Vita di Gesù 16

cristo_velato_det.jpgDALL’ULTIMO VIAGGIO LUNGO LA GIUDEA FINO ALLA SETTIMANA DI PASSIONE

I dieci lebbrosi. Vicende del Regno di Dio

§ 473. Le peregrinazioni di Gesù, frattanto, continuavano; trasferi­tosi dalla Transgiordania nuovamente nella Giudea, egli dovette spin­gersi fin verso la Galilea, donde scese per il suo ultimo viaggio alla volta di Gerusalemme (§§ 413 segg., 462). All’inizio di questo viaggio, mentre Gesù stava per entrare in un villaggio posto sui confini tra la Samaria e la Galilea (che una tradi­zione molto tardiva vorrebbe riconoscere in Genin) gli vennero incon­tro dieci lebbrosi, i quali, tenendosi a distanza per la nota prescri­zione (§ 304), si dettero a gridargli che avesse pietà di loro. Gesù ri­spose che andassero a presentarsi ai sacerdoti, come aveva già ordi­nato l’altra volta; non era già la guarigione, ma una promessa di guarigione. I lebbrosi interpretarono la risposta in questo senso, e s’incamminarono per obbedire; strada facendo si trovarono guariti. La felicità della guarigione fece dimenticare ad essi i doveri della gra­titudine e tutti se ne andarono per i fatti loro, tranne uno, che glo­rificando Dio tornò addietro a ringraziar Gesù. Ora, costui era pro­prio un Samaritano. Gesù gradi l’omaggio di quello straniero, rilevò che egli solo aveva sentito il dovere della gratitudine, e gli confermò che era stato salvato dalla sua fede (§ 349 segg.).

§ 474. Dopo l’episodio dei lebbrosi Luca introduce i Farisei, e ripor­ta un dialogo di Gesù con essi e poi con i suoi discepoli. Il dialogo, riferito quindi dal solo Luca, contiene tuttavia vari elementi che si ritrovano nel grande discorso escatologico degli altri Sinottici (§ 523 segg.), di cui questo dialogo sembra un’ anticipazione; ma anche qui Luca è da preferirsi sotto l’aspetto cronologico, perché è assai pro­babile che l’argomento comune al dialogo e al discorso fosse trattato più di una volta da Gesù, sebbene gli altri Sinottici per ragioni reda­zionali riuniscano le varie trattazioni in una sola. Questo dialogo è provocato da una interrogazione dei Farisei che domandano a Gesù quando viene il regno d’iddio (Luca, 17, 20). Era ironica la domanda, ovvero si riferiva seriamente alla venuta clamorosa del regno nazionalistico-messianico? Non si potrebbe dire con certezza, sebbene la risposta di Gesù faccia propendere per il secondo senso. Gesù rispose agli interroganti in maniera sbrigativa, come a gente non disposta a lasciarsi convincere: il regno d’iddio non viene con avvertenza, né si dirà “Ecco (é) qui” ovvero “(E)lì”. Ecco, infatti, il regno d’iddio è dentro voi” Questa indicazione dentro voi si riferiva alla colletti­vità (in mezzo a voi) non ai singoli (nell’interno di ciascuno di voi), perché Gesù vuol far rilevare che il regno di Dio si propaga, non in maniera spettacolosa come l’attendevano i Farisei, ma senza avver­tenza: tanto è vero che esso è già in mezzo a loro. E altro Gesù non disse a quegli interroganti maldisposti.

§ 475. Tuttavia, data l’importanza dell’argomento, vi tornò sopra rivolgendosi nell’intimità ai suoi discepoli; ai quali disse: Verranno giorni quando desidererete vedere uno solo dei giorni del figlio del­l’uomo, e non vedrete (tal giorno). I giorni qui annunziati sono di distretta e di calamità: in quelle circostanze i discepoli di Gesù de­sidereranno di vedere uno solo dei giorni in cui il figlio dell’uomo viene in possanza (§ 401), cioè dispiegando quella sua forza che gli assicurerà il trionfo finale: eppure quel sospirato giorno, di manifesta ripresa e palese sopravvento contro le calamità imperversanti, non verrà. Si avranno piuttosto annunzi fallaci, contro i quali Gesù mette in guardia i suoi discepoli E vi si dirà “Ecco (e’) qu”, “Ecco (e’) là” il sospirato figlio dell’uomo che torna da trionfatore; ma voi non prestate fede, non vi movete, né andate appresso a tali indicazioni. Come infatti la folgore folgoreggiando da un punto all’altro del cielo lampeggia, così sarà il figlio dell’uomo nel giorno suo. Dunque il fi­glio dell’uomo verrà indubbiamente da trionfatore a compiere la consumazione del regno messianico, ma quel suo giorno sarà subita­neo e improvviso come la folgore del cielo né alcuno potrà preve­derlo; oltre a ciò, quel suo trionfo dovrà essere preceduto dalla sua sofferenza (§ 400): prima però e’ necessario che egli soffra molto, e che sia riprovato da questa generazione (Luca, 17, 25). Stante questa sicurezza del fatto unita con l’incertezza del tempo, i discepoli dovranno stare sempre pronti e non abbandonarsi alla ne­gligenza a cui si abbandoneranno gli altri uomini. E come avvenne nei giorni di Noe’, così sarà anche nei giorni del figlio dell’uomo mangiavano, bevevano, prendevano moglie, prendevano marito, fino al giorno che Noé entrò nell’arca e venne il diluvio e distrusse tutti Similmente, come avvenne nei giorni di Lot: mangiavano, bevevano, compravano, vendevano, piantavano, costruivano, ma nel giorno che Lot usci da Sodoma, piovve fuoco e zolfo dal cielo e distrusse tutti; conforme a ciò sarà nel giorno in il figlio dell’uomo si rivela. Cosicché molti, moltissimi, saranno coloro che nel giorno del figlio dell’uomo penseranno a tutt’altro che a lui e al suo trionfo; questi moltissimi staranno tenacemente attaccati al mondo che tuttora li avvolge, e non si accorgeranno del mondo nuovo che sopravviene: come appunto la moglie di Lot al tempo del cataclisma era ancora attaccata col desiderio alla sua casa di Sodoma, e fu uccisa da que­sto suo attaccamento che la fece rivolgere indietro. in quel giorno chi starà sul tetto e i suoi oggetti (staranno) dentro la casa, non scenda a prenderli; e chi (starà) nei campo, egualmente non si ri­volga addietro. Ricordatevi della moglie di Lot! Chi cerchi di porre in salvo la sua vita la perderà, e chi la perderà la farà vivere. Perciò l’avvento glorioso del figlio dell’uomo, essendo subitaneo ed imprevi­sto, esige che tutti siano staccati da tutto, perfino dalla propria vita, onde seguire immediatamente il trionfatore apparso. Questo distacco sarà il criterio di discriminazione per selezionare coloro che segui­ranno il trionfatore Vi dico: in quella notte saranno due in un solo letto; l’uno sarà preso e l’altro sarà lasciato. Saranno due (donne) macinanti alla stessa (mola); e l’una sarà presa e l’altra sarà la­sciata. Ma, fatta la discriminazione, coloro che saranno presi dove andran­no? Evidentemente presso il trionfatore apparso. I discepoli ne interrogano Gesù dicendogli: Dove, Signore? Forse, più che la risposta, intendevano il luogo. A quest’ultimo punto non rispose Gesù, che si limitò a far rilevare come i prescelti si raccoglieranno spontaneamen­te da tutto il mondo attorno al trionfatore, con la stessa rapidità sicura con cui le aquile si raccolgono attorno al carname: Dove (sta) il corpo, là pure sopra s’accoglieranno le aquile.

§ 476. Riassumendo in poche parole l’intero dialogo, troviamo che Gesù ha parlato del regno di Dio ai Farisei e ai discepoli. Ai Farisei egli ha confermato che quel regno è un fatto, non fragoroso o folgoreggiante, ma pur realissimo, tanto che è già in mezzo ad essi: è dunque la predicazione stessa di Gesù, simboleggiata nella stessa maniera per mezzo delle parabole (§ 365 segg.). – Ai discepoli Gesù ha parlato di una nuova venuta del figlio dell’uomo, destiriata al trionfo palese di lui ed alla consumazioiie del regno messianico: essa sarà subitanea ed imprevista, e poiché deciderà circa la sorte degli eletti e dei riprovati, tutti devono tenersi pronti col distacco assoluto da ogni bene presente. E’ dunque la parusia del Cristo glorioso, che instaurerà il regno di palese ed universale giustizia e che costituisce l’ultimo risultato della predicazione di Gesù, presentata poco prima ai Farisei egualmente come regno di Dio. Di questa parusia parlerà nuovamente Gesù (§ 525 segg.).

Il giudice iniquo. Il fariseo e il pubblicano

§ 477. Il precedente dialogo ebbe uno strascico. Come prospettiva terrena, il dialogo aveva pronunziato parole di colore oscuro, che avevano lasciato prevedere, oltre alla sofferenza suprema ed alla ri­provazione del maestro, anche quei giorni di distretta e di calamità in cui i discepoli avrebbero desiderato invano di vedere uno solo dei giorni trionfali del figlio dell’uomo. Ma, se in quei giorni di prova i discepoli avessero pregato, non sarebbero stati esauditi? La prova non sarebbe stata abbreviata? Iddio non avrebbe reso giustizia ai suoi eletti, facendo un piccolo anticipo ai trionfo finale del figlio dell’uomo? Si, certamente; e Gesù espresse questo insegnamento con una para­boIa molto simile a quella dell’amico importuno (§ 443) e riportata dal solo Luca (18, 18) appunto dopo il precedente dialogo: Diceva poi loro una parabola riguardo alla necessità che essi pregassero sem­pre e non si stancassero. C’era in una città un giudice che non aveva né timor di Dio né riguardo per uomini. Nella stessa città c’era anche una povera ve­dova che, come di solito le vedove nell’antichità, riceveva continui soprusi da un tale. La vedova ricorreva ogni tanto dal giudice racccomandandosi: Rendimi giustizia del mio persecutore! – Per un pezzo il giudice non se lo dette per intesa, ma alla fine, seccato per l’insi­stenza della donna, fece tra sé questo ragionamento: “Se pur non temo iddio né ho riguardo per uomo, tuttavia per il fastidio che mi dà questa donna le renderò giustizia, affinché non venga alla fine a rompermi la testa”. – Finita qui la parabola, Gesù soggiunse: “Udiste che cosa dice il giudice iniquo? E iddio forse non farà giustizia dei suoi eletti che gridano a lui di giorno e di notte ed è lento a loro riguardo? Vi dico che farà giustizia di essi con celerità! Senonché il figlio dell’uomo, venuto (che sia), troverà la fede sulla terra?”. Quest’ultima proposizione non mostra una chiara connessione logica con ciò che precede, e non senza fondamento si è pensato che essa sia un detto staccato di Gesù proveniente da altro discorso. La pro­posizione sembra aver presenti i tempi in cui i discepoli desidereran­no vedere un solo dei giorni del figlio dell’uomo e non lo vedranno (§ 475); quei tempi saranno così duri e calamitosi che scoteranno la fiducia di moltissimi (cfr. Matteo, 24, 12; Marco, 13, 22), tanto che in tono retorico si può ben domandare se il figlio dell’uomo… troverà la fede sulla terra. Checché sia del senso e riferimento di questa proposizione, è noto che i cristiani delle prime generazioni fecero un particolare assegnamen­to su queste promesse. Stretti fra persecuziom incessanti, essi anela­rono di vedere il giorno del figlio dell’uomo, in cui il Cristo trionfato­re calasse dalle nubi a rendere loro giustizia: e attesero di vedere que­sta giustizia con celerità e di contemplare la grande rivelazione del fi­glio dell’uomo da un giorno all’altro. Ma alla loro ansia furono som­ministrati correttivi già dagli Apostoli, i quali ammonirono di non perturbarsi quasicché sia imminente il giorno del Signore (II Tessa­lonicesi, 2, 2), e di ricordarsi che un solo giornò (e’) presso il Signore come mille anni, e mille anni come un solo giorno; non ritarda il Si­gnore la promessa (II Pietro, 3, 8-9). Quei primi cristiani inquadra­vano la promessa di Gesù nel calendario dell’uomo; gli Apostoli in­vece l’inquadravano nel calendario di Dio.

§ 478. La parabola della vedova, esaudita per la sua insistenza nel pregare, porta ad un’altra riguardante l’indole e le disposizioni spi­rituali della preghiera: è la parabola, particolare anch’essa a Luca (18, 9-14), in cui sono attori un Fariseo e un pubblicano, cioè i due estremi della scala su cui erano disposti i valori morali nel giudaismo. La parabola fu indirizzata da Gesù a taluni che confidavano in se stessi di essere giusti e disprezzavano gli altri. Un Fariseo e un pubblicano salgono alla stessa ora nel Tempio di Gerusalemme per pregare. Il Fariseo, nella sua confidente sicurezza di essere giusto, agisce e pensa come tale. S’inoltra egli nell’”atrio de­gli Israeliti” (§ 47), fino al limite più vicino al “santuario” ove dimora il Dio della sua nazione e della sua setta. Quel Dio è un essere potente: ma per lui, uomo giusto e Fariseo rigoroso, quel Dio ha una predilezione singolare, e quindi egli può trattarlo con una cer­ta familiarità; anzi può trattarlo come un monarca, si, ma a cui il suddito viene ad elencare una quantità di belle cose fatte in favore di lui. Il Fariseo infatti, messosi là in piedi come pregavano ordinaria­mente gli Ebrei, comincia il suo elenco: O Dio, ti ringrazio perché io non sono come gli altri uomini, rapaci, ingiusti, adulteri, o anche come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana (§ 77); pa­go la decima di quanto posseggo (§ 36). La parabola non prosegue nell’elenco; ma questo poté benissimo prolungarsi assai ed enumerare altre elette virtù del Fariseo, come le sciacquature di mani e di sto­viglie prima di mangiare, l’astenersi dallo spegnere una lampada in giorno di sabbato, la conoscenza a memoria dei 613 precetti della Torah (§ 30), e tante altre egregie doti dell’inappuntabile Fariseo. In conclusione, Dio è stato beneficato dal Fariseo: l’uomo ha fatto con­sistere la sua preghiera nell’elencare i benefizi elargiti da lui a Dio, ossia nello sciorinare quelle giustizie umane di cui l’antico profeta aveva sentenziato: Come panno di mestrui (sono) tutte le nostre giu­stizie (Isaia, 64, 5 ebr.). Nel frattempo il pubblicano, conscio del disprezzo decretatogli dai benpensanti del giudaismo e sicuro che lo stesso disprezzo è condiviso da Dio, si è fermato appena all’ingresso dell’atrio, come un mendico mal tollerato; là lontano, senza neppure osare di alzare gli occhi ver­so il “santuario”, egli sta a battersi il petto implorando: O Dio, sii propizio a me peccatore! Tutta qui è la preghiera di colui che i rab­bini definivano “tanghero” (§ 40), perché egli ha coscienza di non poter donare a Dio nulla di quanto sta donandogli il Fariseo: s’affi­da quindi alla misericordia di Dio confessandosi peccatore in umiltà profonda: … io mi rendei Piangendo a quei che volentier perdona. Orribil furon li peccati miei; Ma la bontà infinita ha si gran braccia, Che prende ciò che si rivolge a lei. Purgatorio, m, 119-123 Il risultato del contrasto tra questi due uomini fu precisamente la smentita delle loro rispettive coscienze. Còncluse infatti Gesù: Vi di­co, questo (il pubblicano) discese giustificato a casa sua a diflerenza di quello: perché chiunque s’innalza sarà abbassato, mentre chi s’ab­bassa sarà innalzato. Nessuno meglio di S. Agostino ha riassunto in poche linee i punti principali della parabola: Che cosa (il Fariseo) abbia domandato a Dio, cercalo nelle sue parole: non troverai nulla. Salì’ per pregare; non volle domandare a Dio, ma lodare se stesso. E’ poco non doman­dare a Dio e lodare se stesso: per dippiu’, anche insultava chi doman­dava. Il pubblicano stava lontano, egli tuttavia s’avvicinava a Dio… poco che stesse lontano: neppure alzava gli occhi al cielo… C’e’ dippiu’, si batteva. il petto… dicendo: “Signore sii propizio a me peccatore!”. Ecco colui che domanda.

Questioni matrimoniali. Gesu’ e i fanciulli

§ 479. A questo punto, nella serie dei fatti, Luca cede il passo a Matteo e Marco per la questione del divorzio; di tale questione Luca (16, 18) dà soltanto la sentenza conclusiva di Gesù, senza alcun accen­no alle ciroostanze e senza collegamento nel contesto immediato: invece Matteo e Marco comunicano le circostanze della questione. D’al­tra parte, Luca concorda con gli altri due Sinottici nel riferire l’ac­coglienza fatta da Gesù ai fanciulli, la quale dai due è posta imme­diatamente dopo la questione del divorzio; è dunque spontaneo con­cludere che tale questione – omessa da Luca perché forse la ritenne inutile per i suoi lettori pagani – avvenisse immediatamente prima dell’accoglienza fatta ai fanciulli. Si avvicinarono pertanto i Farisei e proposero a Gesù la seguente questione: Se é lecito rimandare la propria moglie per qualsiasi cau­sa? (Matteo, 19, 3). L’evangelista ha avvertito che i Farisei facevano questa domanda per tentare Gesù. Era infatti una questione vecchia, già trattata nelle scuole rabbiniche prima di Gesù e prolungatasi anche dopo. Nella Legge di Mosè il divorzio era stato concesso, solo ad iniziativa del marito, con queste parole: Quando un uomo prende moglie e ne diventa marito, e avvenga che ella non trovi grazia negli occhi di lui, bensi egli trovi in lei alcunché di turpe, egli scriverà per lei il libello di ripudio e lo consegnerà in mano a lei, e la rimanderà da casa sua (Deuteronomio, 24, 1); il libello di ripudio permetteva alla divorziata di contrarre nuovo matrimonio, ma dopo questo matrimonio – cessato che fosse per morte del nuovo coniuge o per nuovo divorzio – il primo marito non poteva più riprendere con sé la donna divorziata (ivi, 24, 2-4). I rabbini erano fieri di questa facoltà di divorzio e la ritenevano una prerogativa concessa da Dio al solo popolo d’Israele ma non ai pa­gani; la divergenza nasceva tra loro quando si trattava di definire la ragione sufficiente per ammettere il divorzio, ragione accennata dal­la Legge con le parole alcunché di turpe trovato dal marito nella moglie. Stando a quanto diferisce la Mishna (Ghittin, ix; 10), le scuole dei due grandi maestri precristiani Sbammai e Hillel prendevano qui, come in altri casi, posizione contraria: gli Shammaiti interpretavano la ragione addotta dalla Legge in senso morale, cosicché secondo essi alcunché di turpe alludeva all’adulterio, che era il caso autorizzante il divorzio; gli Hilleliani la interpretavano in senso molto più largo, come riferita a tutto ciò che fosse sconveniente nella vita familiare o civile, e portavano l’esempio di una moglie che lasciasse bruciare una pietanza meritandosi perciò il divorzio. Più tardi Rabbi Aqiba andrà anche più in là, affermando che ragione sufficiente per il di­vorzio era se il marito trovava una donna più bella della propria moglie. E’ difficile dire se i Farisei che proposero la questione a Gesù fossero Shainmaiti o Hilleliani. Le loro parole “è lecito rimandare… per qualsiasi causa?” alludono certamente alla dottrina lassista degli Hilleliani: ma questa allusione vuoI essere un invito ad accettare la stessa dottrina, ovvero un ammonimento per respingerla? In altre parole, sono i lassisti Hilleliani che sperano trarre Gesù dalla loro parte, ovvero sono i rigoristi Shammaiti che sperano udire da Gesù una condanna della dottrina lassista? Gesù, come in altri casi, passa sopra ad Hilleliani e Shammaiti e si riporta alle origini della questione. Egli rispondendo disse: Non legge­ste che chi creò dapprincipio “maschio e femmina li fece”, e disse: “A causa di ciò abbandonerà l’uomo il padre e la madre e s’attac­cherà alla propria moglie, e saranno i due in una sola carne”? (Genesi, 1, 27; 2, 24). Cosicché non sono piu’ due, ma una sola carne. Ciò dunque che Iddio congiunse, uomo non separi (Matteo, 19, 4-7). Con questa risposta, e specialmente con il suo periodo conclusivo, l’istituzione del matrimonio è investigata nelle sue stesse origini, an­teriori a qualsiasi disputa umana ed anche alla legislazione di Mosè: con la doppia citazione del Genesi è chiamato in causa Iddio stesso, creatore del genere umano ed istitutore del matrimonio, e la conclusione è che ciò che iddio congiunse, uomo non separi. § 480. La replica dei Farisei era prevedibile. Risposero infatti: Per­ché, dunque, Mosé comandò di “dare un libello di ripudio e riman­dare” (Deuter., 24, 1)? Non era il divorzio un privilegio degli Israe­liti? Non era stato contemplato e regolato nella stessa Legge di Mosè? Se valeva la norma di Gesù uomo non separi, bisognava ri­nunziare al privilegio del divorzio: il che, per quei Farisei, era un assurdo. Alla difficoltà legale oppostagli, Gesù rispose rettificando; non si trat­tava di un privilegio, bensì di una tolleranza, carpita dalle condi­zioni personali dei destinatari e concessa per timore di peggio. Disse loro: “Mosé a cagione della vostra durezza di cuore vi concesse di rimandare le vostre mogli: ma da principio non fu cosi”. Con que­st’ultimo appello, la questione era riportata ancora una volta alle sue origini. Al rinnovato appello segue in Matteo un periodo sostanzial­mente parallelo a quello da lui riportato nel Discorso della monta­gna (§ 325): Matteo, 19, 9) Discorso della Montagna: Ma io vi dico che chiunque rimandi la sua moglie, non per fornicazione, e sposi un’altra commette adulterio. Ma io vi dico che chiunque rimandi la sua moglie, eccettuato (il) caso di fornicazione, fa ch’ella sia resa adultera, e chi sposi una (donna) rimandata commette adulterio. La stessa sentenza di Gesù si ritrova negli altri due Sinottici, presso i quali tuttavia manca il comma restrittivo non per fornicazione, ov­vero eccettuato (il) caso di fornicazione:Marco, 10, 11-12 Luca, 16, 18. Chi rimandi la sua moglie e sposi un’altra, commette adulterio contro di lei; se ella, rimandato suo marito, sposi un altro, commette adulterio. Chiunque rimanda la sua moglie e sposa un’altra, commette adulterio; e chi sposa una rimandata dal marito, commette adulterio. A questi due Sinottici si deve aggiungere S. Paolo, come testimonio anche anteriore (§ 102) della primitiva catechesi cristiana, il quale scrive Agli sposati comando, non io ma il Signore, che la donna non si separi dall’uomo – che se poi si e’ separata, rimanga senza sposare, oppure si riconcilii con l’uomo – e che (1′) uomo non rimandi (la) donna (I Corinti, 7, 10-11). Nel qual passo S. Paolo distingue chiaramente la “separazione” dei due coniugi dal “rimando” della donna o divorzio; egli ammette la possibilità del primo caso, purché la donna non passi a nuove nozze; nega invece semplicemente la liceità del divorzio. La primitiva catechesi, dunque, è per noi rappresentata da due gruppi di testimonianze. Uno è quello di Matteo, che si ripete due volte (5, 32; 19, 9); l’altro è costituito dalle testimonianze di Marco, Luca e Paolo. Il primo gruppo ha il comma restrittivo; il secondo non ha questo comma. In che relazione stanno tra loro questi due gruppi? Esiste contraddizione tra loro? Parecchi critici radicali vi hanno scorto una contraddizione. Essi riconoscono che la primitiva catechesi non ammetteva il divorzio nep­pure nel caso d’adulterio, secondo le concordi testimonianze di Mar­co, Luca e Paolo; ma poiché in Matteo si trova il comma restrittivo che sembra ammettere il divorzio in tale caso, hanno risolto la diffi­coltà coltà col solito metodo di dichiarare quel cornma una interpolazione: esso sarebbe stato aggiunto nel testo di Matteo alle parole di Gesù per andare incontro alle esigenze di Giudei fattisi Cristiani, i quali non sarebbero stati disposti a rinunziare al divorzio in caso di infe­deltà della moglie. Metodo certamente assai agevole, e che per giunta in questo caso sarebbe comodissimo ai cattolici; ma anche metodo ar­bitrario, se non è suffragato – come non è nel presente caso – da nes­sun documento, e che inoltre va contro alla norma secondo cui il testo più difficile è di solito da preferirsi, come migliore di quello più facile. Qui appunto il testo di Matteo, con la sua particolare dif­ficoltà, ha tutte le apparenze di aver conservato meglio l’insieme delle parole di Gesù. Ma qual è il vero senso del comma in questione?

§ 481. Si noti che i Farisei hanno domandato a Gesù se e’ lecito ri­mandare la propria moglie per qualsiasi causa, inten­dendo senza dubbio il divorzio ebraico; Gesù in risposta ha dichiara­to lecito tale rimando nel solo caso di fornicazione (adulterio) della donna. Con tale dichiarazione Gesù si è staccato doppiamente dalla legislazione ebraica: in primo luogo perché in quella legislazione alla donna adultera era comminata la morte (§ 426) e non il divorzio: in secondo luogo, perché egli non permette al marito che ha riman­dato la moglie per adulterio di sposare altra donna, e ciò in perfetta armonia col principio da lui testé enunziato secondo cui ciò che Iddio con giunse, uomo non separi. Dunque, anche se gli interroganti intendevano riferirsi al vero divorzio ebraico, Gesù non ha concesso tale divorzio neppure nel caso di adulterio, perché il marito in que­stione non può sposare altra donna, ossia non ha divorziato. Gesù dunque ha concesso non il “divorzio” bensì la separazione. Ma i Giudei sapevano distinguere tra “divorzio” e “separazione”? Qualunque fossero in proposito i loro concetti puramente giuridici (dei quali non siamo sicuramente inforrnati), è certo che in pratica si conosceva e si eseguiva la “separazione” di due coniugi rimanen­do essi tali. Il citato passo di S. Paolo (§ 480) è decisivo in proposito La stessa sacra Scrittura narrava un esempio, sebbene antico, in cui la stizzosa moglie di un Levita dopo un litigio si era separata da lui per quattro mesi rifugiandosi presso il proprio padre, dopo di che il marito era andato a rappacilicarla inducendola a ritornare presso di lui. Più forti ancora di queste ragioni sono in primo luogo la circostanza che Marco e Luca non riportano affatto il comma restritti­vo, appunto perché la primitiva catechesi stimò che esso non era di alcun valore contro l’indissolubilità del matrimonio e in favore del divorzio ebraico in secondo luogo l’altra circostanza che i disce­poli di Gesù nella loro mentalità ebraica valutarono appieno l’intran­sigenza della norma da lui esposta.

§ 482. Terminata infatti la lezione ai Farisei, i discepoli tornarono sulla questione dolorosa della moglie (qualcuno di essi, come Pietro, era ammogliato) interrogandone Gesù privatamente in casa (Marco, 10, 10). Un’esclamazione sommamente spontanea venne allora su dal profondo del loro cuore: Se in tal modo e’ la condizione dell’uomo con la moglie, non mette conto sposare! L’intransigenza era stata ca­pita benissimo dai discepoli; adesso, secondo Gesù, un marito non solo non potevà più far divorzio dalla moglie dopo la bruciatura di una pietanza, come permetteva Hillel, ma doveva ritenersi irrime­diabilmente legato ad essa perfino dopo l’adulterio di lei. Le menti giudaiche dei discepoli ne rimasero perturbate: Gesù avrà avuto certamente ragione a preferenza di Hillel, ma in tal caso essi stima­vano che era preferibile non legarsi a nessuna donna e non sposare affatto. Gesù dal canto suo, lungi dal temperare la sua precedente intransi­genza, giudicò troppo generica l’esclamazione degli sconcertati di­scepoli, dichiarandola adatta per alcuni e disadatta per altri. I sin­goli individui del genere umano non sono, per Gesù, tutti egualmente disposti di fronte a tale questione: essi si raggruppano in più cate­gorie, alle quali non si può imporre una sola legge comune. Alcuni potranno ripetere con libera e piena adesione di coscienza l’esclama­zione dei discepoli, e questi sono i privilegiati; altri la ripetono per una necessità buona o cattiva imposta dalla natura o dalla società umana, e questi sono i forzati; altri non la ripetono affatto, e questi prendono moglie. Di questi ultimi non si occupa qui Gesù, che vuole mostrare ai discepoli i pregi del celibato scelto liberamente e per uno scopo religioso. Egli però disse loro: Non tutti capiscono questa pa­rola, ma (solo) coloro ai quali e’ dato (capirla). Vi sono infatti eunu­chi che dal seno della madre furono generati così; e vi sono eunu­chi che furono resi eunuchi dagli uomini; e vi sono eunuchi che si resero eunuchi da se stessi per il regno dei cieli. Chi può capirecapisca. Non si tratta dunque di una legge data a tutti; Si tratta di una proposta vantaggiosa per il regno dei cieli offerta a chi può capirla, e che possono capire (solo) coloro ai quali e~ dato (capirla). Gli altri agiscano liberamente, e prendano pur moglie: a patto però che ciò che Iddio congiunse, uomo non separi. Riassumendo, si trova che Gesù non ha affatto condannato il matri­monio, bensi lo ha riportato alla sua ragione e norma primitiva, pur avendolo posposto al celibato liberamente scelto per il regno di Dio. Una riprova se ne può vedere nel fatto che, subito dopo la disputa sul matrimonio, Matteo e Marco narrano l’accoglienza fatta da Gesù ai bambini (Luca ha l’accoglienza, ma non la disputa). I bambini sono i frutti dell’albero matrimoniale; e Gesù, che ha testé potato l’albero dai rami secchi e da vegetazioni parassitarie, fa festa a quei frutti riserbando a quei piccoli innocenti una predilezione somiglian­tissima, sebbene d’altro genere, a quella riserbata alle meretrici e ai pubblicani.

§ 483. E recavano a lui dei fanciullini affinché li toccasse; ma i di­scepoli sgridavano quelli (che li recavano). Visto però (questo), Gesu’ si sdegnò e disse loro:”asciate che i fanciullini vengano a me, non li impedite, perché di tali é il regno d’Iddio. In verità, vi dico, chi non accolga il regno d’iddio come un fanciullino, non entrerà in esso” (cfr. § 408). E abbracciatili li benediceva, ponendo le mani su di essi (Marco, 10,13-16). Fra questi fanciullini c’erano senza dubbio sia maschi che femmine, e Gesù li abbracciava tutti con eguale affetto. Ora, un trentennio prima di questa scena, e precisamente nell’anno I av. Cr., un contadino egiziano che si era allontanato da casa sua per ragioni di lavoro, aveva scritto a sua moglie, lasciata da lui gravida, una lettera conservataci fra i papiri recentemente ricuperati; la lettera finisce con questo comando dato alla futura madre: Quando avrai partorito il bambino, se e’ maschio, allevalo; se è femmina, ammazza­la (Oxyrhyncus Papyri, rv, n. 744). Nè quel contadino agiva diver­samente da tanti altri padri di quei tempi, in Egitto e fuori.

Un ricco si presenta a Gesu’. Considerazioni sulla ricchezza

§ 484. Quando Gesù stava per allontanarsi dal luogo ove gli erano stati presentati i bambini, si presentò frettoloso un giovane che ingi­nocchiatosi davanti gli domandò: “Maestro buono, che cosa farò perché (io) possa ereditare (la) vita eterna?”. Ma Gesu’ gli disse:”Perché mi dici buono? Nessuno (é) buono se non uno, Iddio” (Marco, 10, 17-18). Già rilevammo (§121, nota) come i termini di. questo dialogo, confermati da Luca, appaiono in maniera diversa presso Matteo: si temette infatti che i termini, com’erano impiegati in Mar­co e Luca, offrissero appiglio a scandalo potendo essere interpretati come negazione della bontà di Gesù e della sua divinità; e quindi il traduttore greco del Matteo aramaico, pur conservando material­mente i termini, li impiegò in maniera diversa per togliere ai suoi lettori ogni occasione di malinteso. Ma, appunto perché più difficile (§ 480), il testo di Marco e Luca ha in suo favore ogni probabilità di essere il più antico e il più esatto nel riportare le parole di Gesù: il testo di Matteo, più facile, rispecchia meglio l’impiego che del dia­logo faceva la catechesi cristiana posteriormente alla pubblicazione dei vangeli di Marco e di Luca. Riportandosi alle circostanze storiche, i termini del dialogo si spie­gano agevolmente. L’appellativo Maestro buono (Rabbi taba) non era mai usato parlando a rabbini, neppure ai più autorevoli, poiché sembrava esagerata adulazione: un rabbino si riteneva sufficiente­mente onorato dal termine Maestro, mentre colui al quale spettava l’appellativo di buono era a rigore soltanto Dio. Qui il giovane, che ha visto Gesù abbracciare e accarezzare i bambini, lo chiama buono più nel senso umano e familiare che in quello accademico e filosofico. Gesù ne prende occasione per offrire al giovane la maniera di approfondire la conoscenza del maestro a cui si rivolge; scendendo sullo stesso piano di lui (come aveva già fatto con la Samaritana; Gio­vanni, 4, 22), egli dice in sostanza al giovane: « Tu mi chiami mae­stro come qualunque altro dottore della Legge, e per di più mi chia­mi buono. Perché mi dài questo appellativo? Non sai che, secondo l’uso comune, esso è riservato a Dio? ». Il giovane avrebbe potuto giustificare l’uso dell’appellativo rispondendo: “Ma appunto tu sei il figlio di Dio!”. E invece non rispose. Si aspettava veramente Gesù questa risposta da quel giovane, forse ignaro; oppure aveva egli cer­cato di provocarla affinché in cuor loro rispondessero i discepoli, non ignari (§ 396), ch’erano presenti? Poiché il giovane non dette risposta, Gesù continuò per soddisfare alla richiesta di lui: Se poi vuoi entrare nella vita, osserva i comanda­menti. Il giovane chiese: Quali? – Gesù allora, confermando ancora una volta la Legge ebraica, gli recitò il Decalogo: Non ucciderai; non commetterai adulterio; ecc. Il giovane, meravigliato, replicò: Ma tutto ciò io l’ho osservato fin dalla mia prima giovinezza! Vorrei sapere se mi manca ancora qualche altra cosa. – Dopo questa fidu­ciosa e volenterosa risposta Gesù, a detta di Marco (10, 21), riguardatolo lo amò, ossia lo fissò con chiara espressione di benevolenza, e poi gli disse: Ti manca una cosa. Se vuoi essere perfetto, va’, vendi tutti i tuoi beni, distribuisci ai poveri il ricavato, ché avrai un tesoro nei cieli; e poi seguimi! – A tale invito, quale risulta in complesso da tutti e tre i Sinottici, avvenne un cambiamento di scena: il giovane già cosi ardente e volenteroso diventò a un tratto gelido e afflittissi­mo (Luca, 18, 23) perché possedeva molti beni ed era assai ricco. E cosi’ ottenebrato, si allontanò. L’amara proposta di alienare tutti i propri beni era stata addolcita dalla promessa di un tesoro nei cieli, conforme alla sanzione univer­sale della dottrina di Gesù (§ 319), ma il palato del giovane sentì poco o nulla il dolce e moltissimo l’amaro; a lui il futuro tesoro nei cieli parve troppo lontano per poterlo preferire alle sue grosse anfore ripiene di lucenti sicli e custodite gelosamente dentro qualche occulto ripostiglio. Buon giovane, senza dubbio, ma d’una bontà comune e terra terra, mentre Gesù aveva ammonito che ai suoi seguaci poteva chiedere ad ogni momento di essere giganti di eroismo (§ 464). Quel giovane sarebbe stato certamente un ottimo magistrato dell’Impero romano, mentre al primo scrutinio per essere assunto quale alto ma­gistrato del regno dei cieli risultò deficiente: per questo regno egli non aveva l’animo tanto nobile quanto quell’ignobile pubblicano di Levi, che aveva posseduto forse meno sicli ma più generosità (§ 306).

§ 485. Partito il giovane, sul contegno di lui Gesù fece alcune con­siderazioni con i discepoli. “Quanto difficilmente – esclamò egli – quelli che hanno ricchezze entreranno nel regno d’Iddio!”. Senon­ché i discepoli rimanevano stupiti delle parole di lui. Gesu’ però, di nuovo rispondendo, dice loro: “Figli, quant’e’ difficile entrare nel regno d’Iddio! E’ piu’ agevole per un camello passare attraverso la cruna dell’ago, che per un ricco entrare nel regno d’Iddio”. Quelli allora rimanevano sempre piu’ stupefatti, dicendo tra loro: “E chi può salvarsi?”. Riguardatili, Gesu’ dice: “Presso gli uomini (é) im­possibile, ma non presso Dio” (Marco, 10, 23-27). L’immagine del camello è perfettamente orientale. Sono infondate le interpreta­zioni che il nome greco di camello sia stato scambiato col nome somigliante di una grossa fune oppure che con l’appellativo cruna dell’ago si designasse una ignota porticina delle mura di Gerusalemme stretta ed aguzza. Gesù parla di un vero ca­mello e di una vera cruna d’ago, come più tardi nel Talmud si par­lerà di rabbini che a forza di sottigliezze facevano passare un elefante attraverso una cruna d’ago. Neppure è il caso di attenuare la forza di questo paragone; Gesù se ne serve per adombrare, non una grande difficoltà, ma una vera impossibilità. Il ricco non può entrare nel regno di Dio per la stessa ragione per cui un uomo non può servire a Dio e a Mammona (§ 331) questi due monarchi nella loro lotta implacabile non si dànno quartiere, e l’uno non permette ai sudditi dell’altro di entrare sotto nessun pretesto nel proprio regno. E allora nessun ricco potrà in questo caso entrare nel regno di Dio? No, vi potrà entrare, purché prima svesta la divisa di suddito di Mammona, diventando povero di fatto o equivalente povero in ispirito (§ 321, nota). Ma sarà possibile questa diserzione dei sudditi di Mammona, che diventino sudditi di Dio? No, questa diserzione cosi paradossale è umanamente impossibile, perché gli uomini preferiranno sempre il palpabile oro terrestre all’impalpabile tesoro celeste: tuttavia essa presso gli uomini (e’) impossibile, ma non presso Dio, e Dio opererà questo miracolo di fare che un ricco preferisca il tesoro lontano al­l’oro vicino. Queste idee in sostanza non erano nuove, essendo già state espresse da Gesù sia nel Discorso della montagna, sia nella sua recente dispu­ta con i Farisei a proposito delle ricchezze (§ 471). Un elemento nuovo qui introdotto è l’affermazione che l’abbandono delle ricchezze per entrare nel regno di Dio non sarebbe stato effetto d’industria umana ma della potenza di Dio.

§ 486. Ascoltate le parole di Gesù e applicatele a se stessi, gli Apostoli riscontrarono che essi si trovavano avvantaggiati sugli altri uomini. Dei loro sentimenti si fece interprete il solito Pietro, che disse a Gesù: Ecco, noi lasciammo tutto e ti seguimmo; cosicché erano diventati volenterosi poveri per Gesù e per il regno dei cieli, e stavano in regola con le condizioni testé dettate dal maestro. Seguì per ciò una domanda, riportata da un solo Sinottico: Che cosa dunque avremo? (Matteo, 19, 27). Gesù rispose riferendosi sia agli Apostoli suoi particolari seguaci e collaboratori, sia a tutti gli altri seguaci presenti e futuri che non avevano il grado di Apostoli. La parte della risposta che si riferisce agli Apostoli è riportata qui dal solo Matteo (19, 28), mentre da Marco è taciuta e da Luca (22, 28-30) è riportata fra i discorsi dell’ultima cena; la parte relativa agli altri seguaci di Gesù è riportata da tutti e tre i Sinottici, ma presso Marco e Luca con una particolare distinzione cronologica. Agli Apostoli Gesù disse « In verità vi dico che voi che mi segui­ste, nella rigenerazione quando segga il figlio dell’uomo sul suo trono di gloria, sederete anche voi su dodici troni giudicando le dodici tribù d’israele. Ciò dunque avverrà alla rigene­raztone o palingenesi, la quale rinnoverà ab imis il « secolo » pre­sente allora, su quel trono di gloria che i rabbini riserbavano a Dio, si sederà il figlio dell’uomo come sul suo proprio trono, e aven­do ai suoi lati i dodici Apostoli seduti su troni minori giudicherà insieme con essi quelle dodici tribù d’Israele alle quali esclusivamen­te egli ha indirizzato la sua personale missione (§ 389). Con questa solenne assemblea giudiziale si chiuderà il « secolo » presente e s’mi­zierà il « secolo » futuro (§ 525 segg.). Ciò che Gesù promise agli altri suoi seguaci, non Apostoli, suona così presso Marco (10, 29-31): In verità vi dico, non v’e nessuno che la­sciò casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a cagio­ne della buona novella, il quale non riceva centuplicati adesso in questo tempo case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insie­me con persecuzioni, e nel secolo venturo (la) vita eterna. Qui la ricompensa non è messa in relazione col solenne giudizio delle do­dici tribù, ma è nettamente divisa in due tempi: la seconda parte si avrà nel secolo venturo, e consisterà nella vita eterna; la prima parte si avrà adesso in questo tempo, che perciò è il « secolo » pre­sente. Nella ricompensa del « secolo » presente si promette ai seguaci di Gesù il centuplo di tutto ciò che hanno lasciato. Ora, questo cen­tuplo è di beni solamente spirituali, ovvero anche materiali?

§ 487. E’ noto che, come gli scritti apocalittico-messianici del tar­divo giudaismo si sbizzarrirono nel descrivere i beni materiali che il futuro Messia avrebbe apparecchiati nel suo regno, così alcuni scrit­tori cristiani dei primi due secoli presero argomento da queste pa­role di Gesù per descrivere anch’essi il futuro regno del Messia Gesù quasi come un paese di Bengodi: in quel regno ogni vite avrà 10.000 tralci, ogni tralcio 10.000 rami, ogni ramo 10.000 viticci, ogni viticcio 10.000 grappoli, ogni grappolo 10.000 acini, e da ogni acino si pi­geranno 25 misure di vino, e altrettanto avverrà per il grano e gli altri prodotti del suolo; quel re­gno poi durerà mille anni (cfr. Apocalisse, 20, 3 segg.). Uguale con­cezione materiale ne aveva, dal di fuori, Giuliano l’Apostata, il qua­le domandava beffardamente ai Cristiani se il loro Gesù avesse re­stituito al centuplo anche le mogli i lasciate da essi per seguirlo. Ma a questo millenarismo materiale inferse gravi colpi già Origene nel secolo III, e più tardi 5. Gerolamo ripeterà In occasione di questo passo (della ricompensa centuplicata) alcuni introducono mille anni dopo la resurrezione, dicendo che allora ci sarà concesso il centu­plo di tutte le cose che lasciammo e la vita eterna; non compren­dendo però che, se nelle altre cose la promessa e’ degna, nelle mogli appare una sconcezza, giacché chi ne ha lasciata una per il Signore, ne riceverà cento in futuro. Il senso dunque e’ questo: Chi per il Salvatore abbia lasciato cose carnali, riceverà cose spirituali, le quali in confronto e per valore intrinseco saranno come se si con fronta il cento con un numero piccolo. Cosicché per S. Girolamo, come pu­re per altri Padri, il centuplo ha un valore spirituale. La spiegazione è sostanzialmente giusta, ma, dal punto di vista storico, non appare completa e dovrà essere integrata attribuendo al centuplo promesso pure un subordinato valore materiale. Anche sotto questo aspetto, infatti, la promessa di Gesù si riscontra immediata­mente avverata fra i primissimi cristiani, i quali costituivano una famiglia in cui si ritrovavano moltiplicati i beni materiali e gli af­fetti naturali lasciati per amore del Cristo. Narrano gli Atti (2, 44-45) che tutti i credenti (erano) insieme (e) avevano tutte le cose in comune, e vendevano le possessioni e sostanze e le spartivano fra tutti secondo che alcuno aveva bisogno; e poco appresso (4, 32) confermano che la moltitudine dei credenti aveva un cuore e un’a­nima sola, e nessuno diceva esser cosa sua propria alcunché di ciò ch’egli aveva, bensì tutte le cose in comune essi avevano. Cosi pure dagli Atti e dalle varie Lettere apprendiamo che i cristiani, di co­munità anche lontane, si consideravano legati da vincoli di carità tanto forti da sentirsi, pure nel campo affettivo, largamente ricom­pensati di vincoli naturali forse spezzati per seguire il Cristo. Se dunque i primi cristiani avevano lasciato una casa ed un cuore, tro­vavano veramente cento case e cento cuori in compenso. Giusta­mente quindi in questi benelizi materiali, offerti dalla fratellanza religiosa, gli studiosi moderni delle varie tendenze vedono il centu­plo promesso da Gesù adesso in questo tempo, come del resto gli storici delle epoche successive della Chiesa scorgevano l’avveramen­to della stessa promessa in quelle molte associazioni i cui membri, per avvicinarsi allo spirito di Cristo, vissero e vivono di beni messi in comune, in maniera da poter affermare con S. Paolo di essere come nulla aventi ed ogni cosa possidenti (il Corinti, 6, 10). Si noti bene, però, che questo centuplo materiale è promesso da Ge­sù insieme con persecuzioni. I seguaci del Messia assassinato (§ 400) dovevano infatti in qualche maniera assomigliarsi a lui, e seguirlo – come dice egualmente S. Paolo (ivi, 6, 4… 10) – in molta pazienza, in tribolazioni, in necessità, in angustie, in piaghe, in carceri, in tu­multi, in travagli, in veglie, in digiuni; ma pur fra queste vicende essi potevano affermare, insieme col nomenclatore delle medesime, di essere come castigati e non messi a morte, come attristati ma sempre gaudenti.

Gli operai della vigna

§ 488. Queste ricompense promesse da Gesù secondo quale criterio saranno distribuite ai suoi seguaci? Questo punto fu esposto da Ge­sù mediante una nuova parabola, presa anche questa dai costumi agricoli del paese. In Palestina, ai primi accenni della primavera, le vigne dànno mol­to da fare e i vari lavori di potatura, sarchiatura e altro, devono finirsi presto prima che le viti si risveglino e comincino a gettare: sono alcune settimane di lavoro intenso, nelle quali tutti i proprie­tari cercano braccia. Ora, il regno dei cieli è simile a un padrone di vigna, che al tempo di questi lavori usci di buon mattino in cerca di braccianti. Recatosi sulla piazza del paese, ne trovò alcuni e accordatosi con loro sulla paga che sarebbe stata di un denaro d’ar­gento al giorno (poco più d’una lira in oro), li inviò senz’altro alla sua vigna. Di nuovo verso l’ora terza di sole, cioè verso le nostre nove antimeridiane, quel padrone usci sulla piazza e trovò altri brac­cianti inoperosi; disse perciò loro: Andate anche voi nella mia vi­gna, e vi darò quello ch’è giusto. – Uscì ancora verso l’ora sesta e l’ora nona, cioè verso mezzogiorno e le tre pomeridiane, e trovando altri braccianti inoperosi inviò anche questi promettendo il giusto. All’undicesima ora, cioè un’ora prima del tramonto, uscì nuovamen­te e trovando ancora gente inoperosa disse loro: Ma perché state qui tutta la giornata oziosi? – E quelli: Perché nessuno ci ha presi a giornata. – Allora il padrone: Ebbene, andate anche voi alla mia vigna. – Calato il sole, il padrone disse al suo fattore: Chiama i braccianti e pàgali, cominciando dagli ultimi arrivati per finire ai primi. – Il fattore chiamò gli ultimi e consegnò loro un denaro d’ar­gento a ciascuno; gli altri braccianti, che tenevano d’occhio il pa­gatore, vedendo che gli ultimi erano ricompensati cosi lautamente, speravano che la stessa lautezza sarebbe stata impiegata con loro: e invece, man mano che vennero quelli dell’ora nona e della sesta e della terza, ricevettero tutti lo stesso; perfino quelli impegnati al primo mattino ricevettero egualmente un denaro d’argento. Questi allora, nella loro delusione, cominciarono a brontolare contro il pa­drone dicendo: Come? Gli ultimi venuti hanno lavorato appena un’ora e al fresco, e tu li hai trattati alla pari con noi che abbiamo sopportato tutto il peso della giornata e il caldo? – Ma il padrone rispose a uno dei brontolanti: Amico, io non ti faccio torto. Non ci siamo messi d’accordo per un denaro al giorno? Te l’ho dato, e quindi va’ per i fatti tuoi. Se io voglio dare al bracciante giunto per ultimo quanto ho dato a te, non mi è forse lecito di fare della roba mia quel che mi pare? Oppure non mi è lecito mostrarmi libe­rale con i tuoi compagni, se l’occhio tuo diventa invidioso della mia liberalità? – Gesù infine chiuse la parabola dicendo: Così gli ulti­mi saranno primi e i primi ultimi. Gli scritti rabbinici ci hanno trasmesso vari paragoni che mostrano notevoli analogie con questa parabola di Gesù;ma, oltre ad essere posteriori in ordine di tempo, mirano anche a insegnamenti diversi. L’insegnamento generico di questa parabola è che la liberalità di Dio si riversa su chi vuole e nella misura che vuole, e che la ricom­pensa finale per i seguaci di Gesù sarà nella sua parte essenziale eguale per tutti. I braccianti della vigna non adombrano, a rigore, i ricompensati del regno dei cieli, i quali certamente non bronto­lano né accusano di parzialità chi li ha ricompensati né sentono in­vidia per altri: adombrano invece storicamente quei seguaci di Gesù che in vista del regno dei cieli si ritenevano per qualsiasi ragione più adorni di meriti che altri, e specialmente quei Giudei di spi­rito onesto rna di mentalità strettamente giudaica che si ritenevano tuttora più accetti a Dio per la loro appartenenza alla nazione elet­ta. Per costoro i pubblicani, le meretrici, e anche i pagani, pote­vano bensi essere ammessi nel regno dei cieli quando si fossero con­vertiti, tuttavia in quel regno sarebbero stati di gran lunga addietro ai fedeli e genuini Israeliti, pieni di millenari meriti al cospetto di Dio. Gesù invece insegna che siffatti primati scompariranno, e che la liberalità del Re dei cieli potrà far passare gli ultimi ai primi posti, cosicché coloro che già erano primi diverranno ultimi.

La resurrezione di Lazaro

§ 489. Dalla festa della Dedicazione erano passati circa un paio di mesi, e si doveva essere sulla fine di febbraio o sui primi di marzo dell’anno 30 (§§ 460, 462). Gesù nella sua peregrinazione scendendo dai confini della Galilea (§ 414) si doveva essere avvicinato al Gior­dano e aveva seguito per un certo tratto la strada che fiancheggian­do il fiume portava verso Gerusalemme; pare che ad un certo punto egli, traversato il fiume, entrasse e rimanesse qualche tempo in Trans­giordania, forse nello stesso posto prediletto ove si era ritirato subito dopo la Dedicazione (§ 462). Mentre era ivi, lo raggiunse una triste notizia da Bethania, il villag­gio di Marta e Maria: il loro fratello Lazaro, che forse era già ma­lato al tempo dell’ultima visita di Gesù a quella famiglia amica (§ 441), si era aggravato assai e stava in immiiìente pericolo di vita. Le due sorelle, pur rimanendo in casa ad assistere l’infermo, erano informate in maniera approssimativa dei viaggi e delle soste dì Gesù, e saputolo in Transgiordania a circa una giornata di cammino da Bethania, gl’inviarono un messaggio per comunicargli le condizioni del loro fratello: confidate nell’affetto particolare che egli portava a tutte e tre della famiglia, esse sperarono che Gesù sarebbe accor­so e con la sua presenza avrebbe impedito la morte. Ecco come Gio­vanni (11, 3 segg.) narra il messaggio delle sorelle e il successivo contegno di Gesù: Inviarono dunque le sorelle a lui dicendo: “Si­gnore, guarda che quello che tu ami e’ malato”. Ma, avendo udito, Gesu’ disse:” Questa malattia non é per morte ma per gloria d’Iddio, affinché sia glorificato il figlio d’Iddio per mezzo di essa”. Ama­va invero Gesu’ Marta e la sorella di lei e Lazaro. Ci aspetteremmo che questo amore, espressamente rilevato dall’evan­gelista, avesse spinto Gesù a partire immediatamente alla volta della famiglia amica che per varie ragioni l’attendeva; e invece la narra­zione continua dicendo che quando Gesù udì ch’era malato rimase per allora, nel posto dove era, due giorni; in seguito, dopo ciò, dice ai suoi discepoli: “Rechiamoci nella Giudea di nuovo”. Recarsi nella Giudea dal posto dove Gesù stava, significava recarsi a Gerusalemme o nei suoi dintorni, cioè proprio nel covo dei nemici di lui. I discepoli pensarono subito al pericolo e glielo fecero osser­vare: Rabbi, testé cercavano i Giudei di lapidarti (§ 461), e di nuo­vo va: là? Nella seguente risposta di Gesù ritroviamo i temi ricer­cati e raccolti con particolare cura da Giovanni. Rispose Gesu’: “Non sono dodici le ore del giorno? Se alcuno cammini nel giorno non inciam pa, perché scorge la luce di questo mondo; se però alcuno cammini nella notte inciampa, perché la luce non e’ in lui”. Le dodici ore della giornata mortale di Gesù non erano ancora trascorse tutte, sebbene già incombesse la sera; egli, luce di questo mondo (cfr. Giov., 1, 9; 3, 19; 8, 12), doveva compier tutto il suo cammi­no fino all’ultima ora, né i suoi nemici potevano recargli alcun male, perché ancora non era giunta la loro ora: l’ora del loro predominio sarebbe stata l’ora di tenebra. Detto ciò, soggiunse: “Lazaro, l’amico nostro, si é addormentato; ma andrò a risvegliarlo”. Queste parole confermarono nei discepoli l’erronea convinzione che essi già si erano fatta sia della risposta di Gesù al messaggio delle sorelle (questa malattia non e’ per morte), sia dall’indugiarsi di Gesù per altri due giorni nel luogo ove stava; risposero perciò fiduciosi: Signore, se si é addormentato, si salverà. Un sonno profondo era, infatti, considerato dalla medicina contem­poranea come un sintomo che l’organismo stava reagendo contro la malattia e cominciava a liberarsene; e quindi, anche per questa ragione, non era opportuno andare in Giudea da Lazaro per di­sturbarlo. Allora però Gesu’ disse loro apertamente: “Lazaro morì. E godo per causa vostra – affinché crediate – che io non ero colà. Ma rechiamoci da lui”. I discepoli rimasero colpiti da quell’annuncio di morte, né sospetta­rono affatto l’intenzione vera di Gesù. Giacché dunque la disgrazia era avventita e non c’era più nulla da fare, perché recarsi in Giudea presso il covo dei Farisei e dei sommi sacerdoti? Ai discepoli non sor­rideva affatto l’idea di questo viaggio e, presi in mezzo fra la paura dei Farisei e la deferenza per Gesù, essi tentennavano. D’altra parte il maestro appariva irremovibile nell’idea del viaggio: bisognava per­ciò seguirlo anche a costo di non tornare più addietro e di lasciare la vita laggiù fra quegli astiosi nemici, che essi andavano a provocare. L’apostolo Tommaso fece opera di persuasione tra i suoi col­leghi, mettendo però in mostra la sua sfiducia sull’esito finale del viaggio: Rechiamoci anche noi a morire insieme con lui! Tutti quin­di si misero in cammino verso Bethania, arrivandovi in una gior­nata; e qui la narrazione di Giovanni non può essere sostituita. Venuto pertanto Gesu’, trovò lui (Lazaro) già da quattro giorni nel­la tomba. Era poi Bethania presso Gerusalemme circa quindici sta­di. Ora, molti dei Giudei erano venuti a Marta e Maria per conso­larle del fratello. Marta dunque, come udì che Gesu’ viene, gli andò incontro: Maria invece sedeva in casa. Disse pertanto Marta a Ge­su’: “Signore, se eri qui, non sarebbe morto il fratello mio. E(ppure) adesso so che quante cose (tu) chiedessi a iddio, te (le) darà Iddio!”. Le dice Gesu’:”Risorgerà il fratello tuo”. Gli dice Marta: “So che risorgerà nella resurrezione nell’estremo giorno”. Le dice Gesìi:”Io sono la resurrezione e la vita; chi crede in me, quand’anche fosse morto, vivrà, e chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi ciò?”. Gli dice: “Si, Signore; io ho creduto che tu sei il Cri­sto, il figlio d’Iddio, il Veniente (§§ 339, 505) nel mondo”. E detto ciò se ne andò a chiamare Maria, la sorella sua, segretamente dicen­do: “C’é il maestro, e ti chiama”. Or quella, come udì, si leva pre­stamente e veniva verso lui, poiché non era ancora giunto Gesu’ nel villaggio, bensì era ancora al posto dove gli andò incontro Marta. I Giudei pertanto che erano con lei nella casa e la consolavano, ve­dendo che Maria era sorta ed uscita in fretta la seguivano, credendo che andasse alla tomba per piangere colà. Maria pertanto, come venne dove era Gesu’, vedutolo cadde ai piedi di lui dicendogli: “Si­gnore, se eri qui, non sarebbe morto il fratello mio!”. Gesu’ dun­que, come vide lei piangere e i Giudei venuti insieme con lei piangere, fremette nel (suo) spirito e turbò se stesso.

§ 490. Queste parole invitano a sospendere un momento la lettu­ra, per farvi sopra alcune considerazioni. Se la narrazione finisse qui, nessuno al mondo vi troverebbe difficoltà di sorta. Il racconto è piano, trasparente, senza ombra di sottintesi; è inoltre di tale ade­renza agli altri dati storici in nostro possesso, da trovar conferme ad ogni linea. Ne rileviamo solo alcune. L’antica Bethania stava veramente, seguendo l’antica strada, presso Gerusalemme circa quindici stadi, che sarebbero 2.775 metri (oggi invece il villaggio tende ad allontanarsene, propagandosi verso orien­te): data questa vicinanza da Gerusalemme, molti Giudei erano ve­nuti dalla città a condolersi con la distinta famiglia del morto, come volevano le regole d’urbanità. Presso i Giudei il morto era sepolto di solito il giorno stesso del de­cesso, come appunto avvenne per Lazaro (§ 491). Si stimava comunemente che l’anima del defunto si aggirasse per tre giorni attorno alla salma, sperando di penetrarvi di nuovo, ma al quarto giorno, cominciando la decomposizione, essa se ne allontanava per sempre. Le visite di condoglianza si prolungavano per sette giorni, ma erano più numerose nei primi tre. I visitatori esprimevano il loro cor­doglio dapprima con la solita rumorosità orientale, alzando grida e lamenti, piangendo, strappandosi le vesti, e infine rimanevano per un certo tempo seduti a terra in cupo silenzio. Quando Gesù arrivò, Marta e Maria stavano contornate da questi visitatori di condoglianza. I quali sono chiamati da Giovanni Giu­dei, termine con cui egli designa abitualmente gli avversari di Gesù; tali infatti si mostrarono apertamente taluni di essi, come apparira dal seguito della narrazione. A Gesù andò incontro per prima Marta, che già vedemmo agire come governante in casa (§ 441); in seguito si mosse anche Maria, seguita dai visitatori. Scambiate le poche parole con le sorelle e viste tutte quelle persone piangenti, Gesù fremette nel (suo) spirito e tur­bò se stesso, come uomo vivo e vero che ha un’anima umana nel petto e che sente profondamente l’amore e il dolore umani. Si può immaginare una narrazione più ingenua, più esatta, più “ve­rista”? Tale sarebbe giudicata indubbiamente anche dagli studiosi radicalissimi se non avesse per conclusione un miracolo; ma poiché il tut­to termina con la resurrezione di un morto, e avvenuta davanti a te­stimoni cosi numerosi e cosi avversi, perciò si è decretato di scopri­re nella stessa narrazione o le tracce di una frode preparata in pre­cedenza, o almeno le prove di un mito o un’allegoria. Alla frode o a qualcosa di simile pensarono critici antichi (§ 198), le cui idee però riposano oggi nella tomba senza speranza di resurrezione. Alla allegoria pensano parecchi moderni, per i quali tutta la narrazione non avrebbe nulla di reale, ma sarebbe in una maniera o in un’altra l’illustrazione solo apparentemente storica di un’idea astratta. Senon­ché il lettore imparziale può aver visto da se stesso se la narrazione offra il minimo appiglio a un’interpretazione allegorica; certo è che, se è allegorica questa narrazione, potrà essere considerato allegorico qualunque attestato di morte rilasciato da medici e da giudici da­vanti ad una salma e alla presenza di testimoni numerosi ed avver­si; mentre, se attestati siffatti hanno valore storico, tanto più ne avrà questo attestato della morte di Lazaro. E ciò apparirà anche meglio dal seguito della narrazione, che qui riprendiamo.

§ 491. Gesù dunque, alla vista dei piangenti uscitigli incontro, fre­mette nel (suo) spirito e turbò se stesso, e disse: “Dove l’avete po­sto?”. Gli dicono:”Signore, vieni e vedi”. Gesu’ pianse. Dicevano pertanto i Giudei: “Guarda! Come l’amava!”. Ma alcuni di essi dicevano:”Non poteva costui, che apri gli occhi al cieco (§ 428), fare che anche questo non morisse?”. Gesu’ pertanto, di nuovo fremendo in se stesso” viene alla tomba. Era (questa) una spelonca, e una pietra era stata posta su di essa. Dice Gesu’: “Togliete la pie­tra” Gli dice la sorella del morto, Marta: “Signore, già puzza: e infatti quatriduano”. Le dice Gesu’: “Non ti dissi che, se (tu) cre­da” vedrai la gloria d’iddio?”. Tolsero pertanto la pietra. Gesu’ al­lora alzò gli occhi in alto e disse: “Padre, ti ringrazio perché mi ascoltasti! Io invero sapevo che sempre mi ascolti; ma per la folla che sta attorno dissi (ciò)” affinché credano che tu m’inviasti”. E, detto ciò” a gran voce gridò: “Lazaro, vieni fuori!“. Usci il morto legato ai piedi e alle mani da bende, e la faccia di lui era avvolta da un sudano. Dice a quelli Gesu’:”cioglietelo e lasciatelo andare!”. Le tombe palestinesi del tempo di Gesù erano situate poco discosto dai luoghi abitati o proprio alla periferia di essi. Le tombe di per­sone distinte. erano di solito scavate nel tufo, o perpendicolarmente a guisa di fossa nei luoghi pianeggianti, ovvero orizzontalmente a guisa di spelonca nei luoghi collinosi; consistevano essenzialmente in una camera funeraria con uno o più loculi per le salme, e spesso con un piccolo atrio davanti la camera: atrio e camera comunicavano tra loro mediante uno stretto uscio che rimaneva sempre aper­to, mentre l’atrio comunicava con l’esterno mediante una porta che veniva sbarrata con una grossa pietra (§ 618). La salma, dopo es­sere stata lavata, cosparsa di aromi, fasciata di bende e avvolta di lenzuolo, era semplicemente deposta nel suo loculo nella camera fune­rana, rimanendo perciò a contatto quasi immediato dell’aria inter­na: è facile quindi immaginare che, al terzo o quarto giorno dalla deposizione, nonostante gli aromi tutto l’interno della tomba era ammorbato dalle esalazioni del cadavere. Di ciò si preoccupa nel caso nostra Marta, quando Gesù ordina di togliere la pietra che chiude la porta esterna. La salma di Lazaro è là da quattro giorni: retrocedendo infatti in ordine di tempo, tro­viamo che un giorno, l’ultimo, è stato impiegato da Gesù per venire dalla Transgiordania a Bethania risalendo per la strada da Gerico a Gerusalemme (§ 438); due giorni, il penultimo e il terz’ultimo, sono stati consumati dal suo deliberato indugio dopo aver ricevuto l’annunzio che Lazaro era gravissimo; il quart’ultimo giorno, dun­que, è insieme quello in cui le sorelle del malato hanno inviato l’an­nunzio a Gesù e in cui Lazaro è morto ed è stato sepolto. Egli dun­que morì poche ore dopo che le sue sorelle avevano spedito il messo a Gesù.

§ 492. Oggi, sul posto dell’antica Bethania, si mostra una tomba che una tradizione attestata fin dal IV secolo identifica con quella di La­zaro. Trattasi certamente di un sepolcro del solito tipo palestinese, ma oggi è difficile farsi un’idea esatta del rapporto tra il sepolcro e il primitivo territorio circostante, a causa delle ripetute modifica­zioni che tutto il luogo ha ricevuto lungo i secoli. L’antica porta esterna fu murata dai musulmani nel secolo XVI, quando vi fu edifi­cata la moschea sovrastante: poco dopo vi fu adattato per altra parte l’accesso odierno, che discende per 24 gradini. Questo accesso immette nell’antico atrio della tomba, il quale è un quadrilatero di circa tre metri per lato; scendendo ancora tre gradini si penetra attraverso una stretta apertura nella camera funeraria, che è di di­mensioni alquanto minori e contiene oggi i loculi per tre salme. Checché sia dell’identità di questa tomba con quella di Lazaro, l’aderenza della narrazione ai costumi funebri e ai dati archeologici palestinesi è esattissima, e anche per questa ragione si scorge neI nar­ratore un testimonio oculare. Né è minore la corrispondenza della narrazione allo stato psicologico dei Giudei durante il fatto e subito dopo. Durante il fatto, alcuni Giudei contestano a Gesù, non senza una punta di beffa, di non aver impedito la morte di Lazaro dopo aver donato la vista al cieco di Gerusalemme. Dopo il fatto, fra i Giudei stessi avviene una scis­sione cosi narrata dal testimonio oculare: Molti pertanto dei Giu­dei, che erano venuti a Maria ed avevano contemplato ciò che (egli) fece, credettero in lui; altri di essi, invece, se ne andarono ai Fa­risei e dissero loro le cose che fece Gesu’. L’effetto di questo zelante messaggio fu, come si vedrà, la decisione presa dai Farisei che l’ope­ratore di miracoli cosi grandiosi e cosi pubblici doveva essere tolto di mezzo; ma qui è importante rilevare come la scissione prodottasi tra i Giudei testimoni del miracolo abbia un fondamento psicologi­co storicamente perfetto. Fra quegli avversari di Gesù, coloro che non hanno dimenticato di essere uomini, si arrendono al miracolo e credono in chi l’ha operato; coloro invece che hanno subordinato il loro cervello e cuore di uomini alla propria qualità di membri d’un partito, non si preoccupano che del trionfo del partito e corrono a denunziare Gesù. La storia umana è piena di esempi di paradossale tenacia partigianesca, ma nessuna tenacia è stata più massiccia di quella dei Farisei. Crolli il mondo, ma rimanga a qualunque costo il fariseismo (§ 431). Difatti il mondo crollò e il fariseismo rimase, ma quale testimonio inconfutabile della propria disfatta.

§ 493. I critici radicali odierni (seguaci dei metodi dell’antico fari­seismo più che non sembri), per dimostrare che la narrazione della resurrezione di Lazaro è tutta allegorica e non ha alcun fondamento storico, portano una ragione che dovrebbe essere perentoria: la ra­gione è che il fatto è narrato dal solo Giovanni e non dai Sinottici, mentre se si trattasse di un avvenimento reale, i Sinottici nel loro stesso interesse apologetico non avrebbero potuto tralasciare un av­venimento così adatto a conciliare la fede nel Messia Gesù. La ragione è certamente perentoria, ma solo per mostrare la povertà d’argomenti dei critici radicali. In primo luogo si può ricordare loro ad personam che la resurrezione di Gesù è narrata concordemente dai Sinottici e da Giovanni, ma ciò non è per essi un motivo suffi­ciente per accettarla come fatto storico. Inoltre, la ragione addotta è un argomento a silentio; il quale, se è debolissimo sempre, è asso­lutamente nullo nel caso nostro. Noi sappiamo infatti che Giovan­ni ha voluto appunto supplire e integrare, in piccola parte; quanto era già stato narrato dai precedenti Sinottici (§163 segg.), e questo di Lazaro è precisamente uno di tali casi. D’altra parte i Sinottici, non soltanto sono lontanissimi dalla pretesa di raccontare tutti i fatti o miracoli di Gesù, ma essi stessi ci offrono la prova di averne trala­sciati moltissimi: già vedemmo infatti come i Sinottici riportino le parole di Gesù secondo cui egli aveva operato molti portenti anche a Chorozain, ma neppure uno di questi fatti di Chorozain è narra­to dai Sinottici o da Giovanni (§ 412). Quanto alla ragione per cui i Sinottici omisero questa narrazione, è aperto il campo alle con­getture: una molto verosimile è che non volessero esporre Lazaro e le sorelle alle rappresaglie degli ostili Giudei tuttora spadroneggianti a Gerusalemme, dal momento che il Sinedrio aveva già pensato di uccidere Lazaro come testimonio incomodo (§ 503); più tardi invece, quando scrisse Giovanni, questo silenzio prudenziale non ave­va più ragione di essere, perché Gerusalemme era ridotta a un cu­mulo di rovine. D’una serenità olimpica è la spiegazione che il Renan fornì della rsurrezione di Lazaro. Veramente questa è la seconda spiegazione, giacché la prima che supponeva una sincope passeggera di Lazaro e un trucco accordato tra lui e le sorelle (§ 207) non lo aveva lasciato pienamente soddisfatto; e allora, senza abbandonarla del tut­to, di rincalzo egli vi aggiunge questa spiegazione definitiva. Un bel giorno i discepoli chiedono a Gesù che compia un miracolo per convincere i cittadini di Gerusalemme; Gesù risponde sfiduciato che quelli non crederebbero neppure se Lazaro risuscitasse, intendendo il Lazaro gia nominato nella parabola del ricco epulone (§ 472). Bastò questa risposta, perché più tardi i discepoli parlassero sen­z’altro di una vera e reale resurrezione di Lazaro. E cosi il miracolo è bell’e fatto. – Ora, certamente tutti quanti, dotti e indotti, am­metteranno che siffatta spiegazione è opportunissima per procurare un minuto di ilarità cordiale; ma tutti anche, dopo le risate, si domanderanno se una biografia di Gesù era il luogo più adatto per ti­rar fuori simile pulcinellate.

Gesu’ ad Efraim e a Gerico

§ 494. I maggiorenti Giudei di Gerusalemme presero molto sul serio la denunzia fatta dai testimoni della resurrezione di Lazaro. I Farisei, impensieriti, si rivolsero ai sommi sacerdoti che dovevano decidere in proposito, e fu adunata un’assemblea, alla quale certamente presero parte molti membri del Si­nedrio. Fu proposta la questione: Che facciamo? Giacché quest’uo­mo fa molti portenti! Se lo lasciamo (agire) così, tutti crederanno in lui; e (allora) verranno i Romani e distruggeranno sia il luogo (san­to) sia la nazione nostra. I partecipanti all’assemblea non discutono affatto la realtà dei miracoli di Gesù e specialmente dell’ultimo; ma già da tempo comparivano taumaturghi presentandosi quali inviati da Dio e predicando rivoluzioni fra il popolo (§ 433), che Gesù è considerato come uno di essi: anzi egli ha l’aggravante di compiere portenti più numerosi e strepitosi, e quindi tali da attirare anche più l’attenzione dei Romani. Costoro in realtà erano già padroni della Palestina, sebbene non s’immischiassero nelle questioni del luo­go (santo), ossia del Tempio, e avessero lasciato alla nazione una cer­ta autonomia interna (§ 22); tuttavia cominciavano già ad essere seccati da quella processione interminabile di taumaturghi rivoluzio­nari, e forse appunto questo galileo di Gesù li avrebbe indotti a rea­gire con severità estrema troncando una volta per sempre la fasti­diosa processione. Gli eventi immediati si potevano prevedere facil­mente: Gesù avrebbe continuato ad operare i suoi sbalorditivi mira­coli; le folle sarebbero accorse in massa a lui; tutti d’accordo lo avrebbero proclamato re d’Israele in contrapposto al procuratore di Gerusalemme e all’imperatore di Roma; contro i sediziosi sarebbero accorse le coorti romane di stanza in Palestina ed eventualmente an­che le legioni di Siria; sarebbe successa prima una strage di Giudei e poi anche la distruzione del luogo (santo) e della nazione intera. Il pericolo era grave ed imminente: bisognava provvedere subito. All’assemblea partecipava il sommo sacerdote allora in carica, Caifa (§ 52), il quale dopo aver ascoltato per qualche tempo le proposte che venivano fatte, espresse il suo parere con l’imperiosità permes­sagli dal proprio ufficio: Voi non sapete nulla! Né riflettete che per voi é conveniente che muoia un solo uomo per il popolo, e non pe­risca l’intera nazione. Caifa non aveva nominato alcuno, ma tutti capirono: il solo uomo che doveva morire per il popolo era Gesù. E’ vero che Gesù non era uno sconvolgitore di popolo e non si era mai occupato di politica; è vero che egli era innocente, come probabil­mente avevano fatto notare poco prima anche alcuni dell’assemblea stessa: ma che importava tutto ciò? Se egli moriva, l’intera nazione sarebbe scampata alla rovina, e ciò era ragione sufficiente perché egli morisse. Dicendo questo, Caifa aveva parlato soltanto come uo­mo politico e nell’interesse della sua casta sacerdotale sadducea, in­teresse che qui concordava pienamente con quello dei Farisei. Tut­tavia l’evangelista scorge nelle sue parole un senso ben più alto, e lo esprime con questa osservazione: Ora ciò non disse da se stesso, ma essendo sommo sacerdote di quell’anno profetò che Gesu’ doveva morire per la nazione, e non per la nazione soltanto, ma affinché anche i figli d’Iddio dispersi radunasse (egli) in unità. La frase essendo sommo sacerdote di quell’anno ha dato occasione ad accusare l’evangelista di non sapere che l’ufficio del sommo sa­cerdote non era annuale. Veramente non si trattava di una notizia peregrina, poiché qualunque lettore dell’Antico Testamento sapeva che quell’ufficio era a vita, sebbene ai tempi di Gesù – come già rilevammo (§ 50) – assai raramente i sommi sacerdoti morissero in carica; perciò Giovanni, avendo presente questo abuso invalso ai suoi tempi, vuole soltanto dire che in quell’anno solenne in cui morì Ge­sù era Caifa il sommo sacerdote legittimo, e come tale pronunziò quelle parole che a sua insaputa avevano un significato ben più alto di quello da lui inteso. Agli occhi di Giovanni quell’ultimo sommo sacerdote dell’antica Legge decade in quell’anno stesso, in cui è sta­bilita la nuova Legge per mezzo del Messia Gesù; ma prima di decadere, in forza del suo legittimo ufficio, egli rende omaggio uffi­ciale all’istitutore della nuova Legge, proclamandolo inconsciamente vittima di salvezza per la nazione d’Israele e per tutte le altre del­la terra. La decisione presa dall’assemblea fu conforme al suggerimento dato da Caifa: Da quel giorno, pertanto, deliberarono di ucciderlo. Questa deliberazione fu probabilmente comunicata, o agli Apostoli o a Gesù stesso, da qualche persona benevola che l’aveva risaputa. Gesù allora non si mostrò più in pubblico, e allontanandosi dalla zona di Gerusalemme si ritirò con i suoi discepoli in una città detta Efraim, che, riconosciuta già nel secolo IV (cfr. Eusebio, Onomasti­con, 90), corrisponde quasi certamente all’odierna Taijibeh, circa 25 chilometri a settentrione di Gerusalemme sui margini del deserto. Era abitudine di Gesù ritirarsi in luoghi solitari alla vigilia di av­venimenti importanti per la sua missione.

§ 495. Ad Efraim Gesù rimane non molti giorni. La Pasqua s’avvi­cinava, e già cominciavano a passare le prime comitive avviate a Ge­rusalemme. Nella città santa si aspettava da un momento all’altro l’arrivo anche di lui. Ad ogni modo, per far si che la deliberazione dell’assemblea non rimanesse un vano desiderio, i sommi sacerdoti e i Farisei avevano dato comandi affinché, se alcuno conoscesse do­v’era, (lo) indicasse, cosicché lo catturassero (Giovanni, 11, 57). Nonostante questi ordini, uno dei primi giorni del mese Nisan dell’anno 30, Gesù abbandonò il suo ritiro di Efraim e si mise in viaggio ver­so Gerusalemme seguendo la strada più lunga che a fianco al Giordano passava per Gerico. I discepoli fiutavano nell’aria sentore di tragedia, e ciò li faceva camminare riluttanti sebbene fossero prece­duti da chi non mostrava riluttanza: erano nella strada per salire a Gerusalemme, e Gesu’ andava avanti a loro, ed (essi ne) stupivano; coloro poi che seguivano, avevano paura (Marco, 10, 32). La carovana era formata come da due gruppi: il primo era degli Apostoli con qualche altro discepolo più antico ed affezionato, e questo gruppo era preceduto da Gesù che camminava distaccato in avanti tutto solo, tanto che essi ne stupivano; il secondo gruppo, di quelli che seguivano a qualche distanza, era formato da altri disce­poli più recenti, mescolatisi forse con pellegrini pasquali che già co­noscevano Gesù e s’interessavano di lui: soprattutto i componenti di questo secondo gruppo avevano paura. Lontano, verso destra, si proilavano le colline di Gerusalemme. A un certo punto Gesù, fattisi venire dappresso con un gesto i dodici Apostoli, cominciò a dir loro le cose che stavano per accadergli:”Ecco, saliamo a Gerusalemme, e il figlio dell’uomo sarà conse­gnato ai sommi sacerdoti e agli Scribi, e lo condanneranno a mor­te, e lo consegneranno ai pagani, e lo beffeggeranno e lo sputacchie­ranno e lo flagelleranno e uccideranno, e dopo tre giorni risorgerà”. L’annunzio non era nuovo (§ § 400, 475), ma in quelle circostanze era opportunamente rinnovato: essendo imminente il tempo in cui Gesù avrebbe palesato universalmente la sua qualità di Messia, era opportuno richiamare alla memoria le precedenti rettificazioni mes­sianiche. Ma anche quella volta esse giovarono ben poco. Luca (18, 34) pazientemente ci fa sapere che i dodici non capirono nulla di queste cose, ed. era questa sentenza nascosta per essi; e non conosce­vano le cose che erano dette. Quanto fosse grossolana e massiccia questa incomprensione apparve in una scenetta avvenuta subito appresso.

§ 496. Fra i convocati da Gesù che non capirono nulla del suo an­nunzio, erano i due fratelli Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, mentre nel secondo gruppo che seguiva Gesù si trovava la loro ma­dre, ch’era forse una di quelle buone massaie che provvedevano alle necessità materiali dei cooperatori di Gesù (§ 343). L’annunzio di Gesù dovette essere comunicato dai figli alla madre e ampia­mente commentato da tutti e tre nella maniera più rosea e più fal­sa: si dovette parlare di Messia dominatore, di vittorie, di gloria, di trono, di corte e cortigiani, e degli altri sogni cari al messianismo politico: e giacché il tempo stringeva, i tre interlocutori giudicarono opportuno fare qualcosa per assicurarsi buone posizioni. Ecco per­ciò che, poco dopo, la madre accompagnata dai due figli si presen­ta umile e riverente a Gesù per rivolgergli una domanda; trattan­dosi di cosa assai importante, parlarono tutti e tre insieme interrom­pendosi tra loro, cosicché mentre Matteo (20, 20 segg.) attribuisce l’interrogazione alla madre, Marco (10, 35 segg.) l’attribuisce ai figli. – Che vuoi? Che volete? – dice Gesù. E allora la donna, aiuta­ta dai figli, espone la domanda. Adesso che Gesù fonderà il suo re­gno a Gerusalemme, non dovrà trascurare quei due bravi giovanotti; essi gli sono stati sempre affezionati, e per amor suo hanno perfino abbandonato la casa e le barche del loro padre; dunque Gesù si mostri riconoscente, e nell’assegnare ai suoi seguaci i posti nella cor­te messianica collochi l’uno alla destra e l’altro alla sinistra del proprio trono; e per se stessa la madre non chiede niente, ma spera che prima di morire non le sia negata questa giusta consolazione di vedere i suoi due giovanotti nei migliori posti a fianco del Messia glorioso. La donna, rincalzata dai figli, ha finito di parlare. Gesù guarda a lungo tutti e tre, e poi con infinita pazienza dice ai giovani: Non sapete quel che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati del battesimo onde io sono battezzato? La gloria del Mes­sia verrà, si, ma prima egli deve bere un calice e ricevere una « im­mersione » che corrispondono appunto al tragico annunzio da lui dato testé agli Apostoli: prima della vita gloriosa, vi sarà la morte ignominiosa, e potranno essi affrontarla? I due giovani, con la bal­danza dei fiduciosi, rispondono: Possiamo! Gesù inaspettatamente dà loro ragione, ma nello stesso tempo respinge la loro richiesta: Si, si, berrete il mio calice e riceverete il mio battesimo, ma non è in poter mio farvi sedere a destra o a sinistra: i posti saranno occupati da coloro per cui sono stati preparati dal Padre celeste. – L’annunzio del calice e del battesimo allude alle future prove dei due Apostoli (§ 156, nota): il restante della risposta distingue ciò che gli interro­ganti avevano confuso insieme, cioè il regno del Messia sulla terra e quello glorioso nei cieli. Il primo è nel “secolo” presente e sarà pie­no di travagli e di persecuzioni (§ 486); il secondo si inaugurerà alla rigenerazione, e sarà prodotto dalla pazienza mostrata nei travagli e nelle persecuzioni del “secolo” presente: allora il figlio dell’uomo sederà sul suo trono di gloria, ma gli altri seggi ai lati di quel trono saranno assegnati dal Padre celeste. Il dialoghetto ebbe un seguito. Gli altri Apostoli riseppero della cu­pida richiesta fatta a Gesù, e nella loro gelosia s’indignarono contro i richiedenti, mostrando così di condividerne le ambizioni. Gesù, ra­dunati nuovamente attorno a sé i contendenti, li ammonì mostrando­si anche su questo punto il moralista capovolgitore (§ 318): fra le nazioni pagane i governanti spadroneggiano sugli altri e fanno sen­tire su loro il peso della propria autorità, ma fra i seguaci di Gesù chi vuol essere maggiore degli altri diventi minore e chi vuol primeg giare diventi Io schiavo di tutti, a imitazione appunto di Gesù che non venne ad esser servito ma a servire, e a dar la sua vita a riscatto (da schiavitu’) in favore di molti (Matteo, 20, 25-28). Gesù si era già presentato come buon pastore che serve tutta la giornata il suo numeroso gregge e dà la propria vita per esso (§ 434); qui egli riprende quest’ultima idea ed afferma che dà la sua vita a ri­scatto della schiavitù in favore dei molti suoi seguaci. E’ la dottrina su cui particolarmente insisterà più tardi S. Paolo.

§ 497. Seguendo la strada suddetta, Gesù giunse a Gerico. L’aristo­cratica città contemporanea era un vero luogo di delizie specialmen­te d’inverno, perché vi aveva ampiamente esercitato la sua passione di grande costruttore ellenistico Erode il Grande, e dopo di lui in minor parte anche suo figlio Archelao: vi si ammiravano un anfitea­tro, un ippodromo, una reggia sontuosà totalmente ricostruita da Achelao, e ampie piscine ove confluivano le acque dei dintorni. Ma il posto di questa città non era quello dell’antica, la vecchia Gerico cananea, le cui rovine si trovavano a circa due chilometri più a settentrione, presso la fontana di Eliseo: le esecrate rovine della città distrutta da Giosuè erano rimaste lungo tempo disabitate, ma la vicinanza della preziosa fonte vi aveva poi richia­mato gente e provocato il sorgere d’un certo numero d’abitazioni che ai tempi di Gesù valevano come sobborgo della Gerico contempora­nea (cfr. Guerra giud., Iv, 459 segg.). Chi dunque scendeva dal settentrione, come qui Gesù, passava prima attraverso questo sobborgo formatosi presso la Gerico antica, e dopo appena una mezz’ora di cammino entrava nella città erodiana, situa­ta davanti all’imbocco della stretta valle (wadi el-Qelt) ove s’immet­teva la strada per Gerusalemme. Durante questo passaggio di Gesù avvenne un fatto narrato con interessanti divergenze dai tre Sinottici (Matteo, 20, 29 segg.; Marco, 10, 46 segg.; Luca, 19, 35 segg.). Secondo Matteo e Marco il fatto avvenne quando Gesù era uscito da Gerico; secondo Luca, quando egli vi si avvicinava. Inoltre, il fat­to consiste secondo Marco e Luca nella guarigione di un cieco, che in Marco è chiamato Bartimeo, “figlio di Timeo”; al contrario, secondo Matteo, furono guariti due ciechi. – La questione è antica, e ne furono proposte varie soluzioni, anche poco o nulla fondate; una di queste ultime è che i ciechi sarebbero stati tre, uno all’en­trata in Gerico e due all’uscita. La soluzione migliore sembra esser quella che tiene conto della doppia Gerico, l’antica e l’erodiana: di un viandante che faceva il breve tragitto dall’una all’altra si poteva ben dire tanto che era uscito da Gerico (antica) quanto che si avvicinava a Gerico (erodiana). Quanto al numero dei ciechi guariti, se uno o due, la divergenza non è nuova, perché già la trovammo a proposito dell’energumeno di Gerasa che secondo il solo Matteo aveva un compagno (§ 347); anche qui il solo Matteo enumera due cie­chi innominati. Trasferendosi mentalmente a quei tempi, la diver­genza si comprende: già notammo che in Palestina i ciechi spesso si uniscono a coppia per mutuo aiuto (§ 351), e il cieco più intra­prendente della coppia ne è quasi la personificazione comune, men­tre l’altro rimane come nascosto all’ombra di lui; qui si aveva la per­sonificazione rappresentata da Bartimeo, ma l’accurato Matteo ri­corda che questa personificazione comune era composta da due in­dividui. Bartimeo dunque, assistito dal compagno minore, stava a limosina­re lungo la strada. Sentendo dal calpestio che passava un folto grup­po di gente, domandò chi fossero; gli fu risposto che passava Gesù il Nazareno, certamente a lui già noto per la fama dei suoi miraco­li. Ambedue i ciechi allora si dettero a gridare: Signore, abbi pietà di noi, figlio di David! Quelli della comitiva dettero loro sulla voce affinché tacessero, ma i due tanto più alzavano le loro grida insisten­do nell’implorazione. A un tratto Gesù si fermò e dette ordine che gli fossero condotti vicino. I circostanti andarono da Bartimeo con una parola piena di speranza: Coraggio! Alzati! Ti chiama! Egli, gettato via il suo mantello, saltò su e seguito dal compagno minore andò da Gesù. Gesù chiese loro: Che volete che vi faccia? – Che può desiderare un cieco? Bartimeo rispose: Rabboni, che ci veda! E tutti e due, più e più volte insieme: Signore, che si aprano gli occhi nostri! Gesù allora disse: Va’, la tua fede ti ha salvato! Era la stessa risposta, in sostanza, già data ai due ciechi di Cafarnao (§ 351). Toccati i loro occhi, ambedue furono guariti all’istante, e subito si unirono con la comitiva che seguiva Gesù.

§ 498. Gesù allora entrò in Gerico, naturalmente fra grande entu­siasmo: si correva da tutte le parti per vedere il famoso Rabbi cer­cato a morte dai Farisei, colui che aveva guarito li per lì su due pie­di la notissima coppia di Bartimeo; il fervore popolare era accresciu­to dai due ciechi stessi, che mostravano i propri occhi guariti a quan­ti volevano esaminarli. Tra gli accorsi fu un certo Zaccheo, ch’era capo dei pubblicani: cit­tà di confine e centro commerciale importante, Gerico doveva albergare molti agenti d’imposte, e uno dei loro capi era appunto questo Zaccheo. Il suo nome ebraico, Zakkai, dimostra ch’egli era giudeo; se ciò nonostante faceva quell’odiato mestiere, come l’aveva fatto an­che Levi Matteo (§ 306), la colpa non era sua ma dei lauti guadagni che il mestiere procurava. Era infatti ricco; ma in lui, egualmente come in Levi Matteo, le ricchezze non avevano soffocato ogni senso di spiritualità, ché anzi quella sazietà materiale gli faceva provare una certa nausea e sentire talvolta più acuto il desiderio di ricchezze superiori all’oro e all’argento. In questo stato d’animo si trovava Zac­cheo quel giorno in cui Gesù entrava a Gerico, e desiderava ardente­mente di avvicinarlo e parlargli, o almeno di vederlo. Recatosi lungo il passaggio, capì subito che l’impresa era assai difficile; Gesù era attorniato da folla fittissima, in mezzo a cui sarebbe stato impossi­bile aprirsi un varco; d’altra parte il povero Zaccheo (non Gesù, come ha sognato l’Eisler; § 189) era basso di statura, cosicché dal pia­no terra non riusciva a scorgere neppure i capelli di Gesù. Rinunzia­re all’idea? Neppur per sogno. Il bravo Zaccheo fece una corsa sul davanti della folla che avanzava lentamente, e adocchiato un bel sicomoro ci si arrampicò sopra: era uno di quei bassi alberi, come se ne vedono ancor oggi a Gerico stessa, che hanno lunghe radici ri­salenti verso il tronco, in modo da sembrare circondati da tante funi; arrampicarsi là sopra, con quella bella comodità delle funi, fu cosa da nulla. La scena però dette sull’occhio. Se si fosse trattato di un con­tadino o un popolano qualunque, nessuno ci avrebbe badato; ma quell’omettino lassù era un capo pubblicano, cioè un capo di quelle sanguisughe che succhiavano il sangue del popolo. Forse più d’uno dei passanti pensò che quella sarebbe stata una buona occasione per fargli fare un volo dall’albero, o almeno per accendergli un bel falò sotto: tutti ad ogni modo se lo additavano tra loro con beffe e sghi­gnazzamenti. Finalmente passa Gesù presso il sicomoro. Guardando in su tutti, guarda anche Gesù. Quei di Gerico che lo accompagnano gli spie­gano chi sia l’omiciattolo appollaiato sull’albero: è un niente di buono, un uomo peccatore, anzi un capo peccatore e capo sangui­suga, che per atroce sarcasmo si chiama Zakkai (“puro”) mentre dovrebbe chiamarsi a ragione con ben altri nomi; non sarebbe quin­di decoroso per il maestro rivolgergli la parola, e nemmeno fermarsi a guardarlo. Gesù invece, non solo sì è fermato e lo guarda, ma non sembra affatto persuaso delle informazioni che sta ricevendo; quan­do poi gli informatori hanno finito di parlare, si rivolge all’omettino sull’albero e gli dice nientemeno cosi’: Zakkai, presto, vieni giu’! Og­gi infatti in casa tua devo far sosta. Fu uno scandalo generale. Frettoloso e gioioso Zaccheo si ruzzolò giù dall’albero, e il maestro senz’altro s’avviò con lui a casa sua; ma, vedendo (ciò), tutti mormoravano che presso un uomo peccatore en­trò ad albergare. Trattandosi della casa impura di un peccatore, i fedeli alle norme farisaiche naturalmente rimasero fuori; e invece quella casa diventava più pura di tante altre appartenenti a Farisei. Zaccheo infatti, che sentiva non poche coserelle gravanti sulla sua coscienza, quando fu dentro casa volle onorar l’ospite facendo ampia ammenda del proprio passato; disse perciò a Gesù: Ecco, la metà delle mie sostanze, Signore, do ai poveri, e se frodai taluno in qualche cosa restituisco al quadruplo. L’ospite, pienamente soddisfat­to dell’ammenda, rispose al capo sanguisuga: Oggi si è fatta salvezza in questa casa, perché anche questo è un figlio di Abramo; venne infatti il figlio dell’uomo a cercare e salvare ciò che era perduto. In maniera analoga aveva risposto Gesù nel difendere l’altro pub­blicano, Levi Matteo, divenuto poi suo seguace. La guarigione di Bartimeo era stata un miracolo che aveva meravi­gliato le folle; l’ammenda di Zaccheo probabilmente non meravigliò nessuno, e forse vi fu gente che vi malignò sopra. Eppure, nel pen­siero di Gesù, l’ammenda era un miracolo diverso ma non minore della guarigione se nel caso di Bartimeo un cieco aveva veduto, nel caso di Zaccheo un camello era passato attraverso una cruna d’ago, mentre tale passaggio era presso gli uomini impossibile, ma non presso Dio (§ 485). La parabola delle mine e dei talenti

§ 499. Probabilmente l’ammenda di Zaccheo e la risposta di Gesù avvennero durante un banchetto offerto dal capo pubblicano al suo ospite. Vi avranno partecipato, oltre ai discepoli di Gesù, anche altri suoi ammiratori che s’aspettavano da lui grandi cose: e un fremi­to ansioso doveva passare a ondate in quella sala, ove a mezza voce si sentiva parlare di regno di Dio, di Messia glorioso, di travolgenti vittorie, di tribunali giudicanti, di fulgidi troni e di cortigiani gloriosi e beati; se ne parlava tuttavia con qualche prudenziale riser­bo per non dispiacere al maestro, giacché tutti sapevano ch’egli -chissà per quali sue recondite ragioni – disapprovava quei ragiona­menti e sostituiva a quelle prospettive così rosee altre prospettive altrettanto lugubri. Eppure, senza alcun dubbio, oramai si era alla vigilia di fatti decisivi; tutto induceva a credere che da un giorno all’altro la potenza taumaturgica del maestro si sarebbe dispiegata in pieno, lo stato delle cose sarebbe stato totalmente mutato e il regno di Dio palesemente inaugurato. Da alcune finestre della sala si scorgeva forse la suntuosa reggia ricostruita da Archelao: e taluni di quegli infervorati dovettero ripensare all’effimero ed oscuro prin­cipato di quel tetrarca (§ 14), contrapponendogli in cuor loro lo sta­bile e glorioso regno che il Messia Gesù avrebbe inaugurato di lì a pochi giorni. Gesù in parte udì le sommesse parole, e per il resto comprese da sé lo stato d’animo dei presenti; perciò disse una parabola, perché egli era vicino a Gerusalemme e quelli credevano che il regno d’iddio sta­va per apparire subito (Luca, 19, 11). La parabola fu la seguente. Un uomo nobile partì per una regione lontana, onde ricevere l’in­vestitura di un regno e poi ritornare quale re effettivo del luogo di partenza. Per non lasciare inoperoso il proprio denaro durante la sua assenza, consegnò una mina – cioè un po’ più di 100 lire in oro – a ciascuno dei dieci suoi servi con l’incarico che la commercias­sero fino al suo ritorno. Senonché i suoi cittadini lo odiavano, e mandarono dietro a lui una loro propria ambasceria che dicesse a colui che doveva concedere l’investitura: Non vogliamo che costui regni su di noi! – Tuttavia l’investitura fu concessa, e l’uomo no­bile tornò quale re effettivo. Questa “premessa” della parabola è cavata dalla realtà storica; già notammo che essa corrisponde esattamente al viaggio che un trenta anni prima Archelao aveva fatto a Roma per ricevere da Augusto l’investitura dei suoi dominii, e inoltre anche alla delegazione di 50 Giudei che fu inviata da Gerusalemme dietro a lui e contro di lui (§13). Si abbia anche presente che, mentre Gesù parlava e gli altri l’ascoltavano, gli occhi di tutti potevano benissimo posarsi sulla reg­gia dello stesso Archelao rimasta vuota a Gerico. Tornato il nuovo re, domandò i conti ai servi a cui aveva affidato le mine. Si presentò per primo un servo che con la mina consegnatagli ne aveva guadagnate altre dieci; il re lo lodò perché era stato fe­dele nel pochissimo, e lo ricompensò dandogli il governo di dieci città. Si presentò un secondo che aveva guadagnato altre cinque mine, e costui fu ricompensato col governo di cinque città. Venne poi un terzo che disse: Signore, rieccoti la tua mina che io ho te­nuta riposta in un fazzoletto; ho avuto infatti paura di te che sei severo, ritiri ciò che non hai depositato e mieti dove non hai semi­nato! – Evidentemente questo servo non aveva acconsentito all’am­basceria ostile inviata dietro al pretendente al regno, ma neppure aveva fatto alcunché in favore di lui; conoscendolo per altro come molto esigente, aveva conservato tale quale la somma affidatagli, cosicché il futuro re non avrebbe potuto accusarlo d’infedeltà e di fur­to. Ma il re gli rispose: Dalla tua bocca ti giudico, servo malvagio! Sapevi che io sono uomo austero, che tolgo ciò che non ho depo­sitato e mieto ciò che non ho seminato? E perché non consegnasti il mio argento alla banca, ché io ritornato l’avrei riscosso con interes­se? Voltosi poi agli astanti comandò: Toglietegli la mina, e datela a quello che ne ha dieci! – Gli fu fatto osservare: Ma, signore, quello ha già dieci mine! – Però il re replicò: Eppure è cosi; a chi ha già, sarà ancora dato, mentre a chi non ha, sarà tolto anche ciò che ha! Inoltre, quei tali miei nemici che non volevano ch’io regnassi su loro siano condotti qui ed uccisi in mia presenza!

§ 500. L’ansiosa aspettativa che quegli uditori avevano del regno messianico non poté rimanere soddisfatta della parabola. In essa l’insegnamento è, in primo luogo, che il palese trionfo del regno di Dio sarà o uno ricompensa o un castigo a seconda del contegno dei singoli individui: in secondo luogo, che quel trionfo avverrà dopo una partenza e un’assenza del pretendente al regno, il quale com­parirà ed agirà da re soltanto alla sua futura venuta. Applicando la parabola, troviamo che il pretendente al regno è Gesù stesso; il qua­le è già nel pieno possesso dei suoi diritti regali, ma ancora non è partito per andare a ricevere l’investitura pubblica e solenne dal suo Padre celeste assentandosi dai suoi sudditi, alcuni dei quali gli sono apertamente ostili e vorrebbero che egli non regnasse; questa sua as­senza non è breve, giacché il pretendente parte per una regione lon­tana e affida ai suoi servi traffici che richiedono molto tempo (difatti Matteo, 25, 19, dirà che il padrone della parabola ritorna dopo mol­to tempo); quando Gesù sarà di ritorno dal suo Padre celeste, allora avverrà l’inaugurazione manifesta e solenne del suo regno con il premio dei sudditi fedeli e il castigo dei negligenti e ribelli. Non stiano dunque in ansiosa trepidazione i discepoli, aspettandosi da un giorno all’altro il trionfo solenne del regno di Dio. Prima di quel trionfo Gesù dovrà partire per una regione lontana e rimanere assente da loro fino alla sua nuova parusia, ossia presenza. Durante questa sua indefinita assenza, i nemici del lontano re brigheranno accanitamente affinché non regni: anzi, quando sarà proposto loro di riconoscere ufficialmente la sua regalità di Messia ebraico, rispon­deranno di riconoscere soltanto la regalità del Cesare pagano (Gio­vanni, 19, 15). Perciò questa sua assenza sarà un periodo di dure prove per i sudditi fedeli rimasti soli, e superando tali prove essi me­riteranno di partecipare al trionfo finale della parusia. Se però il trionfo definitivo era riservato alla parusia, Gesù stesso aveva già promesso una grande manifestazione di possanza del regno di Dio che poteva ben valere come parziale anticipazione del trionfo finale (§ 401); inoltre aveva promesso particolari soccorsi ap­punto durante quelle dure prove (§ 486). La parabola delle mine, propria a Luca, è narrata anche da Matteo (25, 14-30) ma in altro contesto e con talune divergenze. Matteo la fa recitare da Gesù durante il grande discorso escatologico, pronun­ziato a Gerusalemme nel rnartedì della settimana di passione (§ 523); inoltre, colui che parte non è un pretendente al regno che va a ri­ceverne l’investitura ma è un uomo facoltoso, e non distribuisce ai suoi servi una mina a ciascuno ma o cinque o due o un solo talento, il quale valeva 60 mine: alla fine, poi, non si parla del castigo dei nemici che avevano brigato contro l’assente. – La collocazione che Luca dà alla parabola è senza dubbio migliore di quella di Matteo, perché corrisponde in maniera sorprendente al momento storico e alle circostanze della recita; lo stesso si dica della qualità di pretendente al trono e del conseguente castigo dei nemici, che non si ritro­vano in Matteo. Per il resto le due parabole corrispondono quanto alla sostanza: quella di Matteo può essere un raccorciamento di quel­la di Luca, ma può anche darsi che il dippiù che si ritrova in Luca (specialmente il castigo finale dei nemici) provenga da una parabola diversa.

Il convito di Bethania

§ 501. Risalendo da Gerico verso Gerusalemme, Gesù doveva pas­sare necessariamente per Bethania, da cui si era allontanato poche settimane prima. Ivi egli giunse sei giorni prima della Pasqua (Gio­vanni, 12, 1), cioè in un sabbato; poiché il tragitto da Gerico a Be­thania (§§ 438, 489 segg.) era così lungo che non sarebbe stato permesso in un giorno di sabbato, Gesù probabilmente viaggiò nel venerdì precedente per giungere a Bethania sul tramonto, quando cominciava ufficialmente il sabbato. Anche qui l’indicazione di Giovanni vuole precisare ciò che i precedenti Sinottici hanno lasciato nel vago: attenendosi infatti a Matteo (26, 6 segg.) e a Marco (14, 3 segg.) sembrerebbe che questa visita a Bethania fosse avvenuta più tardi, il mercoledì successivo: ma questo ritardo della narrazione presso di loro è dovuto alla mira di far risaltare la relazione tra le parole pronunziate a Bethania da Giuda e il suo successivo tradi­mento. Con la venuta a Bethania sembrava che Gesù si offrisse da se stesso al pericolo: i suoi nemici, che poco prima avevano deciso la sua morte e ordinato il suo arresto (§ § 494, 495), erano là ad una passeg­giata da Bethania e potevano essere informati subito ed agire. Il pe­ricolo indubbiamente esisteva, tuttavia era meno immediato di quan­to apparisse: in primo luogo dopo l’ordine di arresto Gesù era scom­parso, e quindi i primi bollori si erano alquanto raffreddati, salvo a riaccendersi se Gesù fosse ricomparso; inoltre, oramai si era in piena preparazione pasquale, a Gerusalemme giungevano ad ogni ora folle di Giudei di tutte le regioni e quindi anche di conterranei e ammiratori di Gesù, e non era opportuno provocare un tumulto procedendo contro di lui con la città così affollata. Ad ogni modo i Sinedristi ed i Farisei, non dimentichi affatto della loro decisione, si sarebbero regolati con prudenza a seconda delle circostanze; frat­tanto i comuni Giudei della capitale, incuriositi, aspettavano di ve­dere come si sarebbe svolta la lotta e se sarebbe prevalso il Sinedrio oppure Gesù. A Bethania Gesù dovette trovare accoglienze trionfali, provocate cer­tamente dal ricordo della recente resurrezione di Lazaro. La sera di quel sabbato fu tenuto un convito in suo onore in casa di un certo Simone soprannominato il Lebbroso, ch’era senza dubbio uno dei più facoltosi della borgata, e doveva il suo soprannome alla malat­tia da cui era guarito, forse per intervento di Gesù. Fra gli invitati non poteva mancare, e difatti non mancò, Lazaro; sua sorella, la massaia Marta, dirigeva il servizio; l’altra sorella Maria, meno esper­ta di faccende domestiche, provvide da se stessa a portare un con­tributo d’onore al convito. Come i convitati erano sdraiati su di­vani con il busto verso la tavola comune e i piedi all’in fuori nella maniera che già dicemmo (§ 341), Maria ad un certo punto del con­vito entrò recando uno di quei vasi d’alabastro dal collo allungato, in cui gli antichi usavano conservare essenze odorose di gran pre­gio: la ragione è data da Plinio quando dice che l’alabastro cavant ad vasa unguentaria, q’uoniam optime servare incorrupta dicitur (Natur. hist., XXXVI, 12). Il vaso recato da Maria conteneva una lib­bra, cioè 327 grammi, di nardo autentico di gran valore. L’aggetti­vo autentico, come dice il greco “di fiducia”, è oppor­tuno, perché il citato naturalista romano ricorda che l’ungnento di nardo si adulterava facilmente, adulteratur et pseudonardo herba qua’ ubique nascitur (ivi, XII, 26). E come genuino, il nardo di Ma­ria era di gran valore: Giuda, che doveva intendersi di prezzi, Io valutò a piu’ di 300 denari, cioè a più di 320 lire in oro; Plinio (ivi) dice che in Italia il nardo costava 100 denari la libbra, e altre spe­cie meno pregiate anche meno: tuttavia egli stesso ricorda altrove (ivi, XIII, 2) unguenti che costavano da 25 a 300 denari la libbra. Maria pertanto, giunta al divano di Gesù, invece di sciogliere il si­gillo apposto sull’orifizio del vaso ne spezzò il collo allungato, in se­gno di maggiore dedizione, e ne effuse abbondantemente l’essenza profumata dapprima sul capo di lui e poi il rimanente sui suoi pie­di: egualmente in segno di particolare omaggio, asciugò ella con i propri capelli i piedi profumati del maestro, imitando in parte l’an­tica peccatrice innominata (§ 341). E la casa fu piena del profumo dell’unguento.

§ 502. L’atto compiuto da Maria non era insolito: ad ospiti insigni invitati a banchetto si offrivano, dopo la lavanda di mani e piedi, squisiti profumi di cui cospargersi. E tanto più questa finezza era na­turale in Maria in quanto la usava verso colui che aveva risusci­tato il fratello, anche se per compierla ella impiegava una quantità di essenza veramente straordinaria; ma l’esuberanza della materia testimoniava l’esuberanza del sentimento interno. Questa prodigalità sorprese taluni discepoli, e più di tutti il loro amministratore comune che era Giuda l’Iscariota (§ 313); costui, come avverte in maniera distinta Giovanni (mentre gli altri evan­gelisti parlano di discepoli in genere), protestò apertamente pur sotto la parvenza di beneficenza: Perché s’e’ fatto questo scempio d’un­guento? Si poteva infatti vendere questo unguento per piu’ di 300 denari, e dare ai poveri! (Marco, 14, 4-5). Ma alla protesta di Giu­da l’evangelista Giovanni, non meno pratico che spirituale, fa se­guire una sua riflessione: Disse però questo, non perché gl’importava dei poveri, ma perché era ladro, e avendo (egli) la cassetta asportava le cose messevi (dentro) (Giovanni, 12, 6). Da questa notizia apprendiamo che il gruppetto dei seguaci abituali di Gesù faceva vita comune, senza dubbio insieme col maestro, e tutti mettevano i personali proventi in comune depositandoli in una cassetta; questa era affidata a Giuda, il quale fun­geva da amministratore e certamente sarà stato coadiuvato occasionalmente da quelle pie donne che, di tempo in tempo secondo le loro possibilità, seguivano il gruppo di Gesù incaricandosi dell’assi­stenza materiale (§ 343). Ma Giuda era ladro, e sottraeva il denaro dalla “cassetta”. Ora, questo furto continuato difficilmente poteva essere riscontrato dagli altri Apostoli, i quali erano totalmente occu­pati nel ministero spirituale e per le cose materiali si rimettevano in tutto a Giuda; invece appunto le pie donne avevano ogni facilità di riscontrare il furto perché, occupandosi delle spese e fornendo esse stesse buona parte del denaro, potevano seguire a un dipresso le entrate e le uscite della “cassetta” ed avvedersi delle sottrazioni più notevoli. Forse di tali sottrazioni avevano esse informato gli altri Apostoli e Gesù stesso; e da allora l’amministratore infedele fu guar­dato con occhio d’accorata pietà, ma silenziosamente fu lasciato an­cora nel suo ufficio per la speranza che egli, non svergognato, rinsa­visse. Qui invece Giuda si mostra incancrenito: piu’ di 300 denari era una somma cospicua, quasi un anno intero di salario d’un operaio (§ 488), e il ladro al vedersi sfumare questa bella entrata scatta allegando il pretesto dei poveri. Il seguace di Mammona vuoi conser­vare ancora la divisa esteriore di seguace di Dio (§ 485). Alla protesta di Giuda, Gesù rispose: Lasciala (fare)! Che lo serbi (= che valga come riserbato) per il giorno del mio seppellimento! I poveri infatti sempre avete con voi, me invece non avete sempre (Giov., 12, 7-8; cfr. Matteo, 26, 10-13; Marco, 14, 6-9). Per Gesù, dunque, l’unzione da lui testé ricevuta valeva come un’anticipazione del suo imminente seppellimento, giacché le salme si deponevano nella tomba cosparse di aromi e di essenze profumate. Ma anche da questo nuovo annunzio pare che gli Apostoli non si convincessero dell’imminente morte di Gesù: tranne forse Giuda che, da buon fi­nanziere umano, previde la bancarotta altrui e dovette da allora pen sare direttamente ai casi propri.

Vita di Gesù 16ultima modifica: 2010-09-05T16:54:00+02:00da meneziade
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