Vita di Gesù 17

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LA SETTIMANA DI PASSIONE. LA DOMENICA E IL LUNEDI’

L’ingresso trionfale in Gerusalemme

 

 

§ 503. A Gerusalemme si riseppe subito che Gesù era giunto a Be­thania; il suo arrivo colà poté essere comunicato tanto da pellegrini, i quali nel venerdì avessero fatto il viaggio da Gerico a Bethania in­sieme con lui (§ 501), quanto da spie del Sinedrio le quali ottem­perassero all’ordine emanato da quel consesso di segnalare ove si trovasse Gesù (§ 495). La notizia fece impressione in città. Forse anche prima che il riposo sabbatico cominciasse, e certamente appena esso fu terminato, molti curiosi corsero da Gerusalemme a Bethania, spinti dal doppio motivo di vedere sia Gesù che Lazaro, l’uno vicino all’altro, tanto più che il primo non s’era più lasciato vedere in città dopo la resurrezione del secondo. Riseppe pertanto la gran folla dei Giudei che (Gesù) e’ lì, e vennero non per Gesu’ solo ma anche per vedere Lazaro, che (egli) aveva risuscitato dai morti. Durante questa affluenza si ripeté più am­piamente quel che era avvenuto subito dopo la resurrezione di La­zaro, cioè che molti si arresero all’evidenza del miracolo e credettero in Gesù. Anche questo risultato fu subito risaputo in Gerusalemme; e allora i sommi sacerdoti, confermandosi nel proposito di mettere a morte Gesù, per giunta deliberarono di uccidere anche Lazaro (Giovanni, 12, 10), inviando così di nuovo all’altro mondo quel testi­monio che ne era tornato per scandalizzare l’ortodossia giudaica. Certamente il rimedio era, o sembrava, decisivo: uccisi Gesù e La­zaro, la commozione suscitata tra il popolo dal predicatore Galileo si sarebbe senz’altro calmata. Ma l’esecuzione del progetto era resa dif­ficile, oltreché dall’affluenza dei pellegrini pasquali, anche dalla com­mozione popolare, da cui potevan sorgere reazioni violente e compli­cazioni con l’autorità romana che si volevano evitare ad ogni costo. Comincia perciò da questo momento un periodo di vigile attesa in cui le autorità del Tempio tengono continuamente d’occhio Gesù, finché si presenti una circostanza favorevole per eseguire il loro progetto senza fastidiose conseguenze; dal canto suo Gesù prosegue nella linea di condotta tracciatasi indipendentemente dalle circostanze esteriori, e come non paventa le mene del Sinedrio, così non cura il fa­vore delle folle, sebbene da queste egli sia momentaneamente protet­to. Durante questa attesa, la prima mossa è fatta da Gesù che, re­candosi direttamente verso il pericolo, parte da Bethania alla volta di Gerusalemme.

§ 504. Era la mattina della domenica. A Bethania in quel mattino e nella sera precedente s’erano radunati attorno a Gesù molti fervo­rosi, sia conterranei della Galilea giunti in pellegrinaggio pasquale, sia cittadini di Gerusalemme testé convinti dal miracolo di Lazaro: ed era una folla vibrante, che non poteva trattenersi da qualche ma­nifestazione solenne in onore di Gesù. Anche le circostanze si presen­tavano propizie, giacché era abitudine che i cittadini uscissero incon­tro ai gruppi di pellegrini più numerosi o importanti, e tutti uniti entrassero in città fra canti e manifestazioni di gioia; quando dun­que il maestro avesse manifestato l’intenzione di riprendere il cam­mino per Gerusalemme, era più che giusto preparargli un solenne ingresso nella città: anche se egli si fosse mostrato riluttante come nel passato, la manifestazione solenne era necessaria questa volta do­po i fatti di Bethania e di Gerusalemme, ed il maestro avrebbe do­vuto tollerarla suo malgrado. E invece, contro ogni previsione, Gesù questa volta non si mostrò riluttante. Manifestata l’intenzione di recarsi a Gerusalemme quella mattina stessa, egli scelse la strada più breve e frequentata la quale da Bethania risaliva sul monte degli Olivi, ne discendeva lungo il versante occidentale, e infine si congiungeva con la città presso l’angelo nord-orientale del Tempio dopo un percorso di circa 2.800 metri (§ 490); lungo questo percorso si passava vicino all’antico villaggio chiamato Bethphage, “casa dei fichi [immaturi]”, ch’è considerato dal Talmud già come sobborgo di Gerusalemme, e stava certamente vicino al luogo ch’è ritenuto oggi come Behphage ed è situato a meno di un chilometro a nord-ovest di Bethania. Partita da Bethania la comitiva risaliva festosa verso la sommità del monte degli Olivi ed era già in vista di Bethphage, quando Gesù dette un ordine che colmò di gioia tutti i presenti; chiamati due dei suoi di­scepoli, disse loro: Andate al villaggio che vi sta dirimpetto e su­bito entrativi troverete un asinello legato sul quale nessun uomo se­dette giammai; scioglietelo e conducete(lo). E se alcuno vi dica:”Perché fate questo?” dite:”Il Signore ne ha bisogno, e subito lo manda di nuovo qui”. L’asino era in Palestina la cavalcatura delle persone autorevoli fin dai tempi di Balaam (Numeri, 22, 21 segg.), e Gesù ricercando in questa occasione tale cavalcatura mostrò di voler assecondare i festosi desideri della comitiva, che ne fu felicissima. Ma la mira di Gesù era anche più lontana; Matteo, nella sua speciale cura di rilevare l’avveramento delle profezie messianiche, fa notare che allora s’adem­pila predizione dell’antico profeta Zacharia (9, 9), secondo cui il re di Sion sarebbe venuto a lei mansueto cavalcando un asina e un asinello: i perciò anche il solo Matteo ricorda che là, a Bethphage, nel luogo indicato da Gesù stavano legati l’asinello e sua madre e che ambedue furono recati a Gesù, mentre gli altri evangelisti menziona­no soltanto l’asinello sul quale effettivamente cavalcò Gesù. I due discepoli eseguirono l’ordine; mentre scioglievano i due animali, i padroni ne richiesero la ragione, e udito che servivano a Gesù non replicarono: probabilmente erano persone amiche della famiglia di Lazaro, e quindi benevole verso Gesù. All’arrivo dei due animali la comitiva non si contenne più. Con quel­la cavalcatura si poteva compiere un vero ingresso trionfale nella città; se l’asinello non aveva ancora servito da cavalcatura a nessu­no, tanto più era indicato a trasportare per la prima volta una per­sona sacra come Gesù, giacché agli antichi sembrava che un ani­male già adibito a servizi profani fosse meno atto ad usi religiosi. Il corteo fu subito composto. Alcuni gettarono i loro mantelli sul­l’asinello a guisa di sella e di gualdrappa, e poi vi fecero salire Gesù; altri, correndo un poco sul davanti, stendevano di tratto in tratto i mantelli sul suolo affinché il cavalcatore vi passasse sopra come su tappeti; moltissimi altri accorrevano lungo la strada man mano che il corteo si avvicinava alla città, gettavano frasche verdi lungo il percorso e agitavano festosi rami di palme staccati dagli alberi dei dintorni: tutti poi gridavano alla rinfusa: Osanna! Benedetto il Veniente in nome del Signore! Benedetto il veniente regno del nostro padre David! Osanna negli eccelsi (Marco, 11, 9-1 0).

§ 505. La focosità orientale divampava pienamente in queste grida: ma vi divampava anche la spasmodica attesa che quegli osannanti avevano conservata e repressa nei loro cuori per tanto tempo, l’attesa del regno messianico. I termini impiegati sono tipici: il Veniente in nome del Signore è il Messia (§ 339), e il veniente regno di David è il regno messianico che è inaugurato dal Messia figlio di David. Le insegne di questo inizio di regno erano certamente modestissime, un asinello e quattro rami di palma; ma in ciò non trovavano scandalo quegli entusiasti, i quali erano fermamente sicuri che da un giorno all’altro l’asinello sarebbe stato sostituito da falangi di superbi destrieri e le palme da una selva di ben polite lance. Il padre David dal suo sepolcro e il Dio Jahvè dal cielo avrebbero compiuto questo miracolo in favore del loro Messia. Precisamente questo è il punto ove s’incontrarono, in maniera fugace e quasi fortuita, il messianismo delle plebi e quello di Gesù. Per le plebi quell’ingresso trionfale in Gerusalemme doveva essere la prima favilla d’un immenso incendio futuro: per Gesù era la sola ed unica pompa ufficiale della sua regalità messianica. Quella regalità, da lui nascosta con tanta cura e confidata con tante precauzioni e rettiliche solo ai suoi più intimi, doveva pure essere manifestata ufficialmente almeno una volta, adesso che il tempo stringeva e che l’erronea in­terpretazione politica aveva scarse probabilità d’attecchire; ebbene, questa appunto valeva come manifestazione ufficiale e solenne e in corrispondenza dell’antica profezia di Zacharia, ma tutto sarebbe finito lì, in quell’asinello contornato da qualche centinaio di osannan­ti: subito dopo, tutto sarebbe rientrato in ciò che gli uomini chia­mavano ombra, ma che per il regno di Dio era notte d’operosità re­condita (§ 369). Gesù, insomma, finiva dove le plebi credevano di cominciare. Un quarantennio più tardi un Giudeo rinnegato, Flavio Giuseppe, impiegherà lunghe pagine per descrivere un altro ingresso trionfale a cui aveva assistito egli stesso (Guerra giud., VII, 120-162), come gli evangelisti a quello di Gesù; senonché le due narrazioni sembrano scritte apposta per contrapporsi l’una all’altra. Quella del Giudeo rinnegato descrive il trionfo di chi ha distrutto poco prima Gerusa­lemme, ed entra nella Roma pagana fra un apparato d’incredibile splendore e potenza; la narrazione degli evangelisti descrive il trion­fo di chi sarà il distruttore della Roma pagana, e adesso entra in Ge­rusalemme fra un apparato umilissimo e piangendo sulla prossima distruzione di questa città. Il trionfatore di Roma conclude la sua pompa uccidendo ai piedi del Campidoglio il condottiero dei nemici, trascinato in catene dietro al corteo: il trionfatore di Gerusalemme finisce con l’essere ucciso lui stesso, dopo il suo trionfo d’un giorno. A Roma, dopo i festeggiamenti, si gettano le fondamenta di un nuovo tempio idolatrico dedicato alla Pace romana; a Gerusalemme si annunzia che il Tempio manufatto del Dio vivente sarà ridotto a un cumulo di macerie, e si gettano invece le fondamenta di un Tem­pio non manufatto (Marco, 14, 58) ove si adorerà il Dio vivente in spirito e verita’ (§ 295). Esiste tuttavia un punto importantissimo in cui le due narrazioni, così discordi, concordano, ed è nell’affermare che il rispettivo trionfatote è il Messia per gli evan­gelisti il Messia è Gesù, il carpentiere di Nazareth; per il Giudeo rinnegato il Messia è Tito Flavio Vespasiano, agricoltore nato a Fala­crine presso Rieti l’anno 9 dopo Cr. (§ 83). Confrontando oggi ciò che rimane dei due trionfi bisogna concludere che il Giudeo, mal consigliato dalla sua apostasia, è caduto in un grave errore.

§ 506. Sebbene umilissimo il trionfo di Gerusalemme fu cordiale, certamente più di quello di Roma. Giovanni (12, 16 segg.) c’informa che la cordialità fu grande anche da parte di quei cittadini di Ge­rusalemme i quali erano stati testimoni della resurrezione di Lazaro o ne avevano udito il racconto dai testimoni; la cordialità dei disce­poli senza dubbio era egualmente grande, tuttavia era animata da motivi superficiali e ignara delle ragioni profonde di ciò che avveni­va, perché a detta dello stesso evangelista queste cose i suoi discepoli non conobbero dapprima; ma quando Gesu’ fu glorificato, allora si ricordarono che queste cose erano state scritte di lui e queste cose (essi) fecero a lui. Insomma, l’entusiasmo dei discepoli era troppo sotto l’influenza dell’entusiasmo delle folle per assurgere a conside­razioni più alte e più spirituali circa quel brevissimo trionfo umano del loro maestro. Ma il carattere trionfale della manifestazione fu difeso fermamence da Gesù stesso. Poiché i Farisei rimanevano sempre Farisei anche in mezzo all’entusiasmo generale, e d’altra parte vedevano bene che sarebbe stato troppo pericoloso dar sulla voce a quella folla infervc­rata, alcuni di essi pensarono di ricorrere a Gesù stesso e gli dissero: Maestro, sgrida i tuoi discepoli! quasicché gli artefici più numerosi di quella manifestazione fossero i discepoli e non piuttosto i Giudei testimoni della resurrezione di Lazaro. Ma Gesù risponde: Vi dico, se questi taceranno, le pietre grideranno (Luca, 19, 40). La protesta fu rinnovata di lì a poco quando, entrato Gesù nel Tem­pio, frotte di fanciulli accorsi tra la calca si dettero a gridare: Osan­na al figlio di David! sotto il naso dei sommi sacerdoti e degli Scribi. Queste degnissime persone, irritate dalle grida di quei mocciosi, pro­testarono verso Gesù: Senti che dicono costoro? Questa volta Gesù rispose: Si. Non leggeste mai (quel passo) “Da bocca di bambini e di lattanti esprimesti laude”? (Matteo, 21, 16). Il passo citato (Sal­mo 8, 3) era opportunissimo, perché ivi il poeta contrappone l’inge­nua laude innalzata a Dio da bambini e da lattanti al silenzio for­zato dei suoi nemici: se dunque i fanciulli del Tempio erano gli esprimenti laude a Dio, i sacerdoti e gli Scribi potevano facilmente riconoscersi nei nemici di Dio ridotti al silenzio. Queste risposte di Gesù e il suo incontrastato trionfo dovettero far perdere il lume degli occhi ai Farisei. Fatto un bilancio di quanto avevano ottenuto con tutte le loro deliberazioni d’impadronirsi di Gesù, di farlo denunziare dalle spie, di metterlo a morte insieme con Lazaro, essi si ritrovarono in pieno fallimento: Gesù circolava a pie­de libero e in Gerusalemme stessa, la sua vita e quella di Lazaro erano salvaguardate dal fervore popolare, egli faceva sempre più se­guaci e ardiva periino entrare trionfalmente nella città santa. Gli stessi Farisei riconobbero questo loro fallimento e si dissero gli uni agli altri: Vedete che non ricavate alcuni profitto? Ecco, il mondo andò appresso a lui! (Giovanni, 12, 19). Tuttavia questa confessione non fu una capitolazione, anzi fu una conferma d’ostilità implaca­bile, in attesa che si presentasse l’occasione propizia per agire. Frattanto il corteo trionfale di Gesù aveva valicato la sommità del monte degli Olivi e discendeva lungo la china occidentale dirigendo­si al sottostante Tempio. Da quella china si contemplava il panora­ma dell’intera città: era la città uscita un trentennio prima dalle ma­ni di quell’infaticabile ricostruttore ch’era stato Erode il Grande, me­no gravata di memorie e meno solenne della città odierna ma in­comparabilmente più decorosa e più adorna. Ai piedi del monte, subito oltre il torrente Cedron, s’ergeva la mole grandiosa del Tem­pio sfavillante di ori e abbagliante di candidi marmi. Ricongiunto a settentrione con esso s’alzava il possente quadrilatero della torre Antonia, allora stazione della guarnigione romana e quasi dimora di falco che vigilasse sulla preda (§ 49). Al lato opposto, verso occiden­te, troneggiava la reggia di Erode, difesa a settentrione da quelle tre torri che l’esperto Tito un quarantennio dopo avrebbe giudicate me­spugnabili. Due recinti di mura proteggevano a settentrione la città, e di là dal recinto più esterno si estendeva il sobborgo del Bezetha (§ 384) che un decennio più tardi Agrippa I comincerà a recingere con un “terzo muro”. Qua e là, fra la distesa di case antiche, spic­cavano parecchie suntuose costruzioni recenti, mentre il quartiere più negletto appariva quello che occupava la parte sud-orientale della città, immediatamente più in giù del Tempio, ove era stata la Ge­rusalemme primitiva dei Jebusei, di David e di Salomone. Al contemplare questo panorama, Gesù pianse.

§ 507. Quel pianto, fra tante grida festose e davanti a uno spettaco­lo cosi solenne era davvero inaspettato. I discepoli ne dovettero ri­manere sconcertati, e forse si domandarono in cuor loro se anche quel pianto voleva essere uno dei soliti correttivi messianici già ap­plicati dal maestro (§ § 400, 475, 495). La ragione fu comunicata dal piangente stesso, che rivolgendosi alla città contemplata esclamò: Oh! avessi conosciuto in questo giorno anche tu le cose (necessarie) alla pace! Adesso invece stanno nascoste agli occhi tuoi! Poiché verranno su te giorni quando i tuoi nemici ti ricingeranno di vallo, e ti accer­chieranno all’intorno, e ti stringeranno da ogni parte, e abbatteranno te e i tuoi figli dentro te, e non lasceranno pietra sopra pietra in te, perché non conoscesti il tempo (propizio) della visita (fatta) a te (Luca, 19, 42-44). Il pianto dunque si riferiva non al presente ma ad un futuro più o meno remoto. Tutti sanno che queste parole si riferiscono al terribile assedio che Tito mise nel 70 a Gerusalemme. Il vallo qui accennato è il muro di circonvallazione lungo 39 stadi (chilometri 7,215 costruito dalle le­gioni romane in soli tre giorni attorno alla città per prenderla con la fame: esso si trova minutamente descritto da Flavio Giuseppe (Guerra giud., v, 502-511) e se ne sono rinvenute recentemente alcune probabili tracce; è anche da notare che il vallo, nella sua parte ad oriente della città, saliva dal torrentè Cedron verso il monte degli Olivi (ivi, 504), dove appunto si trovava Gesù quando pianse. E’ superfluo dire che una predizione cosi precisa è giudicata assurda dai razionalisti, i quali perciò affermano che queste parole non furono mai pronunziate da Gesù ma sono un invenzione dell’evangelista il quale avrebbe scritto dopo la catastrofe del 70; in attesa che que­sta affermazione sia suffragata da prove storiche, le quali non siano la monotona “impossibilità” del miracolo, si può passare ad un altro riavvicinamento offertoci egualmente da Flavio Giuseppe. Rac­conta egli (ivi, VII, I 12-113) che Tito, alcuni mesi dopo aver distrut­to Gerusalemme, da Antiochia passò in Egitto, e che, strada facendo, si recò a Gerusalemme; confrontando egli allora la mesta solitudine che scorgeva con la passata magnificenza dela città, e richiamando alla mente sia la grandezza degli edifici ruinati sia l’antica bellezza, deplorò la distruzione della città, non già vantandosi, come altri (avrebbe fatto), d’averla espugnata pur essendo si grande e si forte, bensì maledicendo spesso i colpevoli che avevano iniziato la rivolta e attirato sulla città quella punizione. Cosicché, Gesù e Tito concordano nel far ricadere la responsabilità della distruzione su determinati uomini e nell’affermare che la distruzione non sarebbe avvenuta se la condotta di quegli uomini fosse stata diversa: ma Gesù, giudeo e adoratore del Dio Jahvè, versa anche brucianti lacrime sul­la distruzione della sua città e del suo Tempio, mentre Tito, romano e cultore del Giove Capitolino, deplora la perdita di sontuosi edifici e di belle opere d’arte; l’uno piange sulla rovina spirituale, l’altro rimpiange la rovina materiale; ma soprattutto l’uno piange sulla cit­tà che lo ucciderà fra pochi giorni, l’altro rimpiange la sorte della città che egli stesso ha distrutta e dove è stato proclamato impera­tore mentre il Tempio era tuttora in fiamme.

I Greci vogliono essere’ presentati a Gesu’

§ 508. Alla fine il corteo trionfale raggiunse la città ed entrò nel Tempio. Ivi, nell’atrio esterno, continuavano ancora le acclamazioni festanti, e i fanciulli ripetevano le grida che già udimmo. Di quel­l’aura di tripudio approfittarono subito ciechi e storpi che erano a limosinare in un luogo così opportuno, e si fecero condurre presso al trionfatore taumaturgo implorando la sanità; e Gesù li guarì. Il Tempio era già affollato di pellegrini accorsi per l’imminente Pa­squa; e fra costoro erano anche molti non giudei ma benevoli per il giudaismo. Nella Diaspora infatti il giudaismo aveva lavorato inten­samente a far seguaci, e coloro che erano stati guadagnati si riparti­vano in due classi: la classe inferiore era quella dei “devoti” o “timorati” di Dio, oppure, i qua­li erano obbligati all’osservanza del sabbato, a certe preghiere ed ele­mosine e ad altre prescrizioni minori, pur rimanendo sempre estranei alla nazione eletta d’Israele; la classe superiore invece era quella dei veri “proseliti”, i quali avevano ricevuto la circoncisione ed erano perciò eguagliati in tutto, o quasi, agli Israeliti, e ne condividevano ogni obbligo. Quando il corteo entrò nel Tempio, erano nell’atrio esterno alcuni di questi “devoti”, di stirpe Greci come li chiama Giovanni (12, 20, greco), ch’erano venuti a Gerusalemme in occasione della Pasqua per fare adorazione, sebbene ai veri riti pasquali essi non potessero par­tecipare perché non erano eguagliati agli Israeliti. Rimasti colpiti dallo spettacolo del corteo e soprattutto da ciò che videro e udirono della potenza taumaturgica di Gesù, essi desiderarono esser presentati a lui; per riuscirvi più facilmente tra quella calca, si rivolsero al­l’apostolo Filippo (§ 314) e gli dissero: Signore, vogliamo vedere Gesu’. Filippo, alquanto sorpreso dalla richiesta, si consigliò in propo­sito col suo compaesano Andrea, e finalmente ambedue comunicarono la richiesta a Gesù. Ciò che avvenne appresso è narrato da Gio­vanni conforme a quella sua singolare maniera che lumeggia i prin­cipii perenni più che gli episodi fugaci: nel suo racconto i Greci che hanno chiesto di esser presentati a Gesù non sono più mentovati, ma in compenso Gesù parla della sua missione e questa è confermata solennemente da una testimonianza divina. Si direbbe che Giovanni nella ricerca di Gesù fatta da questi Greci scorga l’inizio della più ampia ricerca che farà di lui l’umanità, tanto che egli trascura l’epi­sodio occasionale per dilungarsi sul risultato perenne. Alla comuni­cazione dei due Apostoli Gesù replicò E venuta l’ora che sia glorifi­cato il figlio dell’uomo. In verità, in verità vi dico, se il chicco di grano caduto in terra non muoia, esso rimane solo; se invece muoia, porta molto frutto. Torna dunque l’idea della glorificazione di Gesù Messia, preceduta però dalla prova del dolore supremo; il regno di Dio si dispiegherà in pieno nella maniera riserbatagli nel “secolo” presente, solo dopoché il suo fondatore sia stato disfatto come un chicco di grano nascosto nell’umida terra: da quell’interiore disfa­cimento si sprigionerà la fruttificazione possente e moltiplicativa. Ed eguale alla sorte di Gesù sarà quella dei suoi seguaci: Chi ama la vita sua la perde, e chi odia la vita sua in questo mondo la con­serverà in vita eterna. Se alcuno mi serva, mi segua; e dove sono io, ivi sarà anche il mio servitore. Se alcuno mi serva, il Padre l’ono­rerà. Quindi Gesù ritorna su se stesso, e ripensa alla prova suprema che dovrà precedere la sua glorificazione: Adesso l’anima mia e’ tur­bata. E che devo dire? “Padre, salvami da quest’ora”? Al contrario, per questo venni in quest’ora! Padre, glorifica il nome tuo. Appena è apparsa la possibilità di una titubanza davanti alla prova suprema, è respinta; più tardi nel Gethsemani la titubanza riapparirà in circo­stanze ben diverse e con risultato differente (§ 555).

§ 509. L’invocazione finale al Padre celeste fu esaudita. Come già era accaduto al battesimo di Gesù ed alla sua trasfigurazione (§§ 270, 403) venne una voce dal cielo che disse: E glorificai, e di nuovo glo­rificherò. L’oggetto di questa glorificazione non è espresso, ma è chiaramente il nome dell’invocato Padre, il quale sarà glorificato dalla missione del suo Figlio Gesù e soprattutto dalla conclusione di quella missione. La folla astante percepì il suono, ma non capi distintamente le pa­role; perciò alcuni credettero che fosse scoppiato un tuono, chiamato spesso dagli Ebrei “la voce di Diò” (cfr. II Samuele, 22, 14; Salmo 29, 3. 9 ebr.; Giobbe, 37, 5; ecc.), mentre altri supposero che un angelo avesse parlato a Gesù. Egli allora spiegò: Non per me e’ stata questa voce, ma per voi. Adesso e’ (il) giudizio di questo mondo: adesso il principe di questo mondo sarà scacciato fuori. E io, se sia innalzato dalla terra, attirerò tutti a me stesso. In altre parole, Dio stava per compiere il giudizio di condanna sul mondo presente e su Satana, principe di esso; segno materiale che quel giudizio comin­ciava era la voce testé udita, la quale ricordava le voci divine del Sinai allorché era stata stabilita l’antica alleanza; la chiusura ed il coronamento di quel giudizio si sarebbero avuti quando Gesù fosse stato innalzato dalla terra, poiché avrebbe attirato a sé tutti gli uomini liberandoli dalla sudditanza a Satana. Appena menzionato l’”innalzamento” di Gesù, l’evangelista si affretta ad aggiungere: Ciò poi diceva, significando di qual morte stava per morire. Non sappiamo però con sicurezza in qual maniera gli ascoltatori di Gesù interpre­tassero il suo annunziato “innalzamento”; dalle loro parole sembra che pensassero ad una specie di “assunzione” di Gesù, analoga al­l’assunzione di Henoch. Gli rispose pertanto la folla: “Noi udimmo dalla Legge che il Cristo (Messia) permane in eterno, e come tu dici che dev’essere innalzato il figlio dell’uomo? Chi e questo figlio dell’uomo?”. Dalle sacre Scritture (Legge) risultava infatti che il regno del Messia sarebbe stato eterno; Gesù invece diceva che egli sarebbe stato innalzato ossia, come interpretavano essi,”assunto” in cielo: dunque il suo regno, qui su questa terra, non sarebbe durato in eter­no. Inoltre, quel titolo di figlio dell’uomo non era chiaro per quegli ascoltatori, i quali forse conoscevano poco o nulla il libro di Daniele (§ 81); essi quindi si sentivano dubbiosi e aspettavano luce da Gesù. Gesù invece questa volta non si estese in spiegazioni, o almeno esse non ci sono tramandate; ci viene trasmesso soltanto ciò che sembra una sua generica esortazione conclusiva. Disse pertanto ad essi Gesu’:”Ancora (per) piccolo tempo la luce e’ in voi. Camminate mentre avete la luce, aflinché tenebra non vi sorprenda; e chi cammina nel­la tenebra non sa dove va. Mentre avete la luce credete nella luce, affinché diveniate figli di luce”. Mentre Gesù pronunziava queste parole, calavano le prime ombre del vespero, dicendoci espressamen­te Marco (11, 11) che tarda era già l’ora; perciò le parole, mentre convenivano spontaneamente con le circostanze della giornata solare, si riferivano in realtà alla giornata della vita di Gesù e alla sua luce spirituale che era vicina al tramonto. Quando l’ultimo chiarore di quella giornata trionfale fu spento, Gesù con gli Apostoli fece il cammino inverso da Gerusalemme a Bethania, ove passò la notte (Marco, ivi; Matteo, 21, 17; cfr. Giovanni, 12, 36).

Il fico maledetto

§ 510. La divisione cronologica di queste ultime giornate di Gesù si trova meglio che in ogni altro evangelista in Marco; il quale distin­gue nettamente la notte fra la domenica e il lunedì (Marco, 11, 11-12), la notte fra il lunedì e il martedì (11, 19-20), il giorno del mercoldì (14, 1), quello del giovedì (14, 12) e la sua sera (14, 17), e infine la mattina del venerdì (15, 1) suo pomeriggio (15, 25.33) e la sua sera (15, 42), che fu l’ultimo giorno della vita di Gesù. Per i primi giorni gli altri evangelisti sono più vaghi. Luca aggiunge la notizia generica, che Gesù in questa settimana stava durante i giorni nel Tempio insegnando; durante le notti poi, uscito fuori, dimorava nel monte chiamato degli Olivi. E tutto il popolo s’affrettava di buon mattino alla volta di lui nel Tempio per ascoltarlo (Luca, 21, 37-38). Il ripartire tra questi singoli giorni le cose narrate dai quattro evan­gelisti non porta a risultati sicuri. Anche seguendo la distribuzione cronologica di Marco, i fatti e discorsi di Gesù anteriori all’ultima cena spetterebbero in massima parte al martedì, mentre al lunedì e al mercoledì rimarrebbe ben poco; ora, può darsi che questa assegnazione corrisponda alla serie dei fatti, ma può anche benissimo darsi che sia effetto di ripartizione redazionale anzi quest’ultimo caso sembra accertato per taluni fatti, quali la cacciata dei mercanti dal Tempio (§ 287, nota prima) che Marco sembra collocare in questo lunedì, e il banchetto di Bethania (§ 501) che appare collocato al mercoledì. Certamente l’operosità di Gesù in questi ultimi giorni fu molto intensa, e a buon diritto possiamo supporre che ci sia stata narrata soltanto in parte. Il favore popolare, prolungatosi ancora per due o tre giorni dopo la domenica trionfale, salvaguardava sufficien­temente Gesù dall’odio dei maggiorenti giudei e gli permetteva di trattenersi durante il giorno in Gerusalemme insegnando e disputan­do pubblicamente nel Tempio, ove il popolo l’attendeva ansiosamen­te come ci ha detto Luca; di notte invece, quando il popolo avrebbe potuto far pochissimo e i maggiorenti moltissimo, Gesù si allonta­nava dalla malfida città e, attraversato il torrente Cedron, si ritirava sull’attiguo monte degli Olivi, il quale comprendeva tanto l’amico villaggio di Bethania, quanto il giardino di Gethsemani, ch’era un luogo anche più vicino e prediletto da Gesù. Dunque l’unico impe­dimento a che l’odio dei maggiorenti si sfogasse era la benevolenza del popolo; ma quei maggiorenti sapevano perfettamente che tale benevolenza è quanto di più mutevole e incostante si possa immagi­nare, ed essi attesero il momento propizio per farla mutare d’un col­po senza pubblici sconvolgimenti. In tale attesa consumarono essi questi quattro giorni. Nel primo di essi, il lunedì, Gesù partì da Bethania di buon mattino insieme con gli Apostoli alla volta di Gerusalemme. Prima di partire egli non aveva mangiato, e quindi durante il cammino ebbe fame. Veramente appare strano che egli uscisse dalla casa governata da una solerte massaia come Marta senza prender cibo, tanto più che nel Talmud i rabbini raccomandano il pasto in ora sollecita, e Rabbi Aqiba ammonisce: “Alzati di buon’ora e mangia…; sessanta corrieri potranno correre ma non oltrepassare colui che ha mangiato di buon’ora”. Ma questo non è il solo elemento paradossale del pre­sente episodio; anche altri suoi tratti ci inducono a considerano alla stregua di una di quelle azioni simboliche compiute frequentemente dagli antichi profeti, e specialmente da Ezechiele l’azione era vera e reale, ma usciva dal quadro della vita ordinaria, mirando solo a rappresentare in maniera visiva e quasi tangibile un dato insegna­mento astratto.

§ 511. Per calmare dunque la fame, Gesù s’avvicinò ad un albero di fico che stava presso la strada ed era lussureggiante di foglie, come se ne trovano comunemente ancora oggi sul monte degli Olivi, e cercò tra il fogliame se c’erano frutti. Ma frutti non ce n’erano e non potevano esserci, per la semplice ragione – come dice Marco (11, 13) – che non era la stagione dei fichi. Si stava infatti ai primi d’aprile e a quella stagione in Palestina, anche nelle zone più solatie, l’al­bero di fico può bensì aver gettato i primi bocci, i cosiddetti fichi fiori, ma questi non sono allora in nessun modo mangiabili e maturano solo verso i primi di giugno; anche i frutti della gettata seconda, o autunnale, possono conservarsi sull’albero fin verso gli inizi dell’in­verno, ma non vi resistono mai fino all’aprile in cui allora si stava. Volendo dunque giudicare quell’albero come se fosse stato una per­sona morale e responsabile, bisognerebbe dire che esso non era “col­pevole” se non aveva frutti in quella stagione: in realtà Gesù cercava ciò che, regolarmente, non poteva trovare. Con tutto ciò egli male­disse quell’albero dicendo: Mai piu’ in eterno nessuno mangi da te frutto! Tutte queste considerazioni ci confermano che Gesù volle compiere un’azione che aveva valore simbolico, analoga per esempio allo spezzamento della brocca compiuto da Geremia (cap. 19), all’azione compiuta da Ezechiele (cap. 5) di radersi barba e capelli con una spada affilata, e a tante altre azioni paradossali degli antichi profeti, le quali avevano tutte un significato simbolico. In questo caso del­l’albero il simbolo prendeva argomento dal contrasto tra l’abbon­danza del fogliame inutile e la mancanza dei frutti utili: dal quale contrasto era anche giustificata la maledizione all’albero « colpevole ». Chi poi – come gli Apostoli ch’erano presenti – conosceva l’indole del ministero di Gesù ed aveva ascoltato le sue discussioni con i Fa­risei e le sue invettive contro la loro ipocrisia, poteva comprendere agevolmente a chi si riferisse l’insegnamento simbolico: il vero col­pevole era il popolo eletto, Israele, ricchissimo allora di fogliame fa­risaico ma ostinatamente privo da lungo tempo di frutti morali, e quindi meritevole della maledizione di sterilità eterna. Ché se qualche dubbio su tale riferimento storico poté sussistere da principio nella mente degli Apostoli, esso fu del tutto rimosso dalle parabole della riprovazione (§ 512 segg.) pronunziate da Gesù il giorno appresso e indirizzate appunto contro l’Israele contemporaneo. Quanto avvenne dopo la maledizione di Gesù è riassunto in poche parole da Matteo (21, 19), il quale dice che l’albero si disseccò subito e riporta immediatamente appresso l’ammonizione fatta su tal pro­posito da Gesù. Marco invece segue una cronologia più precisa, giac­ché narra che gli Apostoli riscontrarono il disseccamento dell’albero la mattina appresso – quella del martedì – allorché ritornando con Gesu’ da Bethania a Gerusalemme ripassarono per lo stesso posto, ed attribuisce a quella mattina l’ammonizione di Gesù. Ripassando per­tanto di là, Pietro ebbe l’ingenuità d’esclamare: Rabbi, guarda! Il fico che maledicesti si è disseccato! (Marco, 11, 21). Gesù nella ri­sposta non accennò al significato morale del fatto simbolico, e si li­mitò ad ammonire nuovamente gli Apostoli ad aver fede, con la quale sarebbero riusciti a spostar le montagne (§ 405, nota).

LA SETTIMANA DI PASSIONE

IL MARTEDI’ E IL MERCOLEDI’

L’autorita’ di Gesu’. Parabola dei due figli

§ 512. In quella mattina del martedì Gesù si recò al Tempio dove il popolo l’aspettava ansioso (§ 510) e si mise ad insegnare; ma ben presto si presentarono anche sommi sacerdoti, Scribi ed Anziani del popolo, cioè i rappresentanti dei vari gruppi del Sinedrio (§ 58), cosicché si ritrovarono riunite tutte insieme le forze in azione: Gesù da una parte, i maggiorenti giudei dall’altra, e in mezzo il popolo che proteggeva Gesù. Per allora c’era equilibrio tra le due forze contrastanti, ma quando l’ostacolo intermedio – ossia il favore popolare – fosse venuto a mancare, l’equilibrio sarebbe stato turbato e le due forze sarebbero venute in urto. E appunto a rimuovere l’ostacolo mirarono quella mattina i maggio­renti, i quali lì davanti alla folla domandarono a Gesù: Con quale autorità fai queste cose? O chi ti dette questa autorità perché (tu) faccia queste cose? (Marco, 11, 28). Il tono della domanda era da inquisizione tribunalesca, e quei maggiorenti trattavano Gesù come se già fosse stato deferito al loro tribunale; ma nello stesso tempo, con quella domanda, essi volevano screditarlo davanti al popolo e fargli perdere il favore di questo: probabilmente speravano che Gesù parlasse sprezzantemente di Mosè, della sua Legge o simili cose, ur­tando i sentimenti popolari. Gesù invece, accettando battaglia anche questa volta e precisamente sul terreno scelto dal nemico, seguì un metodo di discussione molto impiegato dai dottori della Legge, il quale consisteva nel rispondere facendo alla propria volta un’interro­gazione quasi per stabilire un punto ammesso da ambedue le parti. Gesu’ però disse loro: “V’interrogherò in un solo punto; rispondetemi, e allora vi dirò con quale autorità (io) faccio queste cose: – Il battesimo di Giovanni era dal cielo o dagli uomini? – Rispondetemi!”. La domanda di Gesù era assai imbarazzante per i destinatari, specialmente lì davanti alla folla, a causa dell’atteggiamento che essi avevano tenuto di fronte a Giovanni il Battista (§ § 268, 292); il loro imbarazzo è descritto dall’evangelista con queste parole: E ragiona­vano in se stessi dicendo:”Se diciamo: – (Era) dal cielo – (egli ci) dirà: Perché dunque non credeste in lui? – E allora diremo – (Era) dagli uomini?”. (Ma non dissero ciò, perché) temevano la folla; tut­ti infatti ritenevano che Giovanni realmente era un profeta. E ri­spondendo a Geù dicono: “Non sappiamo”. E Gesù dice loro:”Neppure io vi dico con quale autorità faccio queste cose”. La bat­taglia era finita, certo non con la vittoria di chi aveva scelto il ter­reno. I Sinedristi avevano sperato far forza sul consenso popolare, per poi aver nelle loro mani Gesù abbandonato dalla folla; e invece la folla aveva protetto ancora una volta Gesù, il quale inoltre aveva nuovamente ricollegato la propria missione con quella di Giovanni il Battista. Nessuna meraviglia che i Sinedristi non accettassero la missione di Gesù, dal momento che avevano respinto quella del suo precursore. Per confermare la propria vittoria e schiarire sempre più il colle­gamento della propria missione con quella di Giovanni il Battista, Gesu’ soggiunse una parabola. – Un uomo aveva due figli, che im­piegava nel coltivare la sua vigna. Un giorno egli disse al primo: Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna! – Quello rispose: Si, signore, vado. – E invece non andò affatto. Più tardi il padre dette lo stesso comando al secondo figlio, il quale rispose: Non voglio andare! – Tuttavia in seguito, pentendosi della sua risposta, andò. E Gesù concluse: Chi dei due fece la volontà del padre? Gli risposero: L’ul­timo. Gesù allora applicò la parabola al caso storico: in verità vi di­co che i pubblicani e le meretrici precedono voi nel regno d’iddio. Venne infatti a voi Giovanni in via di giustizia e non credeste in lui, mentre i pubblicani e le meretrici credettero in lui; voi al contrario, dopo aver veduto, neppure piti tardi vi pentiste si da credere in lui (Matteo, 21, 31-32). Dunque gl’inappuntabili Scribi e Farisei erano adombrati in quel figlio che a parole obbediva ma a fatti era ribelle; al contrario lo scarto della nazione eletta, cioè pubblicani e meretrici, avevano indubbiamente errato ma poi erano rinsaviti accettando la missione di Giovanni il Battista, e così avevano imitato il figlio dap­prima ribelle e poi obbediente. Tra i due figli, colui che dopo aver fatto il male “cambia di mente” e passa a fare il bene, è da preferirsi a colui che non si decide mai a fare il bene pur dichiarandosi sempre pronto a farlo.

Parabola dei vignainoli omicidi

§ 513. La precedente parabola era stata una sentenza di riprovazione per coloro che allora si stimavano le guide e i più insigni rappresen­tanti della nazione eletta; ma Gesù ne soggiunse un’altra, egualmen­te di riprovazione, in cui volle riassumere l’intera storia d’Israele confrontata con l’economia prestabilita da Dio riguardo alla salvezza umana. L’insegnamento velato in questa nuova parabola era eguale a quello impartito da Gesù poche ore prima, con l’azione simbolica di maledire e far disseccare l’albero di fico; l’immagine che vien im­piegata nella parabola era già stata impiegata sette secoli prima e per lo stesso scopo dal profeta Isaia, cosicché Gesù ricollegava ancora una volta la sua propria missione con quella degli antichi profeti e nello stesso tempo rendeva facilissima l’interpretazione della sua para­boIa. Isaia (5, i segg.) nel suo celebre carme aveva descritto una vigna nel­la quale il padrone aveva riversato le più amorevoli cure, sceglien done il sito in un terreno ubertoso, ripulendolo da pietre, piantandovi maghuoli sceltissimi, costruendovi tutt’attorno un recinto di pre­tezione e al di dentro una torre di guardia col suo presso in basso; nonostante tutto ciò quella vigna si era ostinata a produrre acri lambrusche invece di dolci uve. La spiegazione soggiunta all’allego­ria aveva ricordato che l’ingrata vigna era la nazione d’Israele e il suo padrone era il Dio Jahvè Sebaoth; il quale però, esacerbato dalla sterilità della vigna, ne avrebbe abbattuto il recinto abbandonandola a devastazione e lasciandovi crescere rovi e spine. Questa immagine fondamentale, ripresa da Gesù, fu da lui ampliata e precisata con ciò ch’era avvenuto nei sette secoli trascorsi da Isaia fino a lui. C’era un uomo, padrone di casa, il quale piantò una vigna, e la cir­condò di siepe, e scavò in essa un pressoio e costruì una torre, e la cedette a vignaiuoli, e partì per l’estero. Quando poi s’avvicinò il tem­po dei frutti, inviò i suoi servi ai vignaiuoli a prendere i suoi frutti; e i vignaiuoli, presi i servi di lui, uno (ne) percossero, un altro (ne) uccisero e un altro (ne) lapidarono. Nuovamente inviò altri servi piu’ numerosi dei primi, e (i vignaiuoli) fecero ad essi ugualmente. Alla fine inviò loro il figlio suo dicendo: “Avranno rispetto per il figlio mio!”. Ma i vignaiuoli, veduto il figlio, dissero fra loro:“Questo e’ l’erede. Su dunque, uccidiamolo ed avremo la sua eredità! “. E presolo, (lo) scacciarono fuori della vigna ed uccisero. Quando dun­que venga il padrone della vigna, che cosa farà a quei vignaiuoli? – Gli dicono: (Essendo) cattivi, di cattiva fine li farà perire, e cederà la vigna ad altri vignaiuoli i quali gli consegneranno i frutti alle loro stagioni”. Dice loro Gesu’:”Non leggeste mai. nelle Scritture – Una pietra che scartarono i costruttori” questa divenne testata d’angolo:dal Signore avvenne questa cosa” ed e mirabile agli occhi nostri – ? Salmo 118, 22-23 ebr. Per questo vi dico che sarà tolto a voi il regno d’Iddio e sarà data a nazione che faccia i frutti di esso” (Matteo, 21, 3343). Non era necessaria la perizia dei Farisei nelle sacre Scritture e la loro conoscenza della storia religiosa della propria nazione per compren­dere subito che la vigna era Israele, il padrone era Dio, e i servi malmenati o uccisi erano i profeti, le cui morti violente formavano un necrologio ininterrotto lungo le pagine delle Scritture. Ma a que­sta parte riguardante il passato Gesù aveva aggiunta, a guisa di con­clusione, una parte riguardante il futuro ed era quella ove aveva detto che lo stesso figlio, inviato per ultimo dal padrone della vigna, era stato percosso ed ucciso; evidentemente in questo figlio l’oratore aveva adombrato se stesso, e così si era proclamato implicitamente figlio di Dio ed aveva accusato in anticipo i colpevoli del loro futuro delitto. Tutto era di una chiarezza e precisione che non lasciava luo­go ad equivoci. Ed il risultato di questa perfetta comprensione fu in armonia con lo stato d’animo degli uditori: avendo udito i sommi sacerdoti e i Farisei le parabole di lui conobbero che di loro (egli) parla; e cercando d’impadronirsene ebbero paura delle folle, poiché (queste) lo ritenevano per profeta.

Il tributo a Cesare

§ 514. Anche quella volta, dunque il favore popolare aveva funzio­nato da ostacolo protettivo di Gesù di fronte ai maggiorenti; costoro perciò, fremendo dal desiderio di concludere la lotta che si prolun­gava serrata da troppo tempo, decisero di aggirare quel fastidioso ostacolo compromettendo Gesù in maniera tale che il favore del po­polo non avrebbe potuto giovargli. Tenuto breve consiglio sul da farsi (Matteo, 22, 15), i Farisei inviaro­no a Gesù alcuni dei loro discepoli insieme con taluni Erodiani (§ 45) per proporgli, in pubblico e in maniera che la folla ascoltasse, una particolare questione. La presenza degli Erodiani già induceva a pre­vedere che si trattava di una questione politica, cioè di un argomen­to che Gesù aveva sempre evitato. Gl’inviati s’avvicinano pieni d’o­stentato rispetto, come se non avessero nulla in comune con i prece­denti interlocutori e venissero da tutt’altra parte, e untuosamente di­cono a Gesù: Maestro, sappiamo che sei veritiero ed insegni la via d’Iddio con verità e non tieni conto di nessuno, perché non guardi in faccia agli uomini; dicci dunque, che cosa ti sembra: e’ lecito dare censo a Cesare o no? (Matteo, 22, 1~l7). La domanda, come già ha avvertito l’evangelista, era un tranello che consisteva in questo: se Gesù avesse risposto ch’era lecito, si sarebbe attirato l’odio del po­polo, perché colui che figurava come Messia ed eroe nazionale non avrebbe mai potuto dichiarar lecito il riconoscere un’autorità poli­tica straniera e il pagarle un tributo qualsiasi; se poi Gesù avesse risposto ch’era illecito, siffatta dichiarazione era bastevole per de­nunziarlo al procuratore romano come ribelle e istigatore di sommos­se, tanto più che la grande ribellione di Giuda il Galileo avvenuta un trentennio prima era stata provocata dal censimento romano intima­mente riconnesso col pagamento del tributo (§ 43). I Farisei, da per­sone esperte, trovarono che il dilemma era rigorosamente cornuto, e quindi che Gesù sarebbe rimasto vittima di una delle due alternative: probabilmente s’aspettavano ch’egli dichiarasse illecito il pagamento del censo, e in tal caso la denunzia subito presentata dai testimoni Erodiani avrebbe fatto colpo sul procuratore romano. Ma le previsioni fallirono, perché il dilemma fu rivolto contro gli interroganti. Disse infatti Gesù: Perché mi tentate, ipocnti? Mostra­temi la moneta del censo. Gli fu porto un denarius romano d’argen­to, che valeva poco più di una lira in oro odierna: serviva da mo­neta corrente per il pagamento delle imposte, ed era stato coniato fuori della Palestina perché era di metallo prezioso e recava impressa un’effigie umana, mentre le monete coniate in territorio giudaico era­no soltanto di bronzo e non recavano alcuna effigie umana in omag­gio alla nota prescrizione del giudaismo (§ 23). Se il denarius porto a Gesù era – come sembra assai probabile – quello di Tiberio allora regnante, esso recava sul retto l’immagine dell’imperatore coronato e attorno ad essa l’iscrizione TI.(berius) CAESAR DIVI AUO.(usti) f. (ilius) AUGUSTUS. Alquanto strana era parsa la richiesta di Gesù di vedere una moneta del censo quasicché non le avesse mai viste, ma anche più strana sembrò la sua domanda quandò ebbe la moneta sott’occhi: Di chi e’ questa immagine e iscrizione? Ma come, non lo sapeva? Anche l’ul­timo ragazzo palestinese sapeva che effigie e nome erano di quell’im­peratore che stava laggiù a Roma a comandare sul mondo intero e – purtroppo – anche su Gerusalemme. Meravigliati di quella igno­ranza gli risposero: Di Cesare. Ma l’ignoranza era simile a quella già usata da Socrate nel suo metodo interrogativo, la quale mirava a far enunciare una data verità all’interrogato stesso. Con la risposta ottenuta, che effigie e nome erano di Cesare, Gesù aveva ottenuto quanto voleva; egli allora ne concluse: Rendete dunque le cose di Cesare a Cesare, e le cose d’iddio a iddio. La conclusione scaturiva, per una logica rigorosa, dalla risposta dei Farisei. Era di Cesare quel­la moneta? Ebbene, la rendessero a Cesare, giacché per il semplice fatto che essi accettavano quella moneta e se ne servivano correntemente mostravano di accettare la sovranità di chi l’aveva battuta. E così la questione politica era risolta senza che Gesù fosse entrato nell’evitato campo politico, ma solo in virtù della confessione che la moneta era di Cesare. Tuttavia, affermando il solo dovere verso Cesare, la questione non era totalmente risolta secondo Gesù. La sua missione tendeva al re­gno di Dio, non a quello dell’uno o dell’altro Cesare, e quando gli uomini avessero reso al rispettivo Cesare quel che gli spettava avreb­bero compiuto solo una parte, e non la più importante, del loro do­vere. Perciò alla prescrizione di rendere a Cesare, Gesù soggiunge l’altra di rendere a Dio, e l’aggiunse come elemento non solo integra­tivo di tutta la risposta ma anche rafforzativo della prima prescri­zione. Gesù infatti non conosce di persona nessuno dei Cesari di que­sto mondo, e non sa se essi si chiamino Augusto oppure Tiberio, Erode Antipa oppure Ponzio Pilato: sa soltanto che essi sono investiti di un’autorità la quale dev’essere rispettata. Ma perché questa sud­ditanza a Cesare? Appunto in virtù della sudditanza a Dio. I doveri verso Cesare formano solo un piano del gran quadro in cui Gesù contempla il regno di Dio: chi appartiene al regno di Dio compia, in forza di questa sua appartenenza, i suoi doveri verso il pro­prio Cesare; ma subito appresso, appena sdebitatosi verso Cesare, ri­salga egli nei piani superiori e spazieggi nei dominii imperituri del Padre celeste.

I Sadducei e la Resurrezione

§ 515. L’insidiosa questione del tributo a Cesare era finita con una sconfitta dei Farisei interroganti, i quali avendo udito furono presi d’ammirazione e lasciatolo se n’andarono (Matteo, 22, 22). Di questa sconfitta si compiacquero i rivali Sadducei, i quali si fecero subito avanti a ritentare per proprio conto una nuova partita; questa avrebbe riguardato l’argomento della resurrezione dei corpi, tenacemente negata dai Sadducei (§ 34) e oggetto di vecchie dispute fra loro e i Farisei. Si presentarono pertanto a Gesù per sottoporgli non la questione astratta della resurrezione, ma un caso concreto, uno di quei “casi” che formavano la delizia delle accademie giudaiche. Cominciarono col citare la legge del “levirato”, con cui Mosè pre­scrive che, se un Ebreo muoia non lasciando figli, il fratello del morto sposi la vedova di lui per procurare una discendenza al defunto (Deu­teronomio, 25, 5 segg.). Ricordata questa legge, essi presentarono il “caso”. C’erano stati sette fratelli, il primo dei quali era morto non lasciando figli, cosicché il secondo fratello aveva sposato la vedova del primo; ma anche costui era morto non lasciando figli, e la don­na era stata sposata dal terzo; altrettanto era avvenuto con tutti i successivi fratelli fino al settimo, e dopo la morte del settimo era mor­ta anche la donna. Ora – chiedevano quei Sadducei – di chi sareb­be stata moglie quella donna, quando fosse risorta insieme con tutti e sette contemporaneamente? Tutti e sette, infatti, avevano egual diritto su di lei. Il caso era tipicamente accademico; ma in fatto d’astruseria e di manierismo si andava oltre, come appare dal seguente “caso” conser­vato nel Talmud. – C’erano 13 fratelli, e 12 di essi morirono senza figli. Le 12 vedove citarono allora il superstite fratello davanti al Rabbi (Giuda I, morto sui primi del sec. III) affinché le sposasse in forza della legge del “levirato”; ma il superstite dichiarò che nom aveva rnezzi finanziari per mantenere le 12 aspiranti. Esse allora, tutte d’accordo, dichiararono che ciascuna avrebbe provveduto al mantenimento durante un mese all’anno, e così si sarebbe provve­duto a tutti e 12 i mesi. Senonché il futuro marito delle 12 aspiranti fece cautamente osservare che nel calendario ebraico i mesi dell’an­no erano talvolta 13: ciò infatti avveniva circa ogni 3 anni, quando si intercalava un tredicesimo mese per eguagliare l’ufficiale anno lu­nare con l’anno solare; ma il generoso Rabbi rispose che nel caso di mese intercalato egli avrebbe provveduto al mantenimento. E così avvenne. Dopo 3 anni le 12 vedove rimaritate si presentarono alla casa del Rabbi recando complessivamente 36 bambini, e il Rabbi li mantenne tutti per quel mese.

§ 516. I Sadducei che proposero il loro “caso” a Gesù non s’inte­ressavano di questioni finanziarie, ma di quella della resurrezione. Secondo essi il caso proposto dimostrava che la resurrezione era im­possibile, giacché risorta che fosse quella donna avrebbe dovuto essere nello stesso tempo moglie di tutti e sette i risorti mariti: ma poiché ciò era manifestamente una sconcezza e un’assurdità, per questo la resurrezione si dimostrava impossibile. Se poi Gesù avesse tentato di difendere la resurrezione, nello sciogliere il caso proposto si sarebbe cacciato in un ginepraio di ridicolaggini perdendo così ogni credito sulla folla. Questo modo di ragionare presupponeva un concetto della resurre­zione molto crasso e materialesco, il quale anche per tale ragione era respinto dai Sadducei mentre tra i Farisei era predominante seb­bene non universale; questo concetto immaginava la resurrezione come il ridestarsi di un dormiente, il quale svegliato che sia si ri­trova nelle stesse condizioni naturali di prima che s’addormentasse. Perciò ai risorti si assegnavano le antiche attività di mangiare, bere, dormire, generare, ecc.; anzi sembrava conveniente che queste atti­vità fossero accresciute e rafforzate, tanto che un cinquantennio dopo Gesù l’autorevole Rabban Gamaliel sentenziava che nella vita futura le donne partoriranno ogni giorno come le galline. Gesù taglia corto a tali fantasticherie puerili, e risponde: Errate, non sapendo le Scritture né la potenza d’iddio. Nella resurrezione infatti (i risorti) né sposano né sono spòsati, ma sono come angeli nel cielo. I risorti saranno bensì gli stessi uomini di prima, ma non già nelle stesse condizioni di prima: la loro nuova condizione sarà come quel­la degli angeli nel cielo. Continuò poi Gesù: Riguardo alla resurre­zione dei morti, non leggeste ciò che fu detto a voi da Iddio affer­mante “io sono il Dio di Abramo e il Dio d’isacco e il Dio di Gia­cobbe”? (Esodo, 3, 6) Non e Dio di morti ma di viventi. Il passo citato da Gesù fa parte della Torah, l’unica Scrittura sacra accettata dai Sadducei (§ 31); questa sembra la ragione come notò già S. Girolamo – per cui Gesù, tralasciando altri passi delle Scritture che attestano più chiaramente le fede nella resurrezione dei morti (§ 80), argomenti da questo passo che a differenza degli altri non poteva essere rifiutato dai Sadducei. Ad ogni modo l’argomentazione è condotta secondo i metodi delle scuole rabbiniche, e presuppone il patrimonio ideale dell’ebraismo il Dio dei patriarchi ebrei è Dio non di morti ma di viventi; dunque quei patriarchi vivono anche dopo la loro morte corporea, e la resurrezione è attestata dalle sacre Scrit­ture.

Il massimo comandamento. Il Messia figlio di David

§ 517. L’alternativa di Farisei e Sadducei continuò ancora in quel giorno operosissimo per Gesù. La risposta data ai Sadducei piacque a uno Scriba presente alla discussione, il quale perciò si fece avanti e propose a Gesù una questione che corrispondeva bene ai metodi rab­binici: Qual e’ il comandamento primo di tutti? (Marco, 12, 28) o come è riportata da Matteo (22, 36): Qual (e’ il) comandamento (piu’) grande della Legge? La Legge scritta infatti, ossia la Torah, con­teneva secondo i rabbini 613 precetti (§ 30), dei quali 248 erano po­sitivi perché comandavano una data azione, e 365 erano negativi per­ché proibivano di fare alcunché: gli uni e gli altri, poi, eran ripartiti in precetti “leggieri” e precetti “gravi” a seconda dell’importanza che si attribuiva loro. Ora, fra tutti questi comandamenti vi sarà pure stata una specie di gerarchia, e fra i precetti “gravi” ve ne sarà stato uno gravissimo che superava per importanza tutti gli al­tri. Ciò appunto voleva sapere da Gesù questo Scriba. La risposta di Gesù fu quella già data al dottore della Legge per cui fu pronunziata la parabola del buon Samaritano: Gesù recitò l’inizio dello Shema’ (§ 438). Il primo (comandamento) e’: “Ascolta Israele! Il Signore Iddio nostro e’ Signore unico; e amerai il Signore Iddio tuo con tutto il cuore tuo, e con tutta l’anima tua, e con tutta la mente tua, e con tutta la forza tua”. (Il) secondo (comandamento e’) questo:”Amerai il prossimo tuo come te stesso”. Maggiore di que­sti, altro comandamento non e’. Veramente lo Scriba aveva interro­gato circa un solo comandamento, il massimo fra tutti; Gesù ha ri­sposto recitando il comandamento dell’amore di Dio, ma quasicché tale comandamento non sia da solo integro e pieno – almeno nel campo pratico – vi aggiunge l’altro dell’amore del prossimo: questi due precetti, che si riconnettono l’un l’altro, formano per Gesù il comandamento “massimo”. Le stesse idee erano già state espresse nel Discorso della montagna (§§ 327, 332). Lo Scriba approvò cor­dialmente la risposta di Gesù riscontrando da parte sua che il doppio amore di Dio e del prossimo valeva più che tutti gli olocausti e i sacrifizi del Tempio. In premio di questa sua replica Gesù gli disse: Non sei lontano dal regno d’Iddio. Gli mancava, in fatti, soltanto di credere nella missione di Gesù ad imitazione di Pietro, di Giovanni, e di tanti altri. Se ciò poi avvenisse, non sappiamo. Dopo questa discussione finita con l’accordo dei due ci si dice che nessuno piu’ osava interrogarlo (Marco, 12, 34). Gesù però venne per conto suo alla riscossa. Avvicinatosi nel Tempio stesso a un altro gruppo di Farisei, intavolò una questione riguardo ai Messia: Da quale stirpe sarebbe disceso il Messia? Di chi sarebbe egli stato figlio? Gl’interrogati, d’accordo con tutta la tradizione ebraica, risposero: Di David. Gesù allora fece osservare che nella sacra Scrittura Da­vid stesso, il cui nome figura nell’iscrizione in cima al Salmo 110 ebr. (Vulg. 109), si esprime ivi cosi: Oracolo di Jahvè al mio Signore: “Siedi alla mia destra, finchè Io ponga i tuoi nemici (quale) sgabello per i tuoi piedi!”. Da questo passo Gesù argomentò: Se dunque David lo chiama “Si­gnore”, come e’ figlio di lui? La forza dell’argomentazione poggiava su due punti ammessi anche dai Farisei: in primo luogo, che nel Salmo parlava David come mostrava la sua iscrizione; in secondo luogo, che il Salmo trattava del futuro Messia, come risulta dal largo impiego in questo senso che se ne fa nel Nuovo Testamento (più di quindici volte) e che presuppone il consenso della parte avversaria. Perché mai, dunque, David chiamava “Signore” il futuro Messia che era suo discendente? Ciò dimostrava, secondo Gesù, che il Mes­sia era più che un semplice “figlio di David” e racchiudeva in sé qualità che lo rendevano piu’ che Giona e piu’ che Salomone (§ 446) e anche più che David; ma Gesù voleva avere dai Farisei la spiega­zione di questa apparente incongruenza. Quei Farisei però non po­terono rispondere nulla. Più tardi, dal secolo II in poi, i rabbini risolsero la questione sostenendo che il Salmo non si riferiva al Messia, bensì ad un altro personaggio: che di solito era creduto Abramo, talvolta David stesso (!),e secondo la solitaria notizia di Giustino (Dial. cum Tryph., 33 e 38) il re Ezechia. Questa mutazione di riferimento fu evidentemente determinata dalla polemica anticristiana.

L’”Elenchos” contro Scribi e Farisei. L’offerta della vedova

§ 518. I Greci antichi avevano chiamato e’lenchos quella parte dell’orazione forense in cui, esponendosi le accuse addotte contro l’avversario, si corredavano delle rispettive prove; era dunque un biasi­mo dimostrativo del disonore altrui, come nei tempi più antichi (presso Omero) e’lenchos aveva significato sia “biasimo” sia “diso­nore”. In quel tempestoso martedì, consumato da Gesù in buona parte a battagliare contro Scribi e Farisei, non poteva mancare un e’lenchos contro questi avversari che riassumesse ed integrasse le accuse già formulate in precedenza. Difatti tutti e tre i Sinottici riportano tale requisitoria di Gesù in questo giorno, ma con le solite divergenze: Marco (12, 38-40) è brevissimo; cosi pure Luca (20, 4647), il quale però ha già riferito un ampio formulario d’accuse in occasione del pranzo offerto a Gesù dal Fariseo (§ 447). Lunghissimo è invece Matteo (cap. 23), il quale incorpora quasi tutto il formulario di Lu­ca accrescendolo di altre accuse. E’ probabile che Matteo, come ha già fatto per il Discorso della montagna (§ 317), abbia riunito qui per motivi redazionali alcune sentenze di Gesù pronunziate occasionalmente altrove: e questa conclusione è suggerita anche dall’esame let­terario dell’e’lenchos, ch’è diviso simmetricamente in tre parti (23, 1-12; 23,13-32; 23, 33-39), ed ha la seconda parte suddivisa in set­te Guai a voi!… (§ 125); tuttavia la collocazione di Matteo è nel suo complesso preferibile a quella di Luca, e il nucleo principale del di­scorso dovette esser pronunziato da Gesù appunto in questo scorcio di sua vita come del resto confermano vagamente gli altri due Sinot­tici. Riproduciamo qui integralmente l’e’lenchos di Matteo, rinviando per le parti già viste a quanto già se ne disse in precedenza. Sulla cattedra di Mose’ si sedettero gli Scribi ed i Farisei. Perciò tut­te quante le cose che vi dicano fate ed osservate, ma conforme alle opere loro non fate, giacche’ dicono e non fanno. Legano infatti cari­chi pesanti e (li) impongono sulle spalle degli uomini, ma essi col loro dito non vogliono rimuoverli. Fanno poi tutte le opere loro per esser rimirati dagli uomini: allargano infatti le loro filatterie e ingrandiscono le loro frange, amano poi il primo divano nei conviti e i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze e l’esser chiamati “Rabbi” dagli uomini. – Voi invece non vi lasciate chiamare “Rabbi”: uno solo infatti e’ il vostro maestro, e voi siete tutti fratel­li. E non chiamate “padre” vostro (alcuno) sulla terra: uno solo infatti e’ il Padre vostro, quello celeste. E non vi lasciate chiamare “direttori” perché direttore vostro e’ uno solo, il Cri­sto. invece chi di voi e’ maggiore, sara’ inserviente di voi; chiunque poi s’innalzera’ sara abbassato, e chiunque s’abbassera sarà innalzato. In questa prima parte del discorso Gesù traccia i lineamenti caratte­ristici dei Farisei, e tornano perciò alcuni tratti delle sue precedenti discussioni con essi: parlando qui egli alla folla deI Tempio, passa subito appresso ad esortare affinché quelle caratteristiche non siano imitate e si faccia precisamente il contrario. La vanagloria dei Fa­risei si esercitava fra l’altro nelle filatterie, le quali consistevano in bossoletti ove stavano arrotolate strisce di pergamena su cui erano scritti alcuni passi dei Libri sacri (cioè Esodo, 13, 1-10; 13, 11-16; Deuteron., 6, 4-9; 11, 13-21): du­rante la preghiera l’Israelita applicava (ed applica ancora) le strisce sulla fronte e sul braccio sinistro, intendendo di eseguire letteralmen­te la prescrizione contenuta in Deuteron., 6, 8 (cfr. Esodo, 13, 9). I vanagloriosi si procuravano strisce più ampie e vistose, per dare più sull’occhio; altrettanto facevano con le frange del mantello che avevano anch’esse un significato religioso ed erano portate pure da Gesù, come già vedemmo (§ 349).

§ 519. La seconda parte del discorso costituisce il vero e’lenchos: Guai però a voi, Scribi e Farisei ipocriti, perché rinserrate il regno dei cieli in faccia agli uomini: voi infatti non entrate, né gli entranti lasciate entrare. Guai a voi, Scribi e Farisei ipocriti, perché girate per mare e per terra per fare un solo proselita, e quando sia divenuto (tale) lo ren­dete figlio di Geenna il doppio di voi. Guai a voi, guide cieche che dite:”Chi abbia giurato per il santua­rio, e’ nulla; ma chi abbia giurato per l’oro del santuario, e’ obbliga­to”. Stolti e ciechi! Chi e’ infatti maggiore, l’oro oppure il santuario che ha santificato l’oro? E (dite anche):”Chi abbia giurato per l’al­tare, e’ nulla; ma chi abbia giurato per il dono che (sta) sopra a quello, e’ obbligato”. Ciechi! Che cosa infatti e’ maggiore, il dono oppu­re l’altare che santifica il dono? Chi dunque ha giurato per l’altare, giura per esso e per tutte le cose che (stanno) sopra a quello; e chi ha giurato per il santuario, giura per esso e per chi l’abita; e chi giurato per il cielo, giura per il trono d’Iddio e per chi vi è assiso sopra1 Guai a voi, Scribi e Farisei ipocriti, perché pagate la decima della menta e della finocchiella e del comino, e lasciate le cose piu’ gravi della Legge, il giudizio e la misericordia e la fede! Invece, queste cose bisognava fare e quelle non tralasciare. Guide cieche, che filtrate il moscerino e inghiottite invece il camello! Guai a voi, Scribi e Farisei ipocriti, perché mondate l’esterno della coppa e del vassoio, mentre l’interno e’ riempito di rapina e sfrena­tezza! Fariseo cieco, monda dapprima l’interno della coppa affinché diventi puro anche l’esterno di essa! Guai a voi, Scribi e Farisei ipocriti, perché rassomigliate a sepolcri imbiancati, i quali al dì fuori appaiono belli, al dì dentro invece sono ripieni d’ossa di morti e d’ogni impurità! Così anche voi all’esterno apparite giusti agli uomini, all’interno invece siete colmi d’ipocrisìa e d’iniquità. Guai a voi, Scribi e Farisei ipocriti, perché costruite i sepolcri dei profeti ed abbellite le tombe dei giusti, ed esclamate.”Se fossimo stati ai giorni dei padri nostri, non saremmo stati loro complici nel sangue dei profeti!”. Cosicché attestate a voi stessi che siete figli di quei che uccisero i profeti. E voi colmate la misura dei padri vo­stri! L’e’lenchos ha denunziato i fatti; tale denunzia serviva già da prova, perché tutti gli uditori sapevano per esperienza che i casi mentovati corrispondevano alla realtà. Un quarantennio più tardi, dopo la ca­tastrofe del 70, lo stato delle cose cambierà alquanto: i Farisei rimar­ranno le guide sole e incontrastate del residuo della nazione e molti­plicheranno a piacer loro norme e prescrizioni; ma rinunceranno del tutto all’ansioso proselitismo qui accennato, e di cui già vedemmo al­cuni risultati ottenuti fra i Greci (§ 508).

§ 520. Ml’annunzio che i Farisei hanno colmato la misura dei padri loro segue la deploaazione, come nella procedura forense alla dimo­strazione del delitto seguiva la pena; è la terza parte del discorso: Serpenti, razza di vipere, come (avverrà che) sfuggiate al giudizio (condanna) della Geenna? Per questo ecco io invio a voi profeti e sa­pienti e scribi: di essi ucciderete e crocifiggerete, e di essi flagellerete nelle vostre sinagoghe (§ 64) e perseguiterete di città in città, affin­ché venga su voi tutto il sangue giusto versato sulla terra, dal sangue di Abele il giusto fino al sangue di Zacharia figlio di Barachia che uccideste fra il santuario e l’altare. in verità vi dico, verranno tutte queste cose su questa generazione! – Gerusalemme, Gerusalemme, uccidente i profeti e lapidante gl’inviati ad essa! Quante volte volli coadunare insieme i tuoi figli, alla maniera che una gallina coaduna i pulcini sotto le ali, e (voi) non voleste! Ecco, e lasciata a voi la vo­stra casa deserta. Vi dico infatti, non (sarà che) mi vediate da adesso fino a che diciate: “Benedetto il Veniente in nome del Signore!”. Questa ultima parte, più che una minaccia, è in realtà una deplora­zione. Gesù deplora che i suoi reiterati tentativi di salvare città e nazione siano stati frustrati, e che l’intero edificio costruito man ma­no da Dio per la salvezza d’Israele venga demolito man mano dalla pervicacia degli uomini: ciò ch’è avvenuto a al tempo della Legge quando i profeti di Jahvè finivano lapidati, avverrà anche al tempo del Messia i cui inviati finiranno in maniera analoga; ma in tal modo tutto il peso dei delitti anche più antichi graverà su quei che compiono l’ultimo delitto, perché costoro scalzano le ultime fonda­menta dell’edificio di Dio, e colmando la misura attireranno su se stessi la vendetta totale. E dunque una minaccia salutare, un supre­mo angoscioso grido affinché le guide cieche della nazione eletta s’arrestino sull’estremo orlo dell’abisso. Dei delitti antichi sono ricordati per nome solo due, l’uccisione di Abele e quella di Zacharia, probabilmente perché erano narrate l’una al principio del primo libro della Bibbia ebraica che è il Genesi (4, 8), e l’altra sulla fine dell’ultimo libro che sono le Cronache (II Cron., 24, 20-22). Vecchia, poi, è l’altra difficoltà offerta dall’appellativo paterno di Zacharia chiamato qui figlio di Barachia, mentre nelle Cronache è chiamato figlio di Jojada; al contrario appare come figlio di Barachia il profeta Zacharia (Zach., 1, 1. 7), che è tutt’altra persona dallo Zacharia qui ricordato. E notevole però che l’appellativo paterno manca nel passo parallelo di Luca (11, 51) e anche nell’autorevolis­simo codice Sinattico di Matteo: ciò potrebbe far sospettare che fi­glio di Barachia sia un’antica glossa infiltratasi nel testo greco ma assente nell’originale semitico di Matteo (§ 121), salvo che la divergen­za si fondi su altre ragioni che a noi oggi sfuggono. I due Sinottici, che soli riportano quest’apostrofe di Gesù a Geru­salemme, mostrano con ciò di conoscere i reiterati tentativi di Gesù per salvare la città e quindi i suoi ripetuti viaggi alla capitale, seIbbene questi viaggi siano oggetto della narrazione di Giovanni e non dei Sinottici: quindi la tradizione sinottica implicitamente conosce quella giovannea, sebbene non se ne serva (§ 165). § 521. Ma con questo appello, angoscioso e minaccioso, i tentativi di Gesù finiscono. Quando sia avvenuta l’ultima ripulsa e consumato l’ultimo delitto, la loro casa sarà abbandonata ad essi deserta, priva dell’aiuto di colui che hanno respinto. Né essi rivedranno mai più lui, se non in tempi d’un futuro remotissimo allorché l’aberrante na­zione si sarà ravveduta del suo errore e farà ricerca del respinto: Una voce sulle nude colline si ode, il pianto supplichevole dei figli d’Israele: ché aberrarono dalla loro via, dimenticarono Jahvè loro Dio; saranno giorni, quelli, in cui non si esclamerà più oltre “O Arca dell’alleanza di Jahvè!”, non starà (piu’) a cuore, non si penserà ad essa, non sarà rimpianta nè costruita piu’ oltre; e agli aberranti sarà rivolto un invito: Ritornate, o figli ribelli, guarirò io le vostre ribellioni! ed essi risponderanno: Eccoci, noi veniamo a te, perché tu sei Jahvè nostro Dio!… Davvero, in Jahvè nostro Dio sta la salvezza d’Israele! Geremia, 3, 16… 23, con inversioni. Questa visione dell’antico profeta è contemplata nuovamente da Ge­sù ma sullo sfondo d’un tempo del tutto nuovo ed ancor più remoto, quello dell’ultima parusia; allora Israele, riconciliato col già respinto Messia, potrà nuovamente vederlo perché gli andrà incontro rivol­gendogli l’acclamazione già rivoltagli nel breve trionfo di due giorni prima Benedetto il Veniente in nome del Signore! (§ 504). Qualche anno più tardi il fariseo Paolo di Tarso, divenuto “schiavo del Cristo Gesù”, contemplerà anch’egli il remotissimo tempo in cui i suoi connazionali, presentemente accecati, riacquisteranno la vista e cosi l’intero israele sarà salvato (Romani, 11, 25-26). Dopo l’e’lenchos contro Scribi e Farisei, ci è dato assistere ad una umile ma nobilissima scenetta che è precisamente l’opposto del mon­do spirituale degli Scribi e dei Farisei: la scenetta è descritta da Luca (21, 1-4) ma anche più vividamente da Marco (12, 41-44); Matteo invece, inaspettatamente, la omette. Forse si tratta di un elemento della catechesi di Pietro, trasmesso a Luca per mezzo di Marco.

§ 522. Quel martedì era quasi trascorso; Gesù, terminata l’accorata deplorazione contro i suoi avversari, entrò nelle parti interne del Tempio spingendosi fino all’”atrio delle donne”, e ivi si sedette di fronte all’attigua aula del Tesoro (§ 47). All’ingresso di questa erano collocate, per raccogliere le offerte, tredici casse chiamate “trombe” dalla forma allungata dell’imboccatura nella quale si gettavano le monete; in occasione di grandi feste, come questa di Pasqua, le of­ferte erano abbondantissime perché molti pellegrini approfittavano di questa loro venuta per pagare il tributo prescritto per il Tempio (§ 406) e tutti in genere facevano oblazioni spontanee: perciò vicino al­le casse stavano di guardia alcuni sacerdoti, che certificavano il pa­gamento del tributo e sorvegliavano il regolare svolgimento delle operazioni. Seduto lì di fronte, Gesù guardava. Molti ricchi venivano alle casse e con molta ostentazione gettavano dentro manciate di monete, sicuri con ciò di essere apprezzati assai, oltreché dagli uomini, anche da Dio; framezzo a costoro, non avvertita né curata da alcuno, venne una povera strascicata di vedova che lasciò cadere nella cassa soltanto due minuzzoli che e’ (un) quadrante (§ 133), cioè neppure due centesimi. Allora Gesù, chiamati a sé i suoi discepoli disse loro: In verità vi dico che questa vedova, povera, gettò piu’ di tutti quei che gettano nel tesoro; tutti infatti gettarono (traendo) dal sovrab­bondante ad essi: questa invece (traendo) dalla sua indigenza gettò tutto quanto aveva, l’intera sua sussistenza (Marco, 12, 43-44). Anche con questa osservazione il maestro dello spirito si opponeva ai maestri dell’esteriorità, suoi avversari.

Il discorso escatologico

§ 523. La giornata volgeva oramai al tramonto; Gesù s’avviò per uscire dal Tempio e passar la notte fuori della città, come soleva fare in quella settimana (§ 510). Attraversato l’atrio dei gentili, egli fiancheggiò le sottocostruzioni che s’elevavano lungo la valle del Cedron ed offrivano uno spettacolo di vera potenza e magnificenza. A quella vista tornarono spontaneamente alla memoria dei discepoli che lo seguivano le ultime parole di lui, pronunziate poco prima con­tro i Farisei e ch’erano balenate come tetra minaccia: Ecco, e’ lasciata a voi la vostra casa deserta. La prima e più amata casa di ogni buon Israelita era la casa del Dio Jahvè, il Tempio della città santa e unico di tutto il mondo; quel Tempio non poteva non essere eterno come era richiesto dalla fede comune e anche dimostrato dalla gran­diosità delle sue costruzioni. In che senso, dunque, aveva Gesù potuto dire che quella casa sarebbe rimasta deserta? Si ricollegava forse questa predizione con le altre angosciose predizioni fatte nel passato dal maestro? Ci fu qualche discepolo che volle scandagliare il pensiero di Gesù: senza darsene l’aria, gli si avvicinò mentre la comitiva sfilava lungo le sottocostruzioni del Tempio e cominciò ad esaltare quell’edificio gigantesco con termini entusiastici, non dissimili certamente da quelli che si ritrovano nelle ampie descrizioni di Flavio Giuseppe (Antichità giud., xv, 380-425; Guerra giud., v, 184-226). Le lodi del resto non erano esagerate, perché stando a questo testimonio oculare appunto quelle sottocostruzioni e le parti del Tempio rivolte verso il Cedron presentavano il seguente aspetto: Il tempio inferiore, nella parte piu’ bassa, fu dovuto tener su con muri di 300 cubiti (circa 150 metri) e in certi posti anche piu’: tuttavia l’intera profondità delle fondamenta non appariva, perchè (i costruttori) colmarono buona parte dei bur­roni volendo livellare le stradicciuole della città. Nella costruzione (delle fondamenta) furono (impiegate) pietre di 40 cubiti di gran­dezza (20 metri)… Di tali fondamenta erano degne anche le fabbriche sovrastanti. Doppi erano infatti tutti i portici, e sostenuti da colon­ne di 25 cubiti d’altezza (metri 12,50), ch’erano monoliti di marmo bianchissimo ricoperti con impalcature di cedro; la loro magnificenza aturale, la levigatura e l’aggiustamento offrivano uno spettacolo am­mirevole… (Guerra giud., v, 188-191). Senonché le parole entusiastiche dei discepoli non riuscirono a scuo­tere la pensierosità di Gesù; solo dopo qualche tempo egli, rialzando il capo e dando uno sguardo fugace alle decantate costruzioni, rispo­se gravemente: Non vedete tutte queste cose? In verità vi dico non sarà lasciata qui pietra su pietra che non sarà distrutta. E subito si chiuse nel suo silenzio. I discepoli rimasero come fulminati da quelle parole; la pensierosità del maestro si diffuse sui discepoli, e la comitiva proseguì oramai muta il cammino, attraversando il Cedron e poi risalendo sull’opposto pendìo del monte degli Olivi. Quando fu sulla cima del mon­te, Gesù si sedette di fronte al Tempio (Marco, 13, 3) e rimase lì muto a guardare: lo si sarebbe detto un pilota che dalla riva ri­guardi accoratamente la sua amata nave su cui ha navigato lunghi anni, ma che ha dovuto abbandonare perché sa che di lì a pochi mo­menti sprofonderà per sempre. Gli sgomentati discepoli approfittarono di quella sosta per tornare sul­l’argomento di prima e domandare al maestro qualche schiarimen­to sulla sua nerissima predizione. Lo interrogavano privatamente Pietro e Giacomo e Giovanni e Andrea; e Gesù rispose con quello che comunemente è designato come il “discorso escatologico”.

§ 524. Il discorso escatologico è riferito dai soli Sinottici (Matteo, cap. 24; Marco, cap. 13; Luca, 21, 5-36) ma con le solite divergenze che si riscontrano anche altrove fra loro; inoltre Luca ha già antici­pato al cap. 17 vari elementi di questo discorso (§ 474 segg.), e lo stesso in minor parte sembra aver fatto anche Matteo (10, 17-23). E’ dunque palese anche qui l’intervento redazionale dei singoli evan­gelisti, del quale il lettore odierno deve tener conto per una retta esegesi del discorso. Ma bisogna aver presente anche un altro fatto importante. Le tre re­dazioni del discorso presso i Sinottici dipendono come al solito dalle rispettive catechesi ch’essi rappresentano (§ 110 segg.), e rispecchiano perciò l’animus Ecclesia; ora tale animus, nel presente caso, si tro­vava in condizioni di delicatezza estrema essendo pervaso da quella perplessità e ansia dubbiosa che molti punti del discorso avevano su­scitata nella mente dei primitivi cristiani, non esclusi gli evangelisti. Si confronti infatti l’impressione che il discorso fa in un lettore odier­no con l’impressione ch’esso faceva nei fedeli della prima generazione cristiana, e si ammetterà senza esitazione che la giusta interpretazio­ne del discorso è oggi assai più facile di allora. In realtà il tempo è spesso un ottimo coefficiente per una retta esegesi; e il lettore odier­no, che ha a sua disposizione venti secoli di storia, può oggi comprendere bene almeno alcuni punti del discorso escatologico, mentre quei primitivi cristiani non avevano questo prezioso aiuto. Il discorso, infatti, tratta di due grandi avvenimenti, ambedue futuri in un tempo più o meno remoto, ma idealmente ricollegati in qual­che maniera fra loro. Come futuri, questi avvenimenti erano ambe­due velati di mistero per chi aveva ascoltato il discorso dalla bocca di Gesù o degli Apostoli; poco più tardi, durante la stessa prima ge­nerazione cristiana, il meno remoto dei due avvenimenti accadde di fatto e allora una parte del mistero fu svelata tuttavia, per contrac­colpo, l’altra parte s’avvolse in un’oscurità più ansiosa e palpitante. Se si era avverata cosi puntualmente la prima predizione che appari­va idealmente ricollegata con la seconda, non si avvererebbe presto anche la seconda? Il primo avvenimento non era come l’immediato precursore del secondo? E su queste domande i primi cristiani riflet­terono trepidanti per molti anni. Oggi si riconosce concordemente che il primo dei due fatti si è av­verato durante la prima generazione cristiana, ma non sorgono piu’ le ansie di quella generazione riguardo al susseguirsi immediato del secondo fatto: i venti secoli di storia hanno attribuito il loro giusto valore alle parole di Gesù che ponevano tra i due fatti un interstizio di tempo incommensurabile. Fatta però la luce sul primo fatto e sull’interstizio, l’oscurità si è raccolta oggi tutta sul secondo fatto, ri­guardo al quale il lettore odierno è non meno dubbioso della pri­ma generazione cristiana, sebbene non ansioso come quella. Confrontando poi accuratamente fra loro le tre recensioni del di­scorso, e anche i tratti paralleli solitari, appare molto probabile che la sua forma più antica e meno sottoposta a redazione sia quella tra­smessaci da Marco, ossia la forma della catechesi di Pietro (§ 128 segg.): prendendo questa per guida, senza perder d’occhio le altre testimonianze, possiamo riassumere la sostanza del discorso nella ma­niera seguente.

§ 525. La domanda rivolta a Gesù dai quattro discepoli sulla cima del monte era consistita in queste parole: Dicci, quando saranno queste cose, e quale (sarà) il segno allorché stiano per conterminarsi tutte queste cose? (Marco, 13, 4). L’espressione queste cose si riferisce la prima volta alla distruzione del tempio, di cui Gesù aveva predetto che non sarebbe rimasto pietra sopra pietra; ma la seconda volta ha certamente un significato più ampio, e si ri­porta alla catastrofe addirittura universale in cui dovevano aver ter­mine tutte queste cose, cioè il “secolo” o mondo presente, come sug­gerisce anche il termine conterminarsi che è tipico per designare la fine del mondo (§ 638). Ciò del resto è messo fuor d’ogni dubbio dal parallelo Matteo (24, 3), ove la domanda dei discepoli suona: Dicci,quando saranno queste cose, e quale (sarà) il segno della tua “pa­rusia” e della conterminazione del “secolo”? I discepoli dunque, al sentire annunziata da Gesù la distruzione del Tem­pio, avevano ripensato alle varie promesse da lui fatte che il regno d’iddio sarebbe venuto in possanza (§ 401) e che nella rigenerazione si sarebbe assiso il figlio dell’uomo sul suo trono di gloria (§ 486), non­ché ai vari accenni delle parabole, e spontaneamente avevano fuso tutto insieme, contemplando o simultanei o almeno in una immedia­ta concatenazione di tempo ambedue gli avvenimenti, sia quello del­la distruzione del Tempio sia quello della parusia e della fine del “secolo”. Gesù pertanto dovrà rispondere ad ambedue i punti della domanda, quando sarà la distruzione del Tempio e quando la fine del mondo; inoltre dovrà descrivere i segni precursori dell’uno e del­l’altro avvenimento. Egli infatti comincia col mettere in guardia i suoi discepoli contro insidie ingannevoli, e perciò nella prima sezione della sua risposta descrive i segni che precederanno la distruzione del Tempio (Marco, 13, 5-23). – Si faranno avanti molti predicatori menzogneri spaccian­dosi per il Messia e attireranno in errore molti, così pure avverran­no guerre, sedizioni, terremoti e carestie in luoghi diversi: ma tutto ciò non (e’) ancora la fine, bensì soltanto l’inizio delle doglie la grande tribolazione infatti si scaricherà diretta­mente sui discepoli di Gesù, che saranno deferiti a sinedri, sinagoghe e governatori, saranno battuti e imprigionati, saranno traditi dai più stretti parenti, e odiati universalmente a causa della loro fede: ma ciò nonostante e appunto durante questo tempo in tutte le genti dap­prima dev’esser predicata la « buona novella ». Infine la “grande tribolazione” entrerà nella sua stretta finale: l’abominio della desola­zione predetto da Daniele (9, 27) sarà stabilito nel Tempio, e Geru­salemme sarà circondata da armate; allora i discepoli rimasti fedeli a Gesù si diano immediatamente alla fuga per salvare le loro vite. Quelli saranno giorni di vendetta afinché siano adempiute tutte le cose scritte nei libri sacri (Luca, 21, 22), e sarà tribolazione quale non e’ stata siffatta, dal principio della creazione che creò Iddio, fino ades­so e non sarà (cfr. Daniele, 12, 1), sebbene la sua durata sarà abbre­viata per far sì che ne scampino gli eletti (Marco, 13,19-20). Fin qui, come si sarà notato, il discorso non ha fatto alcun accenno al tempo ma solo ai segni della “grande tribolazione”. Che poi que­sta si riferisca alla distruzione del Tempio e di Gerusalemme è dimo­strato dai termini impiegati, ed è inoltre confermato dall’importante rilievo che pure Flavio Giuseppe, accingendosi a narrare lo stesso fatto, impiega espressioni somigliantissime, dicendo: In realtà le sven­ture di tutti i secoli mi sembrano restare al di sotto con frontate con quelle dei Giudei (Guerra giud., I, 12), e definisce anche la guerra tra Roma e la Giudea la più grande non solo di quelle del nostro tempo ma quasi anche di quelle che udimmo per fama esser scop­piate fra città e città o fra nazioni e nazioni (ivi, 1, 1). Né fa ostacolo la condizione che, alla distruzione del Tempio, in tutte le genti dap­prima dev’essere predicata la “buona novella”; altrettanto afferma­va, come di cosa fatta, S. Paolo egualmente prima che Gerusalemme fosse distrutta (§ 401). Ora, la distruzione di Gerusalemme avvenne nel quarantennio successivo al discorso, ossia nello spazio di tempo computato dai Giudei come una “generazione”. Troviamo infatti che Gesù in seguito – quando ha finito di descrivere i segni e passa a parlare dei tempi – afferma: In verità vi dico che non passerà questa generazione fino a che tutte queste cose avvengano (Marco, 13, 30).

§ 526. Passando ora ai riscontri storici noi troviamo che, sullo scor­cio del previsto quarantennio, si svolge un periodo il quale fu defi­nito, da uno storico romano che lo conosceva assai bene. Dal canto suo Flavio Giuseppe, occupandosi par­ticolarmente della Palestina, ci fornisce quelle notizie sulle agitazioni interne e soprattutto sul ribollimento del messianismo politico che ricordammo occasionalmente più volte. La conclusione di tutto fu la catastrofe del 70, ove perirono Tempio, capitale e nazione. Quanto ai discepoli di Gesù, durante questa “grande tribolazione” essi su­birono quelle persecuzioni dentro e fuori la Palestina che sono attestate sia dagli Atti e altri scritti del Nuovo Testamento, sia dagli storici romani, e che erano mosse tanto da connazionali e da con­giunti quanto da estranei e da pagani; ma coloro che ressero alle lusinghe dei falsi profeti e alle violenze dei persecutori, allorché vide­ro il Tempio di Gerusalemme profanato dai sanguinari Zeloti (Guer­ra giud., iv, 151 segg., 305 segg., 381 segg.), si attennero all’ammoni­zione del discorso escatologico e fuggendo dalla città si ritirarono a Pella in Transgiordania, come narra Eusebio (Hist. eccì., nì, 5, 3).1

§ 527. Fin qui Gesù ha risposto soltanto al primo punto della domanda rivoltagli dai discepoli, descrivendo i segni che precederanno la distruzione del Tempio; un netto e preciso distacco, a guisa di con­clusione, si ritrova infatti al termine di questa sezione ove Gesù fini­sce ammonendo: Voi quindi guardate: (io) vi ho predetto tutte le cose (Marco, 13, 23). Adesso manca che Gesù risponda al secondo punto della domanda, comunicando i segni della fine del mondo. La nuova sezione (Marco, 13, 24 segg.) comincia con le parole Ma in quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole s’oscurerà, ecc. Qui l’espressione in quei giorni è la solita formula, impiegata frequentis­simamente nell’Antico e nel Nuovo Testamento, per introdurre un nuovo argomento ma senza un preciso valore temporale, significan­do tutt’al più in un certo tempo…, a suo tempo…, in una data epo­ca. In questa epoca imprecisata, che si svolgerà dopo la “grande tribolazione”; avverranno insieme la fine del mondo e la parusia, che sono descritte con termini presi in gran parte dall’Antico Testamento e comuni alla letteratura apocalittica (§ 84 segg.): il sole e la luna s’oscureranno, le stelle cadranno, le potenze dei cieli saranno scosse, e allora comparirà sulle nubi il figlio dell’uomo che verrà con possanza e gloria e invierà i suoi angeli ai quattro venti a ra­dunare gli eletti; con ciò il “secolo” presente è chiuso e il “secolo” futuro è inaugurato. Questa descrizione dei segni della parusia è più breve, in tutti e tre i Sinottici, della descrizione dei segni della “grande tribolazione”. Quanto poi all’indicazione del tempo in cui avverrà la parusia, la troviamo subito appresso all’indicazione del tempo assegnato alla “grande tribolazione”; ma, mentre per quest’ultima l’indicazione è stata precisa e netta – ossia la presente generazione – per l’altra è talmente negativa: Circa poi a quel giorno o all’ora nessuno sa (alcunché) né gli angeli. Nei secoli iv e v, ai tempi delle focose dispute ariane e cristologiche si usò ed abusò largamente di questo passo per misurare la scienza del Figlio divino confrontata con quella del Padre, e per attribuirgli una certa ignoranza. Ma appunto la difficoltà della frase, che sem­bra affermare questa ignoranza nel Figlio, è una ragione di più per considerarla autentica frase di Gesù pervenutaci nella forma più precisa e genuina: come pure la stessa difficoltà fu probabilmente la ragione per cui tutta la frase fu omessa da Luca nel suo van­gelo, e per cui l’allusione al Figlio scomparve anche nel passo cor­rispondente di Matteo (24, 36) da vari codici greci e dalla Vulgata latina, volendosi evitare una spiacevole sorpresa nei rispettivi lettori. Ma, superate le controversie ariane e cristologiche, si convenne gene­ralmente nell’interpretare la frase come una fin de non recevoir da parte di Gesù, che non vuol essere interrogato su questo punto per­ché il rispondervi non entra nella sua missione: Gesù, che già aveva risposto ai figli di Zebedeo non esser còmpito suo ma del Padre as­segnare i seggi nel glorioso regno messianico (§ 496), in questa oc­casione dixit nescire illum diem quia in magisterio eius non erat ut per eum sciretur a nobis, mentre invece entrava nella sua missione appunto il tener nascosto quel giorno; tamquam enim magister scie­bat et docere quod proderat et non docere quod oberat (S. Agosti­no, Enarration. in Psalm. xxxvi, sermo i, 1). Ai nostri giorni la dif­ficoltà è stata ripresa in pieno dalla scuola escatologica (§ 209 segg.), secondo cui Gesù era sicuro che la parusia sarebbe avvenuta nel cor­so della generazione contemporanea, sebbene confessasse di non co­noscere il preciso giorno e la precisa ora (§ 529).

§ 528. Presentato in questa maniera il discorso escatologico è chiaro, in quella misura che può essere concessa dal suo argomento. La sua prima sezione tratta dei segni della “grande tribolazione”, cioè de­gli avvenimenti che precedettero ed accompagnarono la distruzione di Gerusalemme, la seconda sezione tratta dei segni della parusia e della fine del mondo. Dopo le trattazioni dei segni vengono le fissazioni dei rispettivi tempi: per la “grande tribolazione” è fis­sata la generazione contemporanea, mentre per la parusia è riserbato un arcano silenzio. Ma la difficoltà sta in questo, che la fissazione di ciascun tempo non è soggiunta immediatamente appresso alla rispettiva trattazione dei segni cioè la presente generazione appresso alla “grande tribola­zione”, e il silenzio appresso alla parusia – bensì ambedue le fissa­zioni dei tempi sono relegate assieme in fondo, dopo ambedue le trattazioni dei segni. Perché mai questa collocazione che sembra vio­lenta e tale da provocare equivoci? Appunto qui è da scorgere l’ope­ra redazionale degli evangelisti e l’influenza delle circostanze in cui si svolgeva – come accennammo (§ 524) – la primitiva catechesi della Chiesa. Questa collocazione simultanea in fondo, che a noi oggi sembra violenta e tale da provocare equivoci, era invece pru­dentissima quando scrivevano i Sinottici, quando cioè non si sapeva nulla non solo del tempo della parusia ma neppure del preciso tem­po della « grande tribolazione »: Gerusalemme infatti ancora era in­colume e prospera, e nulla faceva umanamente sospettare che dopo pochi anni essa sarebbe ridotta a un ammasso di macerie. Neppure risultava chiaramente in quale relazione stessero fra loro la « gran­de tribolazione » e la parusia, che almeno idealmente apparivano ri­collegate fra loro la prima non sarebbe forse la preparazione imme­diata della seconda, e la venuta del Messia glorioso non sarebbe l’immediato premio a chi aveva superato la grande prova? Molti cri­stiani infatti ritenevano imminente la parusia, e la risposta di Gesù in proposito, se non implicava necessariamente tale opinione, nep­pure la escludeva con evidente chiarezza: il figlio dell’uomo poteva comparire inatteso in ogni momento, come ladro notturno. Ma an­che se fra la « grande tribolazione » e la parusia doveva cadere un interstizio, chi poteva dire se questo interstizio sarebbe stato breve o mediocre o lungo o lunghissimo? Di tutto ciò nessuno sapeva alcunché con certezza, prima di quel tragico anno 70; oggi invece, edotti da venti secoli di storia, noi sia­mo perfettamente informati della “grande tribolazione” che cuI­minò nel 70 e dell’interstizio ch’è di una durata incalcolabile, men­tre ci è rimasto impenetrabilmente occulto il tempo della parusia. Per queste ragioni gli evangelisti sinottici, nell’oscurità che li avvol­geva, divisero il discorso escatologico secondo la materia in esso trat­tata, collocando prima i segni e poi i tempi, e lasciando alle opinioni dei lettori il ricollegamento delle singole parti fra loro: tanto più che, su questa palpitante questione della parusia le singole comu­nità ricevevano particolari ammaestramenti dai loro direttori, come per la comunità dei Tessalonicesi apprendiamo occasionalmente da Paolo (II Tessal., 2, 5) e per le comunità dell’Asia Minore da Pietro (II Pietro, 3, 1 segg.); e quindi i lettori dei vangeli potevano e forse dovevano rivolgersi per schiarimenti a tali autentici interpreti, sem­pre in virtù del principio che la catechesi scritta non pretendeva mai di sostituire la catechesi orale, bensì la presupponeva in più mo­di (§107).

§ 529. La moderna scuola escatologica desume i suoi principali ar­gomenti da questo discorso, ma appunto confondendo dati e referen­ze, e attribuendo all’unico avvenimento della parusia ambedue le fissazioni cronologiche, sia quella della presente generazione sia quella del giorno e dell’ora. Già rilevammo che siffatta teoria è in contrad­dizione con le testimonianze storiche pervenuteci da quell’epoca (§ 212); qui sarà opportuno spendere appena una parola sull’attribu­zione del giorno e dell’ora. I suddetti studiosi sono costretti a interpretarli in senso rigoroso, ossia giorno per 24 ore e ora per 60 minuti: cosicché Gesù avrebbe confessato di non conoscere in quale gruppo di 24 ore e in quale gruppo di 60 minuti sarebbe avvenuto il cataclisma universale, pur essendo certo che sarebbe avvenuto nella generazione a lui contemporanea. E serio tutto ciò? E’ serio che un presunto “visionario”, tutto vibran­te nell’aspettativa che entro breve tempo il mondo intero vada in pezzi, si rammarichi di non sapere il preciso momento in cui avverrà la conflagrazione? I veri visionari, appunto perché tali, non sono calcolatori cosi sottili, ritrovandosi totalmente assorbiti dalla visione principale: un visionario di questo genere è come un uomo che abbia sotto i piedi una mina con la sua miccia accesa, e non possa in alcun modo fuggire; la certezza assoluta dell’imminente scoppio gli fa totalmente dimenticare l’incertezza del preciso momento in cui lo scoppio avverrà. Gesù invece è un calcolatore sottile, e distin­gue nettamente le sue due fissazioni di tempi in rapporto alle due precedenti descrizioni dei segni. Ecco pertanto nella sua integrità il passo relativo ai tempi, nel quale ognuno può riconoscere il netto distacco che riporta ciascuna fissazione di tempo alla rispettiva descri­zione dei segni: ìn verità vi dico che non passerà questa generazione fino a che tutte queste cose avvengano. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno. Circa poi a quel giorno o all’ora nessuno sa (alcunche’), né gli angeli in cielo né il Figlio, se non il Padre (Marco, 13, 30-32; cfr. Matteo, 24, 34-36).

La parabola delle vergini. L’ultimo giudizio

§ 530. Essendo assolutamente ignoto il giorno della parusia, coloro che aspettano la consumazione finale del regno di Dio dovranno tenersi pronti sempre, perché sempre potrà giungere quel giorno e ca­dere quell’ora. L’ignoranza del tempo porta con sé il pericolo di una neghittosa trascuranza, al quale dovrà provvedersi con una in­cessante vigilanza. Questo è l’insegnamento della parabola delle ver­gini, riportata dal solo Matteo (25, 1-13) e soggiunta al discorso escatologico. La parabola si riporta alle costumanze delle nozze giudaiche, di cui già trattammo (§ 281). Dieci vergini sono state invitate alle nozze di una loro amica, per farle corteggio la sera dei nissu’in (§ 231); sono uscite dalle loro case munite ciascuna della propria lampada di ter­racotta, non tanto per far chiaro lungo la strada fino alla casa della sposa, quanto per accrescere la giocondità della festa allorché giun­gerà lo sposo. Si prevede tuttavia, essendo un matrimonio di lusso, che lo sposo si farà attendere alquanto, dovendo egli a sua volta ricevere una fila interminabile di visitatori. Perciò cinque di quelle vergini, ch’erano prudenti, portarono seco oltre alla lampada accesa anche un orcioletto pieno d’olio per rifornire la piccola lampada quando il suo contenuto fosse esaurito; le altre cinque invece, ch’e­rano disavvedute, non si preoccuparono delle ore lontane e porta­rono soltanto la lampada, non ripensando ch’essa non poteva restare accesa se non per un tempo relativamente breve. Ciò che le vergini avvedute hanno previsto, avviene di fatto lo spo­so, trattenuto a casa sua, tarda molto a giungere. Frattanto in casa della sposa la comitiva ivi radunata cambia gradualmente il suo con­tegno; quelle ragazze, da vivaci ed irrequiete ch’erano alla prim’ora, divengono man mano inerti, svogliate e come rassegnate; il chiac­chierio s’acquieta, qua e là appaiono segni di noia; ancora più tardi qualcuna sbadiglia e appartatasi in un angolo comincia a lottare fiaccamente contro il sonno che la invade; e le ore seguitano a passare monotone senza che nessuno giunga, cosicché indugiando lo sp­so, s’appisolarono tutte e dormivano. Ma a metà notte ci fu un gri­do:”Ecco lo sposo! Uscite(gli) incontro!”. Allora sorsero tutte quel­le vergini ed acconciarono le lampade loro. Le disavvedute dissero pertanto alle prudenti: “Dateci del vostro olio, perché le nostre lam­pade si spengono!” Ma le prudenti risposero dicendo: “Mai piu’! Non basterebbe a noi e a voi (insieme)! Andate piuttosto dai ven­ditori e compratevene”. Allontanandosi quelle per comprare venne lo sposo, e quelle pronte entrarono con lui nelle nozze e fu rinser­rata la porta. Alla fine però vengono anche le restanti vergini dicen­do:”Signore, signore, aprici!”. Ma egli rispondendo disse:”In ve­rità vi dico, non so (di) voi!”. La ripulsa dello sposo fa scaturire la morale della parabola, la quale si conclude con l’ammonizione: Ve­gliate dunque, perché non sapete il giorno né l’ora! Veramente la parabola ha taluni tratti che si discostano dalla realtà contemporanea, ad esempio l’invito di andare a comperare l’olio a mezzanotte quasiccbé a quell’ora le betteghe fossero aperte. Ma tali astrazioni di tempo e luogo sono ammissibili in una comparazione ampia, la quale converge tutta su un punto particolare non soffer­mandosi su lineamenti secondari. Qui il punto preso di mira è du­plice: l’ignoranza del giorno e dell’ora ch’è rilevata dalla conclusio­ne finale, e insieme anche il pericolo dell’impreparazione e dell’at­tesa ch’è rilevato in tutta la parabola. L’attesa prolungandosi diven­ta insidiosa, perché fa trascurare la preparazione che eventualrnente esisteva da principio e fa dimenticare la realtà della “venuta”; d’altra parte l’essere stato preparato soltanto alla prima ora non gio­va nulla a chi non si ritrovi preparato anche all’ultimo minuto, quel­lo della “venuta”. Nella lingua dei papiri greci la ”venuta” e “presenza” di un re si trova espressa col termine parusia.

§ 531. Egualmente il solo Matteo (25, 31-46) presenta il gran qua­dro in cui il “secolo” presente si chiude e il “secolo” futuro s’inau­gura ufficialmente, il quadro del giudizio finale. Questo tema era stato trattato già dagli antichi profeti, ma sotto altra luce e con altri in­tendimenti; qui invece la mira principale è di far risaltare i rappor­ti morali che legano il “secolo” presente con quello futuro, cioè la ripercussione etica che la vita presente avrà nella vita futura. Se nel passato il giudizio finale era stato presentato come il trionfo della na­zione ebraica su nazioni pagane o di un partito onesto e pio su un partito malvagio ed empio, qui invece esso riveste un carattere morale riguardante i singoli individui dell’umanità intera senza discriminazio nè alcuna: inoltre, questo carattere morale è riassunto nella ca­rità, come se la nota distintiva del regno di Dio e la tessera per en­trarvi sia la carità (§ 550) e il giudizio finale sia il trionfo della carità. Quando venga il figlio dell’uomo nella gloria sua e tutti gli angeli con lui, allora sederà sul trono della sua gloria. E si raduneranno davanti a lui tutte le genti, ed (egli) separerà gli uni dagli altri come il pastore separa le pecore dai montoni e collocherà le pecore alla sua destra e i montoni alla sinistra. Allora dirà il re a quelli della sua destra:” Venite, i benedetti del Padre mio! Possedete il regno a voi preparato dalla fondazione del mondo! Ebbi fame, infatti, e mi deste da mangiare, ebbi sete e mi deste da bere, forestiero ero e mi accoglieste, nudo e mi ricopriste, fui ammalato e mi visitaste, in prigione ero e veniste a me”. Allora gli risponderanno i giusti di­cendo:” Signore, quando ti vedemmo aver fame e nutrimmo, ovvero aver sete e demmo da bere? E quando ti vedemmo forestiero ed accogliemmo, ovvero nudo e ricoprimmo? E quando ti vedemmo ammalato ovvero in prigione e venimmo a te?” E rispondendo il re dirà loro:”In verità vi dico, quanto faceste ad un solo di questi fra­telli miei minimi, faceste a me“. Allora dirà a quelli alla sinistra:”Partitevi da me, maledetti, nel fuoco eterno, quello preparato al diavolo e agli angeli suoi! Ebbi fame, infatti, e non mi deste da man­giare, ebbi sete e non mi deste da bere, forestiero ero e non mi acco­glieste, nudo e non mi ricopriste, ammalato e in prigione e non mi visitaste”. Allora risponderanno anch’essi dicendo:” Signore, quan­do ti vedemmo aver fame ovvero aver sete ovvero forestiero ovvero nudo ovvero ammalato ovvero in prigione, e non ti servimmo?”. Allora risponderà loro dicendo:” in verità vi dico, quanto non faceste a uno solo di questi minimi neppure a me (lo) faceste”. E an­dranno questi in supplizio eterno, i giusti invece in vita eterna (cfr. Daniele, 12, 2).

Il mercoledì. Il tradimento di Giuda

§ 532. Giunse pertanto il penultimo giorno avanti la Pasqua, ossia il mercoledì. Il tempo, per i sommi sacerdoti e i Farisei, stringeva e bisognava de­cidersi ad agire. Nonostante le ripetute deliberazioni prese nei giorni precedenti, ancora non si era fatto nulla, perché Gesù era protetto dal favore popolare e quindi si permetteva di girare impunemente in Gerusalemme e perfino di predicare nel Tempio. Ma non c’era dun­que modo di farlo scomparire occultamente, senza che il popolo se ne avvedesse? Certo non bisognava perdere altro tempo, e la que­stione doveva essere risolta in maniera definitiva prima della Pa­squa, per evitare conseguenze che potevano esser gravissime. Le fe­ste in genere, e soprattutto la Pasqua, a causa delle enormi affluenze di folle eccitate, erano considerate dal procuratore romano come pe­riodi di convulsione sismica, ed allora più che mai egli sbarrava tan­to d’occhi e raddoppiava la vigilanza per timore che un nonnulla facesse saltare tutto in aria: perciò in tali occasioni – come riferisce occasionalmente Flavio Giuseppe (Guerra giud., II, 224) – la coorte romana di presidio a Gerusalemme si schierava lungo il portico del Tempio, giacché nelle feste essi fanno sempre la guardia armati af­finché la folla adunata non faccia sedizioni. Che cosa dunque non poteva accadere con quel Rabbi galileo in giro per la città e nel Tempio, attorniato da gruppi d’entusiasti che lo credevano Messia? Al primo subbuglio che fosse accaduto, il cavaliere Ponzio Pilato avrebbe scatenato i suoi soldati sulle folle dei pellegrini cominciando davvero a distruggere il luogo santo e la nazione, come si era te­muto (§ 494). No, no, assolutamente bisognava scongiurare questo pericolo e far si che per la Pasqua tutto fosse a posto. Ma come? In quel mercoledì si tenne un nuovo consiglio per discutere tale que­stione. Allora si radunarono i sommi sacerdoti e gli anziani del po­polo nel palazzo del sommo sacerdote chiamato Caifa, e delibera­rono di catturare Gesu’ con inganno e d’uccider(lo). Tuttavia diceva­no:“Non nella festa, affinché non avvenga tumulto nel popolo” (Matteo, 26, 3-5). Era dunque pacifico per tutti i partecipi dell’adu­nanza che Gesù dovesse esser soppresso; tuttavia alcuni più cauti facevano notare il pericolo che l’arresto fosse eseguito durante la festa pasquale quando molti pellegrini, o Galilei o favorevoli a Gesù, potevano insorgere per proteggerlo; d’altra parte neppure sarebbe sta­to opportuno rimandare l’arresto a dopo la festa, perché nel frattem­po Gesù poteva allontanarsi con i pellegrini che tornavano alle loro case e così sfuggire alla cattura, come aveva già fatto dopo la resur­rezione di Lazaro: perciò bisognava agir subito, prima della Pasqua. e in segreto. A questa sollecitudine e segretezza mirava l’osservazione dei cauti consiglieri. Ma appunto qui stava la difficoltà. Alla Pasqua mancavano solo due giorni, e Gesù passava tutta la sua giornata in mezzo al popolo; co­m’era possibile agire in sì poco tempo e in maniera che l’arresto si risapesse solo a cose fatte? L’aiuto venne donde meno si aspettava. Allora uno dei dodici, quello chiamato Giuda Iscariota, andato dai sommi sacerdoti disse:”Che cosa mi volete dare, ed io lo conse­gnerò a voi?”. E quelli stabilirono trenta (monete) argentee. E da allora (Giuda) cercava un’opportunità per consegnarlo. Questa è l’in­formazione di Matteo (26, l4-l6), con cui concordano gli altri due Sinottici, i quali non precisano la somma pattuita ma aggiungono la ben comprensibile notizia che i sommi sacerdoti si rallegrarono del­la proposta di Giuda. E infatti adesso, con tale cooperatore, arre­stare sollecitamente e segretamente Gesù diventava impresa facile.

§ 533. Ma quale ragione spinse Giuda al tradimento? La primitiva catechesi non ci ha trasmesso altra ragione che l’amo­re al lucro. Quando gli evangelisti presentavano Giuda come ladro e amministratore fraudolento della cassetta comune (§ 502) prepa­ravano in realtà la scena di Giuda che si reca dai sommi sacerdoti per chiedere: Che cosa mi volete dare…? Ma, anche fuori dei van­geli, quando Pietro parla del traditore ormai suicida non accenna ad altro profitto del tradimento se non all’acquisto d’un campo con la mercede dell’iniquità (Atti, 1, 16-19). La ragione del lucro è dun­que sicura; tuttavia insieme con essa non è escluso che ve ne siano state altre di cui la primitiva catechesi non si occupò, e qui il cam­po è aperto a ragionevoli congetture. Anche astraendo dai voli fantastici fatti su questo campo sommamente tragico da drammaturghi o da storici d’ispirazione romanze­sca, resta sempre l’inaspettato contegno tenuto da Giuda soltanto due giorni dopo: visto che Gesù è stato condannato, il traditore im­provvisamente si pente di aver venduto il sangue di quel giusto, e riportatone il prezzo ai sommi sacerdoti va ad impiccansi (§ 574). Ebbene, questo non è il contegno di un semplice avaro: un avaro tipico, un uomo che non avesse avuto altro amore che per il dena­ro, sarebbe rimasto soddisfatto del lucro ottenuto, qualunque fosse stata la sorte successiva di Gesù, e non avrebbe pensato né a resti­tuire il denaro né ad impiccarsi. Avaro e cupido Giuda fu certamen­te, ma oltre a ciò era qualche cosa d’altro. Esistono in lui almeno due amori: uno è quello dell’oro, che lo spinge a tradire Gesù; ma a fianco a questo esiste un altro amore che talvolta può anche essere più forte, perché a tradimento compiuto prevale sullo stesso amore dell’oro e spinge il traditore a restituire il lucro, a rinnegare tutto il suo tradimento, a compiangerne la vittima e infine ad uccidersi per disperazione. Qual era l’oggetto di questo amore contrastante con quello dell’oro? Per quanto ci si ripensi, non si trova altro oggetto possibile se non Gesù. Se Giuda non avesse sentito per Gesù un amore tanto grande che talvolta prevaleva su quello per l’oro, non avrebbe né restituito il denaro né rinnegato il suo tradimento. Ma se egli amava Gesù, per­ché lo tradì? Certamente perché il suo amore era grande ma non incontrastato, non era l’amore generoso, fiducioso, luminoso di un Pietro e di un Giovanni, e conteneva pur nella sua fiamma alcun­ché di fumoso e di tenebroso: in che consistesse però questo elemen­to oscuro non sappiamo, e per noi rimarrà il mistero dell’iniquità somma. Riseppe forse Giuda di essere stato denunziato a Gesù come frodatore della cassetta comune, e non tollerò di essere decaduto dal­la stima di lui? Ma anche Pietro come rinnegatore di Gesù giudi­cherà di esser decaduto dalla stima di lui, eppure non dispererà. Forse, più accortamente degli altri Apostoli, Giuda comprese dalle rettifiche messianiche di Gesù che il suo regno non avrebbe appor­tato né gloria né potenza mondane ai futuri cortigiani, e in quel previsto fallimento provvide da avaro qual era ai propri interessi? Ipotesi possibilissima; la quale tuttavia non spiega da sola perché mai Giuda, dopo essersi staccato da Gesù mediante il tradimento, si senta ancora legato a lui da pentirsi ed uccidersi. Forse, accoppiando l’amore del lucro con l’ansia di veder presto Gesù a capo del regno messianico politico, Giuda lo tradì con la sicurezza di vederlo compiere portenti su portenti di fronte ai suoi avversari, e così di costringerlo a inaugurar subito quel regno che si faceva troppo aspettare? In tal caso però il traditore non si sarebbe dovuto uccidere prima della morte di Gesù ma tutt’al più dopo, perché egli non sapeva quando il Messia sarebbe ricorso ai suoi mas­simi portenti, tanto più che proprio all’inizio della sua operosità di traditore Giuda aveva assistito nel Gethsemani al portento delle guar­die atterrate (§ 559). E le ipotesi si potrebbero facilmente moltiplicare, senza però che ne rimanesse schiarito con sicurezza il mistero dell’iniquità somma.

§ 534. Inoltre, tale iniquità non consisté soltanto nel vendere Gesù, ma più e soprattutto nel disperare del suo perdono. Giuda aveva visto Gesù perdonare a usurai e prostitute, aveva udito dalla sua bocca le parabole della misericordia compresa quella del figliuol pro­digo, lo aveva inteso comandare a Pietro di perdonare settanta volte sette: eppure dopo tutto ciò egli dispera del suo perdono e s’impic­ca, mentre Pietro dopo il suo rinnegamento non dispererà ma scop­pierà a piangere. Anche questo disperare del perdono dimostra che Giuda aveva per il giusto da lui tradito un’altissima stima, la quale gli faceva misurare l’abissale nefandezza del delitto commesso: ma era anche una stima incompleta e quindi ingiuriosa, perché davanti alla responsabilità del tradimento si fermava a mezza strada e ingiu­riosamente riteneva Gesù incapace di perdonare al traditore. Ben più che dal tradimento di Giuda, Gesù fu ingiuriato dal suo disperare del perdono: qui fu l’oltraggio sommo ricevuto da Gesù e l’iniquità som­ma commessa da Giuda. La mercede stabilita dai sommi sacerdoti per il tradimento fu di trenta (monete) argentee. Il solo Matteo comunica questa cifra per­ché, sollecito qual è di segnalare che in Gesù si sono adempite le antiche profezie messianiche, scorge qui adempita una profezia di Zacharia (§ 575); tuttavia Matteo, né in questo punto né in segui­to (27, 3-10), dirà il nome individuale delle monete e parlerà sem­pre di trenta argentei. Non c’è dubbio che l’innominata moneta fosse il siclo (§ 249) ossia lo statere (§ 406), il quale valeva quattro dramme ossia quattro denari (§ 465); non era quindi il denarius romano (§ 514); ma una moneta di valore quattro volte maggiore: perciò, parlando tecnicamente, l’espressione usuale di “trenta denari di Giuda” è falsa perché l’intera somma di 30 sicli era costituita da 120 “denari”. Nel valore odierno essa corri­sponderebbe a circa 128 lire in oro. Era norma della legge ebraica (Esodo, 21, 32) che quando un bove avesse ucciso cozzando uno schiavo, il padrone del bove dovesse pa­gare al padrone dello schiavo a risarcimento del danno subito 30 sicli d’argento: quindi in pratica il valore medio d’uno schiavo doveva computarsi circa sui 30 sicli. Può darsi che i sommi sacerdoti s’ispi­rassero a questa norma della Legge nello stabilire la mercede a Giu­da, perché così ottenevano il doppio scopo di mostrarsi osservatori la lettera anche in quel caso e insieme di trattare Gesù come uno schiavo qualunque. Luca, il quale ha terminato il racconto delle tentazioni di Gesù di­cendo che il diavolo si allontanò da lui fino a tempo (opportuno) (§ 276), inizia qui il racconto del tradimento dicendo che entrò Sata­na in Giuda, quello chiamato Iscariota, il quale andò ad accordarsi per il suo delitto con i sommi sacerdoti (Luca, 22, 3 segg.). Cosicché per l’evangelista discepolo di Paolo la passione di Gesù è il tempo (opportuno) preaccennato, e rappresenta in qualche modo una ripresa delle tentazioni a cui Gesù era stato sottoposto da Satana al­l’inizio della sua vita pubblica: terminando adesso Gesù la vita in­tera, Satana gli muove l’ultimo e più potente assalto e lo sottopone alla suprema prova, dopo di che egli entrerà nella sua gloria. O stol­ti e lenti di cuore…! Non doveva forse patire queste cose il Cristo (Messia) e (cosi) entrare nella sua gloria? (Luca, 24, 25-26) (§ 630).

Vita di Gesù 17ultima modifica: 2010-09-06T16:57:00+02:00da meneziade
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