacerdote era assai minore. Gli Asmonei, discendenti dei Maccabei, erano stati nello stesso tem­po sommi sacerdoti e re, attuando nuovamente l’antichissimo ideale d’Israele, pur non discendendo essi dalla stirpe di David; ma privati gli Asmonei del trono, i sommi sacerdoti furono eletti, quasi sempre, tra i membri di talune famiglie sacerdotali che avevano particolare influenza e costituivano dentro al ceto sacerdotale una casta d’aristocratici privilegiati. Inoltre il sommo sacerdote era eletto a vita, e solo eccezionalmente nei tempi antichi era stato deposto; ma dai tempi di Erode il Grande l’eccezione era diventata invece un uso comune, e ben raramente i sommi sacerdoti, morivano in carica. Dagli inizi di Erode il Grande fino alla morte di Gesù, che sono circa 65 anni, si contarono una quindicina di sommi sacerdoti, di cui parecchi rimasero in carica un anno e anche meno. I deposti, insieme con gli altri membri delle loro privilegiate famiglie, costi­tuirono quella classe che i vangeli e Flavio Giuseppe chiamano dei “sommi sacerdoti”. Se questa instabilità noceva molto alla carica del sommo sacerdote, anche più noceva alla sua dignità l’accaparramento che le suaccen­nate famiglie avevano fatto sia di quell’ufficio sia delle altre cariche più lucrose del Tempio. In occasione delle elezioni pare che abitual­mente corresse denaro, e un detto rabbinico mette appunto in relazione l’instabilità dell’ufficio con la sua venalità: Siccome sommi sacerdoti compravano il loro ufficio, così i loro giorni furono dimi­nuiti (Levit. Rabba, 120 c; cfr. Joma pal., j, 38 c).

§ 51. Eletto che fosse, il sommo sacerdote era il primo ministro del culto e il capo di tutti i servizi del Tempio. A lui personalmente spettava di celebrare soltanto la liturgia nel giorno del Kippur o Espiazione (§ 77), ma talvolta officiava anche in altre feste più solenni, ad esempio nella Pasqua. Nel campo civile il sommo sacerdote agiva specialmente come capo del Sinedrio (§ 58), la cui presidenza gli spettava di diritto. Ma, qui soprattutto, il suo potere effettivo diminui dopo la scomparsa degli Asmonei: il loro successore, Erode il Grande, accennava con la sua spada il cammino che il capo del Sinedrio doveva seguire; i procuratori romani non furono cosi brutali, ma sorvegliavano attentamente la sua condotta e rivedevano le sue decisioni più importanti, anche per fargli comprendere che se egli portava ancora l’infula pontificale non aveva più la corona regale. Anzi gli stessi indumenti pontificali del sommo sacerdote erano custoditi nella fortezza Antonia per una disposizione che risaliva a Erode il Grande o era forse anteriore, e che fu mantenuta in seguito anche dai procuratori: di là erano tolti in occasione delle principali festività, per esservi subito appresso restituiti; tuttavia nell’anno 36, dopo la destituzione di Ponzio Pilato, i Romani rinunziarono a questo diritto, odioso alla sensibilità religiosa dei Giudei. In linea di fatto, poi, il credito morale dei sommi sacerdoti, se non proprio la loro autorità ufficiale, si era molto abbassato ai tempi di Gesù anche per la ragione che essi appartenevano sempre alla corrente dei Sadducei: questa aristocratica corrente non solo era invisa al popolo, ma il suo indirizzo dottrinale era esplicitamente combattuto dai popolari Farisei, e quindi dagli Scribi che appartene­vano in massima parte alla corrente dei Farisei. Ora, sulla cattedra di Mosè avrebbe dovuto assidersi il sommo sacerdote, come supremo moderatore ed interprete della Legge teocratica: e questa norma era stata sancita espressamente anche dal pagano Giulio Cesare in favore del sommo sacerdote (in Antichita giud., xiv, 195). Ma in realtà sulla cattedra di Mose’ si sedettero gli Scribi ed i Farzsez (Matteo, 23, 2), i quali, in altre parole, eressero una controcattedra di fronte a quella del sommo sacerdote e distolsero dal suo seguito le masse popolari, lasciandogli soltanto i suoi interessati Sadducei.

§ 52. I sommi sacerdoti che entrano direttamente nella storia di Gesù sono due, Anna e Caifa. Il nome Anna, grecizzato in Anano da Flavio Giuseppe, era una abbreviazione dell’ebraico Hananjah, ossia Anania. Flavio Giuseppe (Antichita’ giud., xx, 198) presenta quest’uomo come lelicissimo per due ragioni, perché egli stesso tenne il sommo sacerdozio per lun­ghissimo tempo e perché in quella dignità ebbe come successori ben cinque figli; ma avrebbe potuto aggiungere che, oltre ai cinque figli, ebbe per successore nella sua carica anche un genero, cioè Giuseppe detto Caifa, cosi’ sarebbe risultato anche meglio il pratico monopolio che del sommo sacerdozio avevano fatto le influenti famiglie cui già accennammo (§§ 33, 50). Stando a Flavio Giuseppe, Anna fu elet­to da Quirinio subito dopo la destituzione dell’etnarca Archelao, cioè nel 6 dopo Cr.; ma non è improbabile che lo storico giudeo prenda qui un abbaglio (come gli accade sovente altrove), e che Anna diventasse sommo sacerdote anche prima, perché fu deposto certamente dal procuratore Valerio Grato nell’anno 15, cosicché avrebbe pontificato solo nove anni, che non è un lunghissimo (tem­po) come egli stesso dice. Checché sia di ciò, anche dopo la sua deposizione Anna conservò grandissima autorità, perché i pontificati dei cinque figli e del genero furono regolati, segretamente o anche palesemente, sempre da lui. I figli pontificarono negli anni qui ap­presso indicati, ma non si sa se Anna fosse ancora in vita durante il pontificato dell’ultimo figlio a lui omonimo: Eleazaro, nell’anno l6-17; Jonathan, nell’anno 36-37; Teofilo, negli anni 37-41; Mattia, nell’anno 42-43; Anano (Anna), nell’anno 61. Costui fu ucciso nel 67, durante la guerra contro Roma, dagli insorti antiromani. L’immediato predecessore di Jonathan figlio di Anna fu il genero dello stesso Anna, cioè detto Qajapha (Caifa): quest’ultimo nome è di significato incerto. Caifa fu eletto nell’anno 18 da Valerio Gra­to, lo stesso procuratore che aveva deposto suo suocero, e rimase in carica fino al 36: era dunque sommo sacerdote allorché Gesù fu condannato ed ucciso, sebbene in tale occasione la realtà del potere fosse esercitata più dal suocero che da lui.

§ 53. Sotto l’alta direzione del sommo sacerdote ministravano neI Tempio i discendenti della tribù di Levi, che rimanevano distinti nelle due antiche categorie di sacerdoti e di semplici Leviti: i sacer­doti compievano le funzioni liturgiche ordinarie, sia quelle di culto pubblico ufficiale, sia quelle richieste dalla pietà dei singoli fedeli; i semplici Leviti coadiuvavano i sacerdoti nella preparazione ed ese­cuzione delle funzioni, e generalmente erano incaricati dei servizi secondari del Tempio. I Leviti non sacerdoti erano dunque il clero inferiore, e fuori del Tempio non avevano particolare importanza nella vita sociale e cul­turale della nazione. Il loro stato economico, che secondo gli antichi statuti si basava sulla rendita delle decime, non era florido, sia per­ché le decime erano spesso aleatorie, sia perché ai Leviti ne andava quella parte che si degnavano di lasciar loro i sacerdoti, non senza le eventuali rapine che già ricordammo (§ 33).

§ 54. I sacerdoti erano raggruppati in 24 classi, le quali s’avvicen­davano ogni settimana nel ministero del Tempio. Ciascuna classe aveva a capo un sacerdote da cui prendeva il nome, e i suoi dipen­denti erano designati alle singole incombenze del ministero per mez­zo delle sorti (cfr. Luca, 1, 5-9). I più dei sacerdoti dimoravano in Gerusalemme stessa o nei suoi immediati dintorni; ma taluni risie­devano in borgate piuttosto distanti, ove ritornavano terminata che fosse la loro muta di servizio in Gerusalemme: altrettanto facevano i semplici Leviti (cfr. Luca, 1, 23; 10, 31-32). L’ufficio proprio ai sacerdoti era quello liturgico. Conoscere esat­tamente i requisiti necessari in un animale da offrirsi in sacrifizio, la misura di una data libazione sacra, i riti preparatori ed esecutivi di certe oblazioni, le prescrizioni da osservarsi in determinate funzioni, e in genere tutte le norme scritte o tradizionali riguardanti la mate­rialità della liturgia, costituiva la scienza di cui andava fiero il sa­cerdote. Nella società teocratica egli eseguiva con esattezza quelle uccisioni d’animali, quegli spargimenti di sangui, quei bruciamenti d’incensi, che Dio stesso aveva prescritti e richiesti: con ciò il sacer­dote aveva compiuto il suo ufficio, rendendosi benemerito verso la società più d’ogni altra persona, perché con quei sangui e con quegli incensi aveva placato Dio e ne aveva assicurato la protezione sulla collettività. La partecipazione dello spirito alla materialità del rito era stata bensì’ oggetto della predicazione degli antichi profeti, ma di fatto entrava ben poco nelle attribuzioni della “professione” esercitata dal sacerdote ebraico. Alle discussioni in voga fra Scribi e Farisei, la maggior parte dei sacerdoti restava aliena. Per il “pro­fessionista” sacro esisteva la Legge scritta, quella da cui i suoi privi­legi sacri erano garantiti, e cercare più in là sarebbe stato perdita di tempo; ché se qualche raro sacerdote prendeva parte a tali di­scussioni, era solo per impugnare e respingere quanto andavano affermando quei petulanti e plebei di Farisei, verso i quali non nu­triva che altezzoso disprezzo. E questa attitudine d’aristocratica su­periorità era mantenuta tanto più da quei sacerdoti che, dopo il sommo sacerdote, occupavano gli uffici più alti del Tempio, come quelli di capitano del tempio (Atti, 4, 1; 5, 24-26), di tesoriere, e altri onorifici e lucrosi; già udimmo da fonte rabbinica che tali uffici erano accaparrati abitualmente da membri delle “famiglie di sommi sacerdoti”.

§ 55. Sarebbe certamente falso credere che questa combriccola pa­rentale, formatasi sul vertice, fosse degna rapprentante di tutti coloro che stavano più in basso, o anche che i discendenti di Levi fossero indistintamente ottusi mestieranti di liturgia, privi di religio­sità vera: al contrario, soprattutto fra il basso clero costituito dai Leviti e anche fra i sacerdoti di famiglie meno cospicue e meno ur­banizzate, dovevano essere numerosi gli spiriti profondamente reli­giosi, che segretamente ripensavano agli antichi benefizi fatti da Dio ad Israele e aspettavano ansiosamente quelli promessi per il futuro. Per citare un solo esempio, da una di queste famiglie rurali di sa­cerdoti era stato iniziato nel 166 av. Cr. il risorgimento nazionale dei Maccabei, che aveva richiamato a nuova vita il giudaismo in for­za di principii nazionali-religiosi. Ad ogni modo, questa porzione buona e sana del levitismo era – come avviene sempre – la meno vistosa e rumorosa, la meno atta a far parlare di sé nelle ordinarie vicende della vita sociale : gli occhi del popolo erano attirati, invece, da quei fastosi ed altezzosi sacerdoti che spadroneggiavano nel Tem­pio e che si spartivano la direzione degli affari pubblici col procura­tore romano, col quale s’intendevano abbastanza bene; cotesti pezzi grossi della finanza e della politica – se non della religione – erano agli occhi della plebe il sacerdozio pratico, i discendenti effettivi di Levi e di Eli.

§ 56. Era quindi naturale che la plebe non li amasse. Una tradizio­ne rabbinica riferisce che una volta il popolo esasperato urlasse nel­l’atrio del Tempio: Uscite via di qua, uscite via di qua, figli di EliI Avete insozzato la casa del nostro Dio! (Sukkah, pal., iv, 54 d). I figli di Eli erano i legittimi sacerdoti di Dio Jahvè, che dal popolo non erano dunque graditi; ma saranno stati essi graditi dal loro stesso Dio Jahvè? A questo proposito abbiamo notizia di un fatto straordinario, che merita di essere ricordato sia per il singolare momento storico in cui sarebbe avvenuto, sia perché la sua notizia è trasmessa concordemen­te dal giudeo Flavio Giuseppe e dal pagano Cornelio Tacito. Narra lo storico giudeo che, in uno degli ultimi anni prima della catastro­fe nazionale e dell’incendio del Tempio, nella festa che si chiama Pentecoste, essendo giunti i sacerdoti nel tempio interno – com’era loro costume per gli uffici liturgici – aflermarono che dapprima ave­vano avvertito una scossa ed un colpo, e poi una voce collettiva “Noi ce ne partiamo di qua”. Colui che abi­tava in permanenza nel Tempio di Gerusalemme e in quel momento se ne partiva, era Jahvè, Dio d’Israele, che qui parla in prima per­sona plurale (come già in Genesi, 1, 26, allorché crea l’umanità). In questa stessa maniera intende il fatto anche lo storico pagano. Accettando come vero questo fatto, bisognerebbe concludere che, non avendo i figli di Eli abbandonato il Tempio alle grida del po­polo esasperato, Dio stesso lo abbandonò lasciando ai sacerdoti un Tempio che era ormai vuoto di Dio. E allora quel Tempio crollò per sempre.

Vita di Gesù 2ultima modifica: 2010-08-23T16:09:00+02:00da meneziade
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