Vita di Gesù 18

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LA SETTIMANA DI PASSIONE, IL GIOVEDI’

 

 

I preparativi dell’ultima cena

§ 535. Spuntò il giovedì, che era il primo giorno degli Azimi quando immolavano la Pasqua (Marco, 14,12); perciò in quel giorno si do­vevano provvedere le cose necessarie alla celebrazione del solenne rito anche da parte della comitiva di Gesù (§ 495), giacché per questo rito Gesù avrebbe dovuto rimanere quella notte a Gerusalemme e rinunziare a ritirarsi a Bethania sul monte degli Olivi come le notti precedenti. Gli dissero quindi i discepoli: Dove vuoi che andiamo a preparare affinché (tu) mangi la Pasqua? Gesù allora inviò Pietro e Giovanni (Luca, 22, 8) dicendo loro: Andate nella città e vi si fara’ incontro un uomo che porta una brocca d’acqua; seguitelo, e dove egli sia entrato direte al padron di casa: “Il maestro dice: Do v’e’ la mia stanza ove (io) mangi la Pasqua insieme con i miei disce­poli?”. Ed egli vi mostrerà una sala superiore grande, provvista di tappeti, pronta; e ivi preparate per noi (Marco, 14, 13-15). Il segno dato ai due Apostoli era abbastanza singolare, perchè l’uf­ficio di attingere e trasportare l’acqua era riservato ordinariamente alle donne. I due s’attennero al segno: entrando in città, certamente per la porta situata sopra la piscina del Siloe (§ 428) e di fronte al monte degli Olivi, incontrarono effettivamente l’uomo dalla brocca; avendo poi essi seguito costui alla casa ov’era diretto, il padrone mise a loro disposizione la sala di cui Gesù aveva parlato. Non c’è da du­bitare che quel padrone fosse persona affezionata a Gesù; probabil­mente l’aveva ricevuto altre volte a casa sua. Chi sarà stato questo ignoto discepolo? Più che al cauto Nicodemo (§§ 288, 420) o a Giu­seppe di Arimatea (§ 615), il pensiero corre al padre o ad altro pa­rente di Marco, la cui casa dopo la morte di Gesù diventò luogo abituale d’adunanza per i cristiani di Gerusalemme (§ 127); se poi si potesse provare che quel misterioso giovanetto il quale sfuggì nudo di mano alle guardie del Gethsemani era appunto Marco (§ 561), si avrebbe conferma che il padrone della casa era suo parente, tanto più che questo racconto della preparazione della Pasqua è più minu­to e circostanziato nel vangelo di Marco che in quello di Matteo. Se il nome di questo discepolo fu tenuto occulto dagli evangelisti è ben possibile che ciò avvenisse per una ragione prudenziale, analoga a quella per cui i Sinottici omisero l’intero racconto della resur­rezione di Lazaro (§ 493). Così pure, per una elementare prudenza, Gesù inviò a preparare la cena Pietro e Giovanni, ma non Giuda, l’amministratore comune a cui sarebbe spettato quell’ufficio: il tra­ditore era occupato nel frattempo a ordire il suo tradimento, e que­sta sua tenebrosa cura non doveva essere ancor più facilitata dalla prematura indicazione del luogo ove doveva tenersi il supremo con­vegno. Del resto l’opinione secondo cui l’ultima cena ebbe luogo nella casa di Marco non è nuova, ed ha pure in suo favore una rispettabile tradizione. Verso il 530 l’arcidiacono Teodosio descrivendo la sua vi­sita a Gerusalemme, quando parla della chiesa della Saneta Sion ritenuta universalmente come il luogo dell’ultima cena. E questa affermazione doveva fondarsi su un’antica tradizione; infatti nello stesso secolo VI, il monaco ciprio­ta Alessandro comunica che una tradizione già antica ai suoi tem­pi affermava che la casa in cui ebbe luogo l’ultima cena fu appun­to quella di Maria madre di Marco, ove il maestro era solito alber­gare ogni volta che veniva a Gerusalemme, e inoltre che l’uomo del­la brocca sarebbe stato appunto Marco. E’ questo il luogo ove la tradizione, già dal secolo IV, ha collocato l’odierno Cenacolo, all’estremità sud-occidentale della Città Alta. Compiuti durante la giornata i preparativi, in quella stessa sera si tenne la cena. Ma qui s’inconfra una famosa questione cronologica che riguarda sia il giorno dell’ultima cena, sia quello successivo nel quale avvenne la morte di Gesù; è la questione di sapere quali gior­ni, non della settimana, ma del mese fossero questi due giorni.

La questione cronologica

§ 536. Quanto al giorno della settimana non sorge alcun dubbio, perché tanto i Sinottici quanto Giovanni mettono l’ultima cena al giovedì e la morte al venerdì seguente. La divergenza sta nella collocazione di questi due giorni nel mese Nisan, perché dai Sinottici risulterebbe che il giovedì dell’ultima ce­na era il 14 Nisan e perciò il venerdì della morte era il 15, mentre da Giovanni risulterebbe che il giovedì era il 13 Nisan e il venerdì il 14. I Sinottici infatti mettono l’ultima cena nel giorno quando immolavano la Pasqua (Marco, 14, 12; cfr. Luca, 22, 7), ossia in cui si faceva l’immolazione dell’agnello pasquale che era prescritta per il pomeriggio del 14 Nisan (§74) perciò l’ultima cena sarebbe stata la cena dell’agnello pasquale celebrata da Gesù al giorno prescritto; essendo poi egli morto il giorno seguente, questo giorno sarebbe stato il 15 Nisan in cui cadeva la Pasqua ebraica. Giovanni invece narra che Gesù morì nella parasceve della Pasqua ( Giov., 19, 14), ossia nel giorno precedente alla Pasqua e prima che in quei giorno i Giu­dei avessero celebrato il rito dell’agnello e mangiato la Pasqua: essi infatti non entrarono nel pretorio (di Pilato) per non contaminarsi ma per mangiare la Pasqua (Giov., 18, 28), riuscendo in quello stes­so giorno a far condannare Gesù e ad ucciderlo; in tal caso Gesù morì il 14 Nisan, e l’ultima cena da lui celebrata la sera precedente non era legalmente la cena dell’agnello pasquale. La seguente tabella mostrerà il consenso e il dissenso fra i Sinottici e Giovanni in questo punto.

§ 537. Senonché i Sinottici stessi, con talune loro fuggevoli allusioni, inducono a fare ulteriori ed importanti considerazioni. Stando alla loro cronologia, Gesù fu arrestato nella notte fra il 14 e il 15 Nisan, e le varie peripezie del suo processo terminate con la condanna e l’esecuzione di questa cominciarono già alle prime ore del 15 Nisan per prolungarsi fino al pomeriggio di quel giorno. Ora, tutto ciò s’imbatté in una difficoltà gravissima ed evidentissima, cioè nel carattere supremamente festivo che aveva quella notte e quel giorno: in quella notte si mangiava l’agnello pasquale col solenne cerimoniale già visto (§ 75) e da turbe innumerevoli affluite a Ge­rusalemme da ogni paese; e in quel giorno poi, che era la Pasqua (15 Nisan), era rigorosamente prescritta l’astensione da ogni lavoro (Esodo, 12, 16; Levitico, 23, 7), e valevano per esso le norme del ri­poso del sabbato anche se in realtà quel giorno non fosse un sabba­to. E’ pertanto storicamente inconcepibile che gli avversari di Gesù, per quanto colmi di odio contro di lui, trascurassero la cena pasquale di quella notte e violassero il riposo festivo di quel giorno per com­piere tutto ciò che era necessario al processo, alla condanna e alla sua esecuzione. E infatti la sconfinata meticolosità che vedemmo più vol­te applicata al riposo sabbatico non avrebbe permesso varie azioni che troviamo compiute in queste poche ore: ad esempio che coloro i quali in quella notte arrestarono Gesù trasportassero armi ed altri oggetti (Matteo, 26, 47), e che accendessero il fuoco proprio in casa del sommo sacerdote (Luca, 22, 55); ovvero che durante quel santis­simo giorno di Pasqua vi fosse un uomo come Simone il Cireneo che veniva dal campo, dove era stato certamente a lavorare (Marco, 15, 21); oppure che si comprasse una sindone, come fece Giuseppe di Arimatea (Marco, 15, 46); o anche che si preparassero aromi ed unguenti, come fecero le pie donne (Luca, 23, 56). Tutte queste azio­ni erano altrettante violazioni del riposo festivo; se perciò si consi­derano sommate tutte insieme, portano alla conclusione che quella notte non era sacra e quel giorno non era santissimo né di riposo per molti Giudei se non per tutti – e quindi che costoro non avevano mangiato l’agnello pasquale la sera del giovedì come Gesù, né cele­bravano la Pasqua il venerdì. Questa conclusione è tanto più impor­tante, in quanto estratta da informazioni offerte dai soli Sinottici. Si aggiunga a conferma un’altra osservazione. Gesù muore nel pomeriggio del venerdì, che secondo i Sinottici sembra essere il giorno di Pasqua (15 Nisan). Appena egli è morto, Giuseppe di Arimatea si affretta a seppellirlo in quello stesso pomeriggio, perché col tramon­to sarebbe cominciato il riposo del successivo sabbato (Marco, 15, 42 segg); così pure dal canto loro le pie donne prepararono in quel pomeriggio gli aromi e gli unguenti per la venerata salma, ma giun­ta la sera passarono inoperose il sabbato conforme il comandamen­to (Luca, 23, 56). Tutto ciò sarebbe regolarissimo riferendosi al ripo­so del vero sabbato settimanale: ma se in quel venerdì ormai tra­montato, in cui era morto Gesù, era anche caduta la Pasqua, que­sta solennità portava con sé egualmente il riposo festivo; e allora come mai e perché mai affrettarsi tanto nel pomeriggio di quel venerdì, se già in esso vigeva un riposo anche più solenne in virtù del­la solennità pasquale? Quindi anche da questo lato, ed egualmente per notizie offerte dai Sinottici, ritornerebbe la conclusione che pu­re Giuseppe di Arimatea e le pie donne non celebravano la Pasqua in quel venerdì, il quale perciò non era per essi il 15 Nisan. In realtà la divergenza fra i Sinottici e Giovanni, stando ai sempli­ci dati ricavati da essi, è inconciliabile; se si seguono i Sinottici Ge­sù sembra morto il 15 Nisan, se si segue Giovanni è morto il 14 Nisan.

§ 538. I tentativi per comporre la divergenza sono stati molti, seb­bene parecchi di essi non avessero neppure l’ombra di fondamento storico. In tale condizione si ritrova, ad esempio, l’ipotesi secondo cui in quell’anno i Giudei avrebbero ritardato di un giorno la Pa­squa trasportandola al 16 Nisan, per aver agio di processare ed uc­cidere Gesù, mossi unicamente dall’odio contro di lui, mentre Gesù avrebbe mangiato l’agnello pasquale al tempo prescritto; questa ipo­tesi, proposta già in antico da Eusebio di Cesarea e recentemente da alcuni moderni, ha il torto di essere antistorica in quanto dimentica il tenacissimo attaccamento che gli avversari di Gesù avevano alle loro tradizioni, e che non avrebbe ce­duto il passo neppure al loro odio contro Gesù e ciò, senza rile­vare l’assurdità che siffatto spostamento della Pasqua in odio a Gesù sarebbe stato decretato in poche ore, imposto a folle enormi che non conoscevano neppure di nome Gesù, e perfino a persone a lui bene­vole quali Giuseppe di Arimatea e le pie donne. Altra soluzione che non risolve nulla è quella secondo cui Giovanni, allorché dice che i Giudei non entrarono nel pretorio per non conta­minarsi ma per mangiare la Pasqua, alluderebbe alla consumazione delle altre offerte del ciclo pasquale, ma non a quella dell’agnello che i Giudei avrebbero già mangiato nella stessa sera che Gesù. Senonché, anche astraendo dal fatto che rimarrebbe egualmente la difficoltà del riposo violato, questa soluzione è dimostrata falsa dal­l’uso rabbinico dell’espressione mangiare la Pasqua, la quale si rife­risce costantemente all’agnello pasquale. Fra quegli studiosi moderni che vogliono trovare nel IV vangelo tutte narrazioni allegoriche ha incontrato molta fortuna la soluzione che ritiene come storica soltanto la cronologia dei Sinottici e considera invece la cronologia del IV vangelo come risultato di una accomo­dazione dogmatico-allegorica; Gesù sarebbe morto in realtà il 15 Ni­san, giorno della Pasqua ebraica, giorno dell’immolazione dell’agnel­lo pasquale, soltanto per significare che egli è il simbelico agnello pa­squale del Nuovo Testamento che ha definitivamente sostituito l’an­tica vittima della Pasqua ebraica, conforme al principio dogmatico di S. Paolo: (Quale) nostra Pasqua fu immolato Cristo (I Cor., 5, 7). Senonché, chi non si lasci abbagliare dalle apparenze, questa solu­zione apparirà non meno antistorica di altre. Essa infatti passa sopra, con fallace indifferenza, agli importantissimi accenni che già rilevam­mo dagli stessi Sinottici, i quali su questo argomento sono considerati storici dagli stessi seguaci di tale soluzione. Se Gesù morì il 15 Ni­san e se quel giorno era Pasqua, perché mai molti Giudei non os­servavano in quel giorno il riposo festivo come incidentalmente ma sicuramente abbiamo appreso dai Sinottici? Sarebbero forse allegorici in altra maniera anche i Sinottici? O non piuttosto la presunta cronologia allegorica del IV vangelo è storica non meno di quella dei Sinottici? Quanto all’unica ragione positiva addotta, cioè la coinci­denza della immolazione dell’agnello pasquale con la morte di Gesù, è ragione più speciosa che soda; anzi, esaminata più da vicino, sem­brerebbe piuttosto una difficoltà in contrario che una ragione in fa­vore. Se Gesù è morto secondo i Sinottici il 15 Nisan ed ha cele­brato la cena pasquale la sera del 14, Giovanni aveva ogni motivo allegorico per conservare questa cronologia e non già per mutarla; in­fatti, secondo essa, Gesù avrebbe istituito l’Eucaristia proprio men­tre i Giudei celebravano la cena pasquale, ed è appunto l’Eucaristia il rito unico e perenne che nella Chiesa cristiana ha sostituito i vari riti sacrificali del giudaismo; perciò Giovanni, che giustamente è ri­conosciuto anche dagli avversari come l’evangelista del Cristo “pane di vita” (§ 373, nota), poteva attenersi tranquillamente alla cronologia dei Sinottici ritrovandovi pienamente appagata la sua inclinazione dogmatico-allegorica. E invece, secondo il suo solito, Giovanni ha ritoccato in parte quella cronologia, mettendo in miglior luce quanto era stato accennato vagamente dai Sinottici stessi. In tal ca­so non parlerebbe in lui il testimonio oculare e prediletto, piuttosto che il presunto allegorizzante?

§ 539. In questa vecchia e intricata questione i recenti e proficui studi degli antichi documenti rabbinici hanno aperto una nuova via, che è forse la buona. Già avemmo occasione di rilevare quanto fos­sero empirici ed incerti i mezzi con cui ai tempi di Gesù si fissava il calendario giudaico, e come questo calendario fosse di una elastici­tà appena concepibile per noi moderni (§ 180); ebbene, appunto da questa elasticità potrebbe dipendere la divergenza fra i Sinottici e Giovanni, consistendo essa nel collocare il venerdì della morte di Gesù o al 14 o al 15 Nisan. Se quel venerdì fu insieme il 14 e il 15 Nisan – ossia se alcuni Giudei lo computavano come il 14 e altri come il 15 – sarebbe conciliata la divergenza, perché i Sinottici si rife­rirebbero ai Giudei che consideravano quel venerdì come 15 Nisan, mentre Giovanni si riferirebbe agli altri che lo consideravano come il 14 Nisan. Troviamo infatti che, ai tempi di Gesù, si agitava una seria controversia fra Sadducei e Farisei a proposito della data della Pentecoste, e per conseguenza anche della Pasqua essendo le due feste ricollegate fra loro. I partigiani della famiglia di Boeto (§ 33), influentissima nel ceto sacerdotale e sadduceo, sostenevano che la Pentecoste doveva celebrarsi sempre di domenica; ma poiché i 50 giorni d’interstizio fra la Pasqua e la Pentecoste (§ 76) si cominciavano a contare da quel giorno dell’ottava Pasquale nel quale si offriva nel Tempio il primo manipolo di spighe, perciò essi sostenevano che l’offerta del ma­nipolo doveva farsi sempre nella domenica di detta ottava. I Farisei al contrario sostenevano che la Pentecoste poteva celebrarsi in qualunque giorno settimanale; quindi l’offerta del manipolo doveva farsi sempre al giorno immediatamente successivo alla Pasqua, cioè al 16 Nisan, qualunque giorno settimanale esso fosse. Stante questa divergenza i Boetani e in genere i Sadducei usavano spostare il calendario, specialmente nei casi in cui la Pasqua (15 Nisan) fosse caduta di venerdì ovvero di domenica. Nel caso di Pa­squa al venerdì, essi posticipavano il calendario d’un giorno e face­vano cadere in quel venerdì l’immolazione dell’agnello e la cena pasquale (14 Nisan), nel sabbato la Pasqua (15 Nisan), e nella dome­nica l’offerta del manipolo (16 Nisan). Nel caso di Pasqua alla do­menica anticipavano d’un giorno e facevano cadere in quella dome­nica l’offerta del manipolo (16 Nisan), nel precedente sabbato la Pasqua (15 Nisan), e nel precedente venerdì l’immolazione dell’agnello (14 Nisan). Questo spostamento di calendario si otteneva facil­mente, anche mediante piccoli sotterfugi, approfittando dell’empiri­smo con cui si regolava la fissazione del calendario e di cui già trat­tammo (§ 180). A questa accomodazione dei Sadducei non acconsentivano però i Fa­risei; i quali, non preoccupandosi del giorno settimanale in cui ca­deva la Pentecoste, celebravano il rito dell’agnello, quello della Pa­squa e quello del manipolo, nei giorni in cui effettivamente cade­vano. Si produceva quindi una scissione fra coloro che celebravano questi riti. La gran massa del popolo, dominata dai Farisei, li seguiva an­che nella fissazione cronologica di questi riti. AI contrario le classi aristocratiche, più legate al ceto sacerdotale, seguivano la fissazione dei Boetani e dei Sadducei. Ogni gruppo seguiva la propria crono­logia, non curandosi del gruppo opposto; tuttavia non dovevano mancare molti individui i quali o per ragioni di comodità seguivano la cronologia del gruppo non loro, ovvero non appartenendo a rigo­re a nessun gruppo sceglievano fra le due alternative quella che me­glio piaceva.

§ 540. Ora, applicando questi dati al caso di Gesù, si trova una corrispondenza sorprendente. L’anno in cui Gesù mori, la Pasqua cade­va regolarmente al venerdì. Perciò i Sadducei, conforme alla loro norma, posticiparono il calendario d’un giorno per ottenere che l’of­ferta del manipolo cadesse alla domenica. I Farisei invece si attenne­ro al calendario regolare, respingendo la posticipazione dei Sadducei e celebrando l’offerta del manipolo al sabbato. Il popolo si divise fra le due correnti. La seguente tabella mostrerà nelle prime due colonne la differenza di datazione della festività pasquale tra i Sadducei e i Farisei, nelle ultime due colonne le rispettive posizioni degli evangelisti (cfr. ta­bella al § 536): Si noti come Giovanni concordi col calendario mensile dei Sadducei, e invece i Sinottici concordino con quello dei Farisei. Infatti l’ultima cena di Gesù fu certamente la cena legale dell’agnello, e fu tenuta aI giovedi nello stesso tempo che la tenevano i Farisei e in maggioran­za quei del popolo; i quali consideravano quel giorno come il 14 Nisan, e il seguente venerdì come il 15 ossia la Pasqua. Ma la pre­ponderanza del Sinedrio, che condannò Gesù, era composta di Sad­ducei (§ 58); i quali perciò consideravano quel giovedì come il 13 Nisan, e di conseguenza ritardavano la cena dell’agnello al venerdì seguente e la Pasqua al sabbato seguente. Così si comprende anche perché nel venerdì della morte di Gesù non osservassero il riposo fe­stivo, sebbene quel giorno cadesse la Pasqua; era Pasqua per i Fa­risei, ma non per molti altri che per una ragione o l’altra seguivano il calendario dei Sadducei. In conclusione, i Sinottici si riferiscono al calendario mensile seguito da Gesù in accordo con i Farisei, pur accennando chiaramente al disaccordo di altri; Giovanni invece si ri­ferisce al calendario seguito dai sinedristi Sadducei; condannatori uffi­ciali di Gesù, pur supponendo già noto che il calendario seguito da Gesù era differente. ~ assolutamente sicura questa spiegazione della vecchia questione? No, giacché rimangono ancora taluni punti oscuri, che qui sarebbe eccessivo elencare. Tuttavia a noi sembra la più fondata storicamen­te, soprattutto perché tiene conto della elasticità del calendario con­temporaneo; la quale elasticità è una realtà storica di primaria im­portanza perché essa, come entra per qualche parte nelle famose controversie sorte nel cristianesimo primitivo a proposito della cele­brazione della Pasqua cristiana, così ancora oggi spiega le divergen­ze cronologiche che si riscontrano a proposito di costumanze islamiche fra Arabi, anche di regioni confinanti, formandosi il loro calendario sull’osservazione diretta della luna.

Denunzia del traditore

§ 541. Che in quella cena pasquale di Gesù sia avvenuto qualcosa di straordinario, Giovanni lo esprime con quella sua maniera singolare fatta di velate allusioni, che però era capita benissimo dagli esperti uditori della sua catechesi: Sapendo Gesu’ che venne l’ora di lui affinché passasse da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi, quelli (ch’erano) nel mondo, (sino) in fine (Giov., 13, 1). Queste parole possono considerarsi come un nuovo piccolo prologo che Giovanni premette al racconto della passione: Gesù, che ha sempre amato i suoi, adesso dimostra il suo amore (si­no) in fine, non solo cronologicamente sino alla fine della sua vita, ma molto più intensivamente sino al fine raggiungibile, sino all’estre­mo limite possibile dell’amore stesso. Accennando all’amore (sino) in fine vuole forse l’evangelista spirituale alludere all’istituzione del­l’Eucaristia che egli solo non narra? E’ possibilissimo (§ 545). D’altra parte anche l’evangelista discepolo di Paolo accenna a que­sto amore, quando narra che a principio della cena Gesù, vedendosi circondato dai suoi discepoli, esclamò verso di essi: Di (gran) de­siderio desiderai mangiare questa Pasqua con voi prima che io pa­tisca. Vi dico infatti che piu’ non la mangerò fino a che (essa) sia compiuta nel regno d’iddio (Luca, 22, 15-16). Torna qui l’idea che la passione è per il Messia la condizione necessaria per il suo ingresso alla gloria: questa gloria, poi, sarà il trionfo del regno di Dio simboleggiato in un banchetto eterno. Nell’ultima cena fu certamente seguito il solito rito della cena pa­squale – che descrivemmo altrove (§ 75) – con le quattro coppe ri­tuali di vino, con il pane azimo, le erhe agresti e l’agnello arrostito, sebbene non tutte queste cose siano ricordate dagli evangelisti. Gesù in quella comitiva fungeva da padre di famiglia; perciò benedisse egli la prima coppa, ed aggiunse: Prendete ciò e dividete(lo) fra voi; vi dico, infatti, non berrò da adesso del prodotto della vite fino a che il regno d’iddio sia venuto (ivi, 17-18). In relazione al precedente simbolo del banchetto eterno, il regno di Dio è qui simboleggiato in un simposio eterno. La cena era pertanto cominciata, ma non tutti i convitati erano pienamente soddisfatti: non sarebbero stati uomini della loro nazione e del loro tempo, se parecchi di loro non si fossero mostrati scontenti del posto che occupavano a tavola desiderandone uno più onorifico (§ 457). Quella brava gente aveva tutta una grande stima di sé, e avvenne anche una gara fra loro, riguardo a chi di essi appaia es­ser maggiore (ivi, 24); la disputa non era nuova, ma un vago accen­no di Giovanni (13, 2-5) potrebbe far sospettare che questa volta la disputa fosse provocata da pretensioni di Giuda Iscariota: appunto il traditore avrebbe suscitato la gelosia degli altri Apostoli preten­dendo uno dei posti più onorifici, e ciò conforme a un fenomeno frequente nei traditori che, spinti dalla dissimulazione, pretendono preferenze e particolari riguardi. A quella umiliante scenata Gesù dovette rispondere a parole come più o meno già aveva risposto alle altre contese di preminenza av­venute nel passato fra gli Apostoli (§ § 408, 496), ma questa volta volle aggiungere anche una risposta con i fatti (Giovanni, 13, 4 segg.). Vedendo che nonostante le sue esortazioni all’umiltà i brontolii rin­ghiosi di quei materialoni non cessavano, egli si leva dal suo divano, depone le vesti, si cinge al grembo d’un pannolino, e preso un cati­no con acqua comincia a lavare i piedi ai commensali: i più umili schiavi erano incaricati di questo ufficio, e potevano compierlo agevolmente perché i commensali erano distesi sui divani col busto verso la tavola e i piedi sporgenti dall’altra parte all’infuori (§ 341). Al vedere il maestro abbassatosi a quel servigio, gli Apostoli rima­sero interdetti e accettarono passivamente la lavanda come un’umi­liazione: neppure Giuda osò protestare. Solo Pietro, che probabilmente fu il primo a cui si rivolse Gesù, protestò dicendo: Signore, tu mi lavi i piedi? – E Gesù a lui: Ciò che io faccio, tu adesso non sai; lo saprai in seguito. – Ma Pietro non cede: Non mi laverai i piedi in eterno! – Gesù replica: Se non t’avrò lavato, non avrai parte con me. – A questa risposta l’irruen­te Pietro salta all’altro eccesso: Signore, lavami non solo i piedi, ma anche le mani e il capo! – Gesù allora conclude: Chi si è lavato non ha bisogno di lavarsi (se non i piedi), ma è mondo interamente; e voi siete mondi, ma non tutti. Trasalì Giuda a quest’allusione? Forse no; il traditore dovette con­tentarsi all’udire che il suo delitto restava ancora occulto ai suoi colleghi. Ma la cosa non fini li.

§ 542. Terminata la lavanda dei piedi, Gesù indossò nuovamente le sue vesti e riprese posto a tavola sul suo divano. Egli occupava cer­tamente il posto più onorifico, e la contesa testé sorta fra gli Apostoli era stata motivata del desiderio di occupare i divani piu vicini a lui. Poiché la tavola era a semicerchio e i divani erano disposti radial­mente all’esterno del semicerchio, si può ragionevolmente conget­turare che Gesù occupasse il divano centrale al vertice del semicer­chio; ma da quanto accennano gli evangelisti risulta che i divani più vicini a Gesù erano occupati da Pietro, Giovanni e Giuda Iscariota. Immaginandosi pertanto i commensali sdraiati sui divani e appog­giati col gomito sinistro verso la tavola, Gesù ch’era al centro doveva avere alle sue spalle Pietro, che così occupava il secondo posto nel grado onorifico; dall’altro lato, cioè davanti al petto di Gesù, dove­va stare sdraiato Giovanni, che così poteva appoggiare il capo sul petto del maestro; Giuda Iscariota sta subito appresso a Giovanni, di modo che Gesù stendendo il braccio poteva senza difficoltà giun­gere a dargli un boccone di cibo. Schematicamente, dunque, la po­sizione dei commensali attorno alla tavola doveva presentarsi come nella figura della pagina di fronte. Ripresa la cena, non c’era tuttavia serenità fra i commensali: gli Apostoli erano rimasti turbati dall’affermazione di Gesù che essi non tutti erano mondi, e desideravano qualche schiarimento in proposito. Anche Gesù dal canto suo desiderava tornar sopra quell’argomento, non tanto per la giusta curiosità di coloro ch’erano mondi, quanto per la non richiesta purificazione di colui ch’era l’unico immondo: con quell’infelice bisognava ancora fare un tentativo, offrirgli un ul­timo salvataggio. Perciò, quando si riprese a mangiare, Gesù par­lando ancora genericamente citò un passo del Salmo (41, 10 ebr.): Chi mangia il pane mio alzò contro di me il suo calcagno (Giov., 13, 18; cfr. Marco, 14, 18). E, detto ciò, egli fu turbato nello spirito, aggiungendo senza nominare alcuno: In verità, in verità vi dico, che uno di voi mi tradirà. Fu uno sgomento generale. Proprio in quella serata cosi solenne e così affettuosa, si poteva parlare di tradimento? Proprio fra quei dodici uomini che si erano dati anima e corpo al maestro, si pote­va dissimulare un traditore? Tutti allora con veemenza impetuosa, non senza una punta di sincero risentimento, domandarono a ga­ra al maestro: Sono forse io, Signore? Gesù confermò nuovamen­te senza dir nomi, ma facendo risaltare la qualità particolarissima del traditore: Uno dei dodici! Chi intinge con me nel vassoio! (Marco, 14, 20). Tutti i commensali infatti, stendendosi dal loro divano, in tingevano il pane e le erbe amare in vassoi comuni che contenevano la salsa pasquale (§ 75), e ciascuno poteva servire a cir­ca tre persone: probabilmente quello in cui intingeva Gesù serviva pure a Giovanni e a Giuda. Ma anche quest’ultima indicazione fu interpretata in senso vago dagli Apostoli, quasicché equivalesse alla precedente espressione uno dei dodici e designasse in genere chi in­tingeva in un vassoio qualsiasi della tavola comune: invece, proba­bilmente, Gesù aveva alluso al vassoio suo proprio. Ad ogni modo fra i commensali c’era colui che aveva ben capito, e appunto riferen­dosi a lui Gesù aggiunse parole che vollero essere l’ultimo spasima­to grido di esortazione, l’estrema segnalazione dell’abisso: Poiché il figlio dell’uomo se ne va, conforme e’ scritto circa lui: guai però a quell’uomo da cui il figlio dell’uomo e’ tradito! Buona cosa (sarebbe) per lui, se non fosse nato quell’uomo!

§ 543. A questo punto Giuda non poteva più tacere; il suo silenzio, fra l’ansia trepidante dei molti, l’avrebbe da se stesso denunziato. Calmo, misurato, ma non senza un leggiero tremito nella voce, egli allora domandò come tutti gli altri: Sono forse io, Rabbi? Il tra­ditore era sdraiato poco distante dal tradito; le teste dei due, rivolte verso la tavola, erano anche più vicine che non il resto dei loro corpi. Alla domanda di Giuda, che dovette passare inosservata ai più dei commensali, Gesù fece il supremo tentativo per la salvez­za di lui; colse forse un momento in cui Giovanni, commensale in­termedio, era sollevato col busto e badava altrove, e allora rispose sommessamente a Giuda: Tu (l’)hai detto! Era un modo ebraico per dare una risposta afferrnativa. Oramai non c’era più nulla da fare; il traditore sapeva di essere co­nosciuto come tale. Scegliesse lui: o consumare il tradimento svela­to, o implorare il perdono dal sempre venerato maestro (§ 533). La sommessa risposta data da Gesù a Giuda era sfuggita agli altri commensali, salvo forse a Giovanni. Perciò il desiderio dì sapere qualcosa di preciso sul tradimento e sul traditore era vivissimo in tutti, e specialmente nel generoso Pietro. Costui non osò interrogare Gesù, per timore forse di ricevere una risposta severa come altre volte; tuttavia per giungere al suo intento egli trovò sagacemente la via buona, rivolgendosi a Giovanni. Il discepolo prediletto occupava il divano immediatamente a destra di Gesù cosicché, stando ambe­due sdraiati ed appoggiati sul gomito sinistro, Gesù rivolgeva il seno verso Giovanni e di costui si poteva dire che era adagiato… nel seno di Gesu’ (in Giov., 13, 23); Pietro invece stava sul divano a Sinistra di Gesù, e Gesù gli voIgeva le spalle né lo vedeva direttamente. Però Pietro, approfit­tando della sua situazione, fece un cenno a Giovanni incitan­dolo a domandare a Gesù chi fosse il traditore di cui parlava; la manovra del resto era semplicissima, perché Pietro si era alzato sul busto, e attirata cosi l’attenzione di Giovanni gli avrà espresso il proprio desiderio a cenni, fatti più in alto della persona di Gesù ch’era ripiegato sul gomito sinistro. L’evangelista giovanetto compre­se subito il desiderio di Pietro, e a sua volta fece una piccola manovra suggeritagli dal suo confidente cuore d’amico prediletto; giratosi egli per metà sul suo corpo, si puntò non più sul gomito sinistro ma sul destro, e così ritrovandosi anche più vicino al divano di Gesù appoggiò confidenzialmente la sua testa sul petto del maestro e stette a guardarlo negli occhi dal sotto in su, come un bambino reclinato sul seno del babbo e che aspetti una grazia. Quindi, sommessamente gli domandò: Signore, chi e? La domanda del piccolo amico prediletto fu esaudita, ma per il dsgraziato amico che franava verso l’abisso si ebbe ancora un ultimo riguardo. Nei pasti comuni degli Orientali antichi e anche dei mo­derni – era un gesto di cortesia offrire a un commensale un bocco­ne bell’e preparato, cioè un frammento di pane che, chi usava la cor­tesia, staccava dalla focaccia comune, arrotolava, intingeva nel vas­soio ove tutti intingevano, e così porgeva al convitato avvicinandoglielo alla bocca. Alla richiesta dunque di Giovanni, Gesù rispose: E’ quello a cui io intingerò il boccone e glie(lo) darò. E staccato un pezzo di pane, lo intinse e dette a Giuda. Il traditore ancora non era stato svelato, se non segretamente al fido Giovanni, e a quella cortesia di Gesù egli poteva ancora rinsavire; ma, impassibile, Giuda trangugiò il boccone senza dir nulla, mostran­do con ciò d’aver fatto la sua scelta definitiva. E dopo il boccone – commenta qui il testimonio oculare e consapevole di quella scena – allora entrò in lui il Satana. Tuttavia Giuda stesso non resisté più oltre; si alzò dal suo divano per uscire. Gli dice pertanto Gesu’ “Ciò che fai, fa’ presto”. Ma nes­suno dei commensali capì ciò, a che (scopo) glie(lo) disse. Alcuni infatti credevano che, siccome Giuda teneva la cassetta (§ 502), Gesu’ gli dicesse “Compra le cose di cui abbiamo bisogno per la festa”, ovvero, che desse qualcosa ai poveri. Preso pertanto il bocco­ne, colui uscì subito. Era notte. E il traditore, uscito fuori, s’immerse nella sua doppia notte.

Istituzione dell’Eucaristia

§ 544. A questo punto, il banchetto pasquale doveva esser molto avanzato, e prossimo alla fine forse la seconda coppa era quasi consumata, e fra poco si doveva mescere la terza coppa (§ 75). A un tratto Gesù compié un’azione insolita, non contemplata dal rito della cena pasquale. Prese egli una focaccia di pane azimo e, dopo aver pronunziata una formula di benedizione, ne staccò dei pez­zi che distribuì agli Apostoli dicendo: Prendete, mangiate; questo e’ il corpo mio, che per voi (e’) dato. Ciò fate nel mio ri­cordo.Poco dopo, probabilmente quando fu versata alla fine della cena la terza coppa rituale, egli prese un calice pieno di vino temperato e, avendo parimente reso grazie, ne fece bere a tutti dicendo: Bevete da esso tutti. Questo calice (e’) il nuovo testamento nel san­gue mio, che per molti (e’) versato. Ciò fate, quante volte (ne) bevia­te, nel mio ricordo. Quale impressione facesse personalmente sugli Apostoli questa dop­pia azione di Gesù non ci vien detto dai Sinottici, ma ciò non si­gnifica gran che; d’assai maggior importanza è invece l’impressione e l’effetto permanente che ne ricevette tutta la primissima società cri­stiana, la quale fu l’interprete sotto ogni aspetto più autorevole di quella doppia azione di Gesù e delle parole che l’accompagnarono. E qui, per riscontrare i fatti storici, abbiamo a nostra disposizione due eccellenti specole d’osservazione, poste a una certa distanza l’una dall’altra. Circa venticinque anni dopo l’ultima cena di Gesù, Paolo scriveva ai cristiani di Corinto quella sua lettera (I Cor., 11, 23-29) ove l’Eu­caristia è presentata come rito stabile e abituale, come rito per cui il fedele che vi partecipava mangiava veramente il corpo e beveva veramente il sangue di Gesù, come rito infine ricollegato direttamente con la doppia azione di Gesù nell’ultima cena e con la sua morte redentrice. Nessun dubbio che questo insegnamento di Paolo, da lui già trasmesso negli anni precedenti ai fedeli di Corinto (ivi, il, 23), fosse stato trasmesso anche alle altre comunità da lui catechizzate e si trovasse in pieno accordo con la catechesi degli altri Apostoli; questa, insomma, era la maniera in cui la catechesi primitiva e la li­turgia primitiva interpretavano e rinnovavano la doppia azione com­piuta da Gesù nell’ultima cena. Un quarantennio più tardi della lettera di Paolo incontriamo un’al­tra specola che funziona in maniera differente ma non meno pre­cisa: è il IV vangelo, il solo vangelo che non racconti l’istituzione dell’Eucaristia. Già sappiamo che questo silenzio è più eloquente, in qualche modo, di un racconto effettivo (§§ 378-383); ma qui si può aggiungere un’altra considerazione. Anche dato e non concesso che autore del IV vangelo sia, non l’apostolo Giovanni, ma uno sconosciuto mistico solitario, questo autore molto probabilmente cono­sceva la lettera di Paolo, indubbiamente conosceva gli scritti dei Si­nottici, certissimamente era edotto della liturgia eucaristica diffusa alla fine del secolo i ovunque era una comunità cristiana; egli dun­que, della fede dei suoi tempi, è un testimonio silenzioso ma non meno efficace, in quanto serba silenzio sull’istituzione ma ne mette in sommo rilievo gli effetti spirituali col suo discorso sul pane vivo (§ 387 segg.): del resto oggi ciò è ammesso anche da studiosi radicali (§ 373, nota). In conclusione l’autore del IV vangelo concorda pie­namente con la catechesi di Paolo e con quella dei Sinottici, e le conferma accettandole in parte silenziosamente, e in parte mettendole in accurato rilievo.

§ 545. Tornando ora agli Apostoli e all’impressione immediata che ricevettero dalle parole di Gesù, bisogna riconoscere che fu un’impressione meno nuova di quanto sembrerebbe a prima vista; anzi, in qualche modo, essa fu la risoluzione di un vecchio enigma che s’agi­tava nelle menti di quegli uomini. L’antico discorso sul pane vivo non solo non era stato giammai da essi dimenticato, ma piuttosto di tempo in tempo aveva dovuto riaf­facciarsi alle loro menti come un’arcana promessa rimasta tuttora inadempiuta. In verità, in verità vi dico, se non mangiate la carne del figlio dell’uomo e beviate il sangue di lui, non avete vita in voi stessi… La carne mia è vero nutrimento, e il sangue mio e’ vera be­vanda: chi mangia la mia carne e beve il mio sangue in me rimane e io in lui… chi mangia me, egli pure vivrà per me. Questo e’ il pane disceso dal cielo, ecc. Affermazioni di questo genere aveva fatte Gesù a Cafarnao molti mesi prima, ma fino all’ultima cena egli non aveva offerto maniera ai suoi discepoli di eseguire questo comando cosl essenziale per avere vita in se stessi. E in qual maniera, poi, avreb­be egli reso “molle” un discorso così duro (§ 382)? In qual maniera avrebbe reso umano e spirituale un banchetto che sembrava da an­tiopofagi? La “durezza” delle affermazioni aveva scandalizzato mol­ti discepoli di Gesù, i quali lo avevano abbandonato: i dodici in­vece gli erano rimasti fedeli, perché il maestro aveva parole di vita eterna; tuttavia nei molti mesi trscorsi quelle parole ancora non erano state avverate, e certamente i dodici più d’una volta si saran­no domandati dubbiosi se il maestro non si era dimenticato della piomessa, ovvero in che maniera l’avrebbe mantenuta. Improvvisamente, quella notte, essi vedono il maestro distribuire pa­ne e vino, dicendo “Questo è il mio corpo”;”Questo e’ il mio san­gue”. Con tale doppia azione e doppia affermazione il vecchio enig­ma era risolto, l’antica promessa era mantenuta, e il vero significato dell’azione e dell’affermazione appariva mirabilmente chiaro alla luce del discorso sul pane vivo: l’apparente pane e l’apparente vino allora distribuiti erano in realtà il corpo e il sangue del maestro. Chi pertanto abbia presente lo stile sentenzioso e riflesso di Giovanni troverà possibilissimo che, quando egli afferma aver Gesù amato i suoi (sino) in fine, con questa frase alluda appunto all’istituzione dell’Eucaristia da lui non raccontata (§ 541).

§ 546. Un’azione così importante di Gesù, compiuta da lui in circo­stanze cosi solenni, e per dippiù divenuta la base della vita religiosa della Chiesa fin dalla prima generazione cristiana, non poteva non attirare la particolarissima attenzione degli studiosi radicali. Gesù ha realmente compiuto la doppia azione e pronunziato la dop­pia affermazione dell’ultima cena? Ciò che i Sinottici e Paolo narrano su questo argomento è realmente storico, ovvero ha di storico soltanto un piccolo nucleo, ingrandito più tardi e travisato dall’elaborazione della prima generazione cri­stiana? Ebbe Gesù intenzione d’istituire un vero rito stabile da rinnovarsi in seguito dai suoi discepoli, ovvero fece una semplice azione simbolica la quale valeva solo in quanto fatta da lui in quelle circostanze, ma senza ch’egli comandasse di rinnovare l’azione in seguito? Queste ed altre domande concomitanti che furono proposte non ri­guardano soltanto l’Eucaristia in sé ma investono l’intera operosità di Gesù, che sarà valutata differentemente a seconda di come si risponde a queste domande. Se si accetta infatti il racconto dei Si­nottici e di Paolo come sta, bisogna riconoscere che Gesù attribuiva alla sua morte un valore di redenzione (il corpo mio che per voi è dato;… il sangue mio che per molti e’ versato); bisogna anche am­mettere che egli intendeva fondare una particolare religione, con un suo ben distinto rito, il quale ricordasse perennemente la morte re­dentrice del fondatore (ciò fate… nel mio ricordo). Ora, queste ed altre conseguenze smentivano più o meno ampiamente le interpre­tazioni che della figura e opera di Gesù davano le teorie contempo­ranee, da quella della Scuola liberale a quella degli escatologisti il mellifluo predicatore dell’universale paternità divina immaginato dai liberali (§ 204 segg.) non pensava certamente alla sua morte co­me a un vero sacrifizio di redenzione per l’umanità; tanto meno il visionario ritrovato dagli escatologisti poteva preoccuparsi di fon­dare una particolare religione con un ben distinto rito che soprav­vivesse alla catastrofe del « secolo » presente (§ 209 segg.). Per sal­vare dunque le teorie bisognava dimostrare che Gesù non ha affat­to istituito l’Eucaristia; e per ottenere ciò bisognava sottoporre a una vigile interpretazione i racconti dei Sinottici e di Paolo. Ora, noi già sappiamo che le vigili interpretazioni degli studiosi radicali si riducono, immancabilmente, a ripudiare come aggiunti e tardivi quei passi che non s’inquadrano in una preconcetta teoria; ma in questo caso, meglio forse che in ogni altra questione dei vangeli, appare chiaramente la ferrea necessità della logica per cui, quando in siffatti testi si cominci a negare una parte, si finisce inevitabilmente a negare e ripudiare tutto quanto.

§ 547. Si cominciò dunque col negare che Gesù avesse comandato agli Apostoli di rinnovare in seguito il rito, rendendolo un rito pe­renne; poiché infatti il gruppo di Matteo e di Marco non riferisce le parole ciò fate… nel mio ricordo, se ne concluse che tali parole no un’aggiunta posteriore introdotta dal gruppo di Paolo e di Lu­ca, e quindi da ripudiarsi. Rimaneva però ancora molto, cioè che il corpo di Gesù per voi e’ dato, che il calice del suo sangue è il nuovo testamento ed è per mol­ti versato: rimaneva insomma l’idea della morte redentrice del Cri­sto. Ma anche questo molto fu man mano ripudiato con lo stesso procedimento: si decretò che erano tutte aggiunte posteriori, dovute all’influenza delle elaborazioni teologiche di Paolo. E vero che pure nel gruppo di Matteo e di Marco si trova che il sangue del Cristo è il sangue del (nuovo) testamento e che per molti e’ versato in remissione di peccati. Ma ciò che dimostrava? Nulla. Anche questo era da ripudiarsi, come un’aggiunta dovuta all’influenza di Paolo. Rimane­vano quindi, come primitive, le sole parole Questo e’ il corpo mio; Questo è il sangue mio, pronunziate alludendo ai convito messianico, presentando il pane e il vino come simbolo di quel convito, ma sen­za relazione alla sua imminente morte. Eppure, anche dopo queste amputazioni, restavano ancora seri dub­bi. Erano proprio primitive e genuine ambedue quelle affermazioni risparmiate? Ci si ripensò sopra, e si finì per concludere che non potevano essere risparruiate asnbedue. Alla nuova amputazione offrì pretesto il fatto che, tra la congerie di codici antichissimi e tutti so­stanzialmente uniformi, ve n’era uno – il disputatissimo codice di Beza – suffragato da pochi altri di antiche versioni, nel quale il rac­conto di Luca è ridotto a queste parole: E preso il pane, avendo re­so grazie (lo) spezzò e dette loro dicendo: “Questo e’ il corpo mio”; tutto il resto è ivi omesso, compresa la distribuzione del vino e le relative parole. Questo – si disse – era il racconto primitivo: la sola presentazione del pane, senza alcuna contrapposizione del pane-corpo al vino-sangue, ossia senza l’idea della morte, e naturalmente senza il comando di rinnovare il rito in seguito. Rimaneva cosi il pane insieme con la sua presentazione. Eppure an­che questo rudere superstite non soddisfece, se non altro perché trop­po esigno e insignificante. Che cosa, insomma, aveva Gesù inteso fa­re presentando il pane come suo corpo? Non aveva egli mangiato centinaia di volte il pane insieme con i suoi discepoli? Ovvero quella volta il pasto comune aveva un significato particolare come pasto di haberuth, di « colleganza » (§ 39)? Ma in tal caso il suo significato particolare gli proveniva dalla morte imminente di Gesù, e quindi si ritornava alla già respinta relazione con la morte. No, con tutte le precedenti amputazioni non si era ottenuto nulla di sicuro; per trovare un terreno storico più sodo e spazioso bisognava scendere alla liturgia della Chiesa primitiva, e ricercare che cosa intendessero fare quei primi cristiani compiendo il rito dell’Eucaristia e attribuendone l’istituzione a Gesù. E, in primo luogo, era un rito di provenienza giudaica o straniera? Si ricercò nel giudaismo tardivo, ma non se ne trasse nulla di soddisfacente. Fu applicato il metodo della Storia comparata delle reli­gioni (§ 214). Si pensò a primitivi riti di totemismo e di teofagia; più accuratamente s’investigarono i riti di Iside ed Osiride, e l’emo­fagia dei culti di Sabazio e di Dioniso; un’attenzione anche maggiore si portò ai misteri Eleusini e ai banchetti di Mithra. Certamente si trovarono notizie peregrine e si fecero osservazioni importanti su questi riti pagani; ma quando si giunge al vero nodo della questio­ne, ossia alle loro relazioni col rito eucaristico del cristianesimo pri­mitivo, si presero anche lucciole per lanterne e si affermò che una zanzara è uguale in tutto a un’aquila dal momento che ambedue hanno le ali e volano e si nutrono di sangue. Soprattutto, poi, queste dotte ricerche parvero come tanti voli fatti in aria, lontano dal terreno della realtà storica: prima di pensare a Iside ed Osiride e ad altre infiltrazioni orientali, bisognava infatti fare i conti con S. Paolo e vedere se egli lasciava il tempo materiale al penetrare di tali infil­trazioni nel cristianesimo.

§ 548. S. Paolo infatti scrive la sua lettera ai Corinti nell’anno 56, ma egli stesso dice di avere ammaestrato oralmente i Corinti sul rito eucaristico in precedenza (§ 544), ossia quando aveva fondato quella comunità cristiana. Ciò era avvenuto nell’anno 51. Ma anche que­st’anno è troppo tardivo per la nostra questione, perché in quel tem­po Paolo possedeva gia riguardo all’Eucaristia la sua dottrina ben definita e certamente concorde con la catechesi e con la dottrina del­le altre comunità: ossia egli la possedeva già prima del 50, a meno d’un ventennio dall’ultima cena di Gesù. Ma anche da questo ven­tennio sono da togliersi altri anni. Solo verso il 36 Paolo, fino allora intransigente fariseo, passa nel numero dei perseguitati discepoli del Cristo; ma naturalmente ancora per parecchio tempo egli rimane nella penombra e mena una vita o del tutto solitaria o semipubblica fra l’Arabia, Damasco e Tarso. Soltanto col primo grande viaggio missionario Paolo diventa una figura di primo piano nel cristiane­simo primitivo, ma è il viaggio che comincia tra il 44-45 per termi­nare nel 49; siamo con ciò al periodo, testé accennato, in cui Paolo già possedeva una dottrina ben definita riguardo all’Eucaristia. Ora, troppe e troppo inverosimili cose sarebbero da ammassarsi, secondo l’ipotesi radicale, in questo decennio che va dal 36 al 45 circa, per potersi ammettere quell’ipotesi. In primo luogo che Paolo, indomabile avversario dell’idolatria ieri come Fariseo e oggi come discepolo del Cristo, prenda appunto dal­l’idolatria quello che sarà il fondamentale rito liturgico del cristiane­simo; inoltre che egli abbia, in quei suoi primi anni, tanta autorità da diffonderlo nelle chiese cristiane della più diversa origine; poi, che egli riesca cosi rapidamente in questa diffusione da ottenere che già prima del 50 il rito fosse comune, fondamentale, unico. No: questa non è storia; sono voli di fantasia, guidata da preconcetti ma non dai documenti. La pagina di Paolo sull’Eucaristia è tale docu­mento da troncare tutti codesti voli; essa, debitamente illuminata dall’operosità dei primi anni cristiani di Paolo, dimostra che l’apo­stolo ha desunto la sua dottrina eucaristica dalla chiesa di Gerusa­lemme, verso la quale egli ha tenuto sempre fisso lo sguardo e nella quale si è recato anche più volte in persona nel decennio suddetto. E la chiesa di Gerusalemme era quella dov’era avvenuta l’ultima ce­na di Gesù. La forza di questo elementare ragionamento è stata sentita anche nel campo degli studiosi radicali, almeno dai più logici e franchi tra essi. E allora non è rimasto altro che fare l’ultimo passo nella via della negazione, ricorrendo al solito metodo di dichiarare aggiunta e tardiva la pagina di Paolo. E anche questo passo è stato fatto: il rac­conto paolino dell’Eucaristia è stato dichiarato falso e interpolato, per la sola ma decisiva ragione che non si accorda con la teoria pre­concetta (§ 219). Qualunque studioso sereno giudicherà sul carattere scientifico di que­sti procedimenti.

Predizione del rinnegamento di Pietro

§ 549. La cena era finita con la recita della seconda parte dell’Hal­leI (cfr. hymno dicto; Matteo, 26, 30; Marco, 14, 26) e con la con­sumazione della quarta coppa. Ma la comitiva s’intrattenne ancora molto tempo nella sala della cena, come si usava nella notte di Pa­squa (§ 75); durante questo lungo indugio avvenne, secondo Luca (22 31 segg.) e Giovanni (13, 36 segg.) la predizione della dispersione degli Apostoli e del rinnegamento di Pietro, che secondo Mat­teo e Marco semhrerebbe avvenuta dopo l’uscita dalla sala. A un certo punto Gesù, rivoltosi agli Apostoli, mestamente dice loro: Voi tutti prenderete scandalo in me in questa notte; sta scritto infatti “Percoterò il pastore, e saranno disperse. le pecore del gregge” (cfr. Zacharia, I 3, 7). Ma dopo che io sia risorto, vi precederò nella Galilea. Era un’altra ancora di quelle tetre previsioni che davano tanto sui nervi agli Apostoli. La loro insofferenza apparve subito sul viso a parecchi, e specialmente all’impetuoso Pietro. Ma Gesù non cambia tono; anzi, voltandosi proprio verso Pietro, soggiunge: Si­mone! Simone! Ecco il Satana cercò di voi (altri), per vagliar(vi) come (si vaglia) il grano. Ma io pregai per te affinché non venga meno la tua fede; e tu, una volta tornato addietro, conferma i tuoi fratelli. Al bravo Pietro queste parole non piacquero affatto: egli voleva un gran bene a Gesù e, qualunque tentativo avesse fatto Satana, non avrebbe mai commesso contro il maestro alcuna vigliac­cheria da cui sarebbe tornato addietro. Il dispiacere di Pietro si colori anche di un certo risentimento, e in un dialoghetto con Gesù di cui gli evangelisti riportano frasi stac­cate egli disse fra altro: Se tutti si scandalizzeranno in te, io non mai mi scandalizzerò! – Signore! Con te sono pronto ad andare in car­cere e a morte! Nessuno, certamente, avrebbe pensato a richiamare in dubbio la sincerità di Pietro quando parlava cosl; tuttavia Gesù, cal­mo e paziente, gli dette la seguente risposta, riportata da Marco (14, 30) che l’avrà udita centinaia di volte da Pietro stesso quando pre­dicava: in verità ti dico che tu oggi, questa notte, prima che (il) gallo abbia cantato due volte, mi avrai rinnegato tre volte. Questo era troppo per Pietro! Un fiume di proteste e d’attestazioni eruppe allora dalla sua bocca; Marco, volendo forse usare un certo riguar­do al suo padre spirituale, accenna a questo fiume dicendo che Pietro parla in maniera sovrabbondante e ripeteva che, sep­pure avesse dovuto morire insieme col maestro, non lo avrebbe rin­negato. Altrettanto, più o meno, dicevano anche gli altri Apostoli. Gesù dal canto suo mostrava di non avere troppa fiducia, non già sul­la sincerità, ma sulla sodezza di tutte queste attestazioni, e continuò ad esortarli affinché, come avevano avuto fiducia in lui nel passato, l’avessero anche nella durissima lotta che allora stava per cominciare (Luca, 22, 35-37). A questa esortazione, la focosità bellicosa degli A­postoli divampa anche più. Se è venuto il momento di lottare e com­battere, essi sono tutti pronti: o vinceranno a fianco al maestro, o cadranno tutti con le arini in pugno! E passando subito dalle parole ai fatti, rivolgono al loro capitano ciò che sembra quasi un invito a passare in rivista il loro armamento. C’erano in quella sala, forse a caso, due spade. Mostrandole a Gesù, essi gli dicono: Signore, ecco qui due spade! E Gesù con infinita pazienza, forse con un mesto sor­riso, risponde: Basta (così). Quante cose rimanevano velate sotto quel Basta così! Fino all’ultimo momento, né gli Apostoli smentivano la loro grossezza di men­te nel comprendere, né Gesù abbreviava la sua longanimità di cuore nel tollerare.

Gli ultimi colloqui

§ 550. Il solo Giovanni riferisce questi colloqui, conforme alle sue predilezioni e quasi in compenso di non aver riferito l’istituzione dell’Eucaristia. Né letterariamente né concettualmente questi discorsi potranno mai esser classificati o riassunti. Essi sono un’eruzione impetuosa di sen­timenti che non è contenuta né diretta da alcuna norma, ma solo vien giù come scaturisce da un vulcano di amore; e la lava incande­scente s’avanza ora pianamente e ora a sbalzi, con progressi e con retroversioni, inonda monticelli e burroni, e travolgendo tutto tra­sforma ogni zona sommersa in un lago infiammato. L’amore per il Padre celeste: l’amore per i discepoli terrestri. Il Pa­dre, a cui fra ore Gesù ritorna: i discepoli, da cui fra ore egli si allontana. Ma sebbene tanto sublimi, questi colloqui non astraggono dalla real­tà umana e terrena, bensi in alcuni punti la seguono minutamente con l’intenzione appunto di farla diventare una realtà transumana e ultraterrena. La piena effusione d’amore era trattenuta ancora da un impedimen­to, la presenza di Giuda; ma quando costui uscì, Gesu’ disse: “Ades­so fu glorificato il figlio dell’uomo, e Iddio fu glorificato in lui; se Iddio fu glorificato in lui, pure Iddio lo glorificherà in lui (stesso) e subito lo glorificherà. Figliolini, ancora un poco sono con voi. Mi cercherete, e come dissi ai Giudei “dove io vado voi non potete venire’” (§ 419), (così) pure a voi dico adesso. Un comandamento nuovo vi do che vi amiate gli uni gli altri; come (io) vi amai, (comando) che pure voi vi amiate gli uni gli altri. In ciò conosceranno tutti che siete miei discepoli, qua­lora abbiate amore gli uni agli altri”. Con ciò Gesù ha consegnato la tessera di riconoscimento ai propri di­scepoli. Nell’antichità, sia giudaica sia greco-romana, le varie associa­zioni o religiose o culturali o d’altro genere avevano spesso una nota distintiva che contrassegnava la loro operosità e serviva quasi da tessera 1di riconoscimento ai propri membri: talvolta, anche, essi si servivano di un motto, di un aforisma, che rispecchiava in qualche modo quella nota distintiva. Qui, per Gesù, la nota distintiva che servirà da tessera di riconoscimento per i suoi seguaci dovrà essere, non la scienza della “tradizione” come per i Farisei né la scienza dei numeri come per i Pitagorici né altre scienze o altre pratiche co­me per altre associazioni, bensi la scienza e la pratica dell’amore. Perciò egli ha chiamato questo suo precetto un comandamento nuo­vo, perché in realtà nessun fondatore di precedenti associazioni aveva pensato di assegnarlo e distribuirlo ai propri seguaci come tessera di riconoscimento. Se alla civiltà d’allora Roma aveva contribuito creando la Forza e il Diritto; se, anche prima, la Grecia aveva elargito all’umanità la Bellezza e la Sapienza; se, proprio in quell’epoca, le varie religioni orientali diffondevano nel mondo greco-romano correnti mistiche d’indole varia: nessuno ancora aveva importato come forza sociale l’amore, perché l’”amore”, nel più ampio senso – ossia la carità – ancora non era staton “inventato”. E la novità di questo elemento allora importato fece grande impres­sione sui contemporanei. E’ noto il passo di Tertulliano che, descrivendo questa impressione, riferisce le esclamazioni dei pagani riguardo ai cristiani: “Guarda come si amano fra loro!” (essi in/atti si odiano fra loro). “E come son pronti a morir l’uno per l’altro” (essi infatti sono anche piu’ pronti ad ammazzarsi l’un altro). D’ora innanzi la futura società umana dovrà fare i conti con questa novità inventata e importata da Gesù, e il vero progresso umano sarà misurato in ragione di quanto la legge dell’”amore-ca­rità” sarà realmente obbedita.

§ 551. Dopo un dialogo con Pietro e con Tommaso, Gesù continuò: “In verità, in verità vi dico, chi ha fede in me le opere che io faccio anch’egli farà, e maggiori di queste farà perché io vado al Padre; e ciò che chiediate in nome mio lo farò, affinché sia glorificato il Padre nel Figlio: se mi chiederete alcunché in mio nome” io (lo) farò. Se mi amate, custodite i miei comandamenti. E io pregherò il Padre ed (egli) vi darà un altro difensore affinché sia insie­me con voi in eterno, (cioe’) lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede nè conosce; voi (invece) lo cono­scete, perché presso voi rimane ed in voi sarà. Non vi lascerò orfani: verrò a voi. Ancora un poco e il mondo non mi vede piu’; voi invece mi vedete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi conoscerete che io (sono) nel Padre mio, e voi in me, e io in voi. Chi ha i miei comandamenti e li custodisce, questi è colui che mi ama; colui poi che mi ama sarà amato dal Padre mio, ed io l’amerò e manifesterò me stesso a lui”. All’udire tutto ciò i poveri Apostoli non potevano non sentirsi quasi del tutto smarriti, e dovevano brancolare fra quei concetti come in mezzo ad una nebbia luminosa. Una nuova domanda, fatta questa volta da Giuda (Taddeo), svia alquanto il discorso; poi Gesù ripren­de: “Pace lascio a voi, la pace mia do a voi: non come il mondo (la) dà, io (la) do a voi. Non si turbi il vostro cuore nè si sgomenti. Udiste che io vi dissi “vado, e (poi) vengo a voi”; se mi amaste, go­dreste che io vado al Padre, perché il Padre e’ maggiore di me. E adesso ve (l’)ho detto prima che avvenga, affinché quando sia avvenuto crediate. Non parlerò piti con voi di molte cose, perché il prin­cipe del mondo sta per venire; e in me non ha nulla, bensì (ciò ac­cade) affinché il mondo conosca che io amo il Padre e come il Pa­dre mi comandò cosi faccio. Sorgete: partiamo di qua “ E’ molto probabile che questo invito a partire dal cenacolo non fosse immediatamente eseguito, giacché la vera uscita dalla città è segna­lata molto più tardi, a colloqui finiti (Giov., 18, 1); fu dunque quasi un generico ricordo che bisognava abbandonare quel luogo di cal­da intimità, quell’ultimo convegno di Gesù con i suoi diletti prima della morte. Ma, come suole avvenire in occasione di distacchi su­premi, quel primo appello a partire fu seguito da un altro indugio amoroso in cui Gesù seguitò a parlare, provocato forse da questo o quello dei presenti: frattanto il prediletto dei discepoli attentissima­mente raccoglieva le sue parole e se le imprimeva nella vigile memo­ria, per ripeterle più tardi come evangelista spirituale (§§ 167 segg., 290).

§ 552. Immediatamente infatti dopo l’appello alla partenza, Gesù continua: “Io sono la vite vera, e il Padre mio e’ il viticultore… Io sono la vite, voi i tralci; chi rimane in me e io in lui, costui porta molto frutto, perché senza me non potete far niente. Se alcuno non riman­ga in me sarà gettato fuori come il frascame e si disseccherò, e lo raccoglieranno in fasci e getteranno nel fuoco e brucerà; qualora (invece) rimaniate in me le mie parole rimangano in voi, domandate ciò che vogliate e sarà (dato) a voi. In ciò fu glorificato il Padre mio, che portiate molto frutto e siate miei discepoli. Come amò me il Padre, anch’io amai voi: rimanete nel mio amore. Qualora custodiate i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho custodito i comandamenti del Padre mio e rimango nel­l’amore di lui. Di queste cose ho parlato con voi affinché il mio gau­dio sia in voi e il gaudio vostro sia compiuto. Questo e’ il coinandamento mio, che vi amiate gli uni gli altri come (io) vi amai: maggiore di questo nessuno ha un amore, che taluno la sua vita (ri)metta in pro dei suoi amici. Voi siete amici miei, qualora facciate ciò che io vi comando. Non vi dico piu’ servi, perché il servo non sa che cosa fa il suo signore: vi ho detti invece amici, perché tutte le cose che udii dal Padre mio resi note a voi… Queste cose vi comando” che vi amiate gli uni gli altri. Se il mondo vi odia, conoscete che ha odiato me prima di voi. Se foste dal mon­do, il mondo amerebbe la (sua) proprietà; perché invece non siete dal mondo bensi io vi trassi fuori dal mondo, per questo il mondo vi odia… Di queste cose ho parlato a voi affinché non vi scandatizziate. Vi renderanno privi di sinagoga. (§ 430), anzi verrà un’ora in cui chiun­que vi uccida creda di ofirire culto a Iddio; e faranno tali cose per­ché non conobbero il Padre nè me. Tuttavia vi ho parlato di queste cose, affinché quando venga la loro ora vi rammentiate di esse, che io ve (le) dissi; non vi dissi invece queste cose da principio, perché ero con voi. Ma adesso me ne vado a Colui che m’inviò…”. Dopo altre intertogazioni degli Apostoli, Gesù chiude il colloquio dicendo “Di queste cose vi ho parlato, affinché in me abbiate pace: nel mon­do avete tribolazione. Tuttavia fatevi coraggio: io ho vinto il mon­do”.

§ 553. Dopo questi colloqui con gli Apostoli, l’evangelista spirituale soggiunse immediatamente quel colloquio di Gesù col Padre celeste ch’è designato comunemente dagli studiosi come la “preghiera sa­cerdotale” (Giov., 17, 1-26). In essa Gesù prega dapprima il Padre per se stesso, per esser da lui glorificato (17, 1-5); quindi per gli Apostoli, perché siano protetti nella loro futura missione (17, 6-19); infine per tutti coloro che crederanno in lui (17, 20-26). E’ la più lunga preghiera di Gesù riportata nei vangeli; e con fine accortezza provvide Giovanni a far si che questo inestimabile tesoro, tralasciato dai Sinottici, non andasse perduto perché egli lo considerò giusta­mente come riepilogo di tutta l’operosità di Gesù, quasi ultimo fiore di fuoco sbocciato sul sommo vertice della sua vita. Più in su di quel fiore luminoso non c’è che il cielo del Padre: Tali cose parlò Gesu’; ed elevati i suoi occhi al cielo, disse: “Padre” è venuta l’ora. Glorifica il figlio tuo affinché il figlio glorifichi te, conforme gli desti potestà su ogni carne, affinché a tutti coloro che gli hai dati (egli) dia vita eterna. Ora, questa e’ la vita eterna, che cono­scano te, il solo vero Dio, e colui che inviasti, Gesu’ Cristo. Io ti glo­rificai sulla terra, avendo compiuto l’opera che mi hai data da fare; e adesso tu, Padre, glorifica me presso te stesso con la gloria che avevo, prima che il mondo fosse, presso di te. Manifestai il tuo nome agli uomini che mi desti dal mondo. Tuoi erano e a me li desti, e la tua parola hanno custodita. Adesso san­no che tutte quante le cose che mi hai date sono da te: poiché le parole che desti a me (io) ho date a loro, ed essi (le) ricevettero e conobbero veramente che da te uscii e credettero che tu m’inviasti. Io per essi prego: non per il mondo prego, ma per quelli che mi hai dati perché sono tuoi; e tutte le cose mie sono tue, e le tue (sono) mie e sono stato glorificato in esse. E (io) non sono piu’ nel mondo – mentre essi sono nel mondo – e io vengo a te. Padre santo, cu­stodiscili nel nome tuo che mi hai dato, affinché siano una sola cosa come noi. Quando ero con loro, io li custodivo nel nome tuo che mi hai dato, e feci guardia, e nessuno di essi perì se non il figlio della perdizione affinché s’adempisse la Scrittura. Ma adesso vengo a te, e queste cose parlo nel mondo affinché abbiano il gaudio mio compiuto in se stessi. Io ho dato a loro la tua parola, e il mondo li odiò perché (essi) non sono dal mondo come io non sono dal mon­do. Non prego che (tu) li tolga dal mondo, bensì che li custodisca dal male: dal mondo non sono (essi), come io non sono dal mondo. San­tificali nella verità: la tua parola è verità. Come (tu) inviasti me nel mondo, anch’io inviai essi nel mondo; e per essi io santifico me stes­so, affinché siano anch’essi santificati ne(lla) verità. Non prego però per questi soltanto, ma anche per quelli che credono in me mediante la loro parola, affinché tutti siano una sola cosa come tu Padre (sei) in me e io in te, affinché anche essi siano in noi, affinché il mondo creda che tu m’inviasti. Io pure la gloria che mi hai data ho data ad essi, affinché siano una sola cosa come noi (siamo) una sola cosa. Io in essi e tu in me, affinché siano consumati in uno affinché conosca il mondo che tu inviasti me e amasti essi come amasti me. Padre, quei che mi hai dati vo­glio che dove sono io anch’essi siano come me, affinché vedano la gloria mia che mi hai data, perché mi amasti prima della creazione del mondo. Padre giusto, ancorché il mondo non ti conobbe, io in­vece ti conobbi, e costoro conobbero che tu m’inviasti; e resi noto ad essi il tuo nome e (lo) renderò noto, affinché l’amore col quale mi amasti sia in essi ed io in essi ».

Vita di Gesù 18ultima modifica: 2010-09-07T17:01:00+02:00da meneziade
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