Vita di Gesù 15

cristo_re.jpgDALL’ULTIMA FESTA DELLA DEDICAZIONE FINO ALL’ULTIMO VIAGGIO LUNGO LA GIUDEA

Alla festa della Dedicazione

§ 460. Nella precedente operosità di Gesù furono consumati circa due mesi e mezzo, cioè l’intervallo di tempo che separava la festa dei Tabernacoli (§ 416) da quella delle Encenie, ossia della Dedicazione del Tempio (§ 77). Poiché Giovanni (10, 22) dice esplicitamente che a quest’ultima festa Gesù intervenne, viene spontaneo identificare questo intervento con uno dei viaggi minori appena accennati da Luca (§ 415). Era dunque la fine di dicembre dell’anno 29; inter­rompendo la sua vaga peregrinazione lungo la Giudea, Gesù si recò nella capitale per continuare ivi il suo ministero durante quella na­zionalistica « festa dei lumi ». La sua presenza in città fu subito notata le recenti discussioni sulla sua missione e il suo aggirarsi nella circostante Giudea avevano reso il Rabbi galileo oggetto di particolare attenzione e sorveglianza da parte delle supreme autorità del giudaismo. Difatti un giorno del­l’ottava festiva, mentre Gesù si intratteneva nel Tempio e insegnava passeggiando nel “portico di Salomone” (§ 48) forse a causa della pioggia – il minuzioso Giovanni ricorda appunto che era inverno – gli vennero attorno i soliti avversari Giudei e gli dissero: Fino a quando tieni sospeso l’animo nostro? Se tu sei il Cristo (Messia), dic­celo francamente! La forma di questa dichiarazione è non solo ami­chevole, ma quasi di raccomandazione e di preghiera: si direbbe che quegli interroganti aspettassero soltanto la franca dichiarazione che Gesù era l’aspettato Messia per darsi anima e corpo a lui. La so­stanza dell’interrogazione è invece un’insidia: gli avversari aspettano quella franca dichiarazione soltanto per ritorcerla in accusa contro Gesù e rovinarlo, come mostreranno poi i fatti. Il carattere subdolo dell’interrogazione è rivelato da Gesù, il quale risponde fornendo la sostanza della dichiarazione attesa, ma non nella forma desiderata, giacché dichiara chi egli sia, senza però offri­re appiglio all’insidia: Ve (lo) dissi e non credete: le opere che io faccio nel nome del Padre mio, queste attestano circa me; ma voi non credete, perché non siete delle mie pecore. Le mie pecore odono la voce mia, e io le conosco e mi seguono; e io do ad esse vita eter­na, e non periranno in eterno e non le rapirà alcuno dalla mia mano. Ciò che il Padre mio mi ha dato è maggiore di tutte le cose, e nessuno può rapir(lo) dalla mano del Padre. (Ora), io e il Padre siamo una sola cosa (Giovanni, 10, 25-30). Gli interroganti avevano sperato che Gesù rispondesse esplicitamente “io sono il Mes­sia”; Gesù invece ha risposto in sostanza “Che io sia il Messia ar­gomentatelo dalle opere che io faccio”, evitando una dichiarazione precisa e netta, come già aveva fatto con gli stessi avversari alla fe­sta dei Tabernacoli (§ 422). Anche il motivo di questa maniera in­diretta di rispondere è il medesimo; considerando serenamente i mi­racoli di Gesù, tutti potevano concludere che era giunto… il regno d’iddio (§ 444) e che egli era il Messia, mentre questo appello ai miracoli non offriva appiglio a denunzie politiche e a violenze; se invece Gesù si fosse con termini espliciti dichiarato Messia davanti a quegli avversari, avrebbe fornito loro occasione di accusano pres­so le autorità romane come agitatore politico, o anche di trascendere ad atti di violenza immediata contro di lui.

§ 461. Infatti, appena udite le ultime parole di Gesù, i Giudei pre­sero di nuovo le pietre per lapidarlo; l’evangelista con l’avverbio di nuovo vuoI ricordare l’analogo tentativo fatto ai Tabernacoli pochi mesi prima. In quell’occasione Gesù si era proclamato anteriore ad Abramo (§ 423), si era descritto come buon pastore di affezionate pe­core (§ 432 segg.), ed aveva anche risaputo del tentativo fatto dai Farisei di “rapire dalla sua mano” una di quelle pecore, cioè il cieco nato scacciato dagli inquisitori, ed espulso conseguentemente dalla sinagoga (§ 430). Qui Gesù va assai più oltre: in linea prelimi­nare afferma che gli avversari non credono in lui perché non sono del numero delle sue pecore, e che queste non possono essere rapite via dalla mano di lui come neppure dalla mano del Padre; infine, rivela la ragione fondamentale di tutto ciò, la quale è che Gesù e il Padre sono una sola cosa. Dunque Gesù, pur non proclamandosi esplicitamente Messia, si proclama addirittura Dio? Cosi interpretarono le sue parole i Giudei con logica inappuntabile, e lo dichiararono apertamente. Vedendoli infatti raccogliere le pie­tre, Gesù domandò loro: “Molte opere buone vi mostrai (fatte per autorità ricevuta) dal Padre; per quale opera fra esse mi lapidate?”. Gli risposero i Giudei:”Per opera buona non ti lapidiamo, ma per bestemmia, e perché, essendo tu uomo, fai te stesso Dio!”. Il furo­re per la lapidazione è momentaneamente calmato: in Oriente sui mercati e nei fondachi, nei luoghi pubblici e nei privati, gli animi si accendono ad un tratto per un nonnulla: si grida, si gesticola, tea­ tralrnente, senza conseguenze tragiche. Così avvenne quella volta, e i minacciosi ascoltarono le spiegazioni di Gesù, che disse: Eppure nella vostra Legge sta scritto quel passo: “Io dissi – Siete Dei –“ (cfr. Salmo 82, 6 ebr.). Se dunque Dio stesso, rivolgendosi agli uo­mini li chiama Dei, e fa ciò nella sacra Scrittura la cui testimonianza è irrefragabile; perché accusate di bestemmia me per aver detto che sono figlio di Dio, se il Padre stesso mi ha santificato e inviato nel mondo? Ad ogni modo, guardate le mie opere: se non faccio le opere del Padre mio, non mi credete; ma se le faccio, lasciatevi con­vincere da esse, e allora conoscerete che in me (e’) il Padre e io (so­no) nel Padre (Giovanni, 10, 34-38). Nel passo della Scrittura addotto a prova, il termine Dei è usato in senso improprio, perché si riferisce ai giudici umani, che rappresen­tano l’autorità di Dio nei tribunali. La prova tuttavia era efficace come argomento ad hominem, per ridurre al silenzio gli avversari di Gesù rispettosi della sacra Scrittura: se la Scrittura stessa chia­mava Dei gli uomini, i Giudei non potevano accusarlo di bestem­mia avendo egli maggior ragione per attribuirsi quel termine. Anche qui Gesù non scese a particolari, che avrebbero gettato altra esca sul fuoco; tuttavia, riferendosi alla frase incriminata secondo cui egli e il Padre erano una cosa sola, precisò dichiarando in me (e’) il Padre e io (sono) nel Padre. Lungi dall’essere un’attenuazione, questa spiegazione era una conferma della frase. Anche questa volta i Giu­dei capirono perfettamente, e il fuoco che era appena sopito divampò nuovamente: Cercavano pertanto di nuovo di afferrario; ma (egli) uscì fuori dalle loro mani. Quei Giudei erano molto intelligenti: capirono subito e perfettamente ciò che gli Ariani, tre secoli più tardi, non vollero capire, cioè che dalle parole di Gesù risulta indubbiamente che egli si è dichia­rato eguale in tutto al Padre. I critici radicali odierni sono intelli­genti quanto quegli antichi Giudei, e forse anche più: capiscono anch’essi perfettamente che dalle parole di Gesù risulta una dichia­razione di eguaglianza al Padre, ma parecchi di essi – tanto per non essere da meno degli antichi Ariani – assicurano che Gesù non pronunziò mai quelle parole, le quali sarebbero un’esposizione teo­rica del dogma cristiano dovuta all’autore del IV vangelo. Le prove “storiche” di questa spiegazione sono tutte nell’assicurazione di chi la propone, e nella solita “impossibilità” che Gesù abbia pronun­ziato quelle parole. Ritorna insomma l’identico procedimento già seguito a proposito dell’episodio di Cesarea di Filippo (§ 398): giac­ché in sostanza quella critica demolitrice, se è povera e nuda di ar­gomenti storici, è anche monotona e uniforme nei suoi procedimenti dialettici. Gesu’ nella Transgiordania

§ 462. Poco dopo la festa della Dedicazione, ossia nei primi giorni dell’anno 30, Gesù si recò in Transgiordania (Perea), precisamente nella zona ove Giovanni il Battista aveva amministrato il suo bat­tesimo (§ 269) e vi si trattenne qualche tempo (Giovanni, 10, 40; cfr. Matteo, 19,1; Marco, 10, 1; Luca, 13, 31 segg.); di là tuttavia egli dovette in seguito irradiarsi per varie escursioni missionarie nelle par­ti settentrionali della Giudea, attraversando anche la Samaria e rag­giungendo la Galilea, dalla cui direzione lo fa scendere Luca (17, 11) nel suo ultimo e definitivo viaggio verso Gerusalemme (§ 414). Perciò anche per questo periodo continua l’imprecisione di cronolo­gia e di topografia che già rilevammo, e la narrazione di Luca pro­segue ad essere aneddotica (§ 415). Un tale una volta l’interroga: Signore, saranno pochi coloro che si salvano? – Gesù risponde impiegando idee che già abbiamo udite nel Discorso della montagna secondo Matteo (§ 333): Sforzatevi di entrare per la porta stretta, giacché molti cercheranno invano di en­trare quando il padrone, visto che gli invitati sono tutti giunti, si è evato da sedere ed è andato a chiudere l’uscio; allora sarà troppo tardi, e a quelli che busseranno per entrare sarà risposto: Non so donde siete! L’interrogazione fatta a Gesù risentiva dell’opinione diffusa a quei tempi nel giudaismo, che gli eletti fossero in numero molto minore dei reprobi. Gesù non respinge né approva tale opinione, ma solo invita a sforzarsi per entrare nella sala del convito non essendo facile l’ingresso. E’ vero che l’interrogante è giudeo, membro del popolo eletto e connazionale di Gesù: ma tale qualità non serve a nulla per avere un ingresso di favore. Prosegue infatti Gesù: Quando vi vedrete cosi esclusi, insisterete dicendo « Ma co­me? Abbiamo mangiato e bevuto insieme con te, e tu hai insegnato nelle nostre piazze!“ eppure vi sarà ancora risposto “Non so donde siete; lungi da me voi tutti operatori di iniquità” (§ 333). Voi ri­marrete là ove è pianto e stridore di denti, pur vedendo i vostri antenati Abramo Isacco e Giacobbe, nel regno di Dio. Né i posti lasciati vuoti da voi a quel convito rimarranno vuoti, giacché giungeranno altri invitati non giudei da Oriente ed Occidente, da Settentrione e Mezzodi, e s’assideranno a mensa nel regno di Dio!

§ 463 Si avvicinarono poi a Gesù alcuni Farisei e gli dissero in to­no confidenziale: Va’ fuori, allontanati di qua, perché Erode vuole ucciderti (Luca, 13, 31). Questo Erode è Antipa, l’assassino di Gio­vanni il Battista; trovandosi allora Gesù nella Transgiordania, era appunto sul territorio di lui: di qui il consiglio datogli da quei Fa­risei. Ma come stavano in realtà le cose? Aveva Antipa vera intenzione di mettere a morte Gesù? Molto probabilmente no, ché se l’avesse avu­ta, l’avrebbe eseguita con segretezza e facilità. Egli piuttosto comin­ciava ad esser seccato di quel Rabbi galileo, ricomparso adesso nel suo territorio a commuovere turbe e sovvertire istituzioni e che nella sua fisionomia morale rassomigliava tanto al Giovanni da lui ucciso; questa sua vittima doveva stargli sempre fissa davanti agli occhi, qua­si per continuare con più potenza il suo ufficio di censore, e il tetrarca non aveva alcun desiderio di disturbare ancor più le sue not­ti adulterine facendo una vittima anche di Gesù. Si allontanasse costui spontaneamente dal suo territorio, senza costringerlo a ricorrere alla forza. Ma come indurlo a questa partenza? C’erano i Farisei pronti a questo servizio; se com’è probabile (§ 292) – appunto essi si erano prestati come mediatori per attirare Giovanni il Battista sul territorio di Antipa e farlo catturare da lui, adesso in compenso fa­cessero la mediazione inversa inducendo Gesù ad allontanarsi con lo spauracchio della morte: e i Farisei si sarebbero prestati volentieri a questo servizio perché, attirato che avessero Gesù nella zona di Gerusalemme, più facilmente avrebbero fatto di lui ciò che volevano. Una fine astuta da volpe. Gesù infatti, sapendo benissimo come stavano le cose, rispose a quei premurosi Farisei: Andate a dire a questa volpe: “Ecco, scaccio de­monii e compio guarigioni oggi e domani, e al terzo (giorno) son consumato; senonché e’ necessario che oggi e domani e il dì seguente io cammini, perché non e’ conveniente che un profeta perisca fuori di Gerusalemme”. La risposta da portare alla volpe, ossia ad Anti­pa, lo esortava a non preoccuparsi: Gesù avrebbe continuato la sua operosità taumaturgica, nel territorio del tetrarca o altrove, ancora due giorni e al terzo giorno l’avrebbe cessata ed egli stesso sarebbe stato consumato; ma questa consumazione della sua vita non sarebbe avvenuta nel territorio di Antipa bensì a Gerusa­lemme, tanto per rispettare il tragico privilegio di questa città di es­sere l’assassina dei profeti. Ancora una volta, dunque, Gesù si appella nettamente alle sue ope­re taumaturgiche come alle prove della sua missione; inoltre affer­ma che questa missione durerà ancora un giorno, un secondo gior­no, e parte di un terzo. E’ questa indicazione di tempo soltanto vaga e generica (come, riferendosi al passato, si direbbe “ieri, l’altro ieri e tre giorni fa”), oppure vuole essere una delimitazione ben precisa? Il primo caso è certamente possibile, ma il secondo sembra più pro­babile; se Gesù pronunziava queste parole nel gennaio dell’anno (§ 462), circa due mesi e mezzo lo separavano dalla sua morte, e questi sarebbero i due giorni e mezzo qui accennati.

Condizioni per seguire Gesu’

§ 464. Luca continua nella sua raccolta di aneddoti. All’avvertimento da parte di Antipa, egli soggiunge il convito presso il Fariseo e le successive discussioni di cui già trattammo (§ 456 segg.); appresso ancora egli colloca una serie di condizioni per seguire Gesù, il quale le elenca un giorno ch’è seguito da numerose folle, mentre alcune di queste condizioni sono collocate altrove da Matteo. Esse si raggruppano in tre capi principali: l’amore per Gesù deve preva­lere nel suo seguace sull’amore per il proprio sangue e per tutte le persone che ne partecipano; deve prevalere sull’amore per la sua propria persona morale e fisica; deve prevalere sull’amore per i beni materiali. Se alcuno viene a me, e non odia il padre suo e la madre e la mo­glie e i figli e i fratelli e le sorelle e anche la sua propria vita non può essere mio discepolo. Chiunque non porta la sua croce e viene dietro a me (§ 400) – non può essere mio discepolo. Ognuno di voi che non rinunzia a tutte le sue sostanze – non può essere mio discepolo. Il Semita, per dire che egli amava meno Tizio che Caio, diceva che odiava Tizio in confronto di Caio (cfr. Genesi, 29, 30-33: Deutero­nomio, 21, 15-17); in tal senso qui Gesù, nella prima condizione, di­ce che il suo seguace deve odiare le persone del suo proprio sangue. Probabilmente per effetto del lavoro redazionale la terza condizione (Luca, 14, 33) è staccata dalle altre due (14, 26-27), ed è preceduta da una doppia parabola che le illumina tutte e tre. Queste condizio­ni sono essenzialissime per entrare nella sequela di Gesù: ognuno dunque, avanti d’incamminarsi per seguirlo, faccia bene i suoi cal­coli e ponderi se è disposto ad osservarle, altrimenti non s’incammini. E infatti, chi è che voglia costruire una torre, e non faccia prima il computo delle spese per vedere se potrà sostenerle? Se invece co­mincerà senz’altro a costruire, gli potrà succedere che, gettate le fon­damenta, non abbia più denari per sovredificare; e allora la fab­brica rimasta a mezzo diventerà la favola del paese, e tutti si beffe­ranno del presuntuoso costruttore. Oppure qual è quel re che voglia muover guerra con 10.000 armati a un altro re che ne ha 20.000, e non faccia prima i calcoli strategici per vedere se l’inferiorità numerica delle proprie forze può essere compensata dalla loro valentia o da altre circostanze propizie? Se poi vede che non può essere compensata, non attacca battaglia, ma piuttosto entra in negoziati di pace. Nella stessa guisa, chi vuol seguire Gesù, deve amar lui prima di tutto e sopra ogni altra cosa. Può darsi benissimo il caso che l’amor per lui si accordi con altri amori; ma quando questi altri amori con­trastino con quello supremo, dovranno cedere il campo ad esso e lasciarlo dominare da padrone assoluto. Altrimenti non si può es­sere in alcun modo vero seguace di Gesù. Queste condizioni, franche fino alla rudezza, furono presentate da Gesù alle molte folle che accorrevano a lui (Luca, 14, 25). Il loro significato storico è chiaro. Fra gli accorrenti molti, anzi moltissimi, si sentivano attirati dalla superiorita spirituale di Gesù, dalla poten­za dei suoi miracoli, da vaghe speranze di trionfi e di gloria, da aspet­tative di condominio con lui nel suo regno messianico, ma costoro alle prime difficoltà si sarebbero ritirati precipitosamente addietro; Gesù previene queste difficoltà, e presenta le rudi condizioni per se­guirlo come altrettante disillusioni di cotesti loro sogni beati. Non si prendano le cose alla leggiera. Al seguace di Gesù si può chiedere ad ogni momento di essere un gigante di eroismo: l’edificio che que­sto seguace comincia a costruire è una torre basata sulla terra, ma la cui cima dovrà toccare il cielo; il volo che egli spicca, affidato unicamente a “l’ale sue”, congiunge due « liti sì lontani » quali la terra e il cielo. Chi non si sente la forza di far ciò rinunziando a tutti « gli argomenti umani », potrà mettersi alla sequela di qualche insigne maestro fariseo, non già di Gesù: Vedi che sdegna gli argomenti umani, Si che remo non vuoI né altro velo Che l’ale sue tra liti si lontani. Purgatorio, ir, 31-33.

La pecora e la dramma perdute

§ 465. Qui Luca fa seguire una collana di parabole: le prime perle di questa collana, da lui conservataci, si possono ben chiamare i gio­ielli della misericordia divina, e confermano al gioielliere il titolo de­cretatogli da Dante di scriba mansuedinis Christi (§138). Una breve introduzione serve da cornice a queste parabole della misericordia: Stavano a lui vicini tutti i pubblicani ed i peccatori per udirlo; e (quindi) mormoravano sia i Farisei che gli Scribi dicendo: “Costui accoglie i peccatori e mangia insieme con essi!”. Brontola­menti di questo genere erano già noti a Gesù, che aveva risposto in proposito molto tempo prima (§ 306). Questa volta rispose nuova­mente ricorrendo alle predilette parabole, le quali potevano giovare sia ai tracotanti condannatori sia ai poveri condannati. Il primo paragone fu preso dai costumi pastorali (§ 432 segg.). Un pastore ha 100 pecore e la mattina, fattele uscire dall’ovile, si mette in giro con esse per la steppa a farle pascolare. A una certa ora della giornata si avvede che una pecora manca; guarda e riguarda, non la vede. Non c’è dubbio: s’è perduta. Si sarà staccata dal gruppo, attirata da qualche valloncello più verde e ubertoso, e mentre il re­sto del gregge si allontana sarà rimasta là solitaria, ingannata dalla momentanea abbondanza ma esposta al lupo notturno. Presto! Bisogna far di tutto per ritrovarla, prima che calino le rapide ombre del vespero palestinese. Il sollecito pastore affida allora le altre 99 pecore ai garzoni, e corre alla ricerca della smarrita… Cala in valloncelli, sale su collinette, scruta su distese aperte, sempre col cuore angosciato; spia il roteare dei falchi, chiama, tende l’orecchio, non si dà pace, finché in un mo­mento di gaudio ode un belato. E’ la pecora perduta! Le corre dappresso. Per lei non ha una voce di rimprovero, non un gesto di minaccia; anzi l’alza di peso e se la mette sulle spalle, estendendo a lei il privilegio riserbato agli agnellini da latte che non possono an­cora camminare: trovandosi solitaria, quella povera bestiola avrà tanto penato, non meno del suo pastore, e merita bene quel privile­gio! Né il pastore avverte sulle sue spalle quel carico non leggiero: il gaudio di sentire addosso a sé la bestiola perduta gliene fa sembrare piacevole il peso. La sera poi, giunto a casa, il pastore non si occupa affatto delle altre 99 pecore che egli sa al sicuro, bensì chiama amici e compagni volendo condividere con essi il suo nuovo gaudio: Allegri! E’ andata bene! Eccola là, la pecora perduta! L’ho ritrovata! – Gesù concluse: Vi dico che così sarà gaudio nel cielo per un solo peccatore che si penta, piu’ che per 99 giusti i quali non hanno bi­sogno di penitenza. Il secondo paragone è tolto dalle usanze domestiche, ma simboleg­gia l’identico insegnamento morale del primo. Una buona donna di casa, accorta ed economica, si è costituito un gruzzoletto a forza di piccole industrie e di risparmiucci. Sono dieci dramme, dieci lam­panti monete del valore complessivo di poco più che 10 lire in oro. La donna le tiene ben raggruppate dentro una pezzuola; la pezzuola è accuratamente ravvolta e legata a nodo; il prezioso involto sta gelosamente nascosto in un angoletto oscuro della casa, dove di tanto in tanto la donna va a far delle visitine per vedere che tut­to sia in ordine e per rallegrarsi la vista a quel luccichìo. Senonché un brutto giorno la visitatrice, slegato l’involto, trova che le dram­me non sono più dieci, ma nove. Che amara sorpresa! Dove mai sa­rà andata a finire la dramma mancante? Quando sarà scomparsa? Tutta affannata la donna ripensa alle ultime volte che ha maneg­giato il gruzzolo: forse è rotolata via il giorno tale, quando fece in fretta e furia quel pagamento; forse quell’altro giorno, quando scon­volse tutta la casa per far pulizia. E allora l’ansiosa donna si arma di lucerna e di scopa; scruta gli angoletti più oscuri, spazza una per una le fessure dell’impiantito, spia in tutti i bucherelli e in tutte le screpolature, fino a che scorge rimpiattata fra due assi la dramma mancante. Allora esplode la sua gioia rumorosa; la donna fa croc­chio con amiche e comari per raccontare a tutte il suo gaudio, come aveva fatto il pastore per la pecora ritrovata. E Gesù conclude: Così, vi dico, e’ gaudio al cospetto degli angeli d’Iddio per un solo peccatore che si penta. In conclusione, conversione di uomini in terra significa in cielo gaudio di angeli.

Il figliuol prodigo

§ 466. Le due parabole precedenti hanno mostrato quale sarà il contegno di Dio riguardo al peccatore che si penta e torni a lui; ma quale dovrà essere il contegno dell’uomo non peccatore riguardo al peccatore pentito? A questa nuova domanda risponde, dopo aver confermato il contegno di Dio, la parabola del figliuol prodigo. Letterariamente parlando, questa parabola non può essere definita che come un miracolo. Questo racconto, che nel campo morale è il massimo argomento di speranza per ogni figlio dell’uomo, nel cam­po letterario sarà sempre il massimo argomento di disperazione per ogni cultore dell’umana parola, come hanno riconosciuto da gran tempo studiosi di ogni tendenza. Nessuno scrittore al mondo ha rag­giunto tanta potenza di commozione, in un racconto cosi breve, così vero, così privo di qualsiasi artificio letterario. La sua semplicità è somma, il disegno è appena lineare: eppure la sua efficacia è mag­giore di quella d’altre narrazioni giustamente celebrate per sapienza di costruzione e limpidezza d’eloquio. Ripetere questa parabola con altre parole equivale indubbiamente ad offuscarne la bellezza; tut­tavia, per ragioni di chiarezza storica, siamo costretti a questo detur­pamento. Un uomo aveva due figli, con i quali viveva agiatamente in cam­pagna curando i suoi vasti terreni e governando la numerosa servitù. Dei figli il maggiore era una vera perla: giovane serio e posato, non badava che alla fattoria, era il braccio destro di suo padre nel diri­gere i lavori dei campi, non si prendeva uno svago con i pochi ed assennati amici che aveva. Il figlio minore era tutt’altro: pieno di fumi nel cervello, si sentiva soffocare in quella vita cosi puntuale e metodica; i lavori dei campi lo annoiavano, il gregge e l’armento lo infastidivano col loro tanfo, la fattoria gli sembrava un carcere dove i carcerieri erano i garzoni sempre pronti a fare la spia d’ogni sua azione al padre. Dai molti e scapati amici che aveva nei dintor­ni aveva sentito raccontare cose mirabili di grandi città lontane, do­ve si tenevano banchetti, danze, musiche, feste sbalorditive, dove si incontravano ad ogni passo donne profumate e piacevolissimi amici, invece delle puzzolenti pecoraie e dei lerci bifolchi di suo padre. Là era la vera vita! Là lontano egli ripensava accorato nelle sere estive, quando dopo un’oziosa giornata se ne stava sdraiato sul prato della fattoria rassegnandosi a sentir cantare i grilli, e riflettendo con me­lanconia che i mesi e gli anni volavano via irrimediabilmente e che la sua gioventù sfumava nel vuoto e nella noia. Ma un giorno il giovane non ne poté più e prese la sua risoluzione, conforme a ciò che qualche tempo prima gli era stata suggerito da un amico. Si presentò egli al padre e gli disse senz’altro: Padre, dammi la parte del patrimonio che (mi) spetta. La richiesta non era irregolare: secondo la Legge ebraica (Deuteronomio, 21, 17), il fi­glio primogenito aveva diritto a una parte doppia; in questo caso, essendo due figli, al minore spettava un terzo dell’asse ereditario. A quella richiesta, il padre dovette guardare lungamente negli occhi il giovane, ma non disse parola, come il giovane non ardi aggiunger parola a quella della richiesta; l’uno s’allontanò dall’altro in silen­zio. In questo scambievole silenzio, che durò più giorni, la sparti­zione fu fatta; i beni immobili da cedersi furono convertiti in de­naro, e non molti giorni dopo, radunata ogni cosa, il figlio piu’ gio­vane emigrò in regione lontana. Finalmente cominciava la vera vita! La regione era assai lontana, ignara affatto dei pregiudizi di morale ebraica e anzi seguace di co­stumanze aborrite dall’ebraismo; il giovane vi entrava provvisto di gran denaro, equivalente alla terza parte di un asse molto conside­revole; poteva dunque fare il piacer suo. I suoi antichi sogni co­minciavano a diventare realtà, e quell’assetato di godimenti vi si immerse a corpo morto. Il testo dice che egli si dette a vivere sfrenatamente o dissolutamente, sia anche prodigalmente o da scialacquatore; le due maniere, del resto, sono necessariamente congiunte tra loro. I giorni passavano presto e bene, in quella vita; ma vennero anche le conseguenze. Dopo un certo tempo, insieme col tempo, era passato anche il denaro, unica fonte di quei piaceri, giacché per quanto ri­colma fosse stata da principio la borsa del giovane, non era poi senza fondo. Ma la febbre del piacere l’aveva subito pervaso ed accecato a tal punto, da non lasciargli vedere che la borsa andava sempre più scemando. Un giorno, poi, rimase affatto vuota. La vita beata era finita; ne cominciava un’altra ben diversa.

§ 467. Avendo dunque egli speso tutto, avvenne gran fame in quella regione, ed egli cominciò ad aver bisogno. Il gaudente di ieri è adesso assalito da due parti, all’interno e all’esterno; non solo la sua borsa è vuota, ma nel paese è giunta a un tratto la carestia, una di quelle carestie che mettono in ristrettezze anche chi in tempo ordi­nario vive senza stenti, ed è superfluo dire che gli amici adulatori di ieri sono scomparsi insieme col denaro dell’adulato e adesso ba­dano soltanto ai casi propri. In tali frangenti e in paese straniero il giovane non ha da sofisticare: o morir di fame, o mettersi a lavo­rare come càpita, anche nel lavoro più umiliante e schifoso. Egli allora andò e s’attaccò a uno dei cittadini di quella regione; e (costui) lo mandò nei suoi campi a pascere i porci. Era dunque una regione non giudaica, altrimenti non vi si sarebbero allevati i porci; questo animale, impuro secondo la Legge ebraica, era così abominato dai Giudei, che evitavano perfino di nominarlo, e un dottore del Talmud poteva sentenziare: Maledetto l’uomo che alleva porci, e maledetto chi insegna a suo figlio la sapienza greca (Baba qam ma, 82 b Bar.). E così il gaudente di ieri è divenuto porcaio: ma se con ciò ha evitato la morte, non ha evitato la fame che gli rode continua­mente le viscere. C’è penuria di tutto; i porci, grufolanti tutta la gior­nata per i campi sotto la sua sorveglianza, trovano poco o niente, ma almeno la sera, tornati al porcile, ricevono la loro razione di carrube, e bene o male si saziano. Lui no; per lui non c’è nemmeno una sola carruba: il porcaio vale assai meno d’un porco. Ed è un Giudeo E bramava riempire il suo ventre delle carrube che i porci mangiavano e nessuno glie(le) dava. In queste spaventose condizioni passa parecchio tempo. Durante le soste canicolari, quando i porci famelici ed estenuati si sdraiano al­l’ombra di un albero, anche l’emaciato porcaio si sdraia a fianco loro fra la polvere e il letame; ma il pensiero gli vola ostinatamente alle lontane serate estive, quando sdraiato sul prato della fattoria pater­na sentiva cantare i grilli vagando con la mente dietro ai sogni del futuro. Quei rosei sogni si sono adesso pienamente avverati; egli li sente attorno a sé nei porci che grugniscono, addosso a sé nei lu­ridi e fetenti stracci di cui è coperto, dentro di sé nella fame che gli torce le budella. Tornato pertanto in se stesso disse: “Quanti mercenari di mio padre abbondano di pani, e io invece qui muoio di fame!”. E che fare? Tornare dal padre? Ma come averne il coraggio, dopo quello che è accaduto? Ebbene, si può tornare a lui non come a padre ma come a padrone; sarà sempre un guadagno immenso vivere a mercede nel­la fattoria paterna come un garzone qualunque, piuttosto che conti­nuare in quella vita nefanda ch’è una lenta morte. Certo sarà una gran degnazione da parte del padre se dimenticherà l’ingiuria rice­vuta e se vorrà accoglierlo – non già come figlio, beninteso ma solo come umile garzone; ma quell’uomo è cosi buono che forse accon­sentirà a riceverlo! “Sorto, me n’andrò da mio padre e gli dirò: Padre, peccai contro il cielo (= Dio) e innanzi a te! Non sono piu’ degno di essere chiamato tuo figlio! Fammi come uno dei tuoi mer­cenari! –

§ 468. Sorretto da questa speranza e raccolte le ultime sue energie, il giovane si mette in viaggio verso la fattoria paterna Durante il cammino, piu’ volte il cencioso viandante stremato di forze dispera di poter giungere alla beata mèta, più volte sopraffatto dal ricordo della sua partenza dispera di esservi accolto almeno come un cane randagio. Ma non c’è altro per lui: il mondo intero adesso si rac­chiude per lui in quella fattoria. Ed egli, strascinandosi per la strada come meglio può, finalmente vi giunge. E un chiaro pomeriggio. Suo padre sta nei campi a sorvegliare i lavori; ma il suo occhio solerte, che scorre da aratro ad aratro e da garzone a garzone, non ha più la limpidezza di una volta; è velato, mostra le stigmate di una pena antica ma non invecchiata, e di tanto in tanto si fissa là verso l’e­stremo Orizzonte restando immobile a riguardare chissà quali fan­tasmi. Mentre però egli stava ancora assai distante, suo padre lo vide e (ne) fu intenerito; e correndo gli cadde sul collo e lo baciò. Un bacio? Anzi molti e molti baci su quel collo pidocchioso e su quella barba inzaccherata? Certo il padre l’ha riconosciuto pur ri­dotto in quello stato; ma appunto perché l’ha riconosciuto come mai lo bacia? Come mai non chiama invece i garzoni per farlo menar via? Non è egli il figlio che ha rinnegato suo padre? E ne­cessario attirare su ciò l’attenzione del vecchio. Gli disse allora il figlio:”Padre, peccai contro il cielo e innanzi a te! Non sono piu’ degno di essere chiamato tuo figlio!”. E’ il discorsetto già preparato a memoria, che qui però è accorciato mancando l’implorazione fi­nale: Fammi come uno dei tuoi mercenari! Non ha il coraggio il figlio di implorare il posto di servo davanti a quell’effusione di bontà paterna, oppure l’implorazione è impedita da altri baci? Ma a che serve quell’implorazione? Sono parole vane, supremamente inutili; il padre non le avverte nemmeno. Tutto concitato, il vec­chio si rivolge ai garzoni accorsi, e: “Presto! Tirate fuori la veste migliore e rivestitelo, e mettetegli un anello alla mano e sandali ai piedi!”. E come no? Non è forse il padroncino che rientra? Deve forse un solo istante di più comparire così sfigurato e deturpato, il padroncino? Quando poi egli è rivestito e rimesso a nuovo, bisogna che tutti facciano festa insieme; si abbandonino aratri e zappe, e si prepari un gran banchetto: “E portate il vitello in­grassato, ammazzate(lo), e banchettando facciamo festa! Perché que­sto figlio mio era morto e tornò in vita, era perduto e fu ritro­vato!

§ 469. A questi fatti non fu presente il figlio maggiore; quella perla di giovane, come al solito, stava al lavoro, e in quel pomeriggio si era recato nei campi più lontani dal casale per certe faccende a cui doveva badare. Ritornò quindi assai tardi, quando il banchetto era inoltrato e quando le copiose libazioni avevano rafforzato le ugole al canto e i piedi alla danza. A sentire tutto quel frastuono, il giovane posato cadde dalle nuvole. Allora, chiamato uno dei garzoni, doman­dava che cosa fosse ciò. E quello gli disse: “E’ arrivato tuo fratello, e tuo padre ammazzò il vitello ingrassato perché lo riebbe sano e salvo”. Ma naturalmente il garzone non si fermò qui, e cominciò ad informare l’interrogante su tutto il resto, descrivendo cioè come il fratello fosse arrivato in uno stato tale che l’ultimo cane rognoso del­la fattoria a petto a lui sembrava il sommo sacerdote di Gerusalemme. Il figlio maggiore ne rimase accorato. Dunque, per quel giovinastro che era il danno e la vergogna della famiglia, il padre faceva tanta baldoria? Ma era impazzito anche il padre? Se però il vecchio era rimbecillito, il suo unico degno figlio, che era stato sempre con la testa a posto, non aveva nessuna intenzione di imitarlo. Si adirò al­lora e non voleva entrare. Ma suo padre, uscito fuori, si raccoman­dava a lui. Quello però rispondendo, disse al padre: “Ecco! Da tan­ti anni ti faccio da servo, e giammai trasgredii un tuo comando, e a me giammai desti un capretto affinché con gli amici miei facessi festa! Quando invece venne cotesto tuo figlio, che ha divorato le tue sostanze con le prostitute, ammazzasti per lui il vitello ingras­sato!”. il (padre) allora gli disse: “Figlio! Tu sempre stai con me, e tutte le cose mie sono tue. Ma far festa e rallegrarsi bisognava, perché cotesto tuo fratello era morto e (ri)visse, ed era perduto e fu ritrovato!“. Si osservi come il figlio maggiore, parlando del minore al padre, lo chiami cotesto tuo figlio; il padre invece, parlando dello stesso al figlio maggiore, lo chiama cotesto tuo fratello. Il maggiore ha qua­si paura di imbrattarsi la bocca chiamando quello scapestrato suo fratello, e vorrebbe rinnegarlo come tale; il padre gli ricorda che lo scapestrato e’ suo fratello, e quindi egli lo deve trattare come tale, nella stessa guisa che egli padre lo ha già trattato come figlio. L’inse­gnamento morale di questa seconda parte della parabola è tutto qui: come il padre è sempre padre, cosi il fratello sia sempre fratello. E’ dunque falsa la conclusione decretata da pochi critici, per i quali la seconda parte della parabola – cioè l’episodio del fratello maggio­re – sarebbe un’aggiunta fatta tardivamente. Al contrario, la mira generale di tutta la parabola include anche l’insegnamento contenuto in quella seconda parte. Nella prima parte la parabola ha insegnato la misericordia per il peccatore pentito, elargitagli da Dio ch’è suo padre, ma questo insegnamento non è nuovo perché è già stato pro­posto nelle precedenti parabole della pecora e della dramma per­dute; nella seconda parte poi insegna la necessità della misericordia per il peccatore pentito elargitagli anche dall’uomo ch’è suo fratel­lo, e precisamente come conseguenza del perdono del padre e in ri­connessione con quel perdono. Questa seconda parte della parabola è dunque veramente la cupola di tutto l’edificio e il suo coronamento supremo. Non si può dire che il fratello maggiore, sdegnato della bontà paterna, simboleggia storicamente i Farisei, sdegnati della bontà di Ge­sù per i pubblicani e i peccatori. Il simbolo invece ha valore più ampio, e include qualunque figlio del Padre celeste che sia geloso della misericordia di quel Padre verso un altro figlio rinsavito dopo un traviamento.

Il fattore infedele. Il ricco Epulone

§ 470. Oltre ad essere lo scriba della misericordia, Luca e’ anche l’evangelista della povertà (§145): ecco quindi che nella collana di parabole che stiamo esaminando, alle perle sulla misericordia divina seguono altre sulla povertà umana, anche queste conservate dal solo forziere di Luca. Che il rinunziare alla ricchezza fosse un atto di accortezza da parte del seguace di Gesù, fu da lui mostrato con la seguente parabola. Ci fu un uomo ricco che aveva un fattore, e costui fu accusato presso il padrone di dissiparne i beni; perciò fu chiamato dal pa­drone, che gli disse seccamente: Mi sono giunte all’orecchio cattive voci sul conto tuo; presèntami al più presto i conti della tua am­ministrazione! – Uscito di là, il fattore pensò ai casi suoi, e si vide perduto se non avesse trovato qualche ripiego per campar la vita nella sua vecchiaia. Cominciò quindi a ragionare: Adesso che mi sa­rà tolta l’amministrazione, come potrò mantenermi? A lavorare nei campi non sono più capace; a domandar l’elemosina mi vergogno. Dopo averci ripensato su lungamente, decise di far ricadere sul pa­drone il peso del suo sostentamento per mezzo di un’astuta truffa. Si trattava di diminuire falsamente il debito che ciascun colono aveva col padrone, affinché poi quei debitori fraudolentemente beneficiati si mostrassero grati col fattore ricompensandolo. Chiamato perciò un colono gli domandò: Quanto devi al mio padrone? – Quello rispose: Cento barili d’olio. – Il fattore allora: No, prendi qua la ricevuta e scrivi cinquanta! – Cosicché a questo primo debitore era rimessa la metà del debito. Chiamato poi un altro, gli fece la stessa doman­da; e quello rispose: Devo cento misure di grano. – E il fattore: No, prendi qua la ricevuta, e scrivi ottanta! – Naturalmente con questo metodo egli trattò tutti gli altri coloni del padrone, i quali gli furo­no ben grati nel presente e anche nel futuro. E in tal modo il fat­tore esonerato provvide alla sua vecchiaia. Un furto, senza dubbio. Ma un furto furbo, ben congegnato, che mostra l’accortezza e la previdenza di quel fattore, riluttante a finire nella miseria. Qui appunto sta la forza della parabola, la quale – astraendo dalla disonestà del furto che non entra in considerazione – converge tutta su quella accortezza e quella previdenza. La parabola infatti prosegue dicendo che quel padrone, parlando del­la frode di cui era stato vittima, lodò il suo fattore truffaldino per­ché prudentemente aveva agito. Era un uomo di spirito quel pa­drone, e sapeva prendere da gran signore i dispiaceri della vita met­tendone in luce gli aspetti interessanti! La parabola quindi termina ammonendo che i figli di questo secolo sono piu’ prudenti dei figli della luce fra (quelli della) loro generazione, cioè confrontati con i membri della rispettiva categoria. Ma a spiegar meglio il funzionamento di questa prudenza, Gesù ag­giunse: E io vi dico:”Fatevi degli amici per mezzo dell’iniquo Mam­mona (§ 331), affinché quando (esso) venga a mancare vi accolgano negli eterni tabernacoli ». Con queste parole il funzionamento della prudenza è chiaro, e la parabola, trasportata ad un’atmosfera superiore, è applicata con precisione. Le ricchezze terrene siano spese tutte per acquistare, non già beni terreni che sono egualmente tran­sitori e fallaci, bensì beni perenni e sicuri. E in qual modo? Impie­gando quelle ricchezze nel beneficare i poveri. Questa beneficenza è un frutto imperituro delle ricchezze, perehé i beneficati diventano gli amici del beneficante e al crollo di questo secolo lo ricompenseranno accogliendolo negli eterni tabernacoli. Con ciò riappare evidentis­sima la sanzione ultraterrena che è alla base di tutta la dottrina di Gesù (§ 319): erogare le proprie ricchezze in vista e in attesa della vita futura. In quella suprema attesa (§ 450 segg.) la povertà è somma prudenza.

§ 471. I Farisei, che udirono l’esposizione di questi principii ma non partecipavano alla suprema attesa, trovarono che tutto ciò era scioc­co. Udivano tutte queste cose i Farisei, che erano amatori del dena­ro, e lo beffeggiavano. E che modo di parlare era quello? Buttar via il proprio denaro per rimaner poi nudi come un lumacone senza guscio? Queste erano, non soltanto pazzie da mentecatto, ma anche bestemmie da eretico! La legge ebraica parlava ben chiaro: la pro­sperità materiale era una benedizione di Dio e un premio per chi osserva le norme della morale religiosa (cfr. Levitico, 26, 3 segg.), mentre la povertà e la miseria erano il retaggio degli empi secondo l’antica tradizione ebraica (cfr. Giobbe, 8, 8 segg.; 20, 4 segg.; 27, 13 segg.). Se dunque Gesù era povero, peggio per lui: era segno che Dio non gli concedeva il premio dei giusti perché non lo meritava; ma cessasse di sconvolgere la Legge e la tradizione ebraica. Gesù, riferendosi al vero motivo che faceva parlare i Farisei in difesa delle ricchezze, rispose: Voi siete coloro che si dimostrano giusti davanti agli uomini (in quanto cioè si spacciavano per giusti perché ricchi), ma iddio conosce i vostri cuori; perché ciò che e’ eccelso tra gli uomini e’ abominio davanti a Iddio. Quanto alla Legge e alla tra­dizione, questo delle ricchezze era uno dei casi in cui l’antica Legge doveva essere compiuta e perfezionata (§ 322): infatti la Legge e i Profeti, fino a Giovanni (il Battista); da allora, del regno d’iddio si dà la buona novella e ognuno fa violenza verso di esso (Luca, 16, 15-16). La Legge allettava i suoi seguaci anche con la promessa delle ricchezze; ma dopo Giovanni il Battista la Legge è stata sostituita dal regno di Dio, che non promette più beni materiali ed esige anzi la violenza morale di distaccarsi da essi. Del resto lo stesso spirito intimo della Legge antica non induceva ad attaccarsi alle ricchezze ma a superarle, perché esse erano proposte come mezzo e non come fine: chi si fermava a questo mezzo allettativo, tradiva lo spirito della Legge. Questo è l’insegnamento che Gesù illustrò con una nuova parabola strettamente aderente a vari concetti del giudaismo, tanto da apparire sotto un certo aspetto la più giudaica delle parabole di Gesù.

§ 472. C’erano due Giudei, uno ricchissimo, l’altro poverissimo. il ricco portava vesti fatte di porpora di Tiro e di bisso d’Egitto, e ogni giorno teneva conviti interminabili. Il povero, che aveva il comu­nissimo nome di Lazaro, giaceva ricoperto di piaghe sulla strada presso l’atrio del ricco; di là egli sentiva il lontano frastuono dei conviti del ricco e suo sogno supremo sarebbe stato saziarsi di ciò che cadeva da quelle mense, ma nessuno badava a lui: anzi, pur in quella sua povertà così nera, sembra che egli recasse qualche utilità al ricco, giacché i cani (forse di costui) ogni tanto al passargli davanti si fer­mavano a leccare il marciume delle piaghe che gli ricoprivano il corpo. Ma, come Dio volle, morirono ambedue, e allora le parti si invertirono. Morto prima Lazaro, vennero gli angeli e lo trasporta­rono di peso su in alto nel luogo di felicità eterna deponendolo nel seno di Abramo, fra le braccia del privilegiato « amico di Dio » ca­postipite degli Ebrei. Morto poi il ricco, fu sepolto con gran pompa; la quale però fu anche l’ultima, giacché dalla sua splendida tomba egli rotolò giù nella Sheol (§ 79), ove si trovò immerso in atroci tormenti. Capovoltasi in tal modo la situazione, il già ricco alzando gli occhi dalla Sheol vide su in alto Abramo che sorreggeva dolcemente in seno il già povero Lazaro. Alzò allora anche la voce gridando: “Pa­dre Abramo! Abbi pietà di me, e invia Lazaro affinché bagni d’acqua la punta del suo dito e refrigeri la mia lingua, perché spasimo in questa fiamma!”. Ma Abramo disse: “Figlio! Ricòrdati che rice­vesti i tuoi beni nella vita tua e Lazaro egualmente i mali; adesso però qui (egli) é consolato, tu invece spasimi”. Il giusto Abramo fa rilevare la giustizia della doppia sorte: poiché il ricco è stato dimo­strato giusto davanti agli uomini (Luca, 16, 15) dalle sue ricchezze e la sua religione è consistita tutta in questo, egli è già stato ricom­pensato sufficientemente; poiché d’altra parte ciò ch’e’ eccelso fra gli uomini e’ abominio davanti a Iddio, adesso davanti a Dio le sue pas­sate ricchezze diventino per lui ragione di sofferenza. Precisamente il contrario, per la ragione inversa, avvenga a Lazaro. Del resto le nuo­ve sorti sono assolutamente immutabili, e Abramo non può far niente anche per uno della sua razza che non stia lassù vicino a lui: « E oltre a tutto questo, tra noi e voi é stato stabilito un abisso grande, affinché quei che volessero passare di qui verso di voi non possano né di costà si attraversi verso di noi“. Anche qui si trova la sorte perfettamente invertita: come prima della morte il ricco non faceva nulla in pro di Lazaro, così adesso Lazaro non fa nulla in pro del ricco; l’abisso morale che separava i due è diventato adesso un abisso cosmologico. Tuttavia il ricco, anche rotolato nella Sheol, ripensa ai suoi parenti e desidera che almeno essi sfuggano in futuro alla sorte presente di lui. A tale scopo torna a pregare Abramo: “Ti chiedo perciò, padre, che invii lui (Lazaro) a casa di mio padre – ho infatti cinque fratelli – affinché faccia testimonianza ad essi, si che non vengano anch’essi in questo luogo del tormento”. Ma neppure questa domanda è accolta da Abramo, il quale secco secco risponde: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino quelli!”, cioè regolino la loro condotta conforme alle norme di Mosè e dei Profeti consegnate nella sacra Scrittura, e ciò basterà ad evitare il luogo del tormento. Ma il ricco non è di questa opinione, e perciò insiste: “No, padre Abramo! Ma se alcuno da(lla regione dei) morti vada a loro, cambieranno di mente La ragione è respinta risolutamente da Abramo, che chiude la disputa sentenziando: “Se non ascoltano Mose’ e i Profeti, neppure se alcuno sia risorto dai morti saranno persuasi”. In conclusione, la Legge ebraica non solo non è abolita, ma è dichia­rata più efficace della rivelazione privata fatta da un morto risusci­tato. Inoltre, lo spirito di quella legge invita a servirsi delle ricchezze come di una scala per salire a Dio, ma non già a fermarsi sulla scala; il regno di Dio, poi, respinge senz’altro la scala.

Vita di Gesù 15ultima modifica: 2010-09-04T16:51:00+02:00da meneziade
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