Capitolo ventitreesimo
1 Allora Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo: 2 “Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi
e i farisei. 3 Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non
fanno. 4 Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli
neppure con un dito. 5 Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini: allargano i loro filattèri e
allungano le frange; 6 amano posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe 7 e i saluti nelle piazze,
come anche sentirsi chiamare “rabbì” dalla gente. 8 Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il
vostro maestro e voi siete tutti fratelli. 9 E non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il
Padre vostro, quello del cielo. 10 E non fatevi chiamare “maestri”, perché uno solo è il vostro Maestro, il
Cristo. 11 Il più grande tra voi sia vostro servo; 12 chi invece si innalzerà sarà abbassato e chi si abbasserà
sarà innalzato.
Ogni pagina del vangelo è scritta per la Chiesa. Gli scribi e farisei siamo noi, invitati a riconoscerci in loro. Il
problema presentato da questo brano è sempre lo stesso: al centro di tutto poniamo Dio o il nostro io?
Gesù critica gli scribi e i farisei, e noi con loro, perché fanno tutto per essere visti e lodati: “Fanno tutte le loro
opere per essere visti dagli uomini” (v. 5). Si preoccupano di recitare la parte dell’uomo pio e devoto più che
di vivere un sincero rapporto con Dio.
La falsità è abbinata ovviamente a una buona dose di vanità e di orgoglio. In un mondo in cui la religione è
tenuta in considerazione le persone religiose acquistano automaticamente la massima reputazione. Esse
occupano, quasi per convenzione comune, il posto di onore dovuto a Dio. Difatti gli scribi e i farisei con la
loro pietà simulata hanno posti di riguardo nelle sinagoghe e nei conviti, e quando appaiono in pubblico
ricevono da ogni parte inchini, ossequi e saluti nei quali vengono scanditi con esattezza i loro titoli onorifici.
Anche i discepoli di Gesù sono esortati a rifuggire da questi comportamenti segnalati nei farisei e negli scribi.
I titoli onorifici e le rivendicazioni di potere sono fuori luogo perché essi sono tutti fratelli, figli dello stesso
Padre (v. 8) e sono guidati dallo stesso Cristo presente in loro (v. 10).
Nella comunità cristiana i più grandi sono gli ultimi e l’unico primato che conta è quello dell’abbassamento e
del servizio (v. 11). In essa non devono nemmeno circolare gli appellativi che indicano distinzione e
discriminazione che mettono in evidenza un preteso diritto di controllo e di dominio di alcuni sugli altri.
Spesso succede che il nostro Signore, al quale diamo del tu, è predicato da signori ai quali diamo del lei.
Alla fine Gesù deve ricorrere ai comandi (sia vostro servo: v. 11) e alle minacce per abbassare chi si era
elevato al di sopra degli altri (v. 12).
Matteo sta mettendo a confronto due immagini di Chiesa. L’una farisaica, pomposa, appariscente e vuota,
dominata da capi avidi di onore e di potere; l’altra cristiana, costituita da amici e da fratelli. Quest’ultima non
è anarchica, perché è guidata direttamente da Cristo e dal Padre, di cui tutti sono ugualmente figli. Coloro
che vi esercitano funzioni o incarichi sono chiamati a testimoniare con le opere più che con le parole (cfr v.
3) la presenza invisibile del Padre, non a sostituirla. Perché egli non è mai assente.
La Chiesa di Cristo è una comunità di uguali, una fraternità che ha come criterio di discernimento il servizio.
In essa esiste una diversità di ruoli e di responsabilità, che però devono essere svolti come servizio. Questo
stile ha come modello Gesù stesso, il quale è venuto per servire (cf. Mt 20,26).
La logica dei rapporti che deve regolare la comunità cristiana è quella dell’umiltà. La condizione dettata da
Gesù: “se non vi convertirete e non diventerete come bambini, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 18,3) è
l’atteggiamento esattamente opposto a quello dell’autoesaltazione degli scribi e dei farisei.
13 Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti agli uomini; perché così voi non vi
entrate, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrarci 14 .
15 Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra per fare un solo proselito e, ottenutolo,
lo rendete figlio della Geenna il doppio di voi.
16 Guai a voi, guide cieche, che dite: Se si giura per il tempio non vale, ma se si giura per l’oro del tempio si è
obbligati. 17 Stolti e ciechi: che cosa è più grande, l’oro o il tempio che rende sacro l’oro? 18 E dite ancora: Se
si giura per l’altare non vale, ma se si giura per l’offerta che vi sta sopra, si resta obbligati. 19 Ciechi! Che
cosa è più grande, l’offerta o l’altare che rende sacra l’offerta? 20 Ebbene, chi giura per l’altare, giura per
l’altare e per quanto vi sta sopra; 21 e chi giura per il tempio, giura per il tempio e per Colui che l’abita. 22 E
chi giura per il cielo, giura per il trono di Dio e per Colui che vi è assiso.
Attraverso i “guai” rivolti agli scribi e ai farisei, Gesù istruisce la folla e i discepoli. Egli mette in guardia i
discepoli dai cattivi comportamenti che vengono segnalati, perché anch’essi vi potrebbero incappare.
Il senso del “guai a voi!” è “ahimè per voi!”: non esprime una minaccia, ma il dolore per la situazione
dell’altro. E’ un’espressione di sincero amore, non di aggressività né tanto meno di cattiveria. E’ un lamento.
L’ipocrisia è la differenza tra l’essere e l’apparire, il non riconoscere l’ordine dei valori, ciò che è più
importante e ciò che lo è meno, ciò che è centrale e ciò che è periferico.
L’immagine del chiudere presuppone che essi siano i detentori del potere delle chiavi, ossia che possiedano
l’autorità dell’insegnamento. Essi, servendosi della propria autorità, sbarrano agli uomini loro sottomessi
l’accesso al regno dei cieli. Le autorità giudaiche impediscono l’accettazione del vangelo di Gesù.
Viene messa in discussione anche la loro attività missionaria. Flavio Giuseppe in Ap. 2,10.39 attesta i
successi dell’attività missionaria dei giudei della diaspora dopo la distruzione di Gerusalemme del 70 d.C.
L’appellativo “guide cieche” evidenzia nuovamente la loro smania di fare proseliti. Probabilmente Matteo si
riferisce all’attributo onorifico “guide di ciechi” che si dava ai missionari giudei (cf. Rm 2,19).
Il “guai” del v. 16 riguarda anche l’abuso del giuramento. La situazione era questa: si usavano diverse
formule di giuramento. Questo avveniva per rispetto verso il nome santo di Dio. Per non pronunciarlo si
giurava per il cielo, per Gerusalemme o per altro (cf. Mt 5,34-35). Probabilmente ne derivò la triste
conseguenza che coloro che giuravano il falso, quando erano scoperti, replicavano di non aver giurato per
Dio e quindi non erano tenuti a mantenere il giuramento. Gesù non approva le cautele casuistiche adottate
nel giuramento. Esse sono espressione di stoltezza e di cecità.
I vv. 21-22 sottolineano l’unità di tempio, cielo e Dio. Il tempio e il cielo appartengono a Dio, sono la sua casa
e il suo trono (cf. 1Re 8,13; Sal 26,8; Is 66,1; Mt 5,34). Ogni giuramento è chiamare Dio come testimone,
quindi l’abuso del giuramento è contro Dio.
23 Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pagate la decima della menta, dell’anèto e del cumìno, e trasgredite
le prescrizioni più gravi della legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà. Queste cose bisognava praticare,
senza omettere quelle. 24 Guide cieche, che filtrate il moscerino e ingoiate il cammello!
25 Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pulite l’esterno del bicchiere e del piatto mentre all’interno sono pieni
di rapina e d’intemperanza. 26 Fariseo cieco, pulisci prima l’interno del bicchiere, perché anche l’esterno
diventi netto!
In questo brano Gesù continua a smascherare l’ipocrisia, o meglio gli ipocriti. L’ipocrita è un uomo che
recita. Ama la pubblicità. Ogni suo gesto ha il solo scopo di attirare l’attenzione su di sé (cf. Mt 6,1-6). La
radice profonda dell’ipocrisia è la ricerca di sé, il fare tutto per sé, non per gli altri o per Dio. E’ l’egoismo,
l’esatto contrario dell’amore (cf. 1Cor 13,1-7).
Il quarto “guai” è rivolto contro il capovolgimento dell’ordine dei valori. Gli scribi e i farisei ritenevano più
importanti le prescrizioni esterne che i doveri morali fondamentali.
Il pagamento della decima della menta, dell’aneto e del cumino, le erbe aromatiche più in uso, pare
un’esagerazione. Nella legge era previsto solo il pagamento della decima per l’olio, il mosto, i cereali, che
poi fu esteso al raccolto in genere (cf. Nm 18,22; Dt 14,22-23; Lv 27,30). Le cose più importanti nella legge
sono il diritto, la misericordia, la fede.
Il quinto “guai” riguarda quelli che non tengono in debito conto il nesso inscindibile tra interno ed esterno. In
termini concreti si parla di pulire il bicchiere e la scodella, come prevedevano le prescrizioni farisaiche sulla
purità. Ma lo scopo del discorso è la pulizia della coscienza piena di rapina e di iniquità.
La cura della pulizia del bicchiere viene utilizzata per evidenziare la discutibilità di un comportamento morale
che si preoccupa solamente dell’apparenza esterna e non della realtà interiore. L’esortazione rivolta al
fariseo cieco, a pulire anzitutto l’interno del bicchiere, è ora un invito ad allontanare dal cuore e dalla vita
ogni malvagità.
27 Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all’esterno sono belli a
vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume. 28 Così anche voi apparite giusti
all’esterno davanti agli uomini, ma dentro siete pieni d’ipocrisia e d’iniquità.
29 Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che innalzate i sepolcri ai profeti e adornate le tombe dei giusti, 30 e dite:
Se fossimo vissuti al tempo dei nostri padri, non ci saremmo associati a loro per versare il sangue dei profeti;
31 e così testimoniate, contro voi stessi, di essere figli degli uccisori dei profeti. 32 Ebbene, colmate la misura
dei vostri padri!
Il sesto “guai” paragona gli scribi e i farisei a sepolcri imbiancati. Per una comprensione precisa del
paragone occorre ricordare le usanze giudaiche relative alla sepoltura. Il defunto, avvolto in un lenzuolo,
veniva deposto in una tomba costituita da una grotta o da una roccia scavata. Dopo circa un anno, le sue
ossa venivano raccolte in un contenitore e definitivamente sepolte in campi o grotte, chiamati “case delle
ossa”. Questi luoghi di sepoltura erano dipinti con calce perché si potessero facilmente riconoscere. La tinta
era rinnovata ogni anno, dopo il tempo delle piogge. In questo modo si voleva evitare che qualcuno si
avvicinasse alle tombe e contraesse una contaminazione prevista dalla legge. Qui si parla di queste “case
delle ossa”.
Come nel caso dei sepolcri il colore bianco è solo una tinta che nasconde penosamente le ossa dei morti,
così la giustizia degli scribi e dei farisei è soltanto esteriore. Dicendo che il loro interno è pieno di ipocrisia e
di iniquità si riprendono vocaboli particolarmente cari al vangelo di Matteo, che designano la lontananza da
Dio. E’ possibile anche che il confronto con le tombe imbiancate, accostandosi alle quali ci si può
contaminare, intenda suggerire l’idea che nel rapporto con gli scribi e i farisei occorre stare attenti a non
contaminarsi.
Il settimo “guai” riguarda la venerazione dei profeti e dei giusti, che gli scribi e i farisei esprimono edificando
ad essi sepolcri e monumenti. Facendo riferimento alla continuità tra padri e figli, questo testo getta uno
sguardo d’insieme sulla storia d’Israele.
Per capire il testo bisogna rifarsi al v. 30 secondo il quale gli scribi e i farisei si dichiarano innocenti del male
di cui si sono resi colpevoli i loro padri spargendo il sangue dei profeti, perché essi non si sarebbero
comportati come i loro antenati.
L’edificazione dei monumenti sepolcrali vorrebbe dimostrare il loro cambiamento di mentalità e la riparazione
del male commesso dai loro padri. Ma i versetti immediatamente successivi intendono dimostrare che essi,
rifiutando la conversione, si comportano nei confronti dei profeti inviati a loro, alla stessa maniera dei loro
padri.
Per quanto ci riguarda, noi possiamo leggere questo testo come invito all’autocritica. Matteo ce lo fa capire
mettendo il rimprovero ai farisei in un discorso che è rivolto alla folla e ai discepoli (23,1), cioè alla comunità
cristiana.
Se applichiamo queste invettive, o meglio, queste lamentazioni di Cristo, a noi stessi e alla Chiesa dei nostri
giorni, dobbiamo verificare se la nostra vita di fede è soltanto esteriorità, attivismo religioso e legalismo.
S. Girolamo ha scritto ai cristiani del suo tempo: “Guai a noi, i vizi dei farisei sono passati a voi!”.
33 Serpenti, razza di vipere, come potrete scampare dalla condanna della Geenna? 34 Perciò ecco, io vi
mando profeti, sapienti e scribi; di questi alcuni ne ucciderete e crocifiggerete, altri ne flagellerete nelle
vostre sinagoghe e li perseguiterete di città in città; 35 perché ricada su di voi tutto il sangue innocente
versato sopra la terra, dal sangue del giusto Abele fino al sangue di Zaccaria, figlio di Barachìa, che avete
ucciso tra il santuario e l’altare. 36 In verità vi dico: tutte queste cose ricadranno su questa generazione.
37 Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono inviati, quante volte ho voluto
raccogliere i tuoi figli, come una gallina raccoglie i pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto! 38 Ecco: la vostra
casa vi sarà lasciata deserta! 39 Vi dico infatti che non mi vedrete più finché non direte: Benedetto colui che
viene nel nome del Signore!”.
Ritroviamo qui il tema sviluppato nella parabola dei vignaioli omicidi (21,34-36) e in quella degli invitati alle
nozze (22,3-6). L’ora del giudizio annunciata da Giovanni Battista (3,7-12) è arrivata. Il profetismo dell’Antico
Testamento ha trovato in Gesù e nella sua comunità l’adempimento di una storia dolorosa: rifiutare i profeti
del Nuovo Testamento è rifiutare Gesù (17,12-13). Questa lunga storia di assassinii, dal primo, quello di
Abele (Gen 4,8) fino all’ultimo, (narrato nell’ultimo libro del canone giudaico) quello di Zaccaria (che secondo
2Cr 24,20-22 è figlio di Joiada e non di Barachia) sono stati profezia dell’assassinio di Cristo, nel quale si
adempiono tutte le vicissitudini dei profeti.
Gesù termina la sua requisitoria rivolgendosi a Gerusalemme. Il tono di tristezza che a prima vista contrasta
con il tono violento dell’apostrofe contro gli scribi e i farisei è la conferma migliore di quanto abbiamo detto
nelle pagine precedenti: il “guai a voi…!” (gr. o?aì) non è una maledizione, ma un grido di dolore e di amore
verso coloro che rifiutano la gioia della salvezza manifestata in Gesù. L’immagine della gallina, che raduna i
suoi piccoli e veglia su di loro, esprime la sollecitudine divina (cf. Dt 32,10-11; Sal 17,8; 36,8; Is 31,5). A
questa sollecitudine manifestata tante volte da Gesù, Gerusalemme ha opposto un netto rifiuto: “Voi non
avete voluto!”. Nel “quante volte” e nel “non avete voluto” è racchiusa la storia dell’instancabile fedeltà di Dio
e l’ostinazione del suo popolo. La storia di un amore insistente e sempre respinto. Non c’è stato solo il rifiuto,
ma l’indifferenza, il disprezzo e l’uccisione degli annunciatori della bella notizia.
Come abbiamo già detto, l’ultima frase di questo capitolo lascia ancora aperta la possibilità al ravvedimento.
Queste parole si riferiscono probabilmente all’ultimo ritorno di Cristo, alla fine dei tempi. Anche i giudei
saluteranno questo ritorno perché allora saranno convertiti (cf. Rm 11,25-31).
Capitolo ventiquattresimo
1 Mentre Gesù, uscito dal tempio, se ne andava, gli si avvicinarono i suoi discepoli per fargli osservare le
costruzioni del tempio. 2 Gesù disse loro: “Vedete tutte queste cose? In verità vi dico, non resterà qui pietra
su pietra che non venga diroccata”.
3 Sedutosi poi sul monte degli Ulivi, i suoi discepoli gli si avvicinarono e, in disparte, gli dissero: “Dicci
quando accadranno queste cose, e quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo”.
4 Gesù rispose: “Guardate che nessuno vi inganni; 5 molti verranno nel mio nome, dicendo: Io sono il Cristo,
e trarranno molti in inganno. 6 Sentirete poi parlare di guerre e di rumori di guerre. Guardate di non
allarmarvi; è necessario che tutto questo avvenga, ma non è ancora la fine. 7 Si solleverà popolo contro
popolo e regno contro regno; vi saranno carestie e terremoti in vari luoghi; 8 ma tutto questo è solo l’inizio dei
dolori. 9 Allora vi consegneranno ai supplizi e vi uccideranno, e sarete odiati da tutti i popoli a causa del mio
nome. 10 Molti ne resteranno scandalizzati, ed essi si tradiranno e odieranno a vicenda. 11 Sorgeranno molti
falsi profeti e inganneranno molti; 12 per il dilagare dell’iniquità, l’amore di molti si raffredderà. 13 Ma chi
persevererà sino alla fine, sarà salvato. 14 Frattanto questo vangelo del regno sarà annunziato in tutto il
mondo, perché ne sia resa testimonianza a tutte le genti; e allora verrà la fine.
I momenti di crisi sono particolarmente favorevoli al sorgere dei messianismi, momenti in cui si vive l’attesa
di un redentore che instaurerà un ordine nuovo. Ai tempi di Gesù c’erano le correnti messianiche degli
esseni e degli zeloti. Al tempo di Matteo c’erano molti agitatori politici (cfr. At 5,36; 21,38) e di anticristi di
ogni genere (cf. 1Gv 2,18.22; 4,3 e 2Gv 7; 2Ts 2,3-12; Ap 13,4-18). Le guerre e le catastrofi fanno nascere
nel cuore timori e speranze. Esse svelano all’uomo la fragilità della sua esistenza e lo invitano a porsi
l’interrogativo della vera salvezza. Questi avvenimenti possono essere considerati l’inizio delle doglie del
parto del Regno (v. 8). Inoltre, le persecuzioni cui sono sottoposti i credenti nel nome di Cristo (v. 9) e la
fermezza con cui le affronteranno, saranno la testimonianza autentica della verità del loro impegno per il
vangelo del regno (v. 14). Matteo considera qui l’opposizione cui necessariamente va incontro chiunque
annuncia la parola di Dio, in qualunque epoca della storia.
La fine del vecchio mondo e l’inizio del nuovo è legata alla venuta gloriosa del Cristo (cf. 1Cor 15,23ss). Il
termine parousia (presenza o venuta) non è necessariamente legato alla sua ultima venuta: può significare
anche la manifestazione potente con la quale egli verrà a stabilire il suo regno messianico (la Chiesa) sulle
rovine del giudaismo (cf. Mt 16,27-28) e del paganesimo (Ap 13-19). Il mondo che deve finire non è
l’universo, ma il vecchio mondo umano (cf. At 2,16-21): è la fine dell’era preparatoria della salvezza e l’inizio
dei tempi nuovi della salvezza realizzata nella morte e risurrezione di Cristo.
Gli avvenimenti apocalittici, le guerre e le persecuzioni non chiudono definitivamente la storia, ma la avviano
verso un nuovo corso. Per questo le calamità sono paragonate alle doglie di un parto (v 8). Matteo invita a
guardare i segni premonitori non come un annuncio funebre ma come un preludio di vita nuova. Sono i dolori
che annunciano la nascita di un mondo nuovo, ossia di un’umanità nuova (cf. Ap 12,2).
Il discorso di Gesù vuole incoraggiarci, perché non siamo senza speranza, come quelli che ignorano il
disegno di Dio sul mondo (cf. 1Ts 4,13). Vuole toglierci la paura che è la madre di ogni inganno. Ciò che ci
attende non è un’inevitabile catastrofe, ma la più bella prospettiva che possiamo desiderare.
Nei vv. 34-36 ci dirà che tutto questo avviene “in questa generazione”, ossia in ogni generazione. Per questo
seguiranno le parabole sulla vigilanza e sull’operosità (vv. 37-51).
Questo tema sarà sviluppato nel capitolo 25 con tre grandi parabole: la prima sulla vigilanza (25,1-13), la
seconda sulla responsabilità (25,14-30) e la terza sul giudizio finale, che dipende esclusivamente da ciò che
facciamo ora (25,31-46).
15 Quando dunque vedrete l’abominio della desolazione, di cui parlò il profeta Daniele, stare nel luogo santo –
chi legge comprenda -, 16 allora quelli che sono in Giudea fuggano ai monti, 17 chi si trova sulla terrazza non
scenda a prendere la roba di casa, 18 e chi si trova nel campo non torni indietro a prendersi il mantello. 19
Guai alle donne incinte e a quelle che allatteranno in quei giorni. 20 Pregate perché la vostra fuga non accada
d’inverno o di sabato.
21 Poiché vi sarà allora una tribolazione grande, quale mai avvenne dall’inizio del mondo fino a ora, né mai
più ci sarà. 22 E se quei giorni non fossero abbreviati, nessun vivente si salverebbe; ma a causa degli eletti
quei giorni saranno abbreviati. 23 Allora se qualcuno vi dirà: Ecco, il Cristo è qui, o: E’ là, non ci credete. 24
Sorgeranno infatti falsi cristi e falsi profeti e faranno grandi portenti e miracoli, così da indurre in errore, se
possibile, anche gli eletti. 25 Ecco, io ve l’ho predetto.
26 Se dunque vi diranno: Ecco, è nel deserto, non ci andate; o: E’ in casa, non ci credete. 27 Come la folgore
viene da oriente e brilla fino a occidente, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. 28 Dovunque sarà il
cadavere, ivi si raduneranno gli avvoltoi.
Il segno della fine è annunciato con termini ispirati al profeta Daniele: “Quando dunque vedrete l’abominio
della desolazione… stare nel luogo santo…” (Dn 9,27; 11,31; 12,11). Sia nel libro di Daniele, sia nel primo
libro dei Maccabei (1,54) si tratta di un’allusione alla profanazione del tempio da parte di Antioco Epifane (nel
167 a.C.) che aveva innalzato una statua di Zeus Olimpio sull’altare degli olocausti (cfr. 2Mac 6,2). In questo
contesto possiamo intravedere la distruzione del tempio per opera dei romani nel 70 d.C., ma non solo.
Bisogna vedervi la fede dei credenti messa alla prova dal diffondersi dell’ateismo in qualunque epoca e in
qualunque modo esso si manifesti.
La vera fede garantisce contro il terrore, perché è la presenza del Signore in mezzo alla sua comunità ed è
capace di far discernere il regno di Dio là dove realmente si manifesta, nonostante la propaganda fuorviante
di falsi cristi e dei falsi profeti (v. 24; cfr. v. 11). L’immagine del lampo (v. 27) indica la subitaneità della
venuta del Figlio dell’uomo, ma soprattutto il suo carattere di visibilità universale: il lampo infatti fa parte delle
teofanie dell’Antico Testamento (cf. Es 19,6; Is 29,6; 30,27.30.33; Zc 9,14; Sal. 18,14-15; 97,3-4; 144,5-6;
ecc.). Gli uccelli rapaci che si radunano attorno al cadavere, suggeriscono l’orrore della rovina e della
distruzione e la sicurezza dell’istinto dei rapaci. Questo proverbio esprime l’idea di una manifestazione
evidente: un cadavere, anche se nascosto, è subito segnalato dal volo degli avvoltoi.
Gesù ci mette in guardia contro gli allarmismi sulla fine del mondo, per farci vivere il presente come il tempo
di grazia nel quale possiamo nascere come figli di Dio e vivere da fratelli.
29 Subito dopo la tribolazione di quei giorni,
il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce,
gli astri cadranno dal cielo e le potenze dei cieli saranno sconvolte.
30 Allora comparirà nel cielo il segno del Figlio dell’uomo e allora si batteranno il petto tutte le tribù della terra,
e vedranno il Figlio dell’uomo venire sopra le nubi del cielo con grande potenza e gloria. 31 Egli manderà i
suoi angeli con una grande tromba e raduneranno tutti i suoi eletti dai quattro venti, da un estremo all’altro
dei cieli.
Un nuovo sviluppo sul carattere manifesto della venuta del Figlio dell’uomo (vv. 29-31) descrive lo
sconvolgimento cosmico provocato da questo avvento. Cade il vecchio mondo dei malvagi per lasciare il
posto al nuovo mondo dei salvati. La scomparsa del mondo presente è la condizione indispensabile per la
venuta del mondo futuro, quello della salvezza e della gloria. Il segno del Figlio dell’uomo che appare nel
cielo (v. 30) è stato spesso considerato, nella storia della esegesi, come un’allusione alla croce di Cristo,
oppure al Messia, adempimento della “radice di Iesse”, divenuto il segno dell’adunata delle genti (cf. Is
11,10). Accostando questo testo con Ap 1,7, che fonde sia Dn 7,13 (venuta del Figlio dell’uomo sulle nubi)
sia Zc 12,10-14 (lamento delle tribù), A. Feuillet ritiene che esso “esprima una visione simbolica del Cristo
Re, che porta ancora, come gloriose stimmate, le tracce della sua morte ignominiosa sulla croce, visione che
si impone all’attenzione e alla riflessione degli uomini”. La visione nella gloria del re universale (25,31-32)
favorisce questa interpretazione. Il raduno al suono della tromba rievoca sia la teofania del Sinai (Es 19,19)
che le grandi cerimonie del tempio (Sir 50,16); simboleggia il ritorno finale a Gerusalemme del popolo
disperso (Is 27,13; ecc.) ed esprime l’adempimento delle promesse fatte ad Abramo e alla sua discendenza
(Gen 12,3; 28,14). Qui viene messo in risalto il carattere universale del giudizio: tutti gli uomini, tutta la storia,
tutto il cosmo sono interpellati dalla venuta nella gloria del Figlio dell’uomo ed è alla presenza di Gesù che
ognuno viene definitivamente giudicato. I vv. 32 e 35 sviluppano il tema della presenza attuale e decisiva del
regno nel cuore dell’umanità.
32 Dal fico poi imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che
l’estate è vicina. 33 Così anche voi, quando vedrete tutte queste cose, sappiate che Egli è proprio alle porte.
34 In verità vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo accada. 35 Il cielo e la terra
passeranno, ma le mie parole non passeranno.
36 Quanto a quel giorno e a quell’ora, però, nessuno lo sa, neanche gli angeli del cielo e neppure il Figlio, ma
solo il Padre.
La parabola del fico invita i discepoli alla pazienza e alla fiducia. Come la trasformazione primaverile del fico
è un segno sicuro della prossimità della bella stagione, così la presenza del Signore nella sua Chiesa
manifesta lo sbocciare di una vita che tende verso la realizzazione definitiva. Un avvertimento sull’attualità
permanente delle parole di Gesù conclude questa prima parte del discorso (v. 35). Il v. 34, che può essere
accostato a 16,28, pare fissare una data per la parusia, mentre il v. 36 ne afferma l’impossibilità. La prima
espressione riguarda la distruzione di Gerusalemme, la seconda la fine del mondo. Alcuni hanno spiegato
l’”ignoranza” del Figlio riguardo al giorno e all’ora della fine del mondo come la situazione “di una ignoranza
che riguarda la missione rivelatrice di Gesù e non la sua scienza personale” (Benoit). Ai discepoli che, dopo
la sua risurrezione, gli chiedevano: “Signore, è questo il tempo in cui ricostruirai il regno d’Israele?” Gesù
rispose: “Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta” (At 1,6-7).
Dalla lettura serena della parola di Dio ci pare di poter dedurre questo: è inutile indagare sulla fine del
mondo, è sciocco ascoltare chi dice di prevederla in date precise, perché il Padre non l’ha rivelato a
nessuno. La parola di Dio afferma categoricamente che Cristo non ha consegnato alla sua Chiesa la
conoscenza del “quando” avverrà la fine del mondo. Quindi questo “quando” non è e non deve essere
argomento del suo annuncio.
37 Come fu ai giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. 38 Infatti, come nei giorni che
precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e marito, fino a quando Noè entrò
nell’arca, 39 e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e inghiottì tutti, così sarà anche alla venuta del
Figlio dell’uomo. 40 Allora due uomini saranno nel campo: uno sarà preso e l’altro lasciato. 41 Due donne
macineranno alla mola: una sarà presa e l’altra lasciata.
42 Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. 43 Questo considerate: se il
padrone di casa sapesse in quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare
la casa. 44 Perciò anche voi state pronti, perché nell’ora che non immaginate, il Figlio dell’uomo verrà.
45 Qual è dunque il servo fidato e prudente che il padrone ha preposto ai suoi domestici con l’incarico di dar
loro il cibo al tempo dovuto? 46 Beato quel servo che il padrone al suo ritorno troverà ad agire così! 47 In
verità vi dico: gli affiderà l’amministrazione di tutti i suoi beni. 48 Ma se questo servo malvagio dicesse in cuor
suo: Il mio padrone tarda a venire, 49 e cominciasse a percuotere i suoi compagni e a bere e a mangiare con
gli ubriaconi, 50 arriverà il padrone quando il servo non se l’aspetta e nell’ora che non sa, 51 lo punirà con
rigore e gli infliggerà la sorte che gli ipocriti si meritano: e là sarà pianto e stridore di denti.
I vv. 37-44 prolungano ed esplicitano il v. 36: “Quanto a quel giorno e a quell’ora però, nessuno lo sa,
neanche gli angeli del cielo e neppure il Figlio, ma solo il Padre”.
La venuta del Signore è imprevedibile: è quindi necessaria una vigilanza continua. Come ai tempi di Noè,
così la gente di tutti i tempi pensa ai propri affari e dimentica che il presente è inserito in un piano di Dio, il
quale chiama l’uno e lascia l’altro secondo la sua volontà che non corrisponde alla nostra logica. La morte
arriva imprevedibile per noi, ma al momento esatto previsto da Dio.
Perché vigilare? Per essere trovati pronti; per non essere esclusi dalla sala delle nozze eterne. Questa
ignoranza dell’ora si iscrive nella nostra natura: la nostra vita ci sfugge, siamo un mistero per noi stessi, non
ci possediamo, siamo del Signore. Vigilare, essere pronti significa porsi di fronte al Signore sempre presente
e vivere coerentemente secondo questa fede.
Il giudizio irromperà sugli uomini che non l’aspettano affatto. Nella loro indifferenza essi hanno smarrito
qualsiasi capacità di discernimento. Il giudizio separerà gli uomini e rivelerà chi è pronto. La divisione
avverrà spaccando in due anche i legami di convivenza.
Vigilare significa non farsi sorprendere dall’indeterminatezza del giorno in cui verrà il Signore, ma implica
anche la prontezza alla sofferenza. Questo aspetto risulterà più chiaro nel racconto della passione (Mt
26,38-41).
La sofferenza e la morte non giungono mai con preavviso e il ladro non si fa annunciare. Allo stesso modo
anche la venuta del Signore è imprevedibile e inarrestabile. Si tratta solo di affrontarla con la testimonianza
di una buona condotta.
Nella parabola del servitore preposto ai servizi del suo padrone, la vigilanza prende la forma di una fedeltà
responsabile verso una missione affidata dal Signore.
Seguendo il tenore del testo, bisogna porre l’accento sulla parusìa. Ci sono delle persone a cui sono state
affidate responsabilità particolari nella Chiesa. La funzione dei detentori di cariche è qualificata come
servizio. Coloro che sono affidati alle loro cure sono compagni di servizio. I detentori di cariche non sono
padroni posti al di sopra degli altri. Tutti hanno un unico Signore sopra di sé. L’abuso della carica merita la
massima condanna, come vuol far capire la punizione severissima.
L’attesa del Cristo deve suscitare l’impulso all’azione morale, a non sprecare il tempo, a comportarsi come
servi di tutti e padroni di nessuno.