Vita di Gesù 19

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LA SETTIMANA DI PASSIONE. IL VENERDI’

 

 

Il Gethsemani

§ 554. Giovanni, appena ha finito di riferire gli ultimi colloqui, prosegue: Avendo detto queste cose, Gesu’ uscì con i discepoli suoi di la’ dal torrente del Cedron, ove era un giardino nel quale entrò egli e i discepoli suoi. Sapeva però il luogo anche Giuda, che lo tradiva, perché spesso si era raccolto cola Gesu’ con i discepoli suoi (Giov., 18, 1-2). L’indicazione che il prediletto giardino era di là dal torren­te del Cedron già basta per concludere che era nella zona del monte degli Olivi: ciò del resto è affermato esplicitamente dai Sinottici, i quali comunicano anche che il giardino si chiamava Gethsemani. L’appellativo, presuppone un oliveto, munito del suo pressoio e protetto forse da un recinto, il tutto in pieno accordo col nome del monte stesso; una tradizione, che è nettissima già dal secolo IV, indica come il Gethsemani un luogo poco oltre il Cedron e lungo l’odierna strada da Gerusalemme a Bethania, dove sono tuttora superstiti olivi di straordinaria grandez­za e di età milleniaria. Il cammino dal cenacolo al Gethsemani non era piu’ che una comoda passeggiata. Nella chiara notte di plenilunio, alla frizzante aria primaverile, i reduci dal cenacolo scesero dalla Città Alta giu’ nel Tyropeon, seguendo probabilmente l’antica strada a gradini recen­temente scoperta, attraversarono il quartiere del Siloe (§ 428), usci­rono quindi dalla città per la Porta della Fonte, e risaliti verso il set­tentrione oltrepassarono il Cedron raggiungendo il Gethsemani. Il giardino doveva appartenere a qualche discepolo o ammiratore di Gesù, e questi perciò se ne serviva liberamente. Chi sa che il suo proprietario non fosse lo stesso padrone del cenacolo? Ciò spieghe­rebbe più facilmente come mai fosse presente nel giardino il giovi­netto con la sola sindone, se costui è veramente Marco (§ 561): ma trattandosi di ipotesi poggiata su altre ipotesi, non è il caso di insi­stere. Come altri poderetti di quel genere, anche il Gethsemani do­veva avere vicino all’ingresso una casipola per riparo dell’ortolano e per deposito di roba; più in là c’era probabilmente pure una grotta scavata nel fianco del monte, e nella grotta era stato collocato (come si preferisce fare anche oggi) il torchio che dava il nome al luogo. In quella notte pasquale la zona era deserta, trattenendosi quasi tutti nell’intimità delle proprie case. Alla solitudine esterna corrispondeva lo stato d’animo della comitiva: come Gesù si mostrava triste lungo il cammino, così gli Apostoli rimasero taciturni e pensierosi. Giunti che furono al giardino, Gesù invitò la comitiva ad allogarsi alla meglio per passare la notte: e fu cosa facilissima per quegli orientali che erano abituati a dormire all’aperto ravvolti nel loro mantello, mentre questa volta trovarono il vantaggio di un ricovero e di foglie secche nella casipola o nella grotta. Al congedarsi da loro Gesù disse: Restate qui, mentre io vado più in là a pregare. Pregate per non entrare in tentazione! – Al momento poi di allontanarsi, egli prese con sé i tre testimoni della trasfigurazione, i prediletti Pietro, Giacomo e Giovanni (§ 403), conducendoli verso il luogo ove voleva pregare.

§ 555. Discostati che furono, i testimoni dell’antica gloria compre­sero subito che adesso avrebbero assistito a ben altra manifestazione, perché a un tratto Gesù cominciò a sgomentarsi ed angosciarsi. Rivolto poi ai tre, allorché avranno tentato di consolarlo, esclamò: Tristissima è l’anima mia fino a morte! Restate qui, e vegliate con me! Anche quella compagnia, però, non gli dava sollievo. Nella sconfi­nata angoscia che l’opprimeva, egli cercò ancora di restar solo per pregare. Facendo uno sforzo immenso, con il volto illividito, le ginocchia va­cillanti, le braccia tese in cerca di sostegno, egli si staccò da essi quanto un lancio di sasso, e alfine stremato cadde sul suo volto pre­gando. Non era il modo di pregare solito ai Giudei, che stavano ritti; era l’accasciarsi a terra di chi non ha più forza di reggersi in piedi e vuole pregare prostrato giù nella polvere. Intanto i tre testimoni, certamente turbati anch’essi, osservavano quello stramazzato gemente: nella serenità plenilunare, alla distanza forse di una quarantina di passi (un lancio di sasso), essi potevano vedere e udire distintamente tutto. Lo stramazzato gemeva: Abba (Padre)! Tutto e’ possibile a te! Allontana questo calice da me! Tut­tavia (sia fatto) non ciò che io voglio, ma ciò che (vuoi) tu! Il cali­ce era un’espressione metaforica, frequente negli scritti rabbinici, per designare la sorte assegnata a qualcuno; la sorte qui prevista da Gesù è la suprema prova attraverso la quale il Messia deve perve­nire al trionfo (§ § 400, 475, 495), è l’ora decisiva in cui il chicco di grano caduto in terra si disfà e muore ma per sprigionare nuova vita (§ 508). Quale differenza, pertanto, fra le disposizioni di spirito della dome­nica precedente e quelle di questa notte! Allora, nel Tempio, Gesù aveva prontamente e risolutamente respinto ogni titubanza davanti alla prova suprema (§ 508); in questa notte, a pochi momenti dal­l’inizio della prova, egli non solo è titubante ma prega esplicitamente il Padre celeste affinché la prova sia risparmiata: tuttavia la preghie­ra è condizionata al beneplacito supremo del Padre e la volontà dell’uomo è subordinata alla volontà di Dio. Non mai, in tutto il resto della sua vita, Gesù appare cosi veracemen­te uomo. Davvero che in quell’ora non già il cavaliere romano Pon­zio Pilato, ma l’umanità intera avrebbe dovuto presentare Gesù al balcone dell’universo proclamando: Ecce homo! D’altra parte in quella stessa ora, più chiaramente forse che in seguito, si può misu­rare la smisurata angoscia che si riversò nello spirito di Gesù durante la sua passione: perciò a quella proclamazione terrestre Ecce homo! avrebbe forse risposto una voce celeste proclamando Ecce Deus!

§ 556. La preghiera al Padre dovette essere ripetuta più e più volte, con l’uniformità di chi non chiede altro, con lo spasimo di chi si ritrova in indigenza estrema. Gli apparve però un angelo dal cielo, confortandolo. Il solo Luca (22, 43), che non è uno dei tre testi­moni oculari ma si è informato da essi, dà questa notizia; egualmente egli solo, da psicologo e da medico, ha raccolto taluni particolari di ciò che allora avvenne: E fatto in agonia, piu’ intensamente pregava. E divenne il sudore di lui quasi globuli di sangue scen­denti giu’ sulla terra. L’agonia era per i Greci ciò che si svolgeva nell’”agone”, cioè il concorso degli aurighi e la tenzone degli atleti che lottavano per il premio: e la lotta esigeva dalle membra e dagli spiriti i più lace­ranti sforzi, le violenze più spossanti, onde nessuno si avvicinava a quella lotta senza un interno pavore e una trepidazione ansiosa. Più tardi, infatti, agonia significò in genere pavore o trepidazione, ma specialmente di chi è implicato nella somma lotta Contro la mor­te: tale il caso di Gesù. E fatto in agonia, piu’ intensamente pregava. La preghiera, a cui egli sempre aveva fatto particolare ricorso nelle circostanze più solenni della sua vita, diventa suo unico rifugio in quest’ora suprema. E l’agonia si prolunga, e l’agonizzante o lottatore manifesta sul suo corpo gli effetti della lotta: trasuda, e il sudore di lui diviene quasi globuli di sangue scendenti giu’ sulla terra. Alla distanza di un lancio di sasso, sotto il chiarore plenilunare que­sto fenomeno poté essere osservato abbastanza bene: anche più di­stintamente poté essere riscontrato dai tre testimoni poco dopo, quan­do Gesù si recò presso di loro avendo tuttora sul volto le rigature rosseggianti, i grumoli e le altre tracce dei globuli di sangue. Un fenomeno fisiologico, designato come ematidrosi cioè “sudore sanguigno”

è noto ai medici: l’osservazione era stata fatta già da Aristotile, che impiega anche il termine là ove dice “taluni sudaro­no un sanguigno sudore”. Il fenomeno avvenuto in Gesù potrà essere oggetto di ricerche scien­tifiche dei fisiologi, pur avendo presenti le singolari circostanze del paziente: il fisiologo Luca, trasmettendo egli solo questa notizia, sem­bra tacitamente invitare a tali ricerche. Ma appunto in questa notizia, che mette tanto in rilievo la realtà della natura umana di Gesù, trovarono scandalo taluni antichi cri­stiani al leggere il vangelo del medico Luca. Essi giudicarono che, sebbene il medico aveva narrato un fatto vero, era meglio che la narrazione non fosse ripetuta, perché sembrava fornire una conferma alle calunnie dei nemici del cristianesimo: probabilmente gli attac­chi di Celso contro la persona di Gesù (§ 195) avevano suscitato tale preoccupazione. Perciò avvenne che la narrazione del sudore di san­gue, insieme col precedente accenno all’angelo confortatore, comin­ciò a scomparire dai codici del III vangelo, soppressa per questo infondato timore. Oggi essa manca in vari codici unciali, fra cui l’auto­revolissimo Vaticano, in alcuni minuscoli e in altri documenti, e questa mancanza era già stata segnalata nel IV secolo da Ilario e Girolamo. Tuttavia, allorché quella vana preoccupazione si dissipò col cessare degli attacchi contro il cristianesimo, cessò anche la soppres­sione dell’ombroso passo; del resto le testimonianze in suo favore – sia di codici, sia di scrittori antichi a cominciare da Giustino (Dial. cum Tryph., 103) e Ireneo – sono così nume­rose e gravi da non lasciare alcun serio dubbio sulla autenticità del passo.

§ 557. L’agonia frattanto si prolungava: la mezzanotte doveva es­sere già passata. I tre testimoni, da principio turbati per ciò che ve­devano, in seguito erano entrati a poco a poco in una specie di tor­pore fatto di tristezza, di stanchezza e di sonnolenza: alla fine si erano addormentati tutti e tre. A un certo punto Gesù, nella sua sconfinata angoscia spirituale, sentì anche la desolazione della solitudine umana e quindi cercò nuovamente la compagnia dei tre prediletti: forse si riprometteva soltan­to una buona parola, un gesto amichevole, qualcosa che gli facesse sentire di non essere solo sulla terra. Ma giunto presso di loro li tro­vò addormentati tutti e tre, compreso Pietro che poco prima aveva fatto scorrere fiumi di parole per attestare la sua fedeltà (§ 549). Gli disse allora Gesù: Simone, dormi? Non fosti capace di vegliare per una sola ora? Vegliate e pregate, afinché non veniate in tentazione! Lo spirito bensì e’ pronto, ma la carne inferma. Tutto qui fu il con­forto che Gesù ritrovò fra i suoi prediletti. E così lo spasimo continuò; ond’egli, lasciati gli uomini, tor­nò nuovamente a Dio. L’unica domanda prima fu rivolta ancora adesso al Padre celeste, e i testimoni da poco ridesti la udirono: Padre mio! Se non può questo (calice passare se (io) non (1′) abbia bevuto, sia fatta la volonta’ tua! Trascorse ancora del tempo. La notte era silenziosa e monotona. Dopo qualche resistenza i tre testimoni furono vinti di nuovo dal sonno: Gesù, tornato di nuovo, li trovò dormienti, giacché gli occhi loro erano aggravati, e non sapevano che cosa rispondergli. In quest’ultima osservazione di Marco (14, 40) si riconosce facilmente una confessione del suo informatore, il testimonio Pietro. E lasciatili, di nuovo andatosene pregò per la terza volta, dicendo lo stesso discorso di nuovo (Matteo, 26, 44). Quanto durasse questa terza ripresa della preghiera non sappiamo: forse non molto. A un certo punto Gesù si ripresentò ai tre assonnati, e in tono questa volta diverso disse loro: Dormite ormai e riposate. Basta! Venne l’ora: ecco, il figlio dell’uomo e’ consegnato nelle mani dei peccatori. Alza­tevi, andiamo! Ecco, chi mi tradisce si e’ avvicinato. Le prime parole Dormite ormai e riposate non sono certamente un invito a fare ciò che dicono; è anche poco probabile che valgano in senso interroga­tivo; più giusto sembra interpretarle come un’antifrasi, quasi una fa­miliare ironia che affermi il contrario di ciò a cui mira, come se di­cesse: « Si, si, dormite pure! Non vedete che giunge il traditc­re?…». Si sentiva infatti rumore di folla che giungeva dalla strada di Geru­salemme: si intravedevano anche, in quella direzione, lumi di lan­terne e fiaccole. Gesù ricondusse i tre sonnolenti testimoni là dove stavano gli altri otto Apostoli, immersi certamente nel più profondo sonno. Svegliò tutti, e rivolgendo loro parole di esortazione rimase in attesa.

L’arresto

§ 558. E mentre egli parlava ancora, ecco Giuda uno dei dodici ven­ne, e con lui (era) molta folla con spade e bastoni (mandata) dai som­mi sacerdoti ed anziani del popolo. A questa notizia dei Sinottici, Giovanni aggiunge alcuni particolari riguardo alla molta folla; essa in maggior parte era composta di inservienti del Tempio (cfr. Luca, 22, 52), ma c’era anche una coorte con un tribuno (Giov., 18, 3. 12). Ora, questi armati venivano certamente da parte del procuratore romano (§ 619); come erano andate dunque le cose? Non è arrischiato ricostruirle così. Quando Giuda uscì dal cenacolo (§ 543) si recò dai maggiorenti giudei, i quali l’attendevano e ave­vano compiuto nel frattempo i loro preparativi materiali e morali: materialmente, perché avevano dato ordine ai loro inservienti di te­nersi pronti per una piccola ma delicata spedizione; moralmente, perché erano andati dal procuratore o dal tribuno, e dipingendo quel galileo di Gesù come un mestatore politico circondato da altri me­statori suoi compaesani e tutti pronti a suscitare sommosse nella ca­pitale, avevano ottenuto facilmente una scorta armata. Questa scor­ta non poteva essere l’intera coorte (circa 600 uomini) di stanza a Gerusalemme, ma soltanto una minima parte alla quale qui Giovan­ni dà il nome dell’intero: ad ogni modo la presenza dei soldati di Roma aveva un grande valore morale, tanto più che con essi era venuto anche il tribuno che li comandava. Con questa gente, adunatasi a notte fatta, si trattava di rintracciare ed arrestare Gesù. Dove trovarlo per impadronirsene alla chetichella e senza timore di reazioni popolari? A tale impresa nessuno poteva servire meglio di Giuda, che era stato pagato soprattutto per questa parte del programma; già udimmo infatti da Giovanni che il luogo del Gethsemani era ben noto anche a Giuda perché spesso si era rac­colto cola’ Gesu’ con i discepoli suoi (§ 554), e il traditore sapeva bene che Gesù dopo la cena pasquale non poteva essersi recato fino a Be­thania troppo lontana: dunque doveva essere al prediletto Gethse­mani, o giù di lì. Nel prendere gli ultimi accordi con i sommi sacerdoti, Giuda stabilì un segno speciale per far riconoscere Gesù: Quello che io abbia ba­ciato e’ lui! Afferratelo! Nell’antico Oriente, infatti, i discepoli bacia­vano per rispetto le mani del maestro: gli amici invece, trattandosi alla pari, si baciavano sulla faccia. Nel segno scelto da Giuda c’era dunque come un avanzo di pudore, per cui il traditore non si sentiva il coraggio di additare palesemente alle guardie il suo maestro ed arnico gridando « E’ lui! »; così avrebbe fatto chi avesse avuto un vero odio per Gesù, perché quel grido già sarebbe stato uno sfogo all’odio: invece il segno convenuto pretendeva salvare le apparenze. Ma anche qui riappare l’enigma di Giuda. Non sapeva egli forse che al maestro il tradimento era noto? Non aveva egli stesso udito quel misericor­dioso Tu l’hai detto! dalla bocca di Gesù poche ore prima (§ 543)? Se tali sconcertanti pensieri s’affacciarono in realtà alla mente di Giuda, egli si sarà rinfrancato ripensando ai 30 sicli e voltandosi per vedersi spalleggiato dai soldati di Roma: ad ogni modo questo pu­dore di finzione era anch’esso un certo avanzo dell’amore per Gesù, amore allora sopraffatto da quello per l’oro; invece, poche ore più tardi, l’amore per l’oro rimarrà soccombente, il tradimento sarà rin­negato, ma l’amore per Gesù non sarà abbastanza puro e forte da ricercare il perdono di lui (§ 534).

§ 559. Avvenne tutto secondo il convenuto. Gesù stava ancora par­lando con gli Apostoli testé risvegliati, quando Giuda entrò nel giardi­no seguito a poca distanza dalle guardie; si avvicinò egli al gruppo dei dodici e sbirciando nella penombra degli olivi riconobbe Gesù. Andatogli allora dappresso, gli pose le mani sulle spalle e lo baciò in faccia esclamando: Salute, Rabbi! Gesù lo guardò, e a mezza voce gli disse: Amico, per che cosa sei qui? E passato qualche istante: Giuda, con un bacio tradisci il figlio dell’uomo? Non venne alcuna risposta; Giuda aveva compiuto l’incarico che si era assunto verso coloro che gli stavano alle spalle. Visto eseguito il segnale convenuto, le guardie vennero avanti alla rinfusa. Gesù allora, staccatosi dal gruppo degli Apostoli, mosse in­contro a loro e domandò: Chi cercate? Risposero: Gesu’ il Nazoreo. E Gesù: Sono io. A queste parole i più vicini vacillarono e poi cad­dero all’inverso in terra. Anche di altri personaggi dell’antichità, co­me di Mario e di Marco Antonio, si legge che abbiano atterrito solo con la loro presenza o voce persone inviate ad assassinarli, ma si trat­tava di sicari singoli e di circostanze speciali: nel caso di Gesù può darsi benissimo che le guardie subissero ad un tratto la potenza della sua persona e ne rimanessero sgomentate, forse anche ripensando alla triste fine fatta dagli armati spediti a catturare Elia (II[IV] Re, 1, 10 segg.) o altri antichi profeti; tuttavia è certo che Giovanni, il quale è solo a narrare questo episodio, vuole qui presentarlo come fatto taumaturgico, anche per dimostrare la libertà con cui Gesù accettava la sua cattura. Rialzatisi e ripetuto che cercavano Gesù il Nazoreo, Gesù rispose ancora: Vi dissi che sono io. Se dunque cercate me, lasciate che costoro se ne vadano. Con delicato accorgimento Gesù chiama gli Apostoli costoro, dissimulando cioè la loro qualità di disce­poli particolari per non esporli a violenze. Alla risposta di Gesù le guardie gli misero le mani addosso e l’afferrarono. Coloro che eseguirono l’arresto dovettero essere gli inservienti del Tempio, giacché appunto un servo del sommo sacerdote ne risentì per primo le conseguenze, e Gesù appena arrestato fu condotto avanti al sommo sacerdote e non all’autorità romana; al contrario i soldati della coorte romana rimasero da parte inoperosi, pronti a intervenire solo nel caso che fosse successo qualche tafferuglio grave.

§ 560. La delicatezza di Gesù che si preoccupava per prima cosa di salvare gli Apostoli, e d’altra parte il vedere improvvisamente l’amato maestro caduto in potere di quella gente e così umiliato, risvegliò negli Apostoli quei propositi bellicosi che essi avevano manifestato poche ore prima nel cenacolo e che erano stati senza dubbio soggetti­vamente sinceri (§ 549). Spintisi allora nel tafferuglio fin presso a Gesù gli domandarono: Signore, percoteremo di spada? Ma Pietro non sarebbe stato Pietro se si fosse frenato in attesa della risposta di Gesù; egli invece, senz’al­tro, avendo una spada la sfoderò e colpì il servo del sommo sacerdote e gli mozzò l’orecchio destro: il servo aveva nome Malcho. E’ Solo Giovanni (18, 10) nomina Pietro e Malcho: i Sinottici invece parla­no del ferimento ma senza nominare né il ferito né il feritore, proba­bilmente per quella prudenza suggerita dal tempo in cui scrivevano e che vedemmo applicata altrove (§ 493, 535). Gesù intervenne subito e disse a Pietro: Rimetti la tua spada al suo posto, perché tutti quei che impugneranno una spada periranno di spada! Ovvero credi che non posso pregare il Padre mio ed (egli) mi apprestera’ subito piu’ che dodici legioni di angeli (§ 347)? Come pertanto si compirebbero le Scritture (le quali dicono) che così deve avvenire? Messo a posto il feritore, Gesù mise a posto anche il ferito risanandogli l’orecchio col semplice tocco di mano; anche questa gua­rigione è narrata soltanto dall’evangelista medico (Luca, 22, 51). Dis­se quindi alla turba, fra cui erano sommi sacerdoti, capitani del tem­pio (§ 54) e anziani:” Come verso un ladrone usciste con spade e bastoni? Essendo io ogni giorno con voi nel tempio, non stendeste le mani addosso a me; ma questa e’ l’ora vostra e la potestà delle te­nebre” (Luca, 22, 52-53).

§ 561. L’arrestato fu legato; si cominciò a condurlo via. Gli Apostoli, a cui dapprima la sonnolenza e poi il subitaneo sdegno non avevano permesso di rendersi ben conto della realtà dei fatti, soltanto allora compresero il maestro era veramente arrestato, era condotto via come un volgare delinquente. Allora forse, meglio che a tutte le passate affermazioni di Gesù, essi cominciarono a intravedere quale fosse la durissima prova, quali i patimenti supremi, attraverso cui il maestro aveva predetto più volte di dover passare per giungere alla sua gloria. A tale tristissima veduta, a tali mestissimi ricordi, quegli undici si sentirono schiantati. Della futura lontana gloria del Messia essi non si ricordarono affatto; badarono soltanto al tintinnio delle catene, al luccicore delle spade, all’umiliazione del maestro: al­lora, totalmente smarriti, abbandonarono ogni cosa dandosi alla fu­ga, tutti dal primo all’ultimo. E Gesù uscì dal Gethsemani circondato dalla sola sbirraglia: non gli stava dappresso neppure un amico. O meglio, un amico c’era ancora, sebbene non stesse molto dappresso. Qui infatti avviene l’episodio del giovanetto con la sola sindone. Come già vedemmo, è possibile che quel giovanetto fosse l’evangeli­sta Marco (§ 134). Se egli era figlio o altro parente del proprietario del cenacolo (§ 535), il quale forse era proprietario anche del Geth­semani (§ 554), si può supporre che terminata l’ultima cena egli per simpatia avesse seguito la comitiva di Gesù al Gethsemani ed ivi si fosse intrattenuto per qualche tempo con gli otto Apostoli n­coverati nella casipola o grotta, e dopo un certo tempo anch’egli si fosse messo a dormire. L’ importante il particolare che egli fosse avvolto d’una sindone sul nudo: la sindone di lino era infatti usata, stando in letto, soltanto da persone facoltose, mentre i popolani, come gli Apostoli, dormivano ravvolti nelle stesse vesti del giorno; probabilmente, dunque, quel giovanetto era abituato a passar talvolta la notte nella casipola del Gethsemani, ove in un angoletto avrà avuto il suo giaciglio e l’occorrente per dormire da persona agiata. Se queste ipotesi corrispondono alla realtà, tutto diventa chiaro. il giovanetto, risvegliato improvvisamente dal vociar delle guardie e dalle grida del ferito e degli Apostoli, si alza dal giaciglio e balza fuo­ri vestito come si trova: assiste all’ultima scena dell’arresto di Gesù e alla fuga degli Apostoli; allora, sia per la sicurezza d’un padrone che si ritrova sul terreno suo proprio, sia per la vivacità giovanile accre

sciuta dall’affetto per l’arrestato, egli si mette a seguire le guardie che s’allontanano; le guardie poco dopo s’accorgono di quel giovanet­to che sta pedinando in quello strano abbigliamento, e insospettite lo prendono. Ma afferrano la sola sindone: perché l’agile ragazzo, sgu­sciando dal di sotto, lascia la sindone in mano alle guardie e fugge via tutto nudo. E cosi Gesù fu abbandonato anche da quest’ultimo amico: un adolescente privo di veste.

Il processo religioso davanti al Sinedrio

§ 562. Potevano essere circa due ore dopo la mezzanotte. Il gruppo delle guardie, recando con sé l’arrestato, rifece in senso inverso la stessa strada fatta poche ore prima da Gesù con gli Apostoli, e attra­versato il Cedron risalì sulla collina occidentale della città, ov’era la casa del sommo sacerdote Anna. Giunta ivi la scorta si divise; l’arre­stato e le guardie del Sinedrio rimasero nella casa, mentre i soldati della coorte romana si ritirarono nel loro quartiere sulla fortezza Antonia. Quanto avvenne allora è narrato in maniera diversa dai quattro evan­gelisti. Dei tre Sinottici, Matteo e Marco offrono una narrazione so­stanzialmente uniforme; da essi però si discosta notevolmente Luca, il sinottico che scrive dopo di loro; infine Giovanni, secondo il suo solito, fa precisazioni e integrazioni ai tre racconti precedenti pre­supponendoli già noti. Fra i Sinottici, Matteo e Marco parlano dì una presentazione di Gesù avvenuta di notte, e di un’altra davanti al Sinedrio avvenuta di buon mattino; Luca invece parla soltanto della presentazione mattinale davanti al Sinedrio. Giovanni, per conto suo, distingue una presentazione davanti al sommo sacerdote non più in carica, Anna, della quale tacciono i Sinottici, e una successiva presen­tazione davanti al sommo sacerdote allora in carica, Caifa; egli in­vece non parla di una presentazione davanti al Sinedrio. Per concordare queste varie relazioni basta aver presente quanto ri­levammo più volte nel passato: cioe’ che i Sinottici spesso non si preoccupano né dell’integrità della narrazione né della serie crono­logica dei fatti, e che d’altra parte Giovanni evita abitualmente di ripetere il racconto dei Sinottici, pur facendo un tacito assegnamen­to su di esso con la mira di integrano. Così ad esempio, poiché Anna non era stato neppur nominato dai Sinottici, Giovanni comincia la narrazione precisando che Gesù fu condotto dapprima presso Anna (§ 164), e solo in seguito segnala che fu condotto presso Caifa, che è il sommo sacerdote di cui parlano i Sinottici. Molto probabilmente, a cagione anche della loro parentela, Anna e Caifa abitavano ambedue nello stesso edificio in appartamenti diffe­renti. Una tradizione assai antica, risalendo almeno al secolo IV, col­loca la casa di Caifa sulla collina occidentale della città a poche deci­ne di metri a settentrione del tradizionale cenacolo (§ 535). Se Gesù fu condotto dapprima presso Anna, la ragione fu probabilmente che costui, non più in carica ma sempre potentissimo (§ 52), aveva sug­gerito la maniera di catturare il Rabbi galileo; quasi in conseguenza di questa sua operosità e per deferenza al suo straordinario potere, il suo genero Caifa aveva dato ordine che l’arrestato fosse condotto di­rettamente presso Anna. A questo punto pertanto si inizia il processo di Gesù, che si svolse in due fasi differenti, presso due sedi differenti, e in forza di argo­menti in parte differenti. La prima fase è religiosa: Gesù, imputato di delitto religioso, compare davanti al tribunale nazionale-religioso del Sinedrio e ivi è dichiarato degno di morte. Ma questa sentenza ha valore soltanto teoretico, perché, come già sappiamo (§ 59), il Sinedrio non poteva eseguire le sentenze capitali da esso pronunziate se non fossero state individualmente ed esplicitamente approvate dal rappresentante dell’autorità di Roma. Allora, per far sì che la pro­pria sentenza non rimanga sterile e inefficace, il Sinedrio si rivolge al procuratore romano e qui si apre la seconda fase del processo: la quale si svolge, non più davanti ai giudici di prima, ma davanti al tribunale civile del procuratore; inoltre i giudici di prima compaiono nel nuovo tribunale in funzione di accusatori, e presentano accuse solo in minor parte religiose e in maggior parte politiche.

§ 563. Il processo religioso cominciò con un interrogatorio a cui An­na sottopose Gesù; ma esso non fu una vera inquisizione ufficiale, fu piuttosto un orientamento giuridico della questione o anche una soddisfazione personale che volle prendersi l’inquirente, in attesa che giudici e testimoni ufficiali fossero convocati in quell’ora notturna e intervenissero personalmente. Anna interrogò Gesù circa i suoi discepoli e il suo insegnamento. Gesù rispose Io palesemente ho parlato al mondo; io sempre inse­gnai in sinagoga e nel tempio dove tutti i Giudei s’adunano, e di na­scosto non parlai (di) nulla. Perché interroghi me? Interroga quei che udirono che cosa parlai loro. Ecco: costoro sanno le cose che dissi io (Giov., 18, 20-21). L’imputato rispondeva in maniera conforme al diritto delle genti: presso tutti i popoli, compreso l’ebraico, un accusato non rendeva te­stimonianza riguardo a se stesso; testimonianze valide erano soltanto quelle rese da testimoni alieni degni di fede, e Gesù con la sua risposta rinvia il giudice appunto a tali testimoni. Egli non è stato fon­datore di società segrete o insegnante d’una sapienza arcana e gelosa: ha parlato in luoghi pubblici e a tutti quei che si presentavano; costoro perciò potranno render testimonianza del suo insegnamento. In maniera analoga si era difeso, cinque secoli prima, Socrate davanti ai giudici ateniesi; anch’egli aveva parlato sempre palesemente, e se qualche testimonio avesse affermato d’aver udito da lui cose che non tutti avevano potuto udire sarebbe stato un mentitore. L’inappuntabile risposta di Gesù dovette provocare in Anna un gesto di dispetto, perché l’inquirente certamente sperava che l’imputato con la sua risposta fornisse argomenti per la sua futura accusa uffi­ciale. Il gesto stizzoso di Anna fu notato da uno dei presenti, servitore assai zelante, il quale stimò giusto prendere le parti dell’inquirente e andare incontro al suo segreto desiderio; trovandosi perciò vicino a Gesù, gli dette uno schiaffo esclamando scandalizzato:”Così rispondi al sommo sacerdote?”. Rispose a lui Gesti:”Se parlai male, rendi testimonianza circa il male; se invece bene, perché mi percuoti?” (Giov., 18, 22-23). Con questo schiaffo termina ciò che noi sappiamo dell’interrogatorio di Anna, il quale del resto non dovette esser lungo. Visto il contegno misuratissimo che l’imputato teneva e forse anche desiderando di non ingolfarsi nelle vicende del processo, Anna inviò senz’altro Gesù le­gato al sommo sacerdote in carica, il proprio genero Caifa. Il tra­gitto dall’una all’altra abitazione fu brevissimo, perché, come suppo­nemmo (§ 562), consistette nell’attraversare un cortile o atrio a cui facevano capo i vari appartamenti.

§ 564. Nel frattempo in casa di Caifa si erano radunati vari membri del Sinedrio, e quando furono in numero bastevole sottoposero Gesù a un regolare interrogatorio, ove si raccolsero i primi elementi della procedura ufficiale riguardante l’imputato. Tuttavia la seduta del Si­nedrio in vera funzione di tribunale fu tenuta soltanto più tardi, sul far del mattino, quasi per integrare ed applicare i risultati del primo saggio fatto durante la notte. Matteo e Marco sembrano attribuire l’interrogatorio di Gesù alla seduta notturna; Luca, cronologicamente più preciso, lo attribuisce alla seduta mattinale, e indubbiamente la sua attribuzione è da preferirsi. Riportammo altrove le prescrizioni minutissime ed accuratissime che si leggono nel Talmud riguardo ai processi, specialmente a quelli che potevano concludersi con una sentenza capitale (§ 60); ma accen­nammo anche che tutta quella legislazione, così ampia e sapiente, era anche troppo sapiente perché si potesse attuare nella pratica. Essa in realtà fu messa in iscritto soltanto dal secolo II dopo Cr. in poi, e agli storici imparziali appare oggi come una teoria astratta, come una visione ideale della perfetta amministrazione della giustizia, piutto­sto che come un codice normativo da seguirsi nella pratica; senza ri­pensare alle Utopie di Platone e di Tommaso Moro e senza uscire dallo stesso Israele, l’ampia e minuziosa legislazione di Ezechiele (capp. 40-48) riguardo al futuro Tempio aveva già offerto un tipico saggio di siffatte teorie o visioni ideali. E’ stato osservato giustamente da studiosi moderni, anche Israeliti, che la legislazione talmudica dei processi sembra congegnata in maniera da rendere impossibile una sentenza capitale: è certo poi che essa, fissata in scritto quando la nazione giudaica aveva perduto ogni autonomia politica ed era rap­presentata dai soli Farisei (§ 87), poté essere elaborata senza alcuna aderenza al presente e attribuita arbitrariamente al passato come un prodotto della “tradizione”. Che essa fosse totalmente inventata in occasione di questa sua codificazione, non è verosimile; ma le norme osservate per consuetudine ai tempi dell’autonomia e prima della codificazione dovevano essere rare e scarne e certamente ben lontane da quella precisione e minuziosità che ricevettero poi nello scritto. Ai tempi di Gesù, in mancanza della codificazione, vigevano soltanto norme consuetudinarie, di cui però non possiamo oggi stabilire il nu­mero e l’indole: possiamo ritenere in genere che esse corrispondeva­no solo ad una minima parte di ciò che più tardi risultò codifi­cato. Sarebbe quindi falso metodo confrontare – come si è fatto le dispo­sizioni processuali del Talmud con la pratica seguita nel processo di Gesù, per vedere se e fino a qual punto quelle disposizioni vi furono osservate: di molte di esse, infatti, non sappiamo neppure se allora esistessero. Esisteva certamente, ad esempio, la norma solenne e antica (Numeri, 35, 30; Deuteronomio, 17, 6; 19, 15) secondo cui nessuno poteva esser condannato se non in forza di testimonianze aliene, e non mai di una sola ma almeno di due o tre; al contrario non è si­curo che esistesse la norma codificata più tardi secondo cui in seduta notturna non potevano essere trattati processi criminali, e anche l’altra secondo cui una condanna a morte non poteva essere pronunziata nel giorno stesso della discussione del processo. Certo è che, nel pro-cesso di Gesù, tutte e tre queste norme non risultano osservate.

§ 565. Essendo pertanto stati preparati nella seduta notturna gli ar­gomenti principali per la seduta mattinale, questa fu tenuta appena si fece giorno (Luca, 22, 66), cioè appena cominciarono a diradarsi le tenebre notturne, anche prima della piena alba (§ 576). Dovevano essere circa le nostre ore cinque antimeridiane. Alla seduta notturna saranno intervenuti o i più focosi avversari di Gesù oppure i frequentatori più assidui della casa del sommo sacerdote; a quella mattinale invece intervennero i membri di tutti e tre i gruppi del Sinedrio (Luca, ivi; cfr. § 58). In osservanza pertanto dell’antica e solenne norma suaccennata si cominciò con escutere molti… testimoni, i quali però erano falsi; ma sia che la subornazione di tali testimoni fosse stata fatta in maniera affrettata e vaga, sia che essi riferendosi ad antichi fatti e discorsi di Gesù confondessero particolarità ben diverse, le loro testimonianze non erano concordi (Marco, 14, 56). Con tali deposizioni il processo non faceva un passo avanti e non si salvavano neppure le apparenze della legalità; giacché anche se a quei tempi non vigeva la norma, codificata più tardi, secondo cui il testimone doveva precisare esat­tamente il giorno, l’ora, il luogo, e tutte le altre minute circostanze del delitto attestato (§ 60), si richiedeva evidentemente che le depo­sizioni non si contraddicessero a vicenda. Qui invece si contraddi­cevano. Alla fine, tuttavia, si presentarono due testimoni che sembrarono con­cordi: il numero legale minimo, di due, c’era, e pareva esserci anche la concordia. Costoro deposero che Gesù aveva pronunziato le se­guenti parole: Posso demolire il santuario d’Iddio e in tre giorni edificar(lo) (Matteo, 26, 61); ovvero secondo l’altra relazione: Io demolirò questo santuario manufatto, e in tre giorni (ne) edificherò un altro non manufatto (Marco, 14, 58). Ma anche questa doppia testimonianza, all’ulteriore inquisizione dei giudici, non risultò con­corde nei suoi particolari: soprattutto, poi, essa non era vera né quan­to allo spirito né quanto alla lettera. La testimonianza infatti si riferiva evidentemente alle parole pro­nunziate da Gesù più di due anni prima, in occasione della cacciata dei mercanti dal Tempio (§ 287); ma già vedemmo cbe quelle parole erano metaforiche e si riferivano, non già al Tempio di Gerusalemme, ma al corpo di Gesù stesso. Inoltre, anche volendo prendere quelle parole come dirette al Tempio di Gerusalemme, Gesù non aveva espresso il proposito di demolire egli stesso il Tempio, bensì aveva sfidato i suoi avversari a demolirlo (Demolite questo santuario, ecc.); dunque egli tutt’al più sarebbe stato il ricostruttore del Tempio, eventualmente demolito dai Giudei, non già il suo demolitore. Ma ri­costruire il Tempio poteva esser titolo di encomio, non già argomento di accusa; una delle pochissime benemerenze che, mezzo secolo avan­ti, Erode il Grande si era procurato agli occhi dei Giudei osservanti era stata appunto quella di aver ricostruito più suntuosamente di prima il Tempio da lui stesso man mano demolito (§ 46). Certamente testimoni e giudici non credevano che Gesù potesse fare quanto Erode il Grande aveva fatto; ma essi in tal caso potevano concludere tutt’al più che l’imputato era un vanesio, un sognatore, un millanta­tore, non già un empio e un bestemmiatore.

§ 566. Senonché la doppia testimonianza riguardo al Tempio era troppo opportuna perché quei giudici, in difetto d’altri capi d’accusa, se la lasciassero sfuggire: essa poteva valere almeno come prova che Gesù aveva ritenuto possibile o aveva profetizzato la distruzione del Tempio. Ora, quando si trattava di quel cumulo di sassi e di travi che costitui­vano il Tempio materiale, i Giudei dei tempi di Gesù perdevano im­mediatamente il lume degli occhi, come l’avevano perso sei secoli prima i Giudei dei tempi di Geremia. L’antico profeta era stato giu­dicato degno di morte perché aveva predetto da parte di Dio che il Tempio sarebbe stato distrutto (Geremia, 7, 4 segg.; 26, 6 segg.); e le scritture di lui, nelle quali si narrava questa predizione insieme col suo puntuale avveramento e con l’empio trattamento fatto al pro­feta, erano tuttora venerate come sacre da coloro che stavano là assisi a giudicare Gesù: ma l’insegnamento che essi ne trassero fu di ripetere in maniera peggiorativa quanto i loro antenati avevano fatto al profeta del Dio d’Israele. Vedendo infatti che pure quest’ultima testimonianza stava per sfu­mare, il sommo sacerdote prese una risoluzione decisiva. Levatosi in piedi, Caifa tentò di ottenere da Gesù qualcosa che in apparenza fosse una sua giustificazione di fronte all’accusa dei testimoni, ma che in realtà avrebbe implicato l’imputato nella discussione inducendolo a confessioni; gli disse perciò: Non rispondi nulla? Che cosa testi­ficano costoro di te? Ma la desiderata risposta non venne, e Gesù serbò un silenzio assoluto. Allora il sommo sacerdote, assumendo un atteggiamento ispirato e solenne, insistette: Ti scongiuro per il Dio vivente affinché ci dica se tu sei il Cristo (Messia), il Figlio d’iddio. L’atteggiamento del som­mo sacerdote sembrava quello di un uomo che, tutto preso dal desi­derio della verità, aspettasse soltanto una parola d’assicurazione per affidarsi e rendersi totalmente ad essa; udendolo si sarebbe detto che, a una risposta affermativa di Gesù, egli si sarebbe prostrato riverente davanti a lui riconoscendolo come il Messia d’Israele. Si noti inoltre, accuratamente, che Caifa ha scongiurato Gesù a dichiarare se egli sia il Cristo, il Figlio d’iddio. Cosicché i termini dell’interrogazione sono due; Gesù potrà affermare o negare di essere il Cristo, ossia il Messia, e oltre a ciò di essere il Figlio d’iddio. E’ probabile che Caifa, in questo scongiuro, usasse i due termini come praticamente sinonimi; tuttavia egli stesso e gli altri membri del Sinedrio mostreranno in se­guito di saper ben distinguere il preciso significato dei due termini, e attribuiranno al termine il Figlio d’iddio un significato distinto e assai più alto che quello di Messia.

§ 567. Il momento era davvero solenne. Tutta l’operosità, tutta la missione di Gesù apparivano quasi riassunte nella risposta che egli avrebbe data allo scongiuro del sommo sacerdote. Chi interrogava era rivestito dell’autorità somma e ufficiale in Israele; chi rispondeva era colui che nella sua vita aveva serbato quasi costantemente oc­culta la sua qualità di Messia per ragioni d’oculata prudenza, confi­dandola soltanto negli ultimi tempi e soltanto a persone opportune e predisposte. a allora le ragioni di prudenza avevano cessato di esistere: peri­coloso che fosse, era ben giunto il momento di dichiarare apertamente la propria qualità davanti all’intero Israele, rappresentato dal som­mo sacerdote e dal Sinedrio. uttavia la risposta, che Gesù aveva già pronta, sarebbe stata certa­mente oggetto di scandalo per coloro a cui era diretta, a causa delle loro particolari condizioni di spirito: inoltre sarebbe stato necessario dapprima mettere bene in chiaro taluni principii sui quali essi po­tevano equivocare. Gesù quindi prudentemente ammoni: Se io ve (lo) dico, non (mi) crederete; se poi (vi) interrogherò, non (mi) rispon­derete (Luca, 22, 67-68). Questa ammonizione deluse per un momento l’ansiosa aspettativa dell’intera assemblea, i cui membri perciò dovettero esortare l’im­putato a rispondere, ripetendogli alla rinfusa la domanda del sommo sacerdote per ottenere la dichiarazione che essi si aspettavano. Gesù allora, indirizzandosi al sommo sacerdote rispose: Tu (l’)hai detto; il che significava: “Io sono ciò che tu hai detto” (§ 543). A questa schematica affermazione l’imputato aggiunse una dichiarazione rivol­ta all’intera assemblea: Senonché vi dico, da adesso vedrete il figlio dell’uomo seduto a destra della “Potenza” e veniente sulle nubi del cielo. Questa aggiunta adduce, fondendoli insieme, due celebri passi messianici (Daniele, 7, 9. 13; Salmo 110 ebr., 1); essa infatti vuole precisare il senso della schematica affermazione di Gesù ricollegandola con le sacre Scritture ebraiche, e nello stesso tempo appellarsi ad una futura prova di quella affermazione due al ritorno glorioso del Messia sulle nubi del cielo, predetto dalle Scritture.

§ 568. Appena udite le parole di Gesù tutti i Sinedristi insorsero protesi e vibranti, e a gara domandarono all’imputato: Tu dunque sei il Figho d’Iddio? (Luca, 22, 70). Dalla precedente risposta di Gesù essi già avevano ottenuto la pre­ziosa confessione che egli si reputava Messia: poteva tuttavia rima­nere un dubbio, cioè se egli si reputasse bensì Messia ma non già “Figho d’iddio” nel senso ontologico dell’appellativo. In realtà, le allusioni fatte da Gesù ai due passi messianici mettevano sufficientemen­te in chiaro anche questo punto; tuttavia i Sinedristi, ansiosi di otte­nere una piena dichiarazione dall’imputato, gliene rivolsero formale domanda: Tu dunque sei oltreché il Messia anche il Figlio d’Iddio? Più precisi ed esatti di così, quei giudici non potevano essere. Più precisa ed esatta non poté essere la risposta di Gesù, la quale nel silenzio palpitante del tribunale risonò: Voi dite che io sono; il che significava: “Io sono ciò che voi dite” cioè il Figlio d’iddio. Ottenuta questa nettissima affermazione, il sommo sacerdote gridò esterrefatto: Ha bestemmiato! Che bisogno abbiamo ancora di te­stimoni? Ecco, adesso avete udito la bestemmia! Che ve (ne) pare? Tutti a gran voce risposero: E’ reo di morte! Per rendere più visivo e più impressionante il suo sdegno, il sommo sacerdote mentre aveva lanciato il primo grido si era anche strappato l’orlo superiore della tunica, com’era usanza di fare quando si assisteva ad una scena di sommo cordoglio; ma in realtà se quell’uomo avesse mostrato palesemente sul volto i veri sentimenti che aveva nel cuore, il suo aspetto sarebbe apparso illuminato di profonda e sincera gioia. Egli infatti credeva d’esser riuscito a far bestemmiare Gesù, e con ciò ad implicano nella sua propria condanna. § 569. Senonché l’interrogazione rivolta dal sommo sacerdote a Gesi aveva costituito una procedura del tutto illegale. Poiché fino allora era mancata la prova testimoniale, si era cercato di rendere l’impu­tato testimonio avverso a se stesso, contro la norma stabilita in Sanhedrin, 9 b, e di soiprenderlo in un preteso delitto flagrante; in tal modo non si teneva più conto dei pretesi delitti passati per con­centrarsi unicamente su uno presente, e Gesù non figurava più come un imputato responsabile di antiche colpe ma come un innocente arrestato per esser provocato a bestemmiare. Inoltre Gesù, affermando di essere il Messia, non aveva affatto be­stemmiato: in primo luogo perché egli in quella sua affermazione non aveva impiegato il nome di Dio, bensì aveva prudentemente so­stituito al pronome personale o generico di Dio (Jahveh ovvero Elohtm) l’appellativo di “Potenza” come solevano fare i rabbini; in secondo luogo, perché attribuire a se stesso o ad altri unicamente la qualità di Messia d’Israele non poteva considerarsi una bestemmia. Senza uscire infatti dal rabbinismo più ortodosso, un secolo più tardi il grande Rabbi Aqiba proclamerà Messia quel Bar Kokeba che gui­derà l’ultima e più catastrofica ribellione della Giudea contro Roma; eppure, nonostante questa fallace proclamazione, Rabbi Aqiba non solo non fu giudicato bestemmiatore ma rimase poi sernpre come uno dei più illustri luminari del giudaismo dell’Era Volgare. Perciò l’af­fermazione messianica che Gesù aveva fatta di se stesso, anche se non era accettata, poteva essere giudicata dai suoi avversari tutt’al più vana e millantatrice quale di un allucinato od esaltato come in realtà fu giudicata da alcuni contemporanei l’affermazione di Rabbi Aqiba – ma bestemmia contro la Divinità non era in alcun modo. Perché dunque il presidente gridò, e il tribunale confermò, che Gesù aveva bestemmiato? Evidentemente in forza della risposta afferma­tiva data da Gesù all’ultima interrogazione: Tu dunque sei il Figlio d’iddio? In questa domanda il termine il Figlio d’Iddio certamente non è – nell’intenzione stessa dell’interrogante – un pratico sinonimo del termine Messia, bensì rappresenta in confronto con questo termi­ne un ulteriore progresso, un climax, e riveste un significato assai superiore: gli interroganti volevano sapere da Gesù se egli, nel signi­ficato ontologicamente vero, si riteneva il Figlio d’iddio. Avendo Gesù risposto in maniera affermativa, fu giudicato bestem­miatore. E cosi il processo religioso era finito e la sentenza era stata data: Gesù era stato giudicato reo di morte come bestemmiatore. La procedura era riuscita al sommo sacerdote in maniera superiore alla sua aspettativa. Visto che era inutile sperare nelle deposizioni dei te­stimoni subornati, egli si era rivolto direttamente all’imputato pren­dendo di mira dapprima la qualità di Messia, perché ottenuta una confessione su questo punto il reo confesso ne avrebbe dovuto rispon­dere poi in sede politica davanti al procuratore romano. Senonché la confessione era stata così ampia e solenne, che aveva portato spon­taneamente all’altra interrogazione se l’imputato fosse – oltreché Messia – anche il Figlio d’Iddio. Questa nuova interrogazione, più deli­cata e decisiva che mai, aveva ottenuto pure essa una risposta piena­mente affermativa. Cosicché, in conclusione, l’inquirente aveva trionfato in ambedue i campi: in quello nazionale-politico, perché l’imputato aveva confes­sato di essere il Messia d’Israele; in quello rigorosamente religioso, perché aveva confessato di essere vero Figlio d’Iddio. Questa seconda confessione era stata decisiva davanti al tribunale del Sinedrio; la prima verrà addotta e sarà egualmente decisiva davanti al tribunale del procuratore romano. Questi fatti avvennero – come già accennammo (§ 564) – nella se­duta mattinale, la quale fu definitiva e incorporò nella sua procedura i risultati provvisori ottenuti nella seduta notturna. Ma nel frattem­po erano già avvenuti o tuttora avvenivano altri fatti, che qui raggruppiamo a parte.

Gli oltraggi. I rinnegamenti di Pietro. La fine di Giuda Iscariota

§ 570. Dopo la seduta notturna, allorché la sorte dell’imputato era praticamente già segnata, egli fu consegnato alle guardie del Sinedrio affinché lo custodissero in attesa della seduta mattinale. Padroni di quell’uomo ormai fuori legge, stanchi e irritati per la not­te passata insonne a causa di lui, gli sbirri si compensarono riducen­do il condannato a oggetto dei loro raffinati ludibri e delle loro beffe prolungate. Per forse due ore – circa dalle tre alle cinque del mat­tino (§§ 562, 565) – l’imputato rimase in balia di quei suoi custodi, con i quali da principio si saranno uniti anche taluni più focosi mem­bri del Sinedrio per incitare i beffeggiatori e per gustare lo spetta­colo. Attraverso l’àtrio della casa comune ad Anna ed a Caifa, Gesù fu condotto in qualche oscuro sotterraneo; là egli fu schiaffeggiato, gli fu sputato in faccia, gli furono rivolti insulti e contumelie d’ogni fatta come a bestemmiatore sacrilego. Si passò quindi agli schemi organizzati e sapienti, e si fecero su di lui i giuochi usuali dei bambini ma eseguiti qui in forma dolorosa ed atroce. Gli si bendarono gli occhi, e quindi si cominciò a scaricargli addosso a tutta forza guanciate domandandogli chi fosse il percusso­re. Era il giuoco che, fatto innocentemente dai fanciulli greci, eri chiamato nelle sue varie forme ovvero eseguito qui su Gesù, assumeva un valore sarcastico in quanto quel profeta, che tante volte aveva veduto cose nascoste e pensieri occulti, doveva essere bene in grado di nominare chi lo aveva percosso; ad ogni colpo, infatti, si chiedeva: Profetizzaci, Messia, chi e’ che ti ha percosso? Altri poi lo presero a vergate, come si esprime romanamente Marco (§ 133). Nel frattempo sputi, maledizioni, beffe sar­castiche piovevano incessantemente giù alla rinfusa. Quando l’ingegno inventivo di quei custodi esaurì i suoi argomenti e la stanchezza prevalse sull’industriosità, essi si allontanarono man ma­no da Gesù e lo lasciarono accasciato come un cencio sulla panca dei suoi ludibri; si saranno quindi sdraiati li attorno nel sotterraneo a dormire, per continuare la custodia dell’imputato.

§ 571. Poco prima di questa scena era avvenuto un altro fatto di cui furono attori, non nemici, ma amici di Gesù. Vedemmo come al Gethsemani gli Apostoli abbandonassero il loro maestro tutti quanti, salvo Giuda. Dove andarono essi appena datisi alla fuga? Certamente non si allontanarono molto dal luogo dell’arre­sto, e cessarono di correre quando si videro sicuri di non fare li per li la stessa fine del maestro. Acquistata questa momentanea sicurezza, avvenne in essi una spontanea reazione contro l’atto di vigliàccheria commesso; allora, se non tutti, almeno parecchi di essi dovettero tor­nare alla spicciolata a Gerusalemme e rifecero, cauti però e guardin­ghi, la strada fatta poco prima dalle guardie con l’arrestato in mezzo. Più avanti di tutti, ma sempre molto addietro alle guardie, andava Pietro con un altro discepolo (Giov., 18, 15). Probabilmente nel frat­tempo Pietro si era ricordato della promessa fatta qualche ora prima a Gesù, di essergli fedele anche a costo della vita: ma trovando che in quel momento egli invece fuggiva a gambe levate, aveva ricuperato alcun poco dell’antico spirito battagliero, e stava forse almanaccando qualche progetto per poter risapere ciò che sarebbe accaduto all’arrestato. Spiando da lontano i movimenti delle guardie, egli scorse che tutti erano entrati nella casa del sommo sacerdote; allora avendo vicino a sé l’altro discepolo, s’avviò risolutamente verso la porta di quella casa. Qui avvenne un fatto curioso. Quell’altro discepolo era noto ai fa­miliari del sommo sacerdote, e perciò non trovò difficoltà ad entrare nella casa: Pietro invece, essendo sconosciuto, rimase titubante al di fuori. Ma quando l’altro discepolo s’avvide di non esser più seguito da Pietro, tornò indietro all’ingresso, parlò con la fantesca portinaia e ottenne che anche Pietro entrasse. Chi era quest’altro discepolo, di cui parla soltanto il IV vangelo senza trasmetterci il suo nome? Ragionevolissima per ogni senso sembra la congettura, abbastanza comune fra studiosi antichi e moderni, secon­do cui questo innominato discepolo sarebbe appunto Giovanni, che qui non nomina se stesso per la solita norma per cui nel suo vangelo dissimula costantemente la propria persona. Né deve far meraviglia che egli fosse noto ai familiari del sommo pontefice: saranno state relazioni commerciali tra l’agiata famiglia di Giovanni e il sommo sa­cerdote che non disdegnava trafficare, saranno state altre ragioni che ci sfuggono, è certo che una conoscenza d’indole superficiale fra il giovane e i familiari del sommo sacerdote non era cosa eccezionale. Essa permise ad ambedue i discepoli dell’imputato, ignoti come tali, d’entrare in quella casa.

§ 572. Per renderci esatto conto di quanto allora seguì, bisogna aver presente com’erano disposte le varie parti di un’agiata dimora gerosolimitana. Venendo dalla strada, si trovava dapprima l’uscio con la sua portineria; da cui, inoltrandosi, si passava nel vestibolo che era una specie di corridoio più o meno lungo; percorso questo corridoio si sboccava all’interno di un cortile o atrio, che serviva in comune ai vari appartamenti della casa. Le stanze disposte a pianterreno torno torno a questo atrio erano di solito destinate ai familiari e ai vari servizi; le stanze del piano elevato, poggiate su quelle del pianterre­no, erano riservate al padrone e alle persone di riguardo. Avvenne pertanto questo: quando Pietro fu introdotto mercé l’inter­vento di Giovanni, la fantesca portinaia sbirciò quello strano visita­tore con una curiosità petulante che doveva essere abituale in una donna e in una portinaia, e che era tanto più naturale in quella notte piena di sospetti. Colpita forse dalla figura insolita e dal contegno im­pacciato di lui, la fantesca gli disse parte sul serio e parte forse con ironia investigatrice: Forseché tu pure sei dei discepoli di quest’uomo? (Giov., 18, 17). Pietro, punto sul vivo, rispose pronto ed impai­sibile: Non sono! Dopo questa dichiarazione il capo degli Apostoli, quasi per allontanarsi in fretta dal luogo della sua menzogna e cer­carne un altro meno pericoloso, s’inoltrò nel vestibolo e raggiunse il cortile o atrio, ove trovò un gruppo di guardie raccolte attorno al fuoco; a Gerusalemme infatti, ai primi d’aprile, non è raro aver not­tate assai fredde favorite anche dall’altezza del sito (circa 740 metri 5. m.; § 5), ed essendo tale il caso di quella notte le guardie avevano acceso il fuoco (§ 537) anche per riaversi dal freddo che poco prima avevano preso giù nella valle del Cedron. Ostentando allora sicurezza ed indifferenza, Pietro s’avvicinò al fuoco mescolandosi con gli altri seduti là attorno. Ma la fantesca non aveva lasciato la sua preda; anche più incuriosita, ella aveva seguito Pietro fin presso al fuoco, e là ripeté ad alta voce davanti a tutto il crocchio il suo sospetto. Le sue parole fecero qualche impressione sugli astanti: il nuovo giunto fu esaminato più attentamente alla luce della fiarnina, e in realtà si trovò che il sospetto della portiaia pote­va avere un serio fondamento. Allora l’interrogazione già rivolta a Pietro dalla fantesca fu ripetuta alla rinfusa da altri, uomini e donne, con la vivacità di chi trova un caso interessante: fu ripetuta diret­tamente e indirettamente, con sicurezza o con ironia, puntando sem­pre sulla possibilità che quel visitatore sconosciuto fosse un discepolo dell’arrestato.

§ 573. Pietro s’avvide che invece di scegliersi un luogo meno peri­coloso, s’era gettato proprio fra le braccia del nemico, e non penso che a salvarsi; parte finse di non udire, parte respinse energicamente il sospetto affermando di non conoscere affatto Gesù. Ma là, alla luoe del fuoco e sotto lo sguardo di tanti scrutatori, la sua difesa era fiacca ed impacciata; meglio era cambiar nuovamente posto. E al­lora Pietro, già sconvolto nei suoi pensieri e anche turbato nella sua coscienza, si allontanò dal gruppo per ritornare verso la porta. In quel momento un gallo lanciò il suo grido mattutino (Marco, 14, 68). Ma nel frattempo la fantesca portinaia era tornata al suo posto di servizio presso l’uscio, cosicché Pietro si ritrovò nuovamente fra i piedi quella malaugurata femmina. Il caso curioso l’aveva divertita, ed ella continuò anche là i suoi assalti comunicando il suo sarcastico dubbio alla gente di servizio che passava; Pietro gironzolò un po’ con aria indifferente tra l’uscio e l’atrio, ma messo poi alle strette di nuovo negò con giuramento:”Non conosco (quel)l’uomo!” (Mat­teo, 26, 72). Passò altro tempo, in cui sembrava che la gente si fosse dimenticata di Pietro; egli intanto, scrutando nella penombra e tendendo l’orec­cliio, cercava di vedere o udire qualche cosa di ciò che stava accaden­do a Gesù. Ma ad un certo punto, quando era trascorsa circa un’ora (Luca, 22, 59) dall’ingresso di Pietro in quell’infausta casa, i sospetti si risvegliarono; un gruppetto di gente s’avvicina a Pietro e gli spiat­tella davanti con piena convinzione:”In verita’ anche tu sei di quei tali; sei infatti Galileo, giacché la tua parlata ti rende manifesto!” (Matteo, 26, 73; Marco, 14, 70). I Galilei infatti usavano un dialetto il cui accento particolare li tra­diva appena aprissero la bocca, a un dipresso come un napoletano d’oggi sarebbe immediatamente tradito dal suo accento cominciando a parlare in un crocicchio di toscani: da un aneddoto narrato nel Talmud risulterebbe che un Galileo pronunziava in maniera da confonderle insieme le seguenti parole (asino), (vino), (lana), (agnello). Il colpo era grave per Pietro. Eppure non fu il più grave: giacché appena fatta questa contestazione uno dei presenti, che nel frattempo aveva scrutato attentamente le fattezze di Pietro, saltò su a gridargli in faccia: Non ti ho forse io visto nel giardino insieme con quel (tale)? (Giov., 18, 26). Chi parlava con tanta sicurezza era parente di colui al quale Pietro qualche ora prima nel Gethsemani aveva moz­zato l’orecchio (§ 560). Davanti a prove cosi schiaccianti Pietro si vide perduto. Cercando istintivamente uno scampo qualunque, cominciò a giurare, maledire e imprecare, per convincere quei suoi scrutatori di non aver cono­sciuto giammai al mondo Gesù il Nazazeno e di sentirne parlare allora per la prima volta. Mentre veniva giù questo fiume di esecrazioni, il gallo cantò per la seconda volta (Marco, 14, 72); in quello stesso momento Gesù, lega­to e circondato da sbirri, attraversò l’atrio dov’era acceso il fuoco. Pochi minuti prima era infatti terminata la seduta notturna, e di là l’imputato era adesso condotto nei sotterranei di detenzione in atte­sa della seduta mattinale. Il canto del gallo questa volta colpi Pietro: dimenticandosi a un trat­to dei suoi scrutatori, egli si scosse, guardò più in là, vide Gesù che passava. Gesù a sua volta riguardò verso Pietro con uno di quegli sguardi davanti a cui Pietro si sentiva annientato. Il discepolo si ri­cordò allora di quanto il maestro gli aveva predetto poche ore avanti, che in quella stessa notte prima che il gallo avesse cantato due volte lo avrebbe rinnegato tre volte. Allora il povero ma generoso Pietro abbandonò il campo della sua disfatta, e uscito al di fuori pianse amaramente.

§ 574. Quando la seduta mattinale del Sinedrio fu terminata, si ri­seppe presto e facilmente al di fuori che Gesù vi era stato condan­nato: forse prima di ogni altro estraneo lo riseppe un uomo che aveva sommo interesse a questa sentenza, Giuda Iscariota. L’ultimo risultato del suo tradimento produsse nel suo spirito l’effetto sconvol­gitore a cui già accennammo (§ 533). Il maestro, ch’egli a suo modo amava, era stato condannato a morte. E adesso, avrebbe potuto egli liberarsi? Sarebbe egli ricorso alla sua potenza taumaturgica per rom­pere quella rete dentro cui l’avevano avviluppato i suoi nemici? Il traditore ne dubitò. Forse allora per la prima volta s’avvide che le ultime conseguenze del suo tradimento differivano da quelle da lui previste: certamente allora per la prima volta egli intravide l’abissale ingiustizia da lui commessa. In quell’uomo allora l’amore per Gesù ebbe il soprav­vento su ogni altro suo amore, anche su quello potentissimo per l’oro: ma da amore torbido e impuro qual era non poté assurgere alla speranza di perdono. I 30 sicli, che egli nel frattempo aveva rice­vuto e nei quali la sua cupidigia aveva sperato un pieno appagamento di spirito, gli divennero invece fonte di insopportabile ama­rezza. Sembrava che si fossero arroventati: egli non poteva più tenerseli addosso, parendogli di confermare e ribadire ancora il suo tradimento. Corse quindi dai sommi sacerdoti e davanti ad essi gri­dò: Ho peccato, tradendo sangue innocente! E insieme protese verso loro la borsa dei sicli in atto di riconsegnarla. I membri del Sinedrio, freddi, sicuri di sé, leggermente ironici, risposero al suo grido: A noi che (importa)? Tu (te la) vedrai! La risposta dei prezzolatori risonò nell’anima del prezzolato come beffa sarcastica, la quale mostrava che egli più di ogni altro era rimasto irretito nel tradimento ed egli solo ne era la vera vittima. Per i Sinedristi il tradimento doveva ri­manere e sussistere per sempre, né poteva in alcun modo rinnegar­si; tutto il peso del tradimento ricadesse pure sul traditore, e pen­sasse egli a cavarsi d’impaccio: quanto a loro, avendo pagato regolarmente i 30 sicli pattuiti, erano fuori di tutto l’affare né volevano più saperne. Un furore rabbioso s’impadroni allora del traditore. Vedendo precluse tutte le uscite, sentendosi schiacciato sotto il peso dei sicli, egli corse al vicino Tempio, s’inoltrò quanto gli era possibile verso l’edi­ficio del “santuario” , e di là freneti­camente cominciò a scagliare manciate di sicli verso il luogo santo quasi per liberarsi di un groviglio di vipere che gli mordeva il cuore. Le monete rotolarono sul lastricato con un tintinnio che sembrava uno sghignazzamento, si sparsero un po’ dappertutto davanti al “antuario” giacquero là come in attesa. Ma anche quando quello sghignazzamento si tacque, il traditore non si sentìaffatto sollevato; se la cupidigia sua era dissipata e scompar­sa, in tragico compenso l’amore suo per Gesù credeva scorgere da­vanti a sé una rupe insormontabile per raggiungere la persona sem­pre amata. Da ogni parte il traditore vedeva attorno a sé il vuoto. Una nerissima tenebra avvolse allora la sua mente, ed egli fuggen­do via dal Tempio andò senz’altro ad impiccarsi.

§ 575. Della fine di Giuda abbiamo una doppia relazione con inte­ressanti divergenze, le quali sono di particolare valore nel confer­mare l’identità sostanziale del fatto. Matteo parla soltanto dell’im­piccamento. Luca invece, riportando un discorso di Pietro negli Atti (1, 16-19), ha conservato la tradizione secondo cui Giuda divenuto a capo fitto crepò in mezzo effondendo tutte le sue viscere. Le due relazioni sembrano riferirsi a due momenti diversi dello stesso fatto: dapprima Giuda s’impiccò, quindi il ramo dell’al­bero O la corda a cui egli era appeso si stroncò, forse per le scosse convulsive, e allora il suicida precipitò in basso; è legittimo immaginare che l’albero fosse sull’orlo di qualche burrone, cosicché la caduta produsse nel corpo del suicida le conseguenze di cui parla la relazione di Luca. Una tradizione identificherebbe il luogo dell’impiccamento di Giuda con il campo Haceldama comprato con i sicli di lui e situato nella Geenna (§ 324, nota prima), la valle a mezzogiorno di Gerusalem­me designata fin dai tempi antichi come luogo maledetto. La leggen­da a sua volta fin dai tempi più antichi si è impadronita del fatto, ricamandovi attorno o trasformandolo in mille maniere: già nel secolo IV si affermava che l’albero a cui Giuda si era impiccato era un fico (l’albero delle cui foglie si rivestirono i protoparenti peccatori; Genesi, 3, 7), e questo fico, dopo aver emigrato in vari posti lungo i secoli, era mostrato ancora superstite pochi anni addietro a Geru­salemme. Rimanevano frattanto i sicli gettati dal traditore nel Tem­pio. I puntualissimi Sinedristi si consultarono sulla sorte da assegnare a quel denaro in maniera che la Legge non fosse violata. La Legge infatti (Deuteronomio, 23, 19 ebr.) non permetteva che fosse accet­tato come offerta sacra denaro proveniente da guadagni indecorosi, quale meretricio, omicidio e simili; perciò i Sinedristi, raccolti i sicli, osservarono: Non e’ lecito metterli nel “qorban” (tesoro sacro, cfr. § 387), giacché e’ prezzo di sangue. D’altra parte 30 sicli erano una somma considerevole, a cui non sarebbe stato saggio rinunciare: e allora quegli accurati casuisti trovarono una via di mezzo per con­ciliare i due opposti. In occasione di grandi feste ebraiche affluivano a Gerusalemme moltissimi pellegrini dalle varie regioni della Diaspora, e avvenendo che taluni di essi morissero durante la loro perma­nenza nella città santa le autorità locali dovevano provvedere alla loro sepoltura. Ma fino a quel tempo un cimitero riservato a tale scopo non c’era: i Sinedristi quindi deliberarono che con i 30 sicli si comperasse un luogo chiamato comunemente “Campo del vasaio”. forse perché era argilloso e sede di un laboratorio di vasellame, e si destinasse a cimitero dei pellegrini. Conchiusa la compera, al “Cam­po del vasaio” fu dato usualmente il nome di “Campo di sangue”, in ricordo sia della provenienza del prezzo sia del suicidio di chi ave­va fornito il prezzo; Matteo poi ricorda che il nome “Campo di sangue”, è rimasto fino ad oggi. Una tradizione molto antica colloca l’Hacel­dama nella valle della Geenna di fronte al luogo ove s’apriva un’an­tica porta della città, che era probabilmente quella chiamata “Por­ta del vasellame” da Geremia (19, 2): ivi probabilmente già esiste­vano altri cimiteri. Egualmente Matteo, sempre premuroso nel segnalare l’avveramento delle antiche profezie, rileva che allora s’avverò la profezia di Za­charia (11, 12-13) la quale è citata dall’evangelista in questa ma­niera: E presero le trenta (monete) d’argento, il prezzo di colui che fu messo a prezzo che misero a prezzo, dai figli d’Israele, e le det­tero per il campo del vasaio, come ordinò a me il Signore. Questa citazione ha dato molto da fare agli studiosi, perché Matteo l’attri­buisce al profeta Geremia, sebbene in realtà oggi si ritrovi solo in Zacharia mentre in Geremia si riscontrano soltanto allusioni (Ger., 18, 2-12; 19, 1-15; 32, 6-9). Ma l’attribuzione a Geremia probabil­mente si spiega col fatto che il libro di Geremia occupava a quei tempi il primo posto nella collezione degli scritti profetici, e perciò citando e Geremia, s’intendeva citare un passo qualsiasi di detta collezione; bisogna inoltre aver presente che la citazione non è fatta punto in maniera letterale, cosicché sembra che l’evangelista abbia voluto fare piuttosto una raccolta di allusioni che una vera citazione.

Il processo civile davanti a Pilato ed Erode

§ 576. La condanna pronunziata dal Sinedrio non poteva essere ese­guita se non dopo esplicita approvazione del procuratore romano; perciò se i Sinedristi volevano raggiungere il loro scopo dovevano superare adesso questo nuovo ostacolo. Quale via seguire? L’approvazione del procuratore si poteva ottenere in due maniere: invitando il magistrato di Roma ad accettare la conclusione del processo svoltosi davanti al tribunale supremo del giudaismo e a fidarsi defla sua imparzialità; ovvero deferendo l’imputato al tribu­nale del procuratore per istituire un nuovo processo. Questa seconda maniera fu scelta dai Sinedristi, e astutamente: giac­ché se avessero chiesto a Pilato l’approvazione di una condanna a morte pronunziata per ragioni puramente religiose, egli certamente non avrebbe confermato ad occhi chiusi la sentenza del Sinedrio, ma avrebbe voluto indagare se le accuse erano vere, se la procedura era stata legale, se sotto pretesti religiosi non si nascondessero piuttosto rancori e rivalità personali; e allora c’era pericolo che l’intera procedura che aveva portato alla sentenza di condanna fosse riesaminata, e venissero alla luce molte cose che dovevano invece rimanere nell’om­bra. No, era maniera più facile e più sicura riaprire il processo, im­piantandolo su nuove basi: se poi si deferiva l’imputato al tribunale civile del procuratore, bisognava prender costui dal suo lato debole e presentare il Rabbi galileo quale pericoloso agitatore politico, suscitatore di ribellioni contro l’autorità di Roma. Imboccata tale strada, non c’era alcun dubbio che lo stato d’animo di Pilato e le generiche condizioni politiche avessero influito assai sullo svolgimento del nuo­vo processo, indirizzandolo alla mèta prefissa dai Sinedristi. Confor­me a questo piano, appena terminata la seduta mattinale, il Sine­drio quasi al completo si recò al luogo ov’era il pretorio di Pilato, conducendosi appresso Gesù. L’evangelista testimonio oculare avverte con precisione che era l’al­ba (Giov., 18, 28); dovevano essere circa le nostre ore sei antimeridiane (§ 565). I Romani infatti erano mattinieri: essi cominciavano la trattazione degli affari già all’alba e vi rimanevano occupati fin verso mezzogiorno, mentre riserbavano il pomeriggio e la sera alla cure personali e ai divertimenti; solo più tardi, quando l’Impero fu in­vaso da Barbari infingardi e sonnolenti, si perdette l’uso d’esser mat­tinieri e si rimandò la trattazione degli affari a giornata molto inol­trata. – Giunti pertanto sul limitare del pretorio, gli accusatori di Gesù si fermarono: quella dimora era d’un pagano ed essi non pote­vano entrarvi senza contaminarsi, mentre premeva loro di man­tenersi puri per celebrare la Pasqua che cadeva, secondo il loro computo, alla sera di quel giorno stesso (§ 536). Dov’era il pretorio di Pilato?

§ 577. Per i Romani il praetorium era il luogo ove il praetor stabi­lisse il suo ufficio il qual luogo poteva esser oggi una tenda mili­tare, domani un castello fortificato, un altro giorno il palazzo di un re debellato. Nato sotto la tenda militare, l’ufficio del pretorio con­servò sempre un’austera semplicità, rimanendo costituito essenzial­mente da due principali arredi, il “tribunale” e il seggio curule. Il “tribunale” era un suggesto o predella di forma semicir­oolare, di notevole altezza ed ampiezza, ma tale da potersi facilmen­te trasportare ed impiantare ove fosse opportuno; il seggio curule era l’antico seggio dei magistrati romani, destinato qui al pretore e colIlocato nel centro della predella semicircolare. Dall’alto del “tribu­nale” il pretore amministrava ufficialmente la giustizia, stando assiso sul seggio curule al centro e fiancheggiato ai due lati del semicer­chio dai suoi assistenti o consiglieri; davanti a quella predella dove­vano presentarsi imputati e accusatori, testimoni e difensori, e il pre­tore dopo aver ascoltato tutti e tutto ed essersi consultato con i suoi consiglieri pronunziava la sentenza dal seggio curule. A Cesarea, ove il procuratore della Palestina risiedeva ordinariamente (§ 21), il suo pretorio era impiantato nella reggia di Erode il Grande perché ivi era la su a abituale dimora (cfr. il pretorio di Erode a Cesarea, in Aui,23,35); anche a Gerusalemme, quando il procuratore vi si recava, la sua abituale dimora era la reggia di Erode, tuttavia da ciò non segue – astrattamente parlando – che ivi fosse sempre impianta­to il suo pretorio, giacché egli per ragioni speciali poteva prender dimora altrove, ad esempio nella fortezza Antonia, la quale si prestava molto meglio per sorvegliare le immense folle che accorrevano nell’attiguo Tempio in occasione della Pasqua e delle altre grandi fe­ste ebraiche (§ 49). Per la Pasqua in cui avvenne il processo di Gesù, dove stava impiantato il pretorio di Pilato? Una preziosa indicazione è fornita dal testimonio oculare allorché egli precisa che per pronunziare la sentenza finale Pilato s’assise sul tribunale (Giov., 19, 13). Dunque quel giorno Pilato im­piantò il suo pretorio in un luogo di Gerusalemme ch’era designato comunemente con due nomi diversi: Lithostrotos è nome schiettamente greco, e significa etimologicamente “strato di pietre” ossia “lastricato”; Gabbatha invece è nome aramaico, e significa “luogo eminente”, “altura”. Erano dunque due termini che non si tradu­cevano a vicenda, perché erano di significato etimologico diverso, ma praticamente designavano ambedue lo stesso luogo; tuttavia casi co­me questo si spiegano facilmente con le diverse ragioni che possono dare origine alle varie designazioni, e sono in realtà assai frequenti: basti ricordare soltanto nella Roma odierna Pantheon e Rotonda, Quirinale e Montecavallo, ecc. Per giustificare dal lato etimologico ambedue i nomi qui ricordati dall’evangelista bisognerà rintraccia­ne nella Gerusalemme antica un luogo che fosse geologicamente una ”altura”, e su cui fosse stato disposto un “lastricato” cosi notevole da meritare l’appellativo antonomastico.

§ 578. Avendo presenti queste esigenze dell’indicazione evangelica tutto c’induce a concludere che il pretorio di Pilato fosse impiantato quel giorno nella fortezza Antonia. Questa fortezza, oltre a pre­starsi meglio per la sorveglianza nelle giornate poliziescamente torbi­de, era collocata veramente sopra un’”altrura”, quella del Bezetha (§ 384), chiamata da Flavio Giuseppe la piu’ alta di tutte le colline di Gerusalemme (Guerra giud., v, 246); fu dunque naturale che i cittadini riservassero per antonomasia il termine di “altura” a quel­la collina che emineva su tutte le altre, sebbene il termine fosse ge­nerico e risultasse precisato solo dall’uso. Ma quando più tardi fu costruita la massiccia fortezza Antonia, l’e­minenza della collina sembrò quasi scomparire sotto l’enorme mole. Ecco allora avvenire una sostituzione del termine generico di “al­tura” col termine nuovo di “lastricato” provocato dalla nuova co­struzione, sebbene per qualche tempo i due nomi fosse usati promiscuamente, mentre il nome antico e indigeno era usato più dai con servatori e il nuovo e forestiero più dai progressivi. Resta da vedere se nell’edificio dell’Antonia esisteva veramente que sto Lithostrotos, questo “lastricato” cosi’ importante da designare per estensione tutta la zona; e qui non si potrà rispondere se non sulla base degli antichi documenti e delle recenti scoperte archeolo­giche. Dalla minuta descrizione che Flavio Giuseppe fa dell’Antonia (§ 49) risulta ch’essa era costituita da un quadrilatero rafforzato agli angoli da quattro potenti torri; ma il quadrilatero non era totalmen­te coperto di costruzioni, bensi racchiudeva nel mezzo un vasto cor­tile a cielo scoperto contornato da portici, da casematte e dai muri del quadrilatero. Il cortile naturalmente era frequentatissimo, passandovi quanti an­davano e venivano; in esso i soldati ivi di guarnigione si saranno schierati a rassegna, avranno fatto taluni esercizi militari, avranno passato lunghe ore in ozio giocando a dadi, a “filetto” e a simili passatempi intuitiva, quindi, la necessità che quel cortile fosse provvisto di un buon “lastricato” che ne proteggesse il suolo. Eb­bene, questo “lastricato” è stato ritrovato e nettamente riconosciuto dalle ricerche archeologiche praticate sul posto in questi ultimi anni. Da calcoli approssimativi fatti sui ruderi si è potuta valutare la su­perficie dell’intero cortile a mq. 2.500. Sul luogo si sono scoperti, oltre ad avanzi di varie costruzioni fiancheggianti la fortezza Anto­nia, anche larghi strati di « lastricato » molto ben conservati nono­stante le successive trasformazioni del luogo. All’esame archeologico il « lastricato » si mostra quale opera tipicamente romana, come usa­va farne Erode il Grande costruttore dell’Antonia. Le lastre di pie­tra, ampie e solide, misurano talvolta fino a 2 metri di lunghezza, su 1,50 di larghezza e 0,50 di spessore; fra le molte tracce che que­ste pietre portano dell’intenso uso che se ne fece lungo i secoli, le piu’ curiose sono varie delineazioni o trame di giuochi romani, quali il « filetto » e simili, che furono indubbiamente incise dai soldati per le loro ore di riposo. Si può quindi ritenere come praticamente sicuro che il “lastricato” ritrovato sia il Lithostrotos dell’evangelista, e che in questo luogo chiamato anche Gabbatha fosse impiantato in quel giorno il pre­torio di Pilato.

§ 579. Il procuratore romano, avvertito che i membri del Sinedrio con molta folla s’erano fermati fuori del pretorio e volevano par­largli a proposito di un certo imputato chiamato Gesu’ di Nazareth, uscì verso di loro e dato uno sguardo attorno domandò per comin­ciare Quale accusa portate contro quest’uomo? Gli fu risposto: Se costui non fosse un malfattore, non te l’avremmo consegnato. Veramente questa risposta non era un’accusa: voleva esser piutto sto una implicita captatio benevolentia, col suo latente invito a fi­darsi di ciò che gli accusatori affermavano e a rimettersi al giudi­zio dato dal Sinedrio sull’imputato. Stesse pur tranquillo il gover­natore: i suoi governati la pensavano in tutto come lui riguardo alla giustizia e all’equità, e deferivano al suo tribunale quell’imputato perche’ era proprio un malfattore assolutamente meritevole di morte. La captatio benevolentia fu interpretata da Pilato per quel che va­leva. Il navigato romano capì subito che si trattava di una delle tante questioni che vertevano su idee religiose giudaiche e nelle quali egli non voleva affatto entrare; richiamandosi quindi alle norme vigenti, rispose: Prendetelo voi, e giudicatelo secondo la vostra legge. Queste parole non significavano certamente che gli accusatori potes­sero fare dell’imputato ciò che volevano, compreso il metterlo a morte: erano soltanto un invito ad applicare le leggi nazionali, sem­pre con la notoria esclusione della pena capitale. Ma precisamente qui era il punto piu’ delicato della questione, e gli accusatori lo se­gnalarono direttamente al procuratore dicendogli: A noi non e’ leci­to uccidere alcuno. Questa risposta manifestava al pmcuratore l’oc­culto desiderio degli accusatori, facendogli anche intravedere ciò che era avvenuto in quella notte. Se il Sinedrio si era rivolto al rappre­sentante di Roma non aveva fatto ciò per poter infliggere una mul­ta o una scomunica o le 39 staffilate legali (§ 61), tutte pene che esso poteva legittimamente infliggere senza l’approvazione del procuratore: gli accusatori invece volevano il permesso di eseguire la pena capitale, pronunziata in quella notte dal Sinedrio ma rimasta fino allora inefficace. Da questa risposta pertanto Pilato capì che l’impu­tato, nell’intenzione degli accusatori, era già un uomo destinato alla morte.

§ 580. Così veniva impostato il nuovo processo di Gesù davanti all’autorità civile. Ma per convincere il nuovo giudice, che quasi cer­tamente non aveva mai inteso parlare di un Gesù di Nazareth, oc­correvano delle prove; e gli accusatori addussero prove adatte a far impressione sul giudice. Dissero pertanto i Giudei: Noi troviamo co­stui che perturba la nostra nazione ed impedisce di dar tributi a Cesare e dice di essere Cristo (Messia) re (Luca, 23, 2). Questa era un’accusa strettamente politica, e come tale veniva a sostituirsi alle accuse religiose ch’erano state addotte davanti al tribunale del Si­nedrio: qui, davanti al tribunale del magistrato di Roma, Gesù è presentato come un rivoluzionario politico, e più esattamente come un imitatore di Giuda il Galileo (§ 514) nell’impedire il pagamento dei tributi a Cesare, nonché come un condottiero nazionalista che dice di essere il re-messia politico; è certo, infatti, che l’ultimo capo d’accusa si riferisce alla regalità politica. Senonché Pilato non era davvero tanto ingenuo da prender per oro colato tali accuse, e sotto ad esse intravide subito qualcosa di ben diverso. Ad ogni modo il terreno su cui erano scesi gli accusatori era di natura delicatissima per lui, e tale da obbligarlo a scendervi an­ch’egli: a lui, rappresentante di Roma, veniva deferito un imputato sotto l’accusa di congiurare contro Roma ed egli, sebbene avesse ca­pito subito che l’accusa era priva di fondamento, non poteva sot­trarsi all’obbligo di accogliere e discutere tale accusa; se avesse tra­scurato di far ciò, c’era pericolo che gli accusatori delusi inviassero denunzie a Roma, dipingendolo come remissivo e negligente nel re­primere moti politici contro l’autorità da lui rappresentata. Egli perciò, quale uomo di legge, si proponeva di smascherare gl’infingi­menti degli accusatori: ma nello stesso tempo, quale magistrato di Roma, si proponeva di figurare come vigile custode dell’autorità im­periale. Non restava che interrogare l’imputato stesso.

§ 581. Pilato allora rientrò nell’interno del pretorio, ove nel frat­tempo l’imputato era stato condotto mentre gli accusatori rimane­vano scrupolosamente al di fuori, e cominciò con la questione piu’ scottante domandando a Gesù: Tu sei il re dei Giudei? Questa in­terrogazione ripeteva materialmente l’ultimo capo d’accusa, ma in hocca a Pilato il termine re dei Giudei assumeva un significato vo­lutamente ambiguo. Andando a fondo, l’interrogazione sonava a un dipresso cosi: Sei tu re dei Giudei in qualcuno di questi sensi ol­tramondani e numinosi impiegati spesso negli scritti della tua nazio­ne; oppure sei re dei Giudei nel senso in cui Numa Pompilio fu re dei miei antenati a Roma, ed Erode figlio di Antipatro era re dei tuoi antenati qui in Palestina mezzo secolo fa? Sei re di un mondo invisibile e ideale, oppure re di questo mondo visibile e materiale? Gesù rispose a Pilato: Da te stesso dici tu questo, oppure altri te (lo) disse di me? A Pilato non sfuggi che la risposta mirava appunto a distinguere quell’equivoco ch’era contenuto nella domanda; ne fu stizzito, e con una certa sdegnosità replicò: Sono io forse un giudeo? La tua na­zione e i sommi sacerdoti ti consegnarono a me. Che cosa hai fatto? La replica di Gesù insistette ancora nel distinguere i due sensi della prima domanda: Il regno mio non è di questo mondo. Se di questo mondo fosse il regno mio, i miei ministri avrebbero lottato affinchè (io) non fossi consegnato ai Giudei. Ora, invece, il mio regno non è da qui. Pilato, alquanto sorpreso da queste parole, intervenne per mettere in chiaro almeno in punto, e replicò: Dunque, tu sei re? aspettandosi senza dubbio che l’imputato respingesse senz’altro l’af­fermazione. Gesù invece l’accettò in pieno, giacché rispose: Tu dici che sono re; il che equivaleva a dire: “Sono veramente re come tu dici” (cfr. § 543, 567). Tuttavia a questa affermazione tenne subito die­tro uno schiarimento, nel senso forse già previsto da Pilato: Io a questo (scopo) sono nato e a questo (scopo) sono venuto nel mondo per render testimonianza alla verità. Chiunque e’ dalla verita, ascol­ta la mia voce. Pilato, infastidito, tagliò corto, dicendo: Che cos’e’ verita?

§ 582. Queste parole in sostanza non erano una domanda ma una esclamazione, tant’è vero che Pilato appena le ebbe pronunziate non aspettò risposta e si mosse per uscire a parlamentare con i Giudei fuori del pretorio; esse volevano semplicemente segnalare che la di­scussione era uscita dal suo vero campo praginatico per entrare in quello delle idee astratte, che non interessavano affatto il magistrato. Avvedutosi di ciò, egli esclama negligentemente: “Ma che cosa vuoi che sia la verità!”. A Roma Pilato aveva forse assistito centinaia di volte a discussioni di graeculi filosofeggianti nelle case e sulle piazze in cerca di sonanti sesterzi, e si era annoiato mortalmente a udire interminabili disquisizioni sulla verità e sull’errore: ragion per cui, quella mattina, egli non aveva la più lontana voglia di udirne an­cora un’altra da quell’oscuro giudeo. Ad ogni modo, dal breve dialogo avuto con Gesù, Pilato si era sem­pre più convinto che l’imputato era del tutto innocente e che l’inte­ra denunzia era effetto dell’odio che gli portavano i capi della na­zione per loro beghe religiose. E qui vennero ad incontrarsi e som­marsi insieme due spiccati lineamenti del carattere di Pilato: uno, il sentimento del ius che egli certamente possedeva come magistrato romano e che lo spingeva a far rispettare la legge; l’altro, un senti­mento di disprezzo e di scontrosità ch’egli nutriva per quei capi del giudaismo, e che qui trovava un’ottima occasione per impuntarsi a contraddire in nome della legge. Ambedue questi sentimenti del giu­dice esigevano che l’imputato fosse rimandato assolto. Frattanto dal di fuori giungeva un vociare confuso, e a sbalzi si di­stinguevano or l’una or l’altra delle accuse ripetute adesso da tutta la folla. Pilato, che aveva già terminato il dialogo con Gesù, prima di affrontare la folla cercò dall’imputato quasi un suggerimento o un aiuto per la difesa di lui, e ritornatogli vicino gli domandò cori curiosità: Non rispondi nulla? Vedi di quante cose ti accusano? (Marco, 15, 4). Ma colui che poco prima si era proclamato testimo­ne della verità non rispose nulla, e serbò assoluto silenzio.

§ 583. Pilato ne rimase meravigliato; ma non recedette dal propo­sito di difendere quel silenzioso imputato anche senza l’aiuto di lui, e uscito fuori proclamò davanti a Sinedristi e plebei: Io non trovo in lui alcuna colpa! Con questa dichiarazione il processo doveva con­siderarsi terminato. I Sinedristi, più che i plebei, ne rimasero sdegnati. Protestando violentemente, si dettero essi a ripetere alla rinfusa le varie accuse ma specialmente quella politica: Fa insorgere il popolo, insegnando per tutta la Giudea e cominciando dalla Galilea fin qua (Luca, 23, 5). Queste ultime parole colpirono Pilato, perché sembravano offrirgli un elemento nuovo onde risolvere la questione; egli domandò se Ge­sù fosse galileo, ed essendogli risposto ch’era dei dominii del tetrarca Erode Antipa vide in questo particolare un buon appiglio in proprio favore. Egli era sicuro che, anche ad un esame fatto da Erode, Gesù sareb­be risultato innocente come all’esame testé subito al suo proprio tri­bunale: con ciò egli avrebbe avuto un nuovo argomento per ridurre al silenzio gli accusatori di lui, infliggendo inoltre ad essi una lega­lissima umiliazione. Inoltre il caso di quell’imputato offriva al pro­curatore una bell’occasione per riavvicinarsi al tetrarca, col quale egli da tempo era in cattivi rapporti, probabilmente perché Erode faceva la spia a danno dei magistrati romani d’Oriente presso l’imperatore Tiberio (§§ 15, 26). Perciò il procuratore, ostentando deferenza verso il tetrarca, decise d’inviargli il suo suddito affinché lo giudicasse. Veramente Gesù era stato denunziato al tribunale del rappresentante di Roma, e ivi doveva esser giudicato qualunque fos­se il suo paese d’origine; tuttavia Pilato rinunciò volentieri alla pro­pria giurisdizione, per i motivi pratici suddetti.

§ 584. Erode Antipa era appunto a Gerusalemme in quei giorni, per l’occasione della Pasqua. Quando seppe che il procuratore gl’invia­va quell’imputato galileo, fu assai contento, perché era desideroso da molto tempo di vederlo a cagione di ciò che udiva di lui e spe­rava vedere qualche prodigio fatto da lui. Già sappiamo infatti che, per Erode Antipa, Gesù passava come Giovanni il Battista risusci­tato (§ 357), e l’innata superstizione di colui che aveva assassinato il precursore era qui tanto più viva in quanto si riconnetteva col ri­cordo della sua propria vittima. Quando Erode ebbe Gesù alla sua presenza gli rivolse numerose do­mande, ma non ottenne neppure una risposta. Tuttavia se non parlò l’imputato, parlarono abbondantemente gli accusatori di prima che si erano presentati anche al nuovo tribunale: qui, davanti al Giudeo incoronato, essi avranno insistito piuttosto su accuse tipicamente giu­daiche, quali le pretese bestemmie di Gesù, le violazioni del sabba­to, le minacce contro il Tempio, la sua proclamazione d’essere pari a Dio. Il silenzio dell’imputato fu una disillusione per Erode; tutta­via egli aveva giuridicamente la vista più chiara degli accusatori, e nonostante la sua disillusione capi che tutte quelle accuse erano frut­to di livore e che l’imputato era innocente. Sarebbe stato quindi il caso di proclamarlo tale senz’altro, e di rinviarlo libero: ma la tron­fia alterigia del tetrarca volle la sua vendetta per la disillusione patita. Dalle guardie che lo circondavano Erode fece rivestire il silenzioso imputato di una veste sgargiante, uno di quegli indumen­ti vistosi usati in Oriente da persone insigni per occasioni solenni: forse era qualche capo di vestiario, consunto e fuori uso, che il te­trarca fece rimetter fuori per beffeggiare l’imputato, il quale così anche esteriormente figurava da re come si era proclamato. Perciò anche quella beffa con cui si concludeva l’inquisizione fatta da Erode mostrava che a giudizio dell’inquirente l’imputato era uomo, scioc­co e ridicolo bensì, ma tale da non offrire alcun pericolo: la beffa stessa già respingeva implicitamente la tesi degli accusatori, secondo cui l’imputato era un rivoluzionario e un sacrilego. Un delinquente siffatto sarebhe stato punito severamente, non già beffeggiato alle­gramente. Vestito in quella maniera, fra i clamori sarcastici degli accusatori che lo seguivano dappertutto, Gesù fu rinviato da Erode a Pilato. Luca, il solo evangelista che narra questo episodio, conclude dicendo che divennero amici fra loro Erode e Pilato in quello stesso giorno, giac­ché dapprima erano in ostilità fra loro (Luca, 23, 12).

§ 585. Quando Pilato vide che Erode rinviandogli Gesù non voleva immischiarsi nell’affare, s’impensierì e cominciò a capire che si trat­tava di cosa più seria ed imbrogliata di quanto gli fosse apparsa da principio. Tuttavia egli tenne ancora fermamente all’innocenza del­l’imputato: solo che si propose di trovar una via d’uscita cedendo in qualche parte agli accusatori. L’uomo di legge si ritirava alquan­to indietro, e si metteva sulla stessa linea dell’uomo politico. Rivolto quindi agli accusatori, tenne loro questo ragionamento: Mi recaste quest’uomo come pervertitore del popolo; ed ecco che io, interro­gando davanti a voi, nulla trovai di colpevole in quest’uomo di quan­to l’accusate. Ma neppure Erode, giacché lo rinviò a noi. Ed ecco, nulla degno di morte e’ stato commésso da lui. Fin qui ha parlato l’uomo di legge, che ha il sentimento del ius. Ma subito appresso si fa avanti l’uomo politico e comincia a parlar lui, togliendo la pa­rola all’uomo di legge; Pilato infatti termina il precedente ragiona­mento con questa inaspettata conclusione: Dopo aver dunque sottoposto lui ad un castigo, (lo) rimanderò (libero). Il vero errore dialettico di questa conclusione sta in quel dunque; se né Pilato né Erode avevano trovato nulla di colpevole e nulla degno di morte, come giustificare quel dunque? Come legittimare quel castigo pro­messo, che certo non sarebbe stato una pena leggiera, ma la terribile flagellatio romana? Ma per il procuratore ciò che non era ammesso dal diritto era ri­chiesto dalla politica.

§ 586. Appena fatta questa concessione, Pilato di rincalzo ofirì agli accusatori un altro motivo per calmarsi. Era consuetudine, in occa­sione della Pasqua, che il procuratore liberasse un carcerato scelto dalla folla; parve pertanto a Pilato che questa volta sarebbe stata cosa equa e insieme opportuna far cadere la grazia su Gesù, cosicché la giustizia sarebbe rimasta salva (almeno in parte) e sarebbero an­che rimasti appagati gli accusatori. Ora, in quei giorni era detenuto un famigerato malfattore chiama­to Barabba (“figlio del padre”), nome abbastanza comune negli scrit­ti rabbinici: secondo poi alcuni codici evangelici, scarsi tuttavia di numero e d’autorità, il nome intero di quest’uomo sarebbe stato Gesu’ Barabba, in cui Barabba sarebbe piuttosto un epiteto e Gesu’ il vero nome. Costui in una sedizione popolare, suscitata forse da lui stesso, aveva commesso un omicidio: abitualmente, poi era un la­dro. Arrestato, stava in prigione attendendo la sentenza del procu­ratore. Pilato pertanto previde che, se avesse proposto agli accusa­tori la grazia o di Gesù o di Barabba, la scelta sarebbe certamente caduta su Gesù a causa del carattere palesemente infame di Barabba. Si presentò quindi sul limitare del pretorio e fece la proposta: Chi volete che vi dimetta, Barabba oppure Gesu’, quello chiamato Cristo? e per meglio specificare aggiunse il re dei Giudei? La previsio­ne di Pilato, che la scelta sarebbe caduta su Gesù, dimostra ch’egli aveva una conoscenza assai difettosa, non tanto della nazione da lui govennata, quanto delle guide spirituali di quella nazione. La pro­posta infatti a bella prima fece impressione sulla folla degli accusa­tori, i quali stavano là davanti al pretorio a gridare ciò ch’era sug­gerito loro dai sommi sacerdoti e dagli anziani, loro guide spirituali; a quel gregge di servitori Gesù era certamente sgradito perché era sgradito ai loro padroni, ma anche per essi Barabba era tale furfante da meritarsi invece della grazia la più severa delle condanne. Ci fu una breve sosta fatta di perplessità, in cui il servitorame vociante non riusciva a decidersi tra la richiesta del fondo onesto della sua coscienza e la richiesta dei suoi inflessibili padroni.

§ 587. Durante questa sosta avvenne un incidente curioso. Mentre lilato credeva d’aver trovato la buona via d’uscita, ricevette priva­tamente un avviso di sua moglie, formulato in questi termini: Non aver nulla (da fare) con quel giusto, poiché molti sogni ho avuti oggi a cagione di lui. La notizia è data soltanto da Matteo, l’accu­rato segnalatore di comunicazioni divine avvenute per mezzo di so­gui (§ 239). Storicamente, poi, risulta che solo da poco tempo era stato permesso ai magistrati dell’Impero romano di recar seco le proprie mogli quando andavano a governare il territorio loro asse­gnato, mentre ai tempi della Repubblica la moglie non poteva se­guire il marito. A Pilato l’avviso della moglie dovette far molta impressione. Scet­tico riguardo a teorie filosofiche e a disquisizioni sulla verità e sull’errore, era certamente assai sensibile a quegli arcani segni che riscotevano tanto credito presso i Romani del suo tempo. Tutta Ro­ma sapeva benissimo che Giulio Cesare avrebbe evitato le 23 pugna­late delle fatali Idi di marzo se avesse dato ascolto alla moglie Cal­purnia che lo aveva pregato di non recarsi quel giorno nella curia, perché essa nella notte precedente lo aveva visto in sogno trafitto da molte ferite. Il caso di Calpurnia poté benissimo venire in mente a Pilato; ad ogni modo egli, oramai implicato nel processo di quel giusto, ricevette certamente dall’avviso della moglie una nuova conferma ad adoperarsi per quanto poteva in favore dell’imputato.

§ 588. Nel frattempo la sosta di perplessità era cessata, perché il servitorame vociante era stato ammaestrato dai suoi padroni e si era deciso ad obbedire ad essi più che al fondo onesto della sua coscien­sommi sacerdoti e gli anziani persuasero le folle che chiedessero Barabba e mandassero in rovina Gesu’ (Matteo, 27, 20). Ricorninciava per tanto la battaglia, dopoché ambedue i combatten­ti avevano ricevuto rinforzi: il procuratore dal messaggio della mo­glie, la folla dalle istigazioni dei Sinedristi. Rivolgendosi di nuovo agli accusatori, Pilato ripeté la domanda: Chi volete che vi rimetta dei due? Tutti risposero concordi: Barabba! Meravigliato della scelta, Pilato non si preoccupò del delinquente prescelto ma dell’innocente scartato, e istintivamente richiese: Che farò dunque di Gesu’, quello chiamato Cristo? GI’istigatori fecero gridare dalla folla: Sia crocifisso! Il procuratore insisté: Ma che cosa ha fatto di male? Evidentemente la sua mentalità giuridica esigeva una giustificazione alla gravissima pena richiesta; la giustificazione fu data, e consistette nel grido rinnovato più e più volte: Sia crocifisso! (Matteo, 27, 22-23). Da questo modo di ragionare Pilato rimase, non propriamente addo­lorato, ma piuttosto interdetto, sconcertato, nauseato. Con quegli schiamazzanti egli non riusciva a discutere: l’uomo di legge parlava una lingua che quelli non capivano. Ma anche materialmente sa­rebbe stato difficile farsi intendere, perché le alte e continue grida avrebbero ricoperto la voce dell’oratore. Pilato tuttavia volle egual­mente far conoscere ch’egli non condivideva affatto i propositi san­guinari manifestati da loro, e a tale scopo sostituì la comunicazione orale con un’azione rappresentativa percettibile con lo sguardo: fat­tosi portare un catino d’acqua si lavò le mani li in presenza della folla, mentre questa chiedeva a gran voce la morte dell’imputato. L’azione di lavarsi le mani assumeva spontaneamente un senso sim­bolico sia presso gli Ebrei (Deuteronomio, 21, 6-7) sia presso altri popoli antichi (Erodoto, 1, 35; Eneide, Il, 719; ecc.); in quel caso essa mostrava che il procuratore respingeva ogni responsabilità della domanda rivoltagli, qualunque fosse stato l’esito di tutto l’affare. In un momento poi in cui il clamore diminuì alquanto, egli per spie­gare anche meglio il senso simbolico gridò: Sono innocente di questo sangue! Voi (ve la) vedrete! Le sue parole furono udite da parecchi, e la risposta fu data con prontezza e con sicurezza assolute: Il san­gue di lui (sia) sopra noi e sopra i nostri figli! § 589. Questo augurio, o voto che fosse, invita ad una breve ed ele­mentare riflessione, che del resto non è estranea al processo di Gesù. L’augurio fu espresso concordemente sia dalle guide spirituali del giudaismo sia da una larga rappresentanza del popolo di Gerusalem­me: era dunque veramente una rappresentativa vox populi, un voto strettamente ufficiale che riassumeva i desideri sia del capo che del­le membra, sia del Sinedrio che del popolo. L’augurio o voto fu indirizzato certamente non al procuratore romano ma ad un giudi­ce ben più alto, ossia a quel giudice tante volte invocato nelle sacre Scritture d’Israele il quale solo poteva far si che quel discusso san­gue ricadesse anche sulle teste dei lontani figli. Solo quel sovreminen­te giudice poteva mutare la vox populi in una vox Dei, accoglien­do quel voto e mostrandolo avverato nella storia. Ora, se tutto ciò sia realmente avvenuto, lo storico odierno riscontrerà per conto suo rivolgendosi appunto alla storia, e non soltanto a quella antica ma anche a quella odierna. E ciò anche perché ai nostri giorni la questione è stata ripresa, e precisamente da quei figli di cui parla il voto. Non esistendo più oggi il Sinedrio che 19 secoli fa condannò Gesù ed espresse il voto che il sangue di lui ricadesse sui più lontani figli d’Israele, questi figli nel 1933 istituirono a Gerusalemme un tribunale ufficioso, com­posto di cinque insigni Israeliti, affinché riprendesse in esame l’an­tica sentenza del Sinedrio. Il verdetto pronùnziato da questo tribunale, con quattro voti favorevoli e uno contrario, fu che l’antica sentenza del Sinedrio doveva essere ritrattata, perché l’innocenza dell’imputato era dimostrata, la sua condanna era stata uno dei piu’ terribili errori che gli uomini abbiano commesso, riparando il quale la razza ebraica ne sarebbe onorata.

§ 590. A questo punto del processo Pilato si ritrovò in condizioni di spirito assai contrastanti fra loro. Convintissimo personalmente dell’innocenza di Gesù, egli era stato rafforzato in questa sua convinzio­ne dal misterioso messaggio della moglie; dippiù, la puntigliosità e scontrosità del governatore trovava qui un’opportuna occasione per fare ai suoi govemati uno di quei dispetti di cui egli tanto si com­piaceva, e che questa volta sarebbe stato giustificato dalla legge e dall’equità. Ma, d’altra parte, la pertinacia degli accusatori invece di scemare era andata sempre crescendo, e se fosse stata contrad­detta in maniera totale e definitiva poteva facilissimamente accen­dere uno di quegli incendi popolari ch’erano il sommo spavento d’o­gni governatore romano della Giudea: la previsione di siffatta con­seguenza, nonché la paura di ricorsi inviati a Roma contro di lui, inducevano Pilato a riflettere con massima accortezza sulla decisione da prendere, e mentre annebbiavano sempre più ai suoi occhi l’au­stera visione della giustizia la sostituivano man mano con le lusin­ghiere fattezze del tornaconto politico. Egli quindi cercò di aggirare l’ostacolo, ricorrendo a ripieghi e cer­cando quasi d’illudere gli avversari mediante concessioni minorL In primo luogo, accolse la domanda della folla e graziò Barabba; inol­tre, sempre con la speranza di rendere gli accusatori più remissi­vi, fece eseguire la precedente promessa di sottoporre Gesù alla fla­gellazione.

§ 591. Presso i Romani la flagellatio precedeva ordinariamente la crocifissione, ma alcune volte costituiva una pena a sé e poteva essere inflitta in sostituzione della pena capitale. Era eseguita dai soldati. Il paziente veniva denudato e quindi legato per i polsi ad un palo, in maniera da offrire il dorso ricurvo. I colpi erano dati non già con verghe, riservate al cittadino romano condannato a morte, ma con uno strumento speciale, il fiagellum, ch’era una robusta frusta con mol­te code di cuoio, le quali venivano appesantite da pallottole di me­tallo o anche armate di punte aguzze (scorpione). Mentre presso i Giudei la flagellazione legale era contenuta entro un numero di col­pi ben fisso (§ 61), presso i Romani non era limitata da alcun nu­mero ma solo dall’arbitrio dei flagellatori o dalla resistenza del pa­ziente. Il flagellando, specialmente se destinato alla pena capitale, era considerato come un uomo senza più nulla di umano, un vuoto simulacro di cui la legge non aveva più cura, un corpo su cui si poteva infierire liberamente: e in realtà chi avesse ricevuto la flagella­zione romana era ridotto ad un mostro ripugnante e spaventoso. Ai primi colpi il collo, il dorso, i fianchi, le braccia, le gambe s’illividi­vano, quindi si rigavano di strisce bluastre e di bolle tumefatte; poi man mano la pelle e i muscoli si squarciavano, i vasi sanguigni scop­piavano, e dappertutto rigurgitava sangue; alla fine il flagellato era divenuto un ammasso di carni sanguinolente, sfigurato in tutti i suoi lineamenti. Spessissimo egli sveniva sotto i colpi; spesso vi lasciava la vita. Orazio, che pure non aveva un cuore tenerissimo, chiama lo strumento di questa pena horribile flagellum. A questa pena Pilato sottopose Gesù, pur mirando con questa nuova concessione a scamparlo dalla pena capitale.

§ 592. Terminata la flagellazione, Gesù rimase ancora per qualche tempo in balia dei soldati che lo avevano flagellato, e che fecero con lui quanto si usava fare con i condannati a morte. Verso co­storo, come già cancellati dall’albo del genere umano, era permesso qualunque lubidrio, qualunque lazzo brutale o beffa disumana: per­ciò quando i carnefici ebbero finito di flagellare Gesù e vollero rive­stirlo, chiamarono altri soldati della coorte e radunatisi allegramen­te attorno alla vittima, gli misero addosso una clamide rossa, di quel­le usate dai trionfatori dopo una vittoria; intrecciarono quindi una corona di spine, e gliela misero in testa a guisa di diadema; gl’infi­larono poi fra le mani legate ai polsi una canna, che doveva figu­rare come scettro di comando. Non si era proclamato egli re dei Giudei? Ebbene, apparisse re an­che allo sguardo di essi soldati, col suo scettro, col suo diadema, con la sua clamide. E con tanto maggior gusto si dovevano sfogare in que­gli schemi quei soldati, in quanto essendo non legionari ma auxilia­ res delle coorti dovevano esser reclutati in massima parte tra popo­lazioni vicine ma ostili ai Giudei, specialmente tra i Siri e soprat­tutto fra i Samaritani nemicissimi dei Giudei ma fedelissimi ai Roma­ni (cfr. Flavio Gius., Guerra giud., Jt, 52, 69, 96; ecc.). Per tutti costoro era un divertimento davvero gustosissimo ricoprire di beffe e ludibri un re di quei cialtroni di Giudei. Come ai trionfatori militari si tributavano particolari onoranze, cosi quei beffeggiatori cominciarono a sfilare avanti a Gesù, inginocchian­dosi davanti a lui e ripetendogli umili ed ossequiosi: Salute, re dei Giudei! Ma subito appresso, rialzatisi in piedi, gli sputarono in fac­cia e sfilatagli la canna di tra le mani gliela sbattevano sulla corona di spine.

§ 593. Fra tutti questi fatti era passato parecchio tempo; dalla prima presentazione di Gesù a Pilato avvenuta all’alba (§ 576), erano trascorse non meno di quattro ore fra discussioni del governatore con la folla, invio ad Erocle e ritorno, flagellazione e schemi dei soldati, e a questo punto si doveva essere fra le nostre dieci o undici ore antimeridiane. Intanto Pilato rifletteva sul modo di fare un ultimo tentativo in favore di Gesù, mentre la folla aspettava fuori del pre­torio clamorosa e pertinace. Agli schemi inflitti all’imputato dopo la flagellazione Pilato non at­tribuì importanza alcuna, non avendoli né comandati né proibiti; egli invece fece assegnamento sull’effetto giuridico e morale della flagellazione. Quando Gesù, sfigurato dai colpi e mascherato dagli indumenti burleschi, fu condotto di nuovo alla presenza del procu­ratore, egli decise d’impiegare quest’ultimo argomento sperando sul­l’impressione che avrebbe fatto quel sanguinolento cencio umano; perciò si fece seguir da lui uscendo fuori del pretorio, e preannunciò la sua comparsa alla folla: Ecco, ve lo conduco fuori affinché cono­sciate che nessuna colpa ritrovo in lui! Gesù, malfermo sulle gambe e vacillante nei passi, fu sospinto sul li­mitare del pretorio e comparve, come dice il testimonio oculare (Giov., 19, 5), portando la corona di spine e la veste purpurea. Al­lora, additandolo ai suoi inflessibili e urlanti accusatori, Pilato escla­mò: Ecce homo! In greco quest’esclamazione equivaleva al nostro: “Ecco quel tale”, e non aveva certo un senso di commiserazione; tuttavia, implicita­mente, invitava gli accusatori a riflettere se era ancora il caso di in­veire tanto contro un uomo ridotto in quelle condizioni. E qui è

opportuno ricordare che chi invitava era un adoratore di Giove e di Marte, mentre coloro ch’erano invitati erano gli adoratori dello spi­rituale Dio Jahvè.

§ 594. La scena che avvenne dopo questo invito è descritta dal te­stimonio con parole che non potrebbero esser sostituite: Quando per­tanto lo videro i sommi sacerdoti e gl’inservienti, gridarono dicen­do:”Crocifiggi! Crocifiggi!”. Dice ad essi Pilato:”Prendetelo voi e crocifiggete, perché io non ritrovo in lui colpa!”. Risposero a lui i Giudei:”Noi abbiamo una legge, e secondo la legge deve morire perché si fece figlio di Dio!” (Giov., 19, 6-7). Le parole di Pilato non significavano affatto che egli permetteva agli accusatori di cro­cifiggere liberamente l’imputato; erano invece un nuovo invito a ri­flettere ancora una volta che egli non poteva in coscienza pronunziare la sentenza capitale richiesta, e quindi l’imputato non poteva esser messo a morte perché gli accusatori non ne avevano facoltà. Gli accusatori penetrarono sottilmente nel pensiero del procuratore e con la loro replica, che si appellava alla Legge ebraica, attirarono il magistrato su un campo non suo, quello religioso, nel quale Roma era stata sempre rispettosissima con i sottoposti Giudei. In sostanza, essi fecero balenare a Pilato la minaccia che, se non avesse consentito alla pena capitale, egli sarebbe stato considerato come favoreggiatore di empi e di sacrileghi. Anche qui la narrazione dell’evangelista testimone non può essere sostituita: Quando pertanto Pilato udì questo discorso, s’impaurì an­che piu’. Ed entrò nuovamente nel pretorio e dice a Gesu’: “Donde sei tu?”. Probabilmente lo sconcertato Pilato s’aspettava dalla rispo­sta di Gesù qualche nuovo elemento per allargare e prolungare il processo e qualche nuova obiezione contro gli accusatori. Ma alla nuova domanda Gesù non rispose affatto. Gli dice dunque Pilato: «Non mi parli? Non sai che ho potestà di dimetterti e ho potestà di crocifiggerti?». Rispose Gesu’:”Non avresti nessuna potestà con­tro di me, se (ciò) non ti fosse stato dato dall’alto; per questo chi mi ha consegnato a te ha un maggior peccato”. Dopo questa risposta, Pilato si ritrovò del tutto solitario nella sua resistenza. L’imputato non gli offriva alcun aiuto per la sua propria salvezza, mentre i Giudei s’irrigidivano sempre più nel richiederne la condanna; egli, il procuratore, era sostenuto nella sua resistenza solo dalla convinzione che l’imputato era innocente e dal desiderio di non cedere ai Giudei, ma la prima ragione non aveva alcuna efficacia sugli accusatori e la seconda non doveva essere comunicata per prudenza ad essi. Egli quindi, titubante, non vedeva maniera di uscire da quella situazione pur non volendo cedere; il quale stato d’animo è riassunto dall’evangelista con quelle generiche parole: Da questo (momento) Pilato cercava di dimetterlo (Giov., 19, 2). Gli accusatori intravidero il pericolo, e per scongiurarlo ricorsero a un argomento che non poteva non essere efficacissimo sul procuratore; si dettero cioè a gridargli: Se dimetti costui, non sei amico di Ce­sare! Chiunque si fa re, contraddice a Cesare!

§ 595. Davanti a quel grido, Pilato, uomo di carne ed ossa, magi­strato romano ignaro di qualunque preoccupazione religiosa e solle­cito soltanto della sua posizione a Roma e della sua carriera poli­tica, non poteva rimaner titubante ancora per lungo tempo; tutta­via non era ancora disposto a cedere. Seccatissimo di vedersi sempre più sopraffatto dai quei suoi odiati sottoposti che strillavano come scimmie, irritato da tutto lo svolgimento del processo, sperò ancora una volta nell’ignoto e volle affron­tare direttamente la conclusione del processo parlamentando di nuovo con gli accusatori. Poco prima essi avevano minacciato di considerarlo come favoreggia­tore di empi e sacrileghi se avesse liberato Gesù. Ma l’imputato non si era forse proclamato re spirituale degli accusatori stessi? Egli, go­vernatore politico, non voleva entrare in questioni religiose; ma punto per questa ragione non poteva agire contro chi si attribuiva una sovreminenza che non aveva nulla di politico ed era puramente religiosa. Sapeva forse egli se, dietro l’imputato, non venisse una lun­ga schiera di seguaci una specie di confraternita come quella degli Esseni (§ 44) – dispostissmi ad accettare quella sua regalità reli­giosa? Poteva egli uccidere il capo di una confraternita puramente religiosa e poi mettersi a perseguitare tutti i membri? No: egli, da magistrato laico neutrale, era in obbligo di rispettare e di far ri­spettare la regalità religiosa dell’imputato. Quest’argomento, nel pen­siero di Pilato, poteva ancor salvare Gesù, ed egli vi fece ricorso co­me all’ultima speranza. Era l’ora quasi sesta (Giov., 19, 14), ossia un poco prima del nostro mezzogiorno. Prevedendo di venire a una conclusione e di pronun­ziare la sentenza finale, Pilato fece impiantare fuori del Lithostrotos, alla presenza degli accusatori, il suo “tribunale” con il seggio cu­rule (§ 577); quindi uscì fuori conducendosi appresso l’imputato, e seduto che fu sul seggio curule riapri la discussione. Additando Gesu’, egli esclamò: Ecco il vostro re! Che pensavano gli accusatori di que­sta regalità dell’imputato? Regalità politica certamente non era, co­me risultava indubbiamente al magistrato che se ne intendeva. Era regalità religiosa? Di ciò Pilato non s’intendeva e non voleva immi­schiarvisi. Gli rispondessero quindi gli accusatori. Le parole del procuratore sonarono per la folla come un sarcasmo; tutti risposero a gran voce: Togli via! Togli via! Crocifiggilo! Pilato insistette: Crocifiggerò il vostro re? La risposta questa volta fu da­ta, come espressamente ricorda l’evangelista testimone, dai sommi sacerdoti i quali gridarono: Non abbiamo re se non Cesare! Pilato si vide allora chiusa anche l’ultima strada. La regalità dell’im­putato non poteva essere presa suI serio né dal magistrato né dagli accusatori. Costoro, e precisamente i più insigni fra essi, non rico­noscevano alcuna regalità a Gesù e proclamavano di avere per re uni­co ed esclusivo il Cesare di Roma: evidentemente il rappresentante del Cesare di Roma non poteva esprimere un parere diverso, come per non urtare i sentimenti religiosi degli accusatori doveva croci­figgere quel falso re. Tale, a un dipresso, fu il ragionamento che Pilato dovette fare den­tro di sé: e allora, conclude l’evangelista, egli lo consegnò loro af­finché fosse crocifisso.

§ 596. Finalmente gli accusatori furono appagati; ma fu appagato anche un loro voto a cui li per li non dettero molto peso, sebbene storicamente avesse quasi tanta importanza quanto il loro preceden­te voto che il sangue di Gesù ricadesse sui lontani figli (§ 589). Per riuscire nel loro intento essi proclamarono di non aver re se non Cesare: e ciò proclamarono precisamente i sommi sacerdoti, i quali conoscevano le sacre Scritture ebraiche, e senza dubbio aveva­no letto ivi con quanta “gelosia” il Dio Jahvè teneva ad essere l’uni­co re di Israele e con quanta ritrosia aveva tollerato che fosse eletto un uomo come primo re israelita nella persona di Saul (I Samuele, 8); adesso invece quei rappresentanti ufficiali d’Israele, non solo non pensarono affatto al loro re divino, non solo non si rammentarono dei loro antichi re umani o dei loro superstiti discendenti, ma entu­siasticamente proclamarono loro re colui che si chiamava Tiberio Claudio Nerone Giulio Cesare, straniero di razza, incirconciso di car­ne, idolatra di spirito. Ebbene, furono appagati anche in questo: eb­bero effettivamente per re Tiberio e i suoi successori, i quali però esercitarono in pieno la loro sovranità solo un quarantennio più tar­di, allorché distrussero per sempre il Tempio, la città, e la nazione di cotesti loro sudditi. Lo storico odierno farà bene a riflettere anche su questi avvenimen­ti, tanto più che sono tali realtà storiche da non poter essere richia­mate in dubbio da nessuna teoria critica.

La crocifissione e la morte

§ 597. La sentenza oramai era stata data, e non restava che ese­guirla. Il rappresentante di Roma aveva inflitto seconda la richiesta degli accusatori una pena romana, poiché quando i Giudei avevano gri­dato a Pilato: Crocifiggi! Crocifiggi! avevano chiesto in realtà una pena che originariamente non era giudaica ma romana. Nell’impu­tazione di bestemmia fatta a Gesù nel Sinedrio la pena giudaica nor­male sarebbe stata la lapidazione, che difatti fu applicata a Stefa­no poco dopo; tuttavia la crocifissione, ai tempi di Gesù, era entrata già da molti anni negli usi del giudaismo palestinese, introdottavi al tempo delle sue prime relazioni con i Romani, e specialmente dal 63 av. Cr. quando Pompeo Magno espugnò Gerusalemme e dette un nuovo assetto politico a tutta la regione; prima di quell’epoca l’ebrai­smo aveva conosciuto l’impalamento, pena comunissima negli antichi imperi di Babilonia e d’Assiria e da così più tardi derivò la vera cro­cifissione. Ma anche nella Roma antica la crocifissione non era stata originaria bersì importata; prima che in Roma la crocifissione era praticata in Grecia, in Egitto e in molte altre regioni mediterranee, ove era stata diffusa probabilmente dai Fenici, arditi navigatori e in­stancabili commercianti. Roma ebbe sempre della crocifissione un vero spavento: è il meno che si possa dire, anche restringendosi alle frasi frasi impiegate da Cice­rone quando accenna ad essa nei suoi discorsi contro Verre la chiama ora “supplizio il più crudele e il più tetro”, ora “estremo e sommo supplizio della schiavitù”, o in altre maniere somiglianti. Era infatti la pena riservata ordinariamen­te agli schiavi, e solo per delitti assai gravi; tanto che lo schiavo era talvolta chiamato sarcasticamente “portatore di croce”, e uno di essi poteva esclamare comicamente: So che la croce sarà il mio sepolcro. Là sono collocati i miei antenati, padre, nonno, bi­snonno, trisnonno (Plauto, Miles gloriosus, 2, 4, 372-373). Nessun cittadino romano poteva essere legalmente crocifisso secondo l’opinio­ne di Cicerone, il quale esclama inorridito: Che un cittadino roma­no sia legato, è un misfatto; che sia percosso è un delitto; che sia ucciso, è quasi un parricidio; che dirò, dunque, se è appeso in croce? A cosa tanto nefanda non si può dare in nessun modo un appellativo sufficientemente degno! (In Verrem, II, 5, 66). Tuttavia, in linea di fatto, risulta che più d’una volta cittadini romani furono crocifissi; e anche in linea di diritto sembra che i liberti e taluni provinciali, sebbene cittadini romani, potessero ricevere questo estremo supplizio.

§ 598. Prescindendo da forme più antiche, la croce ai tempi di Gesù aveva le tre seguenti forme: la prima a sinistra era chiamata “croce immissa” o capitata, rife­rendosi al tratto più corto, quello superiore, che faceva da “capo”; la seconda era la “croce commissa”, ed era l’unica che avesse tre soli bracci essendo priva di “capo”; la terza, poco in uso, era la croce decussata o di sghembo, quella detta comunemente “croce di S. Andrea”.

Fra le due prime forme, la croce immissa ha molto maggiore probabilità della croce commissa di essere stata impiegata per Gesù (§ 606). In essa si distinguevano due parti il palo verticale, chiamato stipes o staticulum, da piantarsi in terra; e il palo orizzontale, chiamato patibulum o antenna,che soltanto in un secondo tempo si univa col palo verticale. Ma il palo verticale non era totalmente liscio e piano: verso la sua metà sporgeva un tozzo e robusto zoccolo, chia­mato alla greca pegma o alla latina sedile, su cui veniva a poggiarsi a cavalcioni il corpo del crocifisso; molto esattamente Giustino mar­tire e Tertulliano rassomigliano questa sporgenza a un corno in ge­nere e più particolarmente a quello del rinoceronte. Questo sostegno, del resto, era assolutamente necessario: sarebbe stato infatti impos­sibile che il corpo del condannato si reggesse sulla croce con i quattro chiodi soltanto, perché le mani trafitte si sarebbero strappate ben presto per lo sproporzionato peso, e la ragione è cosi evidente che artisti cristiani antichi raffigurarono la croce di Gesù con un suppe­daneum, su cui poggiano e sono inchiodati i piedi; questo suppeda­neum, di cui non esiste alcun accenno nei documenti antichi, è ar­cheologicamente falso e all’atto pratico neppure sarebbe bastato a so­stenere il corpo, tuttavia lo sbaglio archeologico dimostra la necessità del sedile, archeologicamente giusto.

§ 599. Pronunciata una sentenza di crocifissione, si preparava – se già non era pronto – il luogo dell’esecuzione piantandovi il palo ver­ticale o stipes, privo ancora di quello orizzontale. Il palo verticale ordinariamente non era alto infatti i piedi del condannato resta­vano sollevati dal terreno di solito per l’altezza d’un uomo o anche meno, e perciò l’intero palo non poteva essere più alto di 4 o 5 metri. Quanto al luogo, se ne sceglieva uno assai in vista e frequentato, per­ché si contava sull’effetto esemplare che lo spettacolo doveva produr­re su schiavi ed altri abietti individui punibili di croce; si preferiva­no perciò luoghi di gran transito, subito fuori di città ma vicino a qualche porta delle mura, e possibilmente framezzo a tombe ciò è quanto risulta, oltreché da altre testimonianze, anche dal beffardo racconto della matrona di Efeso di Petronio l’Arbitro (Satiricon, 111-112). A Roma, per esempio, il luogo ordinario delle crocifissioni era il Campus Esquilinus, subito fuori delle mura di Servio Tullio e vicino alla Porta Esquilina: in questo campus, corrispondente circa all’odierna piazza Vittorio Emanuele, erano anche mol­tissime tombe di patrizi e di schiavi; ivi in alto volteggiavano a frot­te i tetri uccelli dell’Esquihno ricordati da Orazio, attirativi dai ca­daveri dei crocifissi che rimanevano insepolti. La crocifissione era preceduta dalla flagellazione del condannato, la quale talvolta gli era inflitta lungo il cammino per recarsi al luogo del supplizio. Il condannato era affidato ai soldati, di solito quattro, comandati da un centurione che aveva l’ufficio di riscontrare la morte del crocefisso. Sulle spalle del condannato si poneva, e talvolta si legava, il palo orizzon­tale della croce; un servo di giustizia portava davanti a lui una tavoletta su cui era scritto in caratteri ben visibili il delitto del condannato che aveva motivato la sentenza: talvol­ta, invece, la tavoletta veniva appesa al collo del condannato stes­so. Avviatosi il corteo verso il luogo del supplizio, si passava a pre­ferenza per le strade più popolose e frequentate, dice in propositò Quintiliano), sempre per dar pubbli­cità all’esecuzione. Lungo il cammino il condannato, anche se non riceveva la flagella­zione, era fatto egualmente segno ad ogni sorta di ludibri da parte della plebaglia incuriosita e inferocita: il crocifiggendo non era più un uomo, ma un fuorilegge e un immondezzaio ambulante.

§ 600. Giunto sul luogo del supplizio, vicino al palo già piantato in terra, il condannato veniva spogliato delle sue vesti, se non era già nudo per aver ricevuto la flagellazione lungo la strada. La nudità to­tale del crocifiggendo era d’uso comune presso i Romani: può darsi tuttavia che, presso qualche popolo più riguardoso su questo punto, il condannato venisse ricoperto alla meglio per pudore col primo straccio che capitava Iì per lì sotto mano. Certamente i Giudei era­no più riguardosi dei Romani e quindi è probabile che la loro delicatezza fosse rispettata dai loro governan­ti: ma la cosa non è storicamente accertata. Così spogliato il condannato veniva disteso a terra supinamente, in modo che sotto di sé lungo le spalle e le braccia aperte avesse il pa­lo orizzontale della croce da lui portato: in tale posizione le mani venivano inchiodate al palo. Compiuto questo primo inchiodamen­to, il condannato – probabilmente per mezzo di una fune che lo ri­cingeva al petto e scorreva poi sull’estremità del palo verticale pian­tato in terra – veniva elevato sul palo verticale in modo da essere collocato a cavalcioni sul sedile. Soltanto se si ha presente l’insie­me di questa manovra si possono spiegare adeguatamente certe frasi usate spesso dagli scrittori romani, quali ascendere crucem, excurrere in crucem, inequitare cruci, o sarcasticamente requiescere in cruce; inoltre, che questa “ascesa” sulla croce fosse fatta dopo che il condannato era già parzialinente inchiodato è dimostrato fra altro dalla frase: patibulo suffixus, crudeliter in crucem erigitur (Fir­mico Materno), ove patibulum designa con esattezza tecnica il palo orizzontale. Sollevato il condannato in questa maniera, il palo orizzontale era congiunto con quello verticale per mezzo di chiodi o di corde; infine s’inchiodavano i piedi. Naturalmente per questa inchiodatura s’im­piegavano due chiodi, non uno solo come ha immaginato spessissi­mo l’arte cristiana, giacché i piedi per la posizione a cavalcioni presa dal condannato finivano per stare quasi ai due lati del palo verti­cale e non avrebbero potuto sovrapporsi l’uno su l’altro; quest’ultima inchiodatura si faceva facilmente dai carnefici ritti in terra, perché come vedemmo i piedi del crocifisso erano all’altezza di una persona.

§ 601. Ridotto in tale stato, il crocifisso aspettava la morte. Esposto qual era in un luogo frequentato, egli vedeva per ore e ore passare sotto di sé gente. d’ogni fatta: patrizi che non lo degnavano d’uno sguardo; bambini che s’incuriosivano del suo corpo livido e tumefatto; mercanti affaccendati che si soffermavano un momento di sfuggita; plebei e schiavi che si divertivano a spiare i segni delle sue sofferenze. Qualche segno di compassione poteva egli scorgere tutt’al più sul viso di qualche parente o di qualche vecchio complice di delitti che s’intrattenesse lì dappresso: ma era sempre una compassione sterile, perché i soldati che stavano di guardia ai piedi del crocifisso impedi­vano a chiunque di avvicinarsi per recare un sollievo qualsiasi; l’uni­ca cosa che potesse raggiungere quell’avanzo umano inchiodato sulla croce era la sassata lanciatagli da lontano per ludibrio dal monello o per vendetta dal rivale in furti. La morte poteva avvenire per dis­sanguamento, per febbre vulneraria, per gli strazi della fame e più ancora della sete, o per altre cause fisiologiche. Spesso non si faceva attendere molto, specialmente a causa della spossatezza prodotta dalla terribile flagellazione che aveva preceduto la crocifissione; ma spesso organismi più robusti resistevano giornate intere sulla croce, spegnendosi a poco a poco in una spaventosa agonia. Talvolta i carnefici acceleravano a bella posta la morte o producendo con un fuoco un denso fumo sotto la croce, o trapassando con un colpo di lancia il corpo del crocifisso, oppure praticandogli il “crurifragio” romano che consisteva nello spezzare i femori dell’agonizzante a colpi di dava. Avvenuta poi la morte, nei tempi più antichi il cadavere rimaneva ancora sulla croce fino alla decomposizione, e fino al totale scempio cbe ne facevano i cani saltando dal basso e gli uccelli calando dal­l’alto; invece, dai tempi circa d’Augusto, si concedeva ordinariamen­te il cadavere ad amici o parenti che l’avessero richiesto alle autorità per seppellirlo. Quanto si è visto fin qui erano le norme generali seguite per tutte le crocifissioni, e furono seguite anche per la crocifissione di Gesù.

§ 602 Quando il procuratore ebbe pronunziato la sentenza e fissatc il suo testo nella tavoletta (titulus; § 599), essa acquistò valore uffi­ciale: come doveva esser trascritta negli archivi del governo per ve­nir poi comunicata all’imperatore di Roma, così anche doveva esser subito eseguita. Del resto l’eseguire una sentenza di crocifissione ri­chiedeva pochi preparativi: un palo verticale stava sempre pronto sul luogo destinato a tale supplizio, o in caso diverso si piantava in pochi minuti; il palo orizzontale da addossare al condannato si pre­parava con pochi colpi d’ascia dati ad una trave qualunque; quindi non restava che radunare la scorta di soldati, affidarle il condannato, ed avviarsi al luogo stabilito. Anche il luogo scelto per la crocifissione di Gesù fu conforme alle nor­me già viste. A settentrione della città, appena fuori le mura, c’era una piccola sporgenza rocciosa, alta pochi metri dal terreno circo­stante: a causa dell’aspetto che aveva questo rialzo, la gente lo chia­mava pittorescamente il Cranio, ossia chi parlava latino diceva Cai­varia e chi parlava aramaico diceva Golgota (ebraico Gulgoleth). Per crocifissioni quel luogo era opportunissimo, giacché la sua piccola altezza bastava a mettere in piena vista il condannato, ed essendo a brevissima distanza da una porta della città passava là sotto molta gente: oltre a ciò, lì presso al Cranio, c’era una tomba e forse più d’una (§ 617), e anche questa circostanza s’accordava con la norma di crocifiggere in luoghi destinati a sepoltura. La città già dal secolo i dopo Cr. si è estesa continuamente verso settentrione, e le radicali trasformazioni ch’essa ha ricevuto nel seco­lo Il hanno fatto scomparire sia il rialzo del Cranio, sia le vicine mura della città e il fossato che le separava dal Cranio i lavori fatti nel secolo IV da Costantino per la costruzione della basilica del Santo Sepolcro livellarono anche più tutta l’area, salvo una piccola porzione del Cranio incorporata e racchiusa nella costruzione. Tut­tavia il nome del rialzo, con la tenacia caratteristica alla toponomastica orientale, si è conservato ancora: pochi anni fa esso è stato sorpreso, sotto la forma araba di Ras (« testa »), nel linguaggio di vecchi indigeni del quartiere per designare la zona circostante alla basilica. Questo era il luogo a cui fu avviato Gesù per esservi crocifisso. Dal punto di partenza, ch’era la fortezza Antonia, il cammino non sarebbe stato lungo perché anche a quei tempi non poteva superare un chilometro seguendo la via più breve; tuttavia non solo quel giorno le strade erano affollatissime per la solennità pasquale, ma probabil­mente si segùirono a bella posta le vie più lunghe e frequentate per la norma già vista di dare la massima pubblicità all’esecuzione. I più interessati a ciò erano i sommi sacerdoti e gli altri Sinedristi, che seguivano trionfanti il condannato e non si sarebbero lasciata sfug­gire l’occasione di prolungare davanti alla folla il trionfo di se stessi e l’umiliazione di lui.

§ 603. Tuttavia anch’essi ebbero, fin da principio, una grave ama­rezza. Per recarsi al luogo del supplizio il corteo fu formato dai sol­dati di scorta, dal principale condannato ch’era Gesù, e da due altri condannati i quali erano due volgari ladroni e per quell’occasione venivano condotti al supplizio; ogni condannato era accompagnato regolarmente dalla sua tavoletta, la quale proclamava pubblicamente il delitto da lui commesso. La tavoletta di Gesù era scritta nelle tre lingue più impiegate nella regione, ossia in ebraico (aramaico), greco e latino, e mostrava in sostanza (§ 122) questo testo dettato da Pilato stesso: Gesu’ il Nazareno, il re dei Giudei. I vigili Sinedristi lessero fugacemente questo testo lungo il cammino, e anche più nitidamen­te lo contemplarono quando la tavoletta fu apposta sulla croce di Gesù; da accurati giuristi quali erano, essi vi riscontrarono un enor­me errore: quel condannato veniva crocifisso non già perché fosse il re dei Giudei, come sembrava risultare dalla tavoletta, ma perché si era proclamato il re dei Giudei senza essere effettivamente tale. Punti sul vivo, essi corsero solleciti dal procuratore e con molta pre­mura gli fecero rilevare l’errore, che doveva assolutamente essere cor­retto nell’interesse stesso del governo: il buon popolo poteva offen­dersi a leggere in un documento ufficiale ch’era stato crocifisso il re dei Giudei, tanto più che un’ora prima quello stesso devotissimo po­polo aveva dichiarato pubblicamente e solennemente di riconoscere per suo unico ed amato re il Cesare di Roma (§ 595). Dicevano pertanto a Pilato i sommi sacerdoti dei Giudei: « Non scri­vere – Il re dei Giudei – bensì che egli disse – Sono re dei Giudei ». Rispose Pilato:”Quel che ho scritto ho scritto” (Giov., 19, 21-22). Pi lato ritrovava in parte il suo carattere; adesso che non aveva più paura di denunzie a Roma, si vendicava della sconfitta ricevuta e rispondeva con la scontrosità e il dispetto alle esibizioni di lealismo politico fattegli dai Sinedristi. E questa fu la prima amarezza provata dai trionfatori; i quali in tutto quel giorno, a rileggere la tavoletta ufficiale redatta dal rappresen­tante di Cesare, si sentirono ripetere dallo scritto di lui che Gesù moriva in croce perché era effettivamente il re dei Giudei.

§ 604. Partito dall’Antonia, il corteo avanzava con lentezza lungo le vie affollate della città festante. Molti di coloro che avevano formato la turba vociante davanti al pretorio, dovevano essere tornati alle loro case per fare i preparativi della cena pasquale i Sinedristi, non avendo più bisogno delle loro grida, li avevano rimandati liberi. Tut­tavia parecchi maggiorenti seguirono il corteo, per esser sicuri che tutto procedesse bene e si venisse una buona volta alla conclusione finale. I lazzi e i sarcasmi che la plebaglia riserbava ai condannati non mancarono certamente lungo la strada, ma i ludibri più squisi­tamente feroci furono indirizzati a colui che il gesto sprezzante dei inaggiorenti additava a preferenza alla ferocia del volgo: il Rabbi galileo, molto più che i due ladroni, era degno di quegli osceni dileggi. Gesù, caricato del palo trasversale, camminava a stento. Si era sul mezzogiorno (§ 595), e da prima della mezzanotte egli era passato attraverso un’incessante serie di prove fisiche e morali d’incompara­bile violenza: prima l’amoroso e doloroso congedo dagli Apostoli nel cenacolo, poi il Gethsemani, quindi l’arresto, il processo davanti al Sinedrio, i ludibri in casa di Caifa, il processo davanti a Pilato, infi­ne la spaventosa flagellazione, gli avevano tolto ogni residuo di forze. Sotto il peso della trave egli vacillava, incespicava ad ogni passo, po­teva stramazzare da un momento all’altro per non rialzarsi più. Il centurione che comandava la scorta s’impensierì di questo fatto, il quale poteva far sì che il compito a lui affidato o non fosse condotto a termine oppure subisse un ritardo enorme che gli sarebbe stato rini­proverato. E allora ricorse al ripiego della “requisizione”, che già conosciamo (§ 327, nota prima). Si trovò a passare a caso di là un certo Simone di Cirene, che Marco ama segnalare ai suoi lettori di Roma come podre di Alessandro e di Rufo (§ 133); veniva egli dalla campagna, ove certamente era stato a lavorare (§ 537), ed era indirizzato a casa sua; ma il centurio­ne, data la necessità, lo “requisi” e gli comandò di portare il palo che Gesù non poteva più portare. Nulla c’induce a credere che que­sto Simone conoscesse Gesù o gli fosse discepolo, e quindi l’ordine ri­cevuto dovette essere tutt’altro che gradito al “requisito”: se però suo figlio Rufo diventò più tardi persona insigne nella cristianità di Roma e se la stessa moglie di Simone fu chiamata da Paolo per venerazione col nome di madre (§ 133), si può condudere che il servi­zio prestato a malincuore a Gesù produsse, in maniera a noi scono­sciuta, ottimi effetti.

§ 605. Ma Simone non fu il solo ad aiutare Gesù: un altro conforto, questa volta spontaneo, gli venne da donne e chi lo racconta è il solo Luca, l’evangelista della pietà femminile (§144). Forse proprio quan­do Gesù fu scaricato del palo e si raddrizzò un pochino rinfrancato, scorse fra la moltitudine ostile od oziosa che lo seguiva anche un gruppo di donne che facevano cordoglio su lui piangendo e lamentan­dosi: erano figlie di Gerusalemme, cioè cittadine della capitale, sebbene con esse si fossero potute unire talune di quelle donne galilee che seguivano ordinariamente Gesù (§ 343). Da una notizia rabbinica (Sahnedrin, 43 a) sembrerebbe risultare che si era formata in Ge­rusalemme come una pietosa associazione di nobili donne per assistere in qualche modo i condannati a morte, in particolare somministran­do loro liberalmente del vino con un po d’incenso mescolatovi den­tro, ch’era stimata bevanda stupefacente e anestetica: forse quelle gerosolimitane che andarono incontro a Gesù appartenevano a tale associazione, e anche più cordialmente avranno compiuto l’atto beni­gno se già conoscevano almeno di fama Gesù. La loro pietà fu contraccambiata da Gesù con pietà di egual genere. Spingendo nuovamente lo sguardo verso la prossima distruzione di Gerusalemme (§§ 454, 526), Gesù contemplò lo strazio che avrebbero sofferto le donne e le madri durante quella catastrofe, e si accomunò per pietà al dolore materno preammonendone le future vittime; per­ciò disse alle sue consolatrici: Figlie di Gerusalemme, non piangete su me, piuttosto su voi stesse piangete e sui vostri figli, perché ecco vengono giorni in cui si dirà:”Beate le sterili, e i ventri che non generarono e le mammelle che non nutrirono!”. Allora si a dire alle montagne: « Cadete su noi! » e alle colline: « Ricopriteci! » (cfr. Osea, 10, 8). Poiché se in un legno umido si fanno queste cose, in quello secco che avverrà? (Luca, 23, 28-31). Se nel condan­nato innocente avvenivano quei fatti che le pie donne deploravano in quel giorno, che cosa sarebbe avvenuto un quarantennio più tardi quando la catastrofe di Gerusalemme avrebbe travolto una nazione peccatrice, un popolo aggravato d’iniquità, una stirpe di malvagi, figli di perdizione, come si era espresso Isaia (1, 4)? Quando il corteo giunse al luogo del Cranio si procedette senz’altro alla crocifissione dei condannati. A Gesù, e certamente anche ai due ladroni, fu offerto del vino mescolato con mirra ch’era giudicato adatto a intorpidire i sensi; ma egli appena vi ebbe apposte le lab­bra lo rifiutò, volendo con piena coscienza bere fino all’ultima goccia il calice assegnatogli dal Padre celeste.

§ 606. Quindi tutti e tre furono spogliati delle loro vesti; è possihile, per le ragioni gia viste, che si lasciasse un piccolo riparo al loro pudo­re (§ 600). Le vesti dei crocifissi erano un provento dei soldati di guardia, che se le spartivano fra loro. Così fecero anche quella volta con Gesù, e il testimone oculare è in grado di narrare esattamente come avvenne la spartizione. Gli indumenti usuali di un giudeo erano formati da due principali capi di vestiario: l’indumento esterno o mantello e quello interno o tunica. Il mantello era formato da più pezze di stoffa cucite insieme: la tunica invece poteva essere priva di cuci­ture perché intessuta dall’alto in basso tutta d’un pezzo: tale era il caso della tunica del sommo sacerdote di cui parla Flavio Giuseppe (Antichità giud., II, 161), e tale fu il caso della tunica di Gesù. I soldati pertanto, quand’ebbero crocifisso Gesu’, presero le vesti di lui e (ne) fecero quattro parti, una parte per ciascun sol­dato, e (presero) la tunica. Ma la tunica era priva di cuciture, intessuta dall’alto d’un pezzo. Dissero pertanto fra di loro:” Non la dividiamo, ma tiriamola a sorte di chi sarà” (Giov., 19, 23-24). Il mantello infatti poteva, senza grave scapito, esser di­viso lungo le sue cuciture; ma la tunica tutta d’un pezzo, avrebbe perduto la massima parte del suo pregio, qualora fosse stata tagliata in quattro parti. Perciò i soldati s’accordarono nell’assegnarla a chi di loro fosse stato favorito dai dadi, che essi avevano por­tati con sé per ingannare le ore di guardia alle tre croci. Ma in ciò che fecero allora i soldati, l’evangelista scorge l’avveramento della profezia messianica contenuta nel Salmo 22, 19 (ebr.) che dice:”Si spartirono i miei indumenti fra loro, e sulla mia veste gettarono la sorte”. Spogliato delle vesti, Gesù fu disteso a terra. Le sue braccia furono allungate sopra il palo da lui portato: ivi furono inchiodate le sue mani. Così confitto a metà, il suo corpo fu innalza­to sul palo verticale già piantato in terra: lassù fu collocato a cavaI­cioni sul sostegno (sedile). Infine furono inchiodati i piedi (§ 600). La sua croce stava nel mezzo; ai due lati quelle dei due ladroni. Sulla sua croce fu apposta la tavoletta di condanna; se essa fu collocata – come sembra risultare da Matteo, 27, 37 – sulla cima del palo verti­cale, la croce era immissa e non commissa (§ 598). Le operazioni della crocifissione terminarono quando il mezzogiorno era passato di poco.

§ 607. Su quest’ultimo punto sembrerebbe che vi fosse contraddizio­ne fra quanto dice Giovanni, che Pilato pronunziò la condanna all’ora quasi sesta ossia un poco prima del nostro mezzogiorno (§ 595), e quanto dice Marco (15, 25): Era l’ora terza e lo crocifissero. Varie ipotesi furono proposte per concordare queste due notizie. Già S. Girolamo, seguito da alcuni moderni, suppose che nella trasmis­sione dei due numeri espressi in greco con le lettere dell’alfabeto fosse incorso per colpa degli amanuensi uno scambio fra la lettera gamma (I’, che esprimeva il 3) e la lettera digamma (F, che espri­meva il 6): perciò in Marco bisognerebbe leggere “ora sesta” appun­to come in Giovanni; senonché questa soluzione, che dal punto di vista paleografico è astrattamente possibile, dal punto di vista documentario non è in alcun modo suffragata dai codici. – Altri studiosi supposero che Giovanni conti le ore a cominciare dalla mezzanotte secondo la computazione civile degli Occidentali, e che invece Marco conti a cominciare dalle prime luci dell’alba secondo la computazione degli Orientali; ma anche questa soluzione ha guadagnato pochi se­guaci perché, oltre il resto, si aspetterebbe che appunto Marco il qua­le scriveva a Roma seguisse la computazione occidentale, e Giovanni invece quella orientale perché scriveva in Oriente. La soluzione più ragionevole sembra pertanto quella che si riporta ai tempi e alle usan­ze del paese. Il tempo dall’alba al tramonto era diviso in 12 ore (di ampiezza variabile a seconda delle stagioni), ma questa divisione era più teorica che pratica; in paesi come la Giudea, ove gli strumenti meccanici per misurare il tempo erano estremamente rari, la gente si regolava di solito con l’osservazione della luce solare, e perciò aveva finito col raggruppare le 12 ore diurne in quattro periodi che di­videvano la giornata solare in quattro parti uguali, due prima del mezzogiorno e due dopo: ogni periodo infatti, essendo più lungo del­la singola ora, aveva il vantaggio di distinguersi assai più facilmente per l’intensità della luce solare dal periodo vicino. Cosicché dall’alba fino alle nostre ore 9 antimeridiane correva sempre il mattino o il periodo dell’ora prima; dalle nostre 9 antimeridiane fino al mezzo­giorno correva il periodo dell’ora terza; dal mezzogiorno fino alle nostre 3 pomeridiane correva il periodo dell’ora sesta; dalle nostre 3 pomeridiane fino al tramonto correva il periodo dell’ora nona. Ra­rissimamente i Sinottici escono da questa denominazione (Matteo, 20,1-6); Giovanni invece più facilmente nomina altre delle 12 ore in­tennedie (Gion., 1, 39; 4, 6.52; 11, 9), ma fa ciò perché vuole come al solito precisare, e quindi abbandona gli ampi gruppi o periodi di ore e nomina le singole ore numericamente. Secondo ogni verosimi­glianza la discordia fra Marco e Giovanni riguardo all’ora della crc­cifissione di Gesù consiste tutta in questo: che Marco parla dell’ora terza in quanto gruppo o periodo di ore, il quale perciò s’estendeva fino all’ora sesta ossia al mezzogiorno, mentre Giovanni intende l’ora sesta numericamente ossia il preciso mezzogiorno. § 608. Mentre si svolgevano le operazioni della crocifissione Gesù serbò, a quanto sembra, un silenzio assoluto: il suo corpo sfigurato e disfatto non racchiudeva quasi più energia fisica, la sua mente era assorta nel pensiero del Padre celeste a cui stava offrendo il sacrificio di se stesso. Tuttavia la prima frase da lui pronunziata, che ci venga trasmessa, è un pensiero che pur rivolgendosi al Padre nei cieli si preoccupa di quei che stanno giù in terra attorno a lui; forse proprio mentre gli inchiodavano le mani o i piedi egli esclamò: Padre, per­dona ad essi, perché non sanno che cosa fanno! (Luca, 23, 34). i loro a cui s’invoca quel perdono non sono tanto gl’incoscienti soldati che martellano sui chiodi, quanto quegli altri che scientemente ave­vano predisposto tutto affinché accadesse quanto stava accadendo. Anche a quegli altri Gesù impartisce il suo perdono e implora quello del Padre, perché non sanno adesso ciò che dapprima hanno rifiutato di sapere: la conseguenza della colpa passata è addotta benignamen­te a scusa del delitto presente. Innalzato che fu sul palo verticale Gesu’ continuò a guardare con gli occhi languenti, ma ancora penetranti, ciò che avveniva in basso e a fianco a lui. In basso i sommi sacerdoti e gli altri Sinedristi s’in­trattenevano da trionfatori; veramente sarebbe stato più urgente per essi tornare alle loro case, onde sorvegliare da buoni Israeliti gli ultimi preparativi per la cena pasquale; tuttavia preferivano rimandare sempre più il ritorno, per trattenersi ancora un poco gioiosi e gongolanti sul posto del loro trionfo. Passavano essi e ripassavano sotto le tre croci: ora lanciavano oc­chiate sdegnose alla croce di mezzo; ora l’additavano sprezzanti a gente di loro conoscenza che passava là sotto, e poi con le mani die­tro la schiena si piantavano in faccia a quel crocifisso e l’apostrofavano direttamente: Ohe’! Quello che demolisce il santuario e in tre giorni (lo) ricostruisce! Salva te stesso, se sei figlio d’iddio, e discendi dalla croce! La gente, intimidita dall’autorità di chi l’aveva fermata, ripeteva l’apostrofe e rinnovava le beffe. Altri Sinedristi invece preferivano un argomento ad hominem, che insieme voleva essere un’apologia del proprio operato: Salvò altri; se stesso non può salvare! E’ re d’israele: discenda adesso dalla croce e crederemo in lui! Ha confidato in Dio, (Dio lo) liberi adesso se si compiace in lui (cfr. Salmo 22, 9 ebr.). Disse infatti: “Sono figlio di Dio!”. Ma da quella croce non scese né l’apostrofato né una risposta qualsiasi, perché ambedue le discese sarebbero state inutili per gli apostrofanti.

§ 609. A fianco a Gesù stavano i due ladroni crocifissi, e anche di qui partivano ingiurie. Matteo e Marco parlano al plurale, di ladroni che ingiuriavano: ma è un “plurale di categoria” (cfr. § 625, nota), per significare che ingiurie partivano anche dalla categoria dei ladroni senza precisare se faceva ciò l’intera categoria o solo una sua parte. Luca invece precisa, e dice che uno solo ingiuriava mentre l’altro si raccomandava. Il ladrone che ingiuriava, forse per ottenere una qualsiasi rivincita in quello sfacelo della propria esistenza, forse per vendicarsi di una vaga speranza svanita, ripeteva verso Gesù: Non sei tu il Cristo (Messia)? Salva te stesso e noi! Ma l’altro ladrone non condivideva tali sentimenti, anzi ne rimproverava il compagno ripetendogli: Nemmeno temi iddio tu, giacché sei nella medesima condanna? E noi poi giustamente, poiché riceviamo cose degne di quanto facemmo; ma costui non fece nulla di male. La forza del rimprovero è su quei temi, a cui si riferisce il nemmeno; se non hai riverenza per Iddio, abbi almeno timore giacché subi­sci la medesima pena di Gesù innocente. Probabilmente il buon ladro­ne conosceva di fama Gesù di Nazareth e aveva inteso parlare della sua bontà, dei suoi miracoli e del regno di Dio da lui predicato: certamente poi aveva, nonostante i suoi misfatti, un residuo di coscienza onesta. Nell’imminenza della morte quel residuo riaffiora e ricopre tutto il passato; il morituro si aggrappa all’unica speranza che gli resta e che è rappresentata da quel giusto ingiustamente ucciso. Ri­volgendosi allora a lui gli dice: Gesu’, ricòrdati di me quando (tu) venga nel tuo regno, ossia quando verrai gloriosamente regnante in quel regno da te annunziato. Gesù gli risponde: in verita’ ti dico, oggi sarai con me nel paradiso. Sebbene non sia facile determinare con precisione il senso che si dava al termine “paradiso” ai tempi di Gesù, è certo che designa la dimora delle anime giuste dopo morte, analogo perciò al seno di Abramo (§ 472).

§ 610. Fra le persone che Gesù vedeva dall’alto della croce solo un piccolo gruppo, che stava a pochi passi da lui, gli dava qualche con­forto. Ma era poi un conforto, e non piuttosto un aumento di dolore? Il gruppo infatti era formato da persone familiari od amiche, a cui la legge romana non proibiva di assistere allo spettacolo, purché non si avvicinassero ad offrire soccorsi al crocifisso che sarebbero stati im­pediti dai soldati di guardia. I nomi di questo piccolo gruppo più vicino alla croce ci sono stati trasmessi dal testimonio oculare, il qua­le tuttavia tralascia il suo proprio nome designandosi come il disce­polo che (Gesu’) amava (§ 155); oltre a Giovanni, dunque, facevano parte di questo gruppo la madre di lui (Gesù), e la sorella della ma­dre di lui, Maria di Cleofa (Alfeo), e Maria la Magdalena (Giov., 19, 25). Alla loro volta i Sinottici, dopo aver narrato la morte di Gesù, ricordano che era presente un altro gruppo, più numeroso ma più lontano, formato di donne che piangevano e si lamentavano: era­no le donne che avevano assistito Gesù nel suo ministero (§ 343) e l’avevano seguito dalla Galilea a Gerusalemme (Matteo, 27, 55-56; Marco, 15, 40-41). Fra le donne di questo secondo gruppo sono nomi­nate Maria la Magdalena (come nel primo gruppo), Maria la madre di Giacomo il Minore (§ 313) e di Giuseppe (e anche questa Maria appare nel primo gruppo come Maria di Cleofa, inoltre una Salome e la madre dei figli di Zebedeo (§ 496), e queste due ultime sono una stessa persona. Che almeno due donne siano nominate in ambedue i gruppi non fa meraviglia, perché è diverso il momento in cui ciascun gruppo è nominato cioè prima della morte di Gesù il gruppo piu’ vicino, e dopo la morte quello più lontano – e talune potevano esser passate nel frattempo da un gruppo all’altro. Nel gruppo più vicino stava dunque, insieme al discepolo prediletto, la madre di Gesù. Era un conforto quella vista per il crocifisso? Come a lei era impedito dai soldati di avvicinarsi a lui, così a lui i chiodi impedivano ogni gesto verso di lei. Potevano comunicare fra loro solo con lo sguardo: a Maria la voce era impedita dal pianto, a Gesù dall’estrema debolezza. La madre guardava il figlio, e forse pen­sava che quelle membra si erano formate nel seno di lei in maniera unica al mondo, mentre adesso erano divenute oggetto di sommo spavento: il figlio guardava la madre, e forse pensava che quella donna era stata proclamata benedetta fra le donne, mentre adesso era divenuta oggetto di somma pietà. Ma ad un certo punto il crocifisso, raccolte alquanto le forze e accennando alla madre con la testa, dis­se: Donna (§ 283), ecco il tuo figlio; poi accennando al discepolo prediletto: Ecco la tua madre. In questo suo testamento il morituro univa per sempre i suoi più grandi amori terreni, la donna di Beth-lehem e il giovane che aveva sentito battere il cuore di lui nell’ultima cena. Da quel giorno Giovanni prese in casa sua Maria (§ 156).

§ 611. Il crocifisso declinava rapidamente. Attorno a lui, all’improv­viso, cominciò a declinare anche la luce solare: dall’ora sesta si fece tenebra su tutta la terra fino all’ora nona (Matteo, 27, 45), ossia dal mezzogiorno alle tre pomeridiane. L’espressione tutta la terra designa qui la Giudea, come altre volte nella Bibbia ebraica. In che maniera avvenisse questo oscuramento del giorno, non è detto: certamente non fu un’eclisse solare, la quale non può avvenire du­rante il plenilunio in cui allora si stava. Ciò era già stato osservato nell’antichità da Origene, Girolamo e Giovanni Crisostomo; è vero che lo pseudo Dionigi Areopagita narrò d’aver assistito egli stesso in Eliopoli all’oscuramento di tutto il mondo per la morte di Gesù, e spiegò quell’oscuramento con un moto anormale della luna che avreli­be retroceduto per collocarsi davanti al sole (Epist. vii, ad Polycar­pum); ma la sua narrazione è pura fantasia, perché oggi è assicurato che questo ignoto autore non ha scritto prima del secolo v, e la sua spiegazione ha il torto di non conoscere le sensate osservazioni dei precedenti scrittori accennati. Anche l’eclisse segnalata da Flegone, liberto d’Adriano, e ricordata da qualche Padre (Origene, Contra Celsum, II, 33), sarebbe avvenuta l’anno 32, e quindi non può entrare in discussione. Senza dubbio gli evangelisti intendono questo oscu­ramento come un fatto miracoloso avvenuto per la morte di Gesù,in corrispondenza con i segni miracolosi che avevano accompagnato la sua nascita: ma se l’oscuramento fosse prodotto da densa nuvolaglia che intercettasse la luce o in altra maniera, non è possibile dire. In quell’oscurità della natura fisica Gesù si andò man mano spegnen­do in una agonia durata circa tre ore sulla quale gli evangelisti sten­dono un velo di riverente mistero. Il corpo perdeva incessantemente sangue e forza vitale attraverso gli squarci delle mani e dei piedi e attraverso le vaste lacerazioni prodotte dalla flagellazione: il capo era crivellato dalle punture delle spine; nessun muscolo trovava ripo­so nella posizione sulla croce. I tormenti si accavallavano e s’accre­scevano sempre più atroci, senza un istante di requie. In quel tenebroso oceano di spasimi solo la più alta vetta dell’anima era serena, sublimata nella contemplazione del Padre. L’agonizzante era in silenzio.

§ 612. A un tratto, vicino all’ora nona, Gesù gettò un alto grido dicendo in aramaico: “Eli’, Eli’, lema’ shebaqtani”. Più che un’esclama­zione in proprio, queste parole erano una citazione: esse costituiscono l’inizio del Salmo 22 ebr., e precisamente secondo la versione ara­maica del Targum significano, co­me aggiungono in greco anche Matteo e Marco, Dio mio, Dio mio, perché mi abbandonasti? Essendo una citazione, il loro senso pieno è dato dall’intera composizione di cui sono l’inizio. Quel salmo infatti si riferisce al futuro Messia, di cui preannunzia i supremi dolori, e Ge­sù recitandone l’inizio sulla sua croce intendeva applicarlo a se stesso. L’antico salmo, fra l’altro, aveva detto: Dio mio, Dio mio, perché mi abbandonasti? Lungi dalla mia salvezza sono gli accenti del mio lamento. Dio mio! Grido di giorno, e non rispondi, pur di notte, né v’ha requie per me! io sono un verme, e non un uomo, obbrobrio della gente e spregiato dal volgo. Tutti quei che mi vedono si fan beffa di me, spalancan le labbra, scuotono il capo (esclamando):”Si rivolga a Jahvè”: Egli lo scampi, Egli lo salvi, perché di lui si compiace!”. Si, m’han circondato dei cani, un’accolta di malvagi m’hanno attorniato, hanno forato le mie mani e i miei piedi, io posso contare tutte le mie ossa. Essi mi rimirano, mi guardano, si spartiscono i miei indumenti fra loro e sulla mia veste gettano la sorte. Gesù dunque, affermando nuovamentte con la sua esclamazione di essere il Messia, ne offriva una nuova prova nel confronto fra la pro­fezia citata e l’avveramento di essa ch’egli mostrava in se stesso. Ma appunto le prime parole dell’esclamazione, “Elì, Elì” dettero oc­casione ad un equivoco. I dotti Scribi presenti vi riconobbero certa­mente la citazione del salmo; non così altri meno esperti, i quali intesero quelle parole come un’invocazione all’antico profeta Elia (§ 404), seppure non finsero d’intenderle in quella maniera per beffeggia­re ancora una volta l’agonizzante quasicché fosse entrato in delirio. Cominciarono ad esclamare, tra incuriositi e sarcastici : Guarda! Co­stui invoca Elia!

§ 613. Nell’attesa, il crocifisso pronunciò un’altra parola: Ho sete! L’arsura, nelle condizioni di dissanguamento e di spossatezza in cui si trovava Gesù, era un fatto naturalissimo. Ma non consisteva tutto qui; infatti il salmo testé citato da Gesù aveva anche detto: inaridito come coccio il mio palato, e la mia lingua s’e’ attaccata alle mie fauci! Anche la sete, dunque, entrava nella visione del Messia sofferente; e perciò Giovanni (19, 28) fa rilevare che Gesù, affinchè s’adempisse la Scrittura, disse:”Ho sete!”.La suprema implorazione dell’agonizzante trovò questa volta un cuore pietoso disposto ad accoglierla: fu certamente uno dei soldati di guardia alle croci. I soldati romani usavano dissetarsi, in mancanza di meglio, con una mescolanza di acqua ed aceto ch’è usata spesso anche oggi dai mietitori delle nostre campagne: anche il suo nome latino, posca, è tuttora superstite nel contado d’alcune regioni ita­liane. Prevedendo una lunga guardia ai piedi delle croci, quei sol­dati si erano provvisti portando con sé un vaso di posca. Udendo l’implorazione del crocifisso, uno di essi inzuppò di posca una spugna e mettendola in cima a un’asta l’appressò alle labbra dell’assetato. L’azione del soldato non piacque a coloro che avevano parlato di Elia, i quali perciò lo dissuadevano esclamando: Lascia: vediamo se viene Elia a salvarlo! (Matteo, 27, 49). Nel pensiero di costoro Elia, come salvatore, avrebbe provveduto a estinguere la sete del sal­vato. Sembra poi che la stessa esclamazione fosse ripetuta dal solda­to, in risposta a coloro che lo dissuadevano (Marco, 15, 36) La­sciate, stiamo a vedere, se venga Elia a distaccarlo), quasi per mo­strare che piuttosto era bene confortare il crocifisso in attesa della venuta di Elia. Gesù, che qualche ora prima aveva rifiutato il vino mirrato, adesso succhiò dalla spugna il liquido. Con particolare intenzione gli evan­gelisti chiamano quel liquido aceto, mirando essi al passo del Salmo 69, 22 (ebr.) che dice: Nella mia sete mi fecero bere aceto (cfr. § 605, nota). Quand’ebbe succhiato la posca, mormorò: E finito! Poco tempo più tardi l’agonizzante ebbe come un fremito; lanciò un alto grido; esclamò: Padre, nelle tue mani commetto il mio spirito! (cfr. Salmo 31, 6 ebr.). Quindi abbassò il capo. Era morto.

§ 614. Nella città ottenebrata avvennero in quel momento fatti stra­ordinari. Nell’interno del Tempio pendevano due grandi cortine ri­camate: una più esterna (masak) che separava il vestibolo dal « san­to » e un’altra più interna (paroketh) che separava il « santo » dal « santo dei santi » (§ 47); servivano da memoriale, rammentando l’inaccessibilità e invisibilità del Dio che dimorava nel « santo dei santi ». Sull’ora nona, quando moriva Gesù, una di queste cortine (probabilmente la più interna) si scisse in due parti dall’alto in basso, quasicché volesse significare che il suo ufficio era finito essendo abolita l’inaccessibilità del Dio invisibile. Avvennero anche scosse telluriche, le rocce si spaccarono, e le tombe s’aprirono, e molti corpi dei santi addormentati si ridestarono: e usci­ti dalle tombe dopo la resurrezione di lui entrarono nella città santa e apparvero a molti (Matteo, 27, 51-53). Questa resurrezione dei de­funti è narrata qui in anticipo, e sembra essere avvenuta dopo la re­surrezione di Gesù con cui è collegata. Quale conseguenza dello scon­volgimento tellurico, si mostrava già nel secolo iv (Luciano martire, Cirillo di Gerusalemme) una fenditura visibile ancora oggi lungo la parte rocciosa del Cranio incorporata nella basilica del Santo Sepol­cro: questa fenditura è lunga circa metri 1,70 e larga 0,25 e contra­riamente alle solite spaccature sismiche che corrono lungo le vena­ture della roccia corre trasversalmente ad esse. Il centurione e i soldati di guardia, al vedere sia i fenomeni straordinari che accompagnavano quella morte sia la maniera calma e insolitamente rapida in cui era avvenuta, ripensarono al contegno sin­golare tenuto da Gesù durante il processo, e mettendo le due cose in relazione fra loro si convinsero che un imputato di quel genere era non solo innocente ma anche persona straordinaria; cominciarono quindi ad esclamare: Realmente quest’uomo era giusto (Luca, 23, 47), e con particolare riguardo all’imputazione contestata a Gesù: Veramente quest’uomo era figlio di Dio (Marco, 15, 39). Anche la folla mutò contegno. Appena morto Gesù, i Sinedristi che avevano spadroneggiato da trionfatori sotto la croce di lui non ave­vano più nulla da temere, almeno per il momento, e quindi se ne andarono alle loro case a preparare la cena pasquale; perciò la folla non ebbe più chi le suggeriva imperiosamente lazzi e schemi contro il crocifisso, e libera così da timore reverenziale poté manifestare i propri sentimenti. Anche su di essa fecero impressione il giorno ot­tenebratosi e la terra sussultante, e ripensando a quanto era avvenuto nel processo si allontanava man mano dalla croce battendosi il petto (Luca, 23, 48). I due gruppi di persone familiari o amiche di Gesù – il gruppo vicino alla croce e quello lontano – ricevettero mutamenti dopo la morte di Gesù, passando alcune persone da un gruppo all’altro (§ 610).

§ 615. I Sinedristi, mentre tornavano alle loro case, ripensarono a una prescrizione legale: essi ripetevano a se stessi di aver compiuto una santissima azione facendo crocifiggere Gesù, ma quella santità non sarebbe stata perfetta se la salma del crocifisso fosse rimasta ap­pesa ed esposta anche durante la notte seguente; no, doveva essere calata dal patibolo e seppellita quel pomeriggio stesso prima del tra­monto come prescriveva la Legge (Deuteronomio, 21, 23), tanto più che col tramonto cominciava la solennissima Pasqua. Essi perciò, stra­da facendo, si recarono dal procuratore e l’invitarono ad osservare questa prescrizione suggerendogli anche la maniera più semplice: ba­stava praticare sui crocifissi il “crurifragio” (§ 601), e con ciò in pochi minuti tutti e tre sarebbero stati pronti per la sepoltura. Senonché l’invito dei Sinedristi fu quasi contemporaneo ad un altro invito rivolto al procuratore egualmente da un Sinedrista. La morte di Gesù aveva avuto come primo effetto l’infondere alquanto corag­gio nei disanimati discepoli. Fra costoro era un certo Giuseppe, nativo di Arimatea (l’antica Ramathaim, oggi Rentis, a nord-est di Lyd­da), uomo ricco e stimato, membro del Sinedrio e insieme discepolo di Gesu’ ma occulto per la paura dei Giudei (Giov., 19, 38): spiri­tualmente, dunque, rassomigliava un po’ a Nicodemo, membro an­ch’egli del Sinedrio (§ 288), tuttavia Giuseppe aveva osato dissentire dai suoi colleghi Sinedristi quando avevano condannato Gesù (Luca, 23, 51). Questa volta. egli osò anche di più; pregato forse dai fami­liari ed amici di Gesù che ricorsero volentieri alla sua autorità, egli ti presentò a l’ilato e gli chiese la salma di Gesù per seppellirla come permetteva la legge romana (§ 601). Pilato accolse la domanda, ma si meravigliò che il condannato fosse morto così presto, giacché egli s’aspettava un’agonia più lunga; chiamò pertanto il centurione exac­tor mortis, e quando costui lo accertò della morte concesse la salma.

§ 616. Quasi insieme giunsero gli altri Sinedristi, e Pilato accogliendo anche la loro richiesta inviò altri soldati, diversi da quelli che stavano tuttora di guardia alle croci, affinché praticassero sui crocifissi il “crurifragio” e quindi li deponessero dalle croci. Chi era presente all’arrivo dei soldati narra cosi: Vennero pertanto i soldati, e spezza­rono le gambe del primo e dell’altro crocifisso insieme con lui; venuti poi presso Gesu’, come lo videro già morto, non gli spezzarono le gam­be, ma uno dei soldati con la lancia gli ferì il costato ed uscì subito sangue ed acqua (Giov., 19, 32-34). I due ladroni dunque sopravvis­sero a Gesù e furono spacciati dal “crurifragio”; questo invece non fu praticato a Gesù perché era con tutta evidenza già morto, e così i soldati risparmiarono anche a se stessi una certa fatica: tuttavia uno gli dette un colpo di lancia in direzione del cuore, giusto per non lasciare alcun dubbio sulla morte di lui. La ferita prodotta dalla lan­cia fu molto larga, un vero squarcio in cui poteva quasi entrare una mano (cfr. Giovanni, 20, 25.27), e dallo squarcio uscì sangue ed acqua. Dotti fisiologi inglesi credettero spiegare la fuoruscita di sangue ed acqua supponendo una rottura del cuore anteriore al colpo di lancia: nei casi di tale rottura si produrrebbe un’emorragia al pericardio e una successiva decomposizione del sangue, i cui globuli rossi fanno deposito in basso mentre il siero acquoso resta sospeso in alto; cosic­ché, quando il pericardio è aperto poco dopo la morte, l’elemento sanguigno e quello acquoso ne escono separati fra loro. Perciò la ra­pida morte di Gesù si spiegava – nel pensiero di questi fisiologi – con una rottura del cuore prodotta da cause morali. Gesù sarebbe morto col cuore spezzato, in senso vero, dal dolore. Checché sia di questa spiegazione, l’evangelista testimonio scorge ragioni arcane più profonde in ambedue gli eventi: Avvennero in­fatti queste cose affinché s’adempisse la Scrittura (che dice): “Osso non sarà spezzato di lui”; e nuovamente un’altra Scrittura (che) dice: “Rimireranno in chi trafissero”. La prima citazione è da Eso­do, 12, 46 (Numeri, 9, 12), e si riferisce all’agnello pasquale di cui gli Ebrei non dovevano spezzare alcun osso, quando lo mangiavano nella cena di Pasqua: l’evangelista vede in questa prescrizione una confer­ma che Gesù fu la vera vittima redentrice adombrata dall’antico agnello pasquale. La seconda citazione è da Zacharia, 12, 10, il quale scorge nel futuro la nazione giudaica far cordoglio su un trafitto come si fa cordoglio per la morte dell’unigenito. L’evangelista infine non dice il nome del soldato che trafisse il petto di Gesù, ma la leggenda cristiana gli ha dato il nome inconfondi­bile, chiamandolo Lanciere. In greco infatti lancia si dice lonche; perciò il soldato fu chiamato Longino.

§ 617. Il lugubre lavoro dei soldati dovette svolgersi quando Giuseppe di Arimatea era già sul posto, pronto a servirsi del permesso con­cessogli da Pilato. La richiesta della salma di Gesù era stata motiva­ta dal desiderio, di Giuseppe e di quanti lo avevano spinto ad agire, che la venerata salma non fosse gettata nella fossa comune dei giusti­ziati insieme con i cadaveri dei due ladroni; ottenuta quindi la salma, Giuseppe si dette subito a prepararle un sollecito e decoroso seppelli­mento, che doveva esser terminato prima del tramonto perché allora cominciava il riposo legale (§ 537). Nel suo lavoro Giuseppe fu coadiuvato da altri: è ricordato nomina­tamente il suo fratello spirituale Nicodemo, che venne… portando una mescolanza di mirra ed abe, circa cento libbre (Giov., 19, 39); è facile immaginare che nella pietosa cura i due uomini fossero assistiti anche dalle pie donne presenti alla morte di Gesù, e in primo luogo dalla madre di lui che certamente non rinunziò alla dolorosa gioia di accogliere fra le sue braccia la salma appena fu calata dalla croce. Come Nicodemo aveva portato gli aromi da spargere sulla salma, così per involgerla Giuseppe aveva comprato una sindone (§ 561); il quale termine deve avere qui non il suo senso tecnico di leggiera veste notturna ma quello più generico di ampio ammanto, quasi di lenzuolo, tessuto di fine lino. A causa della ristrettezza di tempo la preparazione della salma fu sommaria: presero dunque il corpo di Gesu’ e lo rilegarono con fasce insieme con gli aromi, com’è costume ai Giudei di seppellire (Giov., 19, 40), e come infatti era stato praticato anche con la salma di La­zaro (§ 491); infine la salma, così composta, fu avvolta nella sindone. Egualmente per la ristrettezza di tempo non si poteva trasportare la salma in qualche tomba lontana, per il pericolo di essere sorpresi durante il trasporto dal tramonto del sole e dal riposo legale. Ma questa difficoltà fu superata facilmente grazie alla generosità di Giu­seppe, che cedette a tale scopo la sua propria tomba. Egli se l’era preparata appunto nel luogo del Cranio: ivi era un giardino, e nel giardino un sepolcro nuovo in cui nessuno ancora era stato posta (ivi, 41). Il giardino si stendeva ai piedi del Cranio, e il sepolcro era stato scavato dalla roccia (Marco, 15, 46), la quale era un prolungamento della roccia che costituiva il piccolo rialzo del Cranio. Pro­babilmente, come Giuseppe si era preparata colà la propria tomba, anche se l’erano preparata nella stessa zona altri facoltosi abitanti di Gerusalemme: e ciò s’accorda ottimamente con la norma di sce­gliere i luoghi di crocifissione a preferenza presso tombe (§ 599).

§ 618. La tomba ceduta da Giuseppe per la salma di Gesù aveva la solita disposizione interna delle tombe giudaiche (§ 491). Penetran­dovi dall’esterno, si trovava prima l’atrio e poi la camera funeraria con il loculo per la salma; atrio e camera comunicavano fra loro mediante un piccolo uscio sempre aperto, mentre l’atrio comunicava con l’esterno attraverso una porta che veniva sbarrata applicandovi una grossa pietra circolare simile a un’enorme macina da molino. Questa pietra poggiava sull’apertura impedendone l’accesso; ma quando si voleva entrare, bastava far rotolare non senza considere­vole sforzo – la pesante pietra o verso destra o verso sinistra, ed essa si spostava scorrendo su un canaletto scavato nella roccia a destra o a sinistra dell’apertura. Giuseppe, assistito dagli altri, portò a termine il seppellimento di Ge­sù prima del tramonto. Essendo avvenuta la morte verso le ore tre pomeridiane, tutto era compiuto verso le ore sei, allorché Giuseppe rotolata una grande pietra alla porta del sepolcro andò via (Mat­teo, 27, 60). Ma la tomba non rimase subito solitaria: era poi cola’ Maria la Mag­dalena e l’altra Maria (la madre di Giacomo e Giuseppe) sedute di­rimpetto alla tomba (ivi, 61). Anche le altre pie donne s’avvicinarono a vedere il sepolcro e come fosse stata deposta la venerata salma; poi tornate in città, approfittarono dell’ultimo scorcio della giornata la­vorativa e prepararono aromi e unguenti (§ 537): evidentemente alla loro devozione non bastava l’abbondante provvista di aromi portata da Nicodemo, e si ripromettevano di curare meglio l’affrettata com­posizione della salma e di tornare perciò al sepolcro quando fosse trascorso il sabbato col suo riposo legale (Luca, 23, 55-56). Fra tutte queste pietose cure non è nominato alcuno degli Apostoli: il solo Giovanni, nel riserbo del suo scritto, s’intravede facilmente mentre assiste la madre di Gesù e la conduce alla sua propria abita­zione per curarla da figlio adottivo. Colà ambedue aspettavano.

§ 619. Quella notte fra il venerdì e il sabbato fu una gran bella nottata per i Sinedristi trionfatori. Celebrarono essi la cena pasquale non solo con la tradizionale giocondità esteriore ma anche con una particolare soddisfazione interiore, sebbene questa non avesse – o al­meno alle apparenze sembrasse di non avere – nulla da fare con la solennità pasquale. Quel Galileo se n’era proprio andato: era morto, sicuramente morto! Non c’era più pericolo di sentir di nuovo le sue invettive, e di rimanere ancora screditati da lui presso il popolo! Quei quattro di­scepoli ch’egli s’era portato appresso, si sarebbero senz’altro dispersi alla morte del loro maestro, e nessuno ne avrebbe parlato più. Tut­to era riuscito bene, grazie all’assistenza non tanto di Mosè o di Elia, quanto di quell’incirconciso di Pilato: ad ogni modo, circon­cisione o no, era stato un bel successo e il ripensarvi sembrava dav­vero accrescere il sapore della cena pasquale. Eppure, a forza di ripensarvi, quei sagaci uomini s’avvidero che nel rilucente cristallo del loro trionfo appariva una piccola incrinatura. Cosa da poco, certamente, ma che non doveva esser trascurata. Si ricordarono essi che Gesù, quand’era ancora in vita, aveva predetto che tre giorni dopo la sua morte sarebbe risuscitato (§ 446). Ora, è vero che quest’annunzio era una pura millanteria, anche perché essi erano in gran parte Sadducei convinti, e perciò giudicavano impos­sibile la resurrezione dei morti (§ 515); tuttavia quella falsa predi­zione poteva dare occasioni ad imposture, a dicerie e ad altre noiose conseguenze. Era quindi opportuno prevenire il male, saldando quel­la piccola incrinatura riscontrata. Perciò alcuni di essi il giorno se­guente, sebbene fosse per loro il giorno di Pasqua, fecero una piccola e lecita passeggiata per recarsi da Pilato a fornirgli un consiglio uti­lissimo: Signore, ci ricordammo che quell’imbroglione disse essendo ancora vivo “Dopo tre giorni risorgo”. Comanda dunque che la tomba sia assicurata fino al terzo giorno, ché per caso venuti i discepoli non lo rapiscano e dicano al popolo “Risorse dai morti”, e (cosi) l’ultimo imbroglio sara’ peggiore del primo. Pilato ri­spose rudemente: Avete un (corpo di) guardia: andatevene, e assicu­rate come sapete. La rudezza del procuratore era soltanto apparente e niente affatto reale, servendo soltanto a dissimulare a se stesso una nuova conces­sione ch’egli faceva. Egli cedette in realtà alla nuova richiesta, e per­mise anche questa volta ai Sinedristi di servirsi del (corpo di) guar­dia che egli era solito mettere a loro disposizione e ch’era formato da soldati romani (Matteo, 28, 14; cfr. Giov., 18, 12): insomma il procuratore, mentre parlava con la faccia ringhiosa, diceva poi sem­pre di si ai Sinedristi. Costoro non chiesero altro, e in quello stesso sabbato condussero i soldati sul posto. Ma nessuno avrebbe potuto superare per accortezza quegli insigni Giudei, cosicché essi si premunirono anche contro un caso a cui altri difficilmente avrebbe pensato: previdero cioè che i soldati, pur ri­manendo di guardia al sepolcro, potevano lasciarsi corrompere per denaro dai discepoli di Gesù permettendo loro l’ingresso nella tom­ba. Non si sapeva mai quel che poteva succedere: adesso che due loro colleghi del Sinedrio, Giuseppe e Nicodemo, avevano spinto la audacia fino a curare il seppellimento del crocifisso c’era da aspettarsi che i due imitassero il Sinedrio comperando a suon di sicli i soldati di guardia, come il Sinedrio aveva comperato Giuda. Perciò essi apposero i loro sigilli sulla pietra circolare che rotolava davanti all’ingresso della tomba, e l’assicurarono alla viva roccia. Con questa saggia precauzione nessuno sarebbe potuto entrare senza rompere i sigilli, di cui erano responsabili i soldati, e il morto non sarebbe risorto giammai.

Vita di Gesù 19ultima modifica: 2010-09-08T17:03:00+02:00da meneziade
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