Vita di Gesù 3

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Il gran Sinedrio

 

 

§ 57. Dopo il sommo sacerdozio l’istituzione massima del giudaismo ai tempi di Gesù era il gran Sinedrio, supremo consesso nazionale-religioso. Sebbene la tradizione rabbinica ne attribuisca la fondazione a Mosè, le sue vere origini non risalgono più in su del secolo II av. Cr., allor­ché i monarchi Seleucidi che dominavano in Palestina sancirono an­che in Gerusalemme la forma di governo locale già in vigore in mol­te città ellenistiche: attribuirono, cioè, autorità legale al consiglio degli anziani che presiedeva agli affari della città, riconoscendo ad esso la potestà di legiferare in materia civile e religiosa subordina­tamente al supremo potere monarchico; quindi le decisioni di quel consiglio, come della città principale del giudaismo, ebbero valore normativo anche per altri centri giudaici della monarchia Seleu­cida, sebbene questi avessero e conservassero i loro consigli locali chiamati anch’essi “sinedri” (cfr. Matteo, 10, 17; Marco, 13, 9). Il gran Sinedrio, dunque, sorse come forma di governo limitatamen­te autonoma concessa da monarchi stranieri: era perciò inevitabile che la sua autorità effettiva diminuisse, qualora sorgessero o una monarchia nazionale o un potere dispotico interno. Così difatti av­venne dapprima sotto i nazionali Maccabei-Asmonei, allorché il gran Sinedrio godé di vera potenza nei periodi in cui declinava quella della monarchia, e più tardi sotto il dispotico Erode, allorché al gran Sinedrio non rimase che un’ombra di potere. Al contrario, sotto i procuratori romani l’autorità del gran Sinedrio crebbe grandemente; i Romani infatti, seguendo anche in Palestina la loro norma costante di lasciare ai popoli soggetti una libertà ch’era piena nel campo religioso e subordinata in quello degli affari civili interni, trovarono che al gran Sinedrio di Gerusalemme si po­teva opportunamente affidare l’amministrazione di questa doppia libertà; inoltre il gran Sinedrio era composto in prevalenza di tre menti aristocratici, che nelle province erano graditi ai Romani ben più degli innovatori rappresentanti del basso popolo.

§ 58. Il gran Sinedrio era composto di settantun membri, compreso il presidente ch’era il sommo sacerdote. I membri si spartivano in tre gruppi. Il primo gruppo era formato dai « sommi sacerdoti », e comprendeva sia coloro che erano già stati insigniti di tale ufficio, sia i membri principali delle famiglie da cui erano stati estratti i sommi sacerdoti; era dunque il gruppo dell’aristocrazia sacerdotale, seguace di principii sadducei, e il più potente ai tempi di Gesù. Il secondo gruppo era formato dagli Anziani, rappre­sentanti l’aristocrazia laica; erano quei cittadini che, per il loro censo o per altre ragioni, avevano acquistato un’autorità eminente nella vita pubblica e quindi potevano recare un contributo efficace nella direzione degli affari. Anche costoro appartenevano alla cor­rente sadducea. Il terzo gruppo era quello degli Scribi, o Dottori della Legge: for­mato in massima parte da laici e da Farisei (§ 41), contava tuttavia fra i suoi membri taluni sacerdoti e Sadducei. Era il gruppo popolare e dinamico per eccellenza, di fronte agli altri due aristocratici e statici: per conseguenza, con la catastrofe dell’anno 70, gli altri due gruppi scomparvero travolti dalla reazione popolare, e il gran Sine­drio restò costituito da soli Scribi. La giurisdizione del gran Sinedrio s’estendeva, in teoria, sul giudai­smo di tutto il mondo: in pratica, ai tempi di Gesù, la sua autorità era ordinaria ed efficace in Palestina, straordinaria e fiacca nelle co­munità giudaiche che stavano fuori della Palestina, e risultava tan­to più debole quanto più queste comunità erano esigue o lontane. A quel supremo consesso nazionale i Giudei lontani ricorrevano solo eccezionalmente, di solito quando non potevano ottener giusti­zia dai consessi o sinedri locali.

§ 59. Qualsiasi causa religiosa e civile, avente attinenza con la Leg­ge giudaica, poteva essere giudicata dal gran Sinedrio; ma, nelle varie epoche, avvennero in pratica le limitazioni di potere che già rilevammo. All’epoca dei procuratori romani le sentenze del gran Sinedrio avevano senz’altro valore esecutivo, e potevano essere applicate anche con ricorso alle forze di polizia giudaica o romana: soltanto un caso Roma aveva sottratto alla potestà esecutiva del gran Sinedrio, ed era il caso di sentenza capitale, la quale poteva ben­sì essere pronunziata da quel consesso, ma non già eseguita se non fosse stata individualmente confermata dal magistrato rappresentante di Roma. Del resto era una solenne norma giudiziaria di evitare il più possibile sentenze capitali, e sembra che effettivamente questa norma fosse seguita e che condanne a morte fossero rarissime; rabbini affermarono che un Sinedrio era troppo severo e rovinoso se prenunziava una sentenza capitale ogni sette anni, anzi secondo Rabbi Eleazar figlio d’Azaria ogni settanta anni, mentre Rabbi Tarphon e Rabbi Aqiba asserivano: Se noi fossimo membri del Sinedrio, nessuno mai verrebbe messo a morte (Makkoth, 1, 10). Il Sinedrio era convocato dal sommo sacerdote, e teneva le sedute in un luogo chiamato l’”aula della pietra squadrata”, ch’era situato presso l’angolo sud-occidentale del Tempio interno, quello accessibile ai soli Israeliti (§ 47); da quell’aula, verso l’anno 30 dopo Cr., si sarebbe trasferito in un luogo chiamato “ta­verna” , ma della situazione di questo luogo non si sa nulla e forse la notizia è inesatta. In casi speciali d’urgenza il Sinedrio poteva essere convocato anche nella dimora del suo presidente, il sommo sacerdote. Nei giorni di sabbato o di festività non si teneyano sedute.

§ 60. Ecco poi alcune notizie rabbiniche circa le usanze delle sedute e le norme dei processi. lì Sinedrio sedeva a semicerchio, in modo che (i suoi membri) si potevano vedere fra loro. Il presidente sedeva nel centro e gli an­ziani sedevano (per anzianita’) a destra e a sinistra di lui (Tosefta Sanhednn, viii, 1). Qualche studioso moderno ha sostenuto che anche sotto i procuratori il Sinedrio potesse eseguire le proprie sentenze capitali, ma le ragioni addotte hanno convinto ben pochi. Il Talmud si contraddice su questo punto: nega tale potestà al gran Sinedrio. Due segretari dei giudici sedevano dinanzi a loro, uno a destra e l’altro a sinistra, e raccoglievano i voti di coloro che pronunciavano assoluzione e di coloro che pronunciavano condanna. Rabbi Giuda diceva che ce n’erano tre; (oltre ai due) ce n’era un terzo che rac­coglieva i voti di chi assolveva ed anche di chi condannava. La corte dell’aula della pietra squadrata, sebbene fosse composta di settantun membri, non ne aveva (mai presenti) meno di ventitré. Se qualcuno doveva uscire, dava prima uno sguardo: se erano in venti­tré, usciva; altrimenti non usciva fino a che fossero in ventitré. Sedevano essi dall’”olocausto perenne” del mattino fino all’”olocau­sto perenne” della sera (che si offrivano nel Tempio circa alle 9 antimeridiane e alle 4 pomeridiane). Le cause civili possono iniziarsi con la difesa o con l’accusa; le cause penali possono aprirsi solo con la difesa. Nelle cause civili e’ suffi­ciente la maggioranza di uno, sia per l’attore sia per il convenuto; nelle cause penali la maggioranza di uno assolve, ma per condanna­re e’ necessario la maggioranza di due. Nelle cause civili i giudici possono rivedere la sentenza in favore sia dell’attore sia del conve­nuto; nelle cause penali possono rivedere la sentenza per assolvere non per condannare. Nelle cause civili i giudici possono tutti [con­cordemente] addurre argomenti in favore sia dell’attore sia del con­venuto; nelle cause penali possono addurre argomenti per l’assoluzzo­ne, non per la condanna. Nelle cause civili il giudice che adduce argomenti a carico del convenuto può addurre a carico dell’attore, e viceversa; nelle cause penali il giudice che ha addotto argomenti per la condanna può in seguito addurne per l’assoluzione, ma chi ne ha addotti per l’assoluzione non può disdirsi e addurne per la condanna. Le cause civili si discutono di giorno e si concludono di notte; le cause penali si discutono di giorno e si concludono di giorno. Le cause civili possono essere concluse lo stesso giorno, sia con una sentenza di assoluzione sia con una condanna; le cause penali pos­sono essere concluse il giorno stesso purché la sentenza non sia di condanna; se la sentenza e’ di condanna, il giorno seguente: per questa ragione non si discutono la vigilia del sabbato e delle fe­ste. Nelle cause civili e nelle questioni di punta’ e impurita’ ritua­le i giudici esprimono la loro opinione cominciando dal piu’ anziano; nelle cause penali cominciando dai lati ov’erano i più giovani, affin­ché su essi non influisse la sentenza dei più anziani (Sanhedrin, iv, i segg). I testimoni erano interrogati su sette qunti: (Il fatto avvenne) in quale ciclo sabbatico? In quale anno? In quale mese? In quale giorno del mese? In quale giorno della settimana? In quale ora? In quale luogo?… Riconosci tu quest’uomo? Lo preavvisasti?… (E­scussi poi i vari testimoni, i giudici) ascoltano pure l’accusato che aflermi d’avere alcunché da dichiarare in sua difesa, purché nelle sue parole vi sia qualche fondamento. Se i giudici lo riconoscono innocente, lo liberano; altrimenti rimandano la sentenza al giorno appresso. Si uniscono a due a due, prendono parco cibo senza bere vino per l’intero giorno, e discutono nell’intera notte; il mattino appresso vanno di buon’ora al tribunale. Chi e’ per l’assoluzione dice: “Ero per l’assoluzione e rimango nella stessa opinione”. Chi e’ per la condanna dice: “Ero per la condanna e rimango nella stessa opi­mone”. Il giudice che già sostenne la colpabilità dell’accusato può adesso sostenere l’innocenza, ma non viceversa. Se commettono un errore nell’opinione che esprimono (affermando il contrario di quan to hanno affermato prima), i due scrivani dei giudici li correggono. Se dodici assolvono e undici condannano, l’accusato e’ dichiarato in­nocente. Se dodici condannano, e undici assolvono; come pure se undici assolvono, undici condannano, e uno si astiene; ovvero se ventidue assolvono e condannano, e uno si astiene: si aumenti il numero dei giudici. Fino a che numero? Per coppia fino a set­tantuno in tutto (il numero del gran Sinedrio in pieno). Se trentasei assolvono e trentacinque condannano, si dichiara innocente; se tren­tasei condannano e trentacinque assolvo no, discutono fino a che uno dei propensi a condannare muti sentenza (Sanhedrzn, v, 1-5). Queste, e molte altre norme, valevano in teoria, e ad Ogni modo furono messe in iscritto molto dopo l’epoca di Gesù. All’atto pratico, e all’epoca di Gesù, si può ben credere che le cose andassero diversamente, specie in tempi turbinosi, o anche in tempi normali quando i giudici erano sotto l’influenza di passioni varie. Per i tempi turbi­nosi abbiamo l’esempio del beffardo processo svoltosi, sulla fine del 67 dopo Cr., contro Zacharia figlio di Baris (Baruch) davanti ad un burlesco tribunale di settanta membri adunato nel Tempio; nel Tempio stesso l’imputato, sebbene dichiarato innocente, fu ucciso (Guerra giud., Iv, 335-344). Per i tempi normali abbiamo l’esempio del processo di Gesù.

§ 61. Oltre al gran Sinedrio di Gerusalemme esistevano i sinedri minori, propri alle singole comunità giudaiche di Palestina e dell’este­ro. Ogni comunità ben costituita doveva averlo. Ne facevano parte i Giudei più eminenti del luogo, sotto la presidenza dell’archisi­nagogo. Questo sinedrio locale provvedeva all’amministrazione degli affari particolari alla sua comunità, applicando però le norme generali sta­bilite dal gran Sinedrio di Gerusalemme. Poteva anche costituirsi in tribunale, giudicando cause di minor importanza riguardanti i soggetti di sua giurisdizione: il giudizio poteva concludersi con con­danne a multe pecuniarie o anche a pene corporali, quali la flageilazione fino a trentanove colpi (cfr. li Gorinti, il, 24). Chi si fosse ribellato alla sentenza del sinedrio locale, era escluso dalla comunità per un tempo più o meno lungo; l’esclusione perenne, pronunziata in realtà assai raramente, importava la maledizione ufficiale del con­dannato e la sua esclusione dal giudaismo.

La sinagoga

§ 62. L’edificio chiamato oggi “sinagoga” fu essenzialmente un luo­go di preghiera e d’istruzione religiosa: giustamente i pagani usa­vano chiamare questo edificio, che ai tempi di Gesù si era largamente diffuso nelle loro regioni, col nome di “oratorio”. La funzione della sinagoga fu della massima importanza nella storia del giudaismo. Il suo scopo non fu già quello di sostituire l’unico Tempio israelitico, bensi di confermare ed estendere la sua efficacia quando esso esisteva ancora e di compensarla parzialmente dopoché fu distrutto. La sinagoga dunque non fu un contraltare al Tempio: ne fu piuttosto quasi un pronao spirituale e una cappella sussidiana. La liturgia sacrificale al Dio d’Israele non si poteva compiere legittimamente se non nel Tempio di Gerusalemme, e tale norma ri­mase sempre inconcussa per gli Israeliti ortodossi. Ma sta di fatto che quell’unico Tempio era troppo distante per molti Israeliti della Palestina stessa, e tanto più divenne remoto e difficilmente accessibile quando la nazione giudaica con la sua Diaspora cominciò a scia­mare dalla Palestina e ad inserirsi nelle varie regioni straniere; que­sti lontani fedeli avranno potuto inviare frequentemente pensieri af­fettuosi ed offerte preziose al loro unico santuario, ma piuttosto ra­ramente potevano visitarlo di persona e risentirne direttamente l’ef­ficacia spirituale. Bisognava quindi estendere sempre più quell’efficacia fra i Giudei sia della Palestina sia della Diaspora, e inoltre trovare ad essa, quando eventualmente mancava, un qualche com­penso che fosse compatibile con la più stretta ortodossia. Per tali ragioni sorse la sinagoga. Le sue prime origini, infatti, vanno ricercate fra i Giudei esuli in Babilonia, allorché il Tempio di Gerusalemme non esisteva affatto perché distrutto. A quei tempi certamente non si poté avere la sinagoga vera e propria (come pretenderebbe la tradizione rabbi­nica), tuttavia le varie riunioni che gli esuli facevano presso Eze­chiele ed altri insigni personaggi lasciano intravedere già il nucleo della sinagoga futura. Ma in seguito, anche dopo la ricostruzione del Tempio, i Giudei sia fuori che dentro la Palestina usarono sem­pre piu riunirsi in determinati luoghi o in appositi edifici, per pra­ticarvi quella preghiera ed istruzione religiosa ch’era impossibile pra­ticare nel lontano Tempio ed era meno opportuno praticare in un qualsiasi posto comune. Cosi nacque e prese fisionomia ben distinta l’istituto sinagogale. Già al secolo III av. Cr. si hanno sicure attestazioni archeologiche di edifici sinagogali, e nei secoli seguenti essi si moltiplicano a dismi­sura dentro e fuori la Palestina. Ai tempi di Gesù si può ritenere per certo che in Palestina nessun centro abitato, anche se di scarsa im­portanza, fosse sprovvisto di sinagoga; sarà poi una leggenda l’affer­mazione rabbinica che in Gerusalemme si contassero quattrocen­tottanta sinagoghe di cui una nel recinto del Tempio stesso, tuttavia la leggenda nacque da una buona dose di realtà. Fuori della Pale­stina, nelle varie regioni dell’Impero romano, sono noti circa cento-cinquanta centri abitati provvisti di sinagoga: la sola Roma nel secolo i dopo Cr. ha fornito la prova di tredici distinte comunità giudaiche, ciàscuna delle quali aveva certamente almeno una sina­goga, ma in tutto le comunità dovevano essere più numerose di quelle oggi attestate.

§ 63. Sotto l’aspetto architettonico la sinagoga era essenzialmente costituita da una sala, che di solito era rettangolare e disposta in mo­do che i convenuti fossero rivolti con la faccia verso Gerusalemme e il suo Tempio: in Galilea, paese di Gesù, quasi tutte le sinagoghe di cui rimangono ruderi hanno l’ingresso al lato meridionale, cioè ver­so Gerusalemme, e perciò i convenuti erano rivolti verso l’ingresso. La sala poteva essere divisa in navate da colonne, e sopra queste po­teva poggiare alla periferia un’impalcatura elevata, riservata forse alle donne (matroneo); talvolta avanti all’ingresso della sala s’apriva un atrio con una vasca in mezzo per le abluzioni, e ai lati dell’edi­ficio erano addossate stanze minori destinate a scuola dei fanciulli e ad ospizio dei pellegrini. La sala poteva essere decorata con pittu­re e mosaici; i motivi ornamentali nei templi più antichi si limita­vano alla raffigurazione di esseri inanimati (palme, candelabro a sette bracci, stella a cinque o a sei punte, ecc.), ma più recentemer­te rappresentarono anche animali e uomini (Mosè, Daniele, ecc.), contro la nota proibizione in vigore ai tempi di Gesù. Nell’interno della sala l’oggetto principale era l’armadio sacro, ove si custodivano i rotoli delle Scritture sacre; era collocato in una specie di cappelletta, protetto da un velo, e davan­ti ad esso sembra che ardessero una o più lampade. La sala era anche provvista di un pulpito, mobile o fisso, su cui saliva il lettore della Scrittura e poi il successivo oratore; lo spazio rimanente della sala era occupato da sgabelli, la cui prima fila era oggetto di comuni ambizioni da parte dei frequentatori come più onorifica: talvolta seggi speciali erano disposti a parte, fra l’armadio sacro e il pulpito, e destinati a personaggi insigni.

§ 64. L’edificio sinagogale era affidato a un archisinagogo scelto fra gli anziani della comunità locale; egli curava sia la buona con­servazione degli oggetti sia il regolare svolgimento delle adunanze. Alle sue dipendenze stava un “ministro”, quasi un sacre­stano, che accudiva a varie faccende materiali, come sonar la trom­ba al principio ed alla fine del sabbato, estrarre i rotoli della Scrittu­ra dall’armadio, eseguire la flagellazione di qualche colpevole con­dannato dal sinedrio locale (§ 61), e simili; talvolta questo sacresta­no faceva anche da maestro di scuola per i fanciulli, che si aduna­vano in una stanza attigua.

§ 65. Nella sinagoga le adunanze si tenevano in tutti i sabbati mat­tina e pomeriggio, e negli altri giorni festivi, ma, oltre a queste adunanze di prescrizione, se ne potevano tenere altre specialmente il lunedi’ e il giovedi, e in occasioni particolari. La sinagoga, infatti, divenne sempre più la roccaforte spirituale del popolo in essa si ravvivavano continuamente quei principii nazionali-religiosi che do­vevano distinguere Israele da tutte le altre nazioni; in essa si legge­vano quelle Scritture, si ricordavano quelle tradizioni, si recitavano quelle preghiere che sono rimaste, ancora oggi, il principale patri­monio morale del giudaismo; in essa si cementava l’unione, sia tra i Giudei di una stessa comunità, sia tra le varie comunità di una data regione e anche di tutto il mondo, la quale unione fu la massi­ma forza del giudaismo specialmente dopo la catastrofe del 70. Perché un’adunanza fosse regolare dovevano essere presenti non me­no di dieci uomini: per essere sicuri di tale numero, in tempi assai posteriori, si sussidiarono dieci Giudei della comunità affinché, an­che fuori del sabbato e dei giorni festivi, si tenessero liberi da altre occupazioni onde intervenire alle adunanze.

§ 66. L’adunanza s’iniziava con la recita del tratto scritturale chia­mato, dalla parola con cui comincia, Shema’ “Ascolta…”. Era un tratto composto da tre passi del Pentateuco, nel primo dei quali (Deuteronomio, 6, 4-9) si comanda l’amore di Dio, nel secondo (Deuter., 11, 13-21) l’osservanza dei comandamenti di Dio, e nel terzo (Numeri, 15, 37-41) s’impone che anche le frange delle vesti rammentino i comandamenti di Dio. Questo tratto scritturale era come il primo e fondamentale atto religioso dell’Israelita, l’atto di fede con cui egli affermava solennemente di credere nel Dio unico e di amarlo: non diversamente Gesù, allo Scriba che gli aveva do­mandato quale fosse il primo dei comandamenti, rispose citando appunto l’inizio dello Shema’ (Marco, 12, 29). Dopo lo Shema’ si recitava lo Shemòne esré “Diciotto”, cioè una serie di diciotto brevi preghiere esprimenti adorazione, sudditanza e speranza verso il Dio d’Israele. E’ molto probabile che questa serie di preghiere fosse recitata nelle sinagoghe già ai tempi di Gesù; ma in tal caso essa doveva essere alquanto differente e più breve della recensione (babilonese) oggi ufficialmente in uso, la quale consta in realtà di diciannove preghiere ed è posteriore di molto alla cata­strofe del 70, a cui pure allude. Più antica è un’altra recensione (palestinese) ritrovata da alcune decine d’anni, ma anch’essa non può risalire ai tempi di Gesù, perché la dodicesima preghiera contiene un’imprecazione contro i cristiani in questi termini: Per gli apostati non vi sia speranza, e il regno superbo (certamente l’Impero romano) sradica Tu ben tosto ai nostri giorni! E i nazareni (cristiani) e gli eretici periscano all’istante: siano essi cancellati dal libro della vita, e insieme con i giusti non siano iscritti. Benedetto sii Tu, o Jahve’, che curvi i superbi! Questa maledizione diretta espressamen­te contro i cristiani è scomparsa nella recensione posteriore (babi­lonese), in cui è stata sostituita con una maledizione contro i superbi e gli empi in genere; tuttavia l’impiego della formula di maledizione contro i cristiani è attestato ancora al secolo IV da S. Girolamo. Probabilmente la formula fu introdotta ai tempi di Rabbi Gamaliel Il verso l’anno 100 (cfr. Beratòth, 28 b), mentre il testo complessivo presumibilmente in uso ai tempi di Gesù ne era evidentemente privo.

§ 67. Dopo lo Shemòne esre si procedeva alla lettura delle Scrittu­re sacre. Si cominciava con la Torah (Pentateuco), la quale era divisa in 154 sezioni (eccezionalmente anche di più), in modo che la sua lettura continuativa si compiva interamente in tre anni; seguiva la lettura dei libri chiamati “Profeti” nel canone ebraico cioè i libri da Giosue’ fino ai Profeti minori – la quale era fatta con una certa libertà di scelta e di ampiezza. I testi si leggevano nella lingua originale ebraica: ma poiché ai tem­pi di Gesù il popolo parlava aramaico e ben pochi comprendevano l’ebraico, i singoli passi letti erano man mano tradotti in aramaico. Queste traduzioni, che già ai tempi di Gesù avevano assunto una forma tipica tradizionale, furono più tardi messe in iscritto e costi­tuirono i Targum (im) biblici. Terminata la doppia lettura con traduzione, seguiva un discorso istruttivo che si aggirava su qualche tratto della lettura fatta, spie­gandolo e traendone insegnamenti pratici. Questo discorso poteva essere tenuto da chiunque dei presenti; di solito l’archisinagogo in­vitava a tale incombenza i presenti da lui giudicati più adatti, ma chi lo desiderasse poteva anche offrirsi spontaneamente: in pratica gli oratori erano ordinariamente persone versate nella conoscenza delle Scritture e tradizioni sacre, cioè Scribi e Farisei. L’adunanza terminava con la benedizione sacerdotale contenuta in Numeri, 6, 22 segg. Se tra i presenti si trovava un sacerdote, egli recitava la benedizione e gli altri rispondevano Amen; altrimenti era recitata a guisa d’implorazione da tutti i presenti.

Pratiche e credenze del giudaismo

§ 68. Fra tutte le prescrizioni esterne della religione giudaica le due principali ai tempi di Gesù erano il rito della circoncisione e l’osservanza del sabbato. Specialmente contro questi due pilastri del giudaismo aveva indi­rizzato la sua violenza la persecuzione scatenata in Palestina da Antioco IV Epifane nel 167 av. Cr.; ma i pilastri, sebbene scalfiti, avevano resistito. Succeduta la pace religiosa e l’autonomia nazio­nale, i due pilastri non solo furono anche più rafforzati, ma per naturale reazione furono fatti scendere tali quali dal cielo. Poco prima del 100 av. Cr. un Giudeo palestinese, molto zelante e forse Fariseo, l’autore dell’apocrifo Libro dei Giubilei, era in grado d’in­formare che gli angeli in cielo osservano ambedue queste prescri­zioni del giudaismo, perché sono circoncisi (XV, 27) e rispettano il sabbato; anzi il sabbato è osservato in cielo da Dio stesso (II, 19, 21). La successiva tradizione rabbinica s’inoltrò su questa strada. Si affermò che nel mondo di là Abramo sederà all’ingresso della Gehenna e non permetterà che vi discenda alcun Israelita cir­conciso; tuttavia, qualora ad Abramo si presenti tale Israelita che in vita sua sia stato un insigne furfante, il patriarca degli Ebrei pri­ma gli cancellerà miracolosamente le tracce della circoncisione, e solo dopo ciò lo caccerà nella Gehenna (Genesi Rabba, XLVII, 8): con la circoncisione, insomma, non si entrava nella Gehenna, e al­trettanto – a quanto pare – si otteneva mediante l’osservanza del sabbato. Si tratta evidentemente di speciali credenze più o meno diffuse fra dotti e plebei, ma che ad ogni modo sono segnalazioni importanti di un dato stato d’animo.

§ 69. La circoncisione era il segno d’appartenere alla nazione prediletta del Dio Jahvè, l’attestato di partecipazione alla discendenza spirituale di Abramo e ai vantaggi dell’alleanza da lui stretta con Jahvè (Genesi, 17, 10 segg.). Perciò il massimo obbrobrio dei pagani, agli occhi di un Israelita, era quello di essere incirconcisi, e con questo appellativo erano essi chiamati quando si voleva infliggere loro la massima umiliazione. Il bambino riceveva la circoncisione l’ottavo giorno dalla sua na­scita: l’operazione poteva essere compiuta da qualunque Giudeo, preferibilmente dal padre del bambino, e di solito si praticava in casa. In questa occasione s’imponeva ufficialmente il nome al bambino.

§ 70. L’osservanza del sabbato era soggetto di minutissime prescrizioni da parte dei rabbini: se ne può avere un concetto da molti passi del Talmud, e specialmente dai suoi due trattati Shabbath e Erubin, dedicati quasi esclusivamente a quest’argomento. Il precetto del sabbato, applicato in tutto il suo rigore, avrebbe im­portato l’astensione da qualsiasi lavoro d’ogni genere: quindi anche l’astensione dal difendere la propria vita minacciata a mano ar­mata, come non la difesero parecchi Giudei durante la persecuzione di Antioco IV Epifane (I Maccabei, 2, 31-38), e inoltre l’astensione da tutto ciò che è necessario per soddisfare le necessità corporali, come se ne astenevano gli Esseni (Guerra giud., n, 147); (§ 44). Ma, evidentemente, siffatto rigore non poteva conciliarsi con le esigenze della vita sociale: di qui le numerose norme rabbiniche, che cerca­vano di mantenere per quanto era possibile il principio teoretico pur non escludendo le urgenze pratiche. Sono elencati 39 gruppi di azioni con cui, secondo i rabbini, si violava il sabbato (Shabbath, VII, 2); tali erano i casi di sciogliere o stringere un nodo di fune, di spegnere una lampada, di eseguire due punti di cucito (numericamente due), di scrivere due lettere (d’alfa­beto), ecc. Tuttavia la casuistica degli stessi rabbini alleggeriva spesso il rigore delle norme generiche: cosi, riguardo alla proibizione di sciogliere un nodo di fune, ad esempio della cavezza d’un cavallo, Rabbi Meir sentenziò che se un camelliere poteva scioglierlo con una sola mano, non c’era violazione del sabbato; parimente era proibito stringere un nodo per calare una secchia nel pozzo, ma fu sentenziato che se il nodo era fatto non con una fune ma con una benda qualsiasi, non c’era violazione del sabbato. E i casi d’interpretazione benigna si moltiplicarono grandemente. Ad essi è dedicato specialmente il trattato Erubin, che mediante artificiosità giuridiche mira a rendere lecito il trasporto fuor della pro­pria casa o terra di un dato oggetto, mentre ogni trasporto sarebbe stato proibito anche se si trattava di un fico secco (Shabbath, vii, 3 segg.); Io stesso trattato mira anche ad aumentare la misura del passeggio o cammino permessi di sabbato, che regolarmente non doveva superare i 2000 cubiti, cioè circa 900 metri.

§ 71. Il sabbato giudaico cominciava, conforme al computo del calendario ebraico, dal tramonto del nostro venerdì e durava fino al tramonto del nostro sabbato. Il pomeriggio del venerdì era chiamato “vigilia del sabbato” o anche “parasceve” cioè “preparazione”; quest’ultimo appellativo era dovuto al fatto che in quel pomeriggio si preparava tutto l’occorrente per l’inoperoso sab­bato, a cominciare dai cibi, giacché una delle 39 azioni proibite di sabbato era quella d’accendere il fuoco. Il rigore del riposo sabbatico poteva bensì cedere a ragioni di natu­ra superiore, ma anche qui continuava la minuziosità casuistica dei rabbini. Di sabbato, quindi, era permessa la circoncisione, ma con talune limitazioni riguardo agli atti accessori; era lecito preparate il sacrificio della Pasqua, ma tralasciando ciò che non era stretta­mente necessario; il sacerdote di servizio nel Tempio poteva com­piere gli atti materiali della liturgia prescritta, e se si feriva un dito poteva medicarselo dentro il Tempio stesso, ma non già fuori. Riguardo all’assistenza sanitaria si era stabilita la norma che il ri­poso del sabbato era superato dal pericolo di vita, ma come al solito la norma riceveva precisazioni di vario genere: il Talmud permette a chi abbia dolor di denti di sciacquarseli con aceto, purché dopo lo inghiottisca (giacché ciò è prender cibo), ma non gli permette di risputarlo fuori (giacché ciò sarebbe prendere una medicina) (Tosefta Shabbath, XII, 9): parimente permette a chi abbia la mano o il piede lussati di bagnarli nell’acqua fredda come al solito (lavanda quotidiana), ma non già di agitarveli dentro (Shabbath, XXII, 6). Astrazione fatta da questa soffocante legislazione, il sabbato era per il giudaismo giorno di letizia e di religiosa spiritualità. Il Talmud stesso prescrive di riserbare a questo giorno i cibi migliori, preparati però alla vigilia; si usavano anche ornamenti e vesti festive. Buona parte del tempo si impiegava in pratiche religiose alla sinagoga o in casa propria, o in pie letture favorite anche dalla forzata inope­rosità.

§ 72. Se la circoncisione riguardava il Giudeo una sola volta nella vita e il sabbato una sola volta la settimana, esisteva un complesso di leggi che non lo lasciavano immune giammai, accompagnandolo in ogni sua azione e in ogni ora del giorno e della notte: erano le leg­gi sulla purità e l’impurità. Per il Giudeo la macchia morale del peccato non avveniva senza una specie di macchia anche fisica, come per contrario il contatto fisico con determinati oggetti ch’erano effetto di peccato o in qual­che maniera rispecchiavano il peccato, produceva in chi li tocca­va una minorazione spirituale, una specie di macchia morale. I casi erano innumerevoli, e ben più del riposo del sabbato fornirono ar­gomento inesauribile alla legislazione rabbinica. Dei sei “ordini” o grandi sezioni in cui è divisa la Mishna – cioè la parte fondamentale del Talmud e commentata da esso – un in­tero ordine, Tohoroth “ purità”, composto di 12 trattati, tratta di questo argomento. Per avere una vaga idea del contenuto, basterà citare i nomi dei trattati. Kelzm, “vasi”; sui vasi e altri oggetti di famiglia e la loro purità. Ohalòth, “tende”; sulla purità delle abitazioni specialmente in caso della presenza d’un cadavere. Ne­gaim, “piaghe”; sulle manifestazioni della lebbra. Parah, “vacca”; sulla vacca rossa (cfr. Numeri, 19). Tohornth, “purità”; sulle impurità che cessano col tramontar del sole. Miqwaoth, “bagni”; sui requisiti dei serbatoi d’acqua. Niddah, “mestruazione”>; su tale ar­gomento. Makshirin, “preparazioni”; sui liquidi che comunicano impurità. Zabin, “effondenti”; su uomini affetti da perdite sessua­li. Tebuljòm, “immerso nel giorno”; su chi ha subito l’immersione purificatrice, ma non è puro fino al tramonto. Jadajim, “mani”; sulle purità delle mani. Uqszn, “picciuoli”; sui picciuoli delle frut­ta come trasmettitori d’impurità. Ognuno di questi 12 trattati, con­tenenti da un minimo di 3 capitoli a un massimo di 30, scende a tale minuziosità di casi e di relativi precetti, che è impossibile rias­sumerli anche sommariamente. Nè è da credere che siffatta congerie di prescrizioni fosse suggerita da mire semplicemente igieniche, o si potesse prendere alla leggiera; al contrario, lo spirito che le dettava era strettamente religioso e chi non le avesse osservate avrebbe violato precetti sacri. Troviamo in­fatti sentenze rabbiniche di questo genere: Chi mangia pane senza lavarsi le mani, e’ come uno che frequenta una meretrice; …chi trascura di lavarsi le mani, sarà sradicato dal mondo (Sotah, 4 b). Al­trove si domanda chi sia uno del “popolo della terra”, cioè uno di coloro che secondo il grande Hillel non temevano il peccato e non erano pii (§ 40), e si risponde che è tale chi mangia il suo cibo pro­fano non in stato di purità, cioè senza lavarsi le mani (Berakhòth, 47 b). Altrove ancora sono riportate sentenze di scomunica pronun­ziate contro chi trascurava di lavarsi le mani prima del pasto (Be­rakhòth, 19 a; Edujjòth, v, 6). Si estendano queste prescrizioni, e le loro relative sanzioni, dalla lavanda delle mani alle varie specie di cibi puri o impuri, e alle mille altre azioni della vita quotidiana contemplate nei suddetti 12 trat­tati, e si avrà una qualche idea della rigidissima clausura che la Ca­suistica dei rabbini imponeva alla vita sociale in forza d’un principio religioso. Su tutta quella fioritura di sentenze si adagiavano come su un letto di rose i legisti Farisei, i quali invitavano il pio Israelita a fare altrettanto se voleva osservare davvero i comandamenti del Dio Jahvè; ma il pio Israelita, che provava effettivamente ad ada­giarvisi, ci si ritrovava come su un letto di spine, le quali laceravano ogni momento la sua ansiosa coscienza senza dargli alcun refrigerio di religiosità intima.

§ 73. Ciò avveniva nell’enorme maggioranza dei casi, in cui non si andava più in là del puro formalismo. Tuttavia non mancarono spiriti eletti che, scendendo più profondamente, raggiunsero la spi­ritualità religiosa da cui avrebbero dovuto essere animate le osser­vanze di quella purità legale che già era stata stabilita nell’Antico Testamento. In tal senso un maestro di poco posteriore a Gesù, cioè Johanan ben Zakkai morto verso l’80 dopo Cr. poté ammonire i suoi discepoli: Nella vostra vita né il morto rende impuro, né l’acqua rende puro, bensì è la prescrizione del Re dei re; Iddio ha detto: “Io ho stabilito una norma, io ho imposto una prescrizione; nessun uomo ha il diritto di trasgredire la mia prescrizione” (Pesi qta, 40 b). Disgraziatamente perle siffatte sono estremamente rare nell’ocea­no della causistica rabbinica.

§ 74. Oltre al sabbato, festa settimanale, il giudaismo osservava al­tre feste periodiche, di cui le principali erano la Pasqua, la Penteco­ste e i Tabernacoli. Queste tre erano chiamate “feste di pellegri­naggio”, perché ogni Israelita maschio giunto a una certa età (nel fissar la quale non erano ben d’accordo i rabbini) era obbligato a re­carsi al Tempio di Gerusalemme. La solennità della Pasqua si celebrava nel mese chiamato Nisan, che andava circa dalla metà del nostro marzo alla metà di aprile. La Pasqua cadeva la sera del giorno 14 di detto mese, ma si riconnet­teva immediatamente con “la festa degli azimi” che si celebrava nei sette giorni seguenti (15-21 Nisan); perciò praticamente questi otto giorni (14-21) erano chiamati sia Pasqua sia Azimi. Fin dalle ore 10 o lì del giorno 14 Nisan ogni minimo frammento di pane fermentato era fatto scomparire da tutte le case giudaiche, essendo di stretto rigore per il resto di quel giorno e per tutti i sette giorni seguenti l’uso del pane azimo. Nel pomeriggio dello stesso giorno 14 avveniva l’immolazione delle vittime pasquali, cioè degli agnelli. L’immolazione era fatta nell’atrio interno del Tempio, dal capo dì famiglia o di gruppo che recava l’agnello; il sangue delle vittime era raccolto e quindi consegnato ai sacerdoti, i quali lo spargevano pres­so l’altare degli olocausti; subito dopo l’immolazione, nell’atrio stesso del Tempio la vittima era spellata e privata di alcune parti interne, e dopo questa preparazione era riportata nella famiglia o nel grup­po a cui apparteneva. In quel pomeriggio del 14 Nisan gli atrii del Tempio diventavano necessariamente tutto un carnaio sanguinolento. Enorme, infatti, era l’affluenza di Giudei provenienti sia dalla Palestina sia dalla Dia­spora, e non potendo l’atrio del Tempio contenere tutti insieme co­loro che vi venivano a scannare l’agnello, si stabilivano da circa le 2 pomeridiane in poi tre turni d’accesso, e fra un turno e l’altro si chiudevano le porte d’entrata. Flavio Giuseppe ci fornisce occasio­nalmente un computo preciso fatto nell’interesse delle autorità ro­mane ai tempi di Nerone, probabilmente nell’anno 65, da cui risulta che nel solo pomeriggio pasquale di quell’anno furono scannate ben 255.600 vittime; un gregge siffatto, benché di agnelli, era bastevole a produrre come un lago di sangue da far rosseggiare tutti i lastricati e i muri del Tempio.

§ 75. Riportato in famiglia, l’agnello immolato era arrostito la sera stessa per il banchetto pasquale. Questo cominciava dopo il tramonto del sole per prolungarsi regolarmente fino alla mezzanotte, ma talvolta anche oltre. A ciascuna mensa partecipavano non meno di dieci persone e non più di venti, che prendevano posto su bassi divani sdraiandovisi per lungo in maniera concentrica alla tavola delle vivande. Era di prescrizione che vi circolassero almeno quattro coppe di vino rituali, tuttavia anche altre non rituali potevano cir­colare prima della terza rituale, ma non già fra la terza e la quarta: non nsulta con sicurezza se tutti i commensali bevessero a una stessa coppa, d’ampie dimensioni, ovvero ciascuno avesse la propria; forse ambedue le usanze erano ammesse. Si cominciava mescendo la prima coppa e recitando una preghiera, con cui si benediceva in primo luogo la giornata festiva e poi il vino (o viceversa, secondo un’altra scuola rabbinica). Quindi si re­cavano in tavola, insieme con il pane azimo, erbe agresti e una salsa speciale (haroseth) nella quale s’intingevano le erbe; dopo ciò, si recava l’agnello arrostito. Si mesceva allora la seconda coppa, e il capo famiglia, di solito dopo una domanda convenzionale del figlio, faceva un piccolo di­scorso per spiegare il significato della festa, ricordando i benefizi del Dio Jahvè verso la prediletta nazione e la liberazione di questa dal­l’Egitto. Si consumava quindi l’agnello arrostito insieme con l’erbe agresti, mentre circolava la seconda coppa. Si passava poi a recitare la prima parte dell’Hallel, inno costituito dai Salmi ebraici 113-118 (Vulgata 112-117); dopo di che si recitava una benedizione con cui cominciava un vero banchetto, preceduto dalla usuale lavanda di mani ma non regolato da particolari cerimonie e costituito da vi­vande varie. Si mesceva quindi la terza coppa, e si pronunziava una preghiera di ringraziamento; poi si recitava la seconda parte del­l’Hallel, e infine si mesceva la quarta coppa. Questo è il rito della Pasqua giudaica qual è descritto, pur con ta­lune imprecisioni, dalla tradizione rabbinica si può ritenere che esso rispecchi, almeno nelle linee generali, l’uso seguito ai tempi di Gesù dalla corrente dei Farisei, e perciò anche dalla gran maggioranza del popolo che le andava appresso.

§ 76. La festa successiva alla Pasqua era quella detta delle (sette) Settimane, o Pentecoste quest’ultimo appellativo è greco “cinquantesima giornata” e designa, come il precedente, lo spazio di tempo che divideva la Pentecoste dalla Pasqua. La festa durava un sol giorno, in cui si offrivano al Tempio i nuovi pani della messe testé compiuta, insieme con sacrifizi speciali; non era festa di carat­tere molto popolare, tuttavia era assai frequentata da Giudei che venivano dalle varie regioni lontane della Diaspora, cadendo la festa nella stagione propizia alla navigazione e ai lunghi viaggi. Circa sei mesi dopo la Pasqua veniva la festa detta dei Tabernacoli o delle Capanne, che cadeva ai 15 del mese Tishri, cioè tra la fine di settembre e il principio di ottobre, e durava otto giorni. Era festa gaia e popolarissima, e poiché ricordava la dimora degli antichi Ebrei nel deserto e insieme celebrava la fine della vendemmia e delle raccolte agricole, il popolo sulle piazze e sulle terrazze costruiva con verdi rami capanne a guisa di tabernacoli, e ivi s’intratteneva: donde il nome della festa. Inoltre si andava al Tempio recando con la ma­no destra un fascetto di palma con mirto e salice (il Lulab o Lolab, frequentemente raffigurato nelle catacombe giudaiche), e con la si­nistra un frutto di cedro. Nella notte del primo giorno della festa il Tempio era illuminato sfarzosamente, e nelle mattine dei primi sette giorni un sacerdote spandeva sull’altare una piccola quantità d’acqua attinta processionalmente alla fonte di Sibe.

§ 77. Ai 10 dello stesso mese Tishri cadeva la solennità dell’Espia­zione o del Kippur, ch’era di riposo e di digiuno assoluto. In essa officiava il sommo sacerdote in persona, che entrava questa sola volta in tutto l’anno – nel « santo dei santi » del Tempio (§ 47), e compieva la simbolica liturgia del capro espiatorio (Levitico, 16; Ebrei, 9, 7). Feste di carattere popolare erano anche altre due. Quella delle Encenie o della Dedicazione, che cadeva ai 25 del mese Kislew (fine di dicembre), durava otto giorni e ricordava la riconsacrazione del Tempio fatta da Giuda Maccabeo nel 164 av. Cr.: si chiamava an­che « festa dei lumi », per le grandi luminarie che vi si accendevano, ed aveva l’indole di un trionfo nazionalistico. La festa dei Purim “sorti”, che scadeva ai 14 e 15 del mese Adar (febbraio-marzo), ricordava la liberazione dei Giudei per mezzo delle sorti ai tempi di Esther. Sebbene solo in occasione del Kippur fosse d’obbligo il digiuno per ogni Giudeo, tuttavia si osservavano anche altri digiuni pubblici o privati. Molti digiunavano spontaneamente quando cadevano gli an­niversari di calamità passate, ad esempio della distruzione di Ge­rusalemme fatta da Nabucodonosor nel 586 av. Cr.; ma digiuni pubblici potevano essere anche prescritti dal gran Sinedrio in occa­sione di calamità presenti, come epidemie, siccità e simili. Frequenti erano anche i digiuni fatti per devozione privata; specialmente i Fa­risei tenevano molto al digiuno del lunedì e del giovedì.

§ 78. I concetti religiosi del giudaismo ai tempi di Gesù sono stati oggetto di ampi ed accurati studi recenti, i quali giustamente hanno messo a profitto i vari scritti apocrifi e rabbinici che nel passato erano di solito trascurati. Si ritrova pertanto che in quei concetti i principii fondamentali dell’antica religiosità ebraica sono general­mente conservati, ma spesso sono stati modificati, talvolta anche tra­visati, e soprattutto hanno ricevuto applicazioni e sviluppi di cui non esiste traccia negli antichi scritti dell’ebraismo. Esamineremo brevemente alcuni di quei concetti che abbiano più attinenza con la vita di Gesù. La fede nel mondo degli spiriti è assai più sviluppata che ai tempi immediatamente successivi all’esilio di Babilonia e più ancora che ai tempi ad esso anteriori. Occasione a questo sviluppo fu il contatto avuto durante e dopo l’esilio con i Persiani, il cui mazdeismo aveva un’ampia angelologia tuttavia la fede giudaica negli spiriti si con tiene sempre dentro l’ortodossia di un rigoroso monoteismo, perché ignora il principio dualistico del mazdeismo, considera tutti gli spi­riti come essen subordinati all’unico Dio, nè estende agli spiriti il culto proprio alla Divinità. Innumerevoli sono gli spiriti e distinti in due categorie, buoni e cat­tivi: i primi sono ministri particolari della Divinità e amici dell’uo­mo, i secondi sono subordinati alla potenza divina ma ostili ad essa e nemici dell’uomo. Gli uni e gli altri, benché spirituali, non sono to­talmente immateriali, bensi provvisti come d’una sostanza eterea e fluente, che è luminosa od opaca a seconda delle qualità buone o cattive dei singoli spiriti. Specialmente gli scritti apocrifi, che rappresentano spesso le creden­ze più divulgate e popolari, sono informatissimi circa il mondo degli spiriti. Di quei buoni, alcuni sono chiamati “angeli della Faccia”, perché stanno perennemente dinanzi alla faccia di Dio, altri sono gli “angeli del Ministero”, perché inviati per ministero presso gli uo­mini. Di questi ultimi, una parte è addetta al governo degli astri e della terra, un’altra a quello delle varie stirpi e nazioni umane o anche dei singoli individui; taluni fanno da guida alle anime dei morti nel loro cammino d’oltretomba, altri hanno l’incarico di tor­mentare i demonii. Esiste anche una gerarchia fra gli spiriti buoni: oltre alle classi dei Seraphim e dei Kerubim, già note all’antico ebraismo, appare la classe degli Ophanim, i quali non dormono mai facendo la guardia al trono della maestà (divina) (Henoch, 71, 7 segg.). Sette particolari spiriti si tengono sempre alla presenza della Divinità, e quattro di essi sono Michele, Rafaele, Gabriele e Uriel: quest’ultimo è scam­biato spesso con Fanuel (cfr. Henoch, 9, 1; 20, 1-8; 40, 9-10; ecc.). Ordinariamente Michele è il vindice della gloria di Dio; Rafaele è l’angelo delle guarigioni corporali; Gabriele è l’angelo delle rivela­zioni particolari; UrieI è il conoscitore dei fatti occulti. Si era incerti a quale dei sei giorni della creazione assegnare la crea­zione degli angeli: taluni l’assegnavano al primo giorno, altri al se­condo, altri al quinto. Incerta era anche l’origine degli spiriti cat­tivi: secondo alcuni, essi erano gli spiriti dei “giganti”, nati dal commercio di alcuni angeli che si lasciarono sedurre dalle figlie de­gli uomini (cfr. Genesi, 6, 1 segg.); ma più attestata è l’altra opinione secondo cui gli spiriti cattivi sono antichi angeli decaduti dal loro stato di gloria. Loro capo è un essere che dapprima era stato chia­mato con appellativo comune il satan, cioè “l’accusatore”, “l’avversario”, sempre preceduto dall’articolo: più tardi, invece, questo appellativo divenne nome proprio, perdendo l’articolo, Satan; altri suoi appellativi più recenti sono quelli di Beliai (Beliar), Beelzebul (Beelzebub), Asmodeo, Mastema, e qualche altro di provenienza varia. Gli spiriti cattivi vagano negli strati aerei più bassi, o dimorano in luoghi deserti, fra ruderi, nelle tombe, in altri luoghi impuri, tal­volta anche in edifici abitati dall’uomo: spesso prendono sede nel corpo stesso dell’uomo, impossessandosi di lui. Dentro e fuori queste dimore agiscono essi, a preferenza di notte, sempre per insidiare e danneggiare gli uomini. I mali, fisici o morali, sono causati o fa­voriti da essi, che arrecano malattie, infortuni, demenza, scandali, discordie, guerre: essi tentano i giusti, guidano gli empi, diffondono l’idolatria, insegnano la magia, si oppongono insomma sistematicamente alla Legge del Dio d’Israele.

§ 79. Non meno dell’angelologia sono sviluppate, ai tempi di Ge­sù, le credenze nell’oltretomba. Su questo argomento l’antico ebrai­smo – stando almeno ai documenti pervenuti fino a noi si era man­tenuto in una grande imprecisione di concetti, sebbene qua e là alcune affermazioni solitarie inducano a sospettare che il relativo pa­trimonio concettuale fosse in realtà più ricco di quanto risulti a noi; ad ogni modo i concetti fondamentali dell’oltretomba erano stati anticamente i seguenti. La dimora dei morti era chiamata Sheol, sempre femminile, immaginata quale immensa caverna posta nei sotterranei del co­smo. Ivi i trapassati, i Rephaim “spossati”, “assopiti” vagavano come ombre su una terra di tenebre e di oscurita, terra di buio e di caligine (Giobbe, 10, 21-22), sebbene altrove si parli di quelle ombre come tuttora animate da passioni umane (Isaia, 14, 9 segg.) e suscettibili di entrare in comunicazione con i viventi per mezzo dell’evocazione necromantica (I Samuele, 28, 8 segg.). Dalla Sheol nessuno, che vi sia disceso, può mai risalire (Giobbe, 7, 9-10; 10, 21; tuttavia cfr. il celebre e disputato passo di 19, 23-27). Nessuna san­zione morale di premio o di pena per gli abitatori della Sheol, quale conseguenza della condotta tenuta durante la vita terrena, è attestata in maniera ben chiara e con precisione inequivocabile nei documen­ti più antichi.

§ 80. Questi concetti vaghi ed incerti si mantennero a lungo an­che dopo l’esilio di Babilonia, e li ritroviamo espressi ancora a pnn­cipio del secolo il av. Cr. da un dotto Scriba quale il Siracida (Eccle­siastico, testo greco, 17, 22-23 al. 27-28; 41, 4 al. 6-7); tuttavia già nell’esilio erano stati sparsi i germi di un nuovo fermento, che do­veva man mano trasformare l’aspetto della questione richiedendone una soluzione più adeguata ai tempi nuovi. Nell’esilio Ezechiele (18, 1 segg.) aveva asserito nel campo della mo­rale il principio della retribuzione individuale, in contrapposto alla retribuzione collettivo-nazionale che aveva regolato l’antico ebrai­smo; e questo nuovo principio doveva necessariamente ripercuotersi anche nella questione dell’oltretomba. Un ignoto solitario di mente elettissima aveva agitato nell’intero libro di Giobbe la questione dei rapporti fra la bontà morale e la felicità terrena, ma era giunto ad una conclusione più negativa che positiva, perché riscontrando che fra i due termini non esiste sempre un collegamento infallibile aveva finito per rifugiarsi in un atto di fede nella somma giustizia di Dio. Tuttavia il fermento lavorava occultamente, e spingeva sempre più a congiungere la questione della retribuzione morale con quella dell’oltretomba, e a chiedersi se dopo la presente vita ottenebrata dall’ingiustizia non ne venisse un’altra illuminata dalla piena giu­stizia: in altre parole, dalla Sheol non si sarebbe un giorno usciti nuovamente attraverso una resurrezione che avrebbe riparato le in­giustizie presenti? Presso il giudaismo di Alessandria, ch’era in abituali relazioni con la platonizzante filosofia ellenistica, si fece a meno di ricorrere alla resurrezione dei morti: nella vita presente il corpo corruttibile era co­me una pesante catena imposta all’anima prigioniera (Sapienza, 9, 15), e quindi con la morte l’anima del giusto era liberata dal suo carcere e tornava a Dio presso cui trovava il meritato premio (ivi, 3, 1 segg.). Ma per il giudaismo palestinese, ignaro di platonismo e invece abituato a vedere nel composto umano un quid unum, era necessaria una soluzione che corrispondesse compiutamente a siffatta visione unitaria dell’individuo umano, e che di questo investisse tanto l’anima quanto il corpo. Già nel passato si erano avute affer­mazioni della resurrezione dei morti3 ma piuttosto d’indole poetica (Isaia, 26, 19) o simbolica (Ezechiele, 37, 1-14); in seguito essa è affermata nettamente (Daniele, 12, 1-3), e da parte dei Farisei si so­sterrà in polemica contro i Sadducei che è utile pregare per i morti nella sicura attesa della loro resurrezione (II Maccabei, 12, 43-46; cfr. 7, 9). Ai tempi di Gesù la fede nella resurrezione era generale nel giudaismo palestinese, con la sola eccezione dei Sadducei (§ 34), ed è nettamente attestata sia presso vari apocrifi composti dal secolo I av. Cr. in poi, sia presso scritti rabbinici. Tuttavia nelle partico­larità di questa fede esistevano divergenze: ad esempio, sembra che parecchi negassero la resurrezione degli empi, i quali invece sareb­bero stati annientati. Negli stessi apocrifi troviamo divergenze anche più numerose quan­do passano a descrivere, con minuziosità interminabile, la topografia e l’apparato materiale dell’oltretomba, sia che trattino degli scom­partimenti riservati ai giusti sia di quelli degli empi: ma, quasi in compenso, si assiste ad una vera fantasmagoria di labirintiche co­struzioni innalzate dall’immaginativa di generazioni intere. Antichis­simi concetti cosmologici sono confluiti in tali descrizioni, mentre poi molti loro elementi si trasmetteranno costantemente in seguito fino ad essere inclusi anche nella

Vita di Gesù 3ultima modifica: 2010-08-24T16:12:00+02:00da meneziade
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