Capitolo sedicesimo
1 I farisei e i sadducei si avvicinarono per metterlo alla prova e gli chiesero che mostrasse loro un segno dal
cielo. 2 Ma egli rispose: “Quando si fa sera, voi dite: Bel tempo, perché il cielo rosseggia; 3 e al mattino: Oggi
burrasca, perché il cielo è rosso cupo. Sapete dunque interpretare l’aspetto del cielo e non sapete
distinguere i segni dei tempi? 4 Una generazione perversa e adultera cerca un segno, ma nessun segno le
sarà dato se non il segno di Giona”. E lasciatili, se ne andò.
Matteo racconta tre volte che Gesù fu messo alla prova mediante la richiesta di un segno. La prima da parte
di alcuni scribi e farisei: “Maestro, vorremmo che tu ci facessi vedere un segno” (12,38); la seconda da parte
dei farisei e dei sadducei (16,1), la terza da parte dei sommi sacerdoti, dagli scribi e dagli anziani ai piedi
della croce: “È il re d’Israele, scenda ora dalla croce e gli crederemo” (27,42). Si tratta sempre di tentazioni
analoghe a quelle di satana, nel deserto, ossia di tentativi per distogliere Gesù dalla sua via tracciatagli dalla
volontà del Padre.
La risposta di Gesù alla richiesta di un segno è un no deciso. Il rifiuto dei farisei e dei sadducei di credere a
Gesù è la continuazione delle trasgressioni dei loro padri e rappresenta l’ultima infedeltà (adulterio) in
risposta a tutte le premure e le predilezioni che Dio ha avuto verso il suo popolo. Il segno che Gesù offre
sulla sua credibilità è quello della sua risurrezione, chiamato qui “il segno di Giona” (v. 4). Nel capitolo 12 di
questo vangelo Gesù aveva già dato questo segno con la relativa spiegazione: “Come infatti Giona rimase
tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della
terra” (12,40). La richiesta di segni a Dio è espressione di mancanza di fede.
Gesù rimprovera gli uomini del suo tempo e di ogni tempo perché sanno scrutare il cielo atmosferico per
prevedere un giorno buono o cattivo e non sanno indagare nel cielo della storia. Con la venuta di Gesù il
corso dei tempi ha subito una svolta. Si va instaurando una società diversa di amici, di eguali, di fratelli. I
rapporti tra l’uomo e Dio e tra gli stessi uomini si fondano su nuove basi. I messaggi di Dio non giungono
solo attraverso la sua parola ispirata, ma anche attraverso la realizzazione del suo progetto. Anche la storia
per il credente ha la voce di Dio. Basta saperla ascoltare o leggere.
5 Nel passare però all’altra riva, i discepoli avevano dimenticato di prendere il pane. 6 Gesù disse loro: “Fate
bene attenzione e guardatevi dal lievito dei farisei e dei sadducei”. 7 Ma essi parlavano tra loro e dicevano:
“Non abbiamo preso il pane!”. 8 Accortosene, Gesù chiese: “Perché, uomini di poca fede, andate dicendo
che non avete il pane? 9 Non capite ancora e non ricordate i cinque pani per i cinquemila e quante ceste
avete portato via? 10 E neppure i sette pani per i quattromila e quante sporte avete raccolto? 11 Come mai
non capite ancora che non alludevo al pane quando vi ho detto: Guardatevi dal lievito dei farisei e dei
sadducei?”. 12 Allora essi compresero che egli non aveva detto che si guardassero dal lievito del pane, ma
dalla dottrina dei farisei e dei sadducei.
La domanda dei farisei e dei sadducei era una tentazione. Gesù mette in guardia i suoi discepoli contro
queste tentazioni dei farisei: “Fate bene attenzione e guardatevi dal lievito dei farisei e dei sadducei”. Ma i
discepoli sono distratti. La loro preoccupazione è per il pane che hanno dimenticato di prendere, e pensano
che Gesù parli del lievito del pane invece che della dottrina dei farisei. La ragione di questa incomprensione
non è la mancanza di intelligenza, ma la poca fede.
Gesù mette in guardia i discepoli dalla dottrina dei farisei e dei sadducei. I discepoli devono attenersi
saldamente all’insegnamento di Gesù senza esserne distolti per nessun motivo. Presumibilmente anche la
fame poteva diventare per alcuni cristiani un motivo per ascoltare la propaganda della sinagoga. Non
possiamo escludere che al tempo di Matteo la sinagoga cercasse di fare concorrenza promettendo maggiori
aiuti economici rispetto alla Chiesa.
Il racconto mette in evidenza due aspetti del pericolo che minaccia l’esistenza cristiana. Essa è tentata nella
sua fede e nella sua natura fisica. La privazione dei beni più necessari alla vita umana può comportare un
pericolo per la fede, tale da spingere ad abbandonarla. B. Brecht ha scritto: “Prima viene il mangiare, poi la
morale” . Occorre ricordare le parole di Gesù negli episodi delle moltiplicazioni dei pani: “Date loro da
mangiare” (14,16; 15,33). La Chiesa deve prendersi cura della salute e della salvezza dell’uomo intero, non
per fare proseliti, ma perché sospinta dalla stessa premura che Gesù ha avuto per l’uomo.
13 Essendo giunto Gesù nella regione di Cesarèa di Filippo, chiese ai suoi discepoli: “La gente chi dice che
sia il Figlio dell’uomo?”. 14 Risposero: “Alcuni Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei
profeti”. 15 Disse loro: “Voi chi dite che io sia?”. 16 Rispose Simon Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio
vivente”. 17 E Gesù: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma
il Padre mio che sta nei cieli. 18 E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte
degli inferi non prevarranno contro di essa. 19 A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai
sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli”.
20 Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo.
21 Da allora Gesù cominciò a dire apertamente ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e
soffrire molto da parte degli anziani, dei sommi sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risuscitare il terzo
giorno. 22 Ma Pietro lo trasse in disparte e cominciò a protestare dicendo: “Dio te ne scampi, Signore; questo
non ti accadrà mai”. 23 Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: “Lungi da me, satana! Tu mi sei di scandalo,
perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!”.
Gesù pone la domanda fondamentale, sulla quale si decide il destino di ogni uomo: “Voi chi dite che io sia?”.
Dire chi è Gesù è collocare la propria esistenza su un terreno solido, incrollabile.
La risposta di Pietro è decisa e sicura. Ma il suo discernimento non deriva dalla “carne” e dal “sangue”, cioè
dalle proprie forze, ma dal fatto che ha accolto in sé la fede che il Padre dona.
Gesù costituisce Pietro come roccia della sua Chiesa: la casa fondata sopra la roccia (cf. 7,24) comincia a
prendere il suo vero significato.
Non è fuori luogo chiedersi se Pietro era pienamente cosciente di ciò che gli veniva rivelato e di ciò che
diceva. Notiamo il forte contrasto tra questa professione di fede seguita dall’elogio di Gesù: “Beato te,
Simone…” e l’incomprensione del v. 22: “Dio te ne scampi, Signore…” e infine l’aspro rimprovero di Gesù:
“Via da me, satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!”.
Questo contrasto mette in evidenza la differenza tra la fede apparente e quella vera: non basta professare la
messianicità di Gesù. Bisogna credere e accettare che il progetto del Padre si realizza attraverso la morte e
la risurrezione del Figlio.
Pietro riceve le chiavi del regno dei cieli. Le chiavi sono segno di sovranità e di potere. Pietro dunque
insieme alle chiavi riceve piena autorità sul regno dei cieli. Egli esercita tale autorità sulla terra e non in
funzione di portinaio del cielo, come comunemente si pensa. In qualità di trasmettitore e garante della
dottrina e dei comandamenti di Gesù, la cui osservanza apre all’uomo il regno dei cieli, egli vincola alla loro
osservanza.
Gli scribi e i farisei, in quanto detentori delle chiavi fino a quel momento, avevano esercitato la medesima
autorità. Ma, rifiutando il vangelo, essi non fanno altro che chiudere il regno dei cieli agli uomini. Simon
Pietro subentra al loro posto.
Se si considera attentamente questa contrapposizione, risulta che il compito principale di cui è incaricato
Pietro è quello di aprire il regno dei cieli. Il suo incarico va descritto in senso positivo.
Non si potrà identificare la Chiesa con il regno dei cieli. Ma il loro accostamento in quest’unico brano del
vangelo offre l’opportunità di riflettere sul loro reciproco rapporto. Alla Chiesa, quale popolo di Dio, è affidato
il regno dei cieli (cfr 21,43). In essa vivono gli uomini destinati al Regno. Pietro assolve il proprio servizio
nella Chiesa quando invita a ricordarsi della dottrina di Gesù, che permette agli uomini l’ingresso nel Regno.
Nel giudaismo, gli equivalenti di legare e sciogliere (‘asar e sherà’) hanno il significato specifico di proibire e
permettere, in riferimento ai pronunciamenti dottrinali. Accanto al potere di magistero si pone quello
disciplinare. In questo campo i due verbi hanno il senso di scomunicare e togliere la scomunica.
Questo duplice potere viene assegnato a Pietro. Non è il caso di separare il potere di magistero da quello
disciplinare e riferire l’uno a 16,19 e l’altro a 18,18. Ma non è possibile negare che in questo versetto 19 il
potere dottrinale, specialmente nel senso della fissazione della dottrina, sta in primo piano.
Pietro è presentato come maestro supremo, tuttavia con una differenza non trascurabile rispetto al
giudaismo: il ministero di Pietro non è ordinato alla legge, ma alla direttiva e all’insegnamento di Gesù.
Il legare e lo sciogliere di Pietro viene riconosciuto in cielo, cioè le decisioni di carattere dottrinale prese da
Pietro vengono confermate nel presente da Dio. L’idea del giudizio finale è più lontana, proprio se si
includono anche decisioni disciplinari.
Nel vangelo di Matteo, Pietro viene presentato come il discepolo che fa da esempio. Ciò che gli è accaduto è
trasferibile ad ogni discepolo. Questo vale sia per i suoi pregi sia per le sue deficienze, che vengono
impietosamente riferite. Ma a Pietro rimane una funzione esclusiva ed unica: egli è e resta la roccia della
Chiesa del Messia Gesù. Pietro è il garante della tradizione su Cristo com’è presentata dal vangelo di
Matteo.
Nel suo ufficio egli subentra agli scribi e ai farisei, che finora hanno portato le chiavi del regno dei cieli. A lui
tocca far valere integro l’insegnamento di Gesù in tutta la sua forza.
Dopo aver comandato ai suoi discepoli di non dire che egli era il Cristo, perché la loro concezione del
Messia non era ancora adeguata, Gesù compie un passo avanti decisivo nella sua vita: annuncia che è
giunta l’ora della sua passione, della sua morte e della sua risurrezione.
La dichiarazione di Gesù costituisce un’autentica tentazione per Pietro che protesta e sgrida Gesù. Questa
idea di un Messia sofferente è insopportabile per Pietro, e non solo per Pietro. Invece di accettare la
rivelazione del Padre (v. 17) ossia il pensiero di Dio (v. 23), egli proietta su Gesù la propria concezione del
Messia. Facendo da maestro a Gesù e anteponendosi a lui, egli diviene satana, tentatore del suo Signore.
Non è per nulla casuale la presenza nel medesimo brano di due aspetti fortemente contrastanti: la
professione di fede di Pietro e la sua incomprensione del mistero di Gesù, l’autorità affidata a Pietro e il
rimprovero rivoltogli da Gesù.
L’evangelista sottolinea intenzionalmente questo contrasto per indicarci che Pietro è la roccia sulla quale
Cristo fonda la sua Chiesa non per le sue qualità naturali, ma per grazia e per elezione divina.
24 Allora Gesù disse ai suoi discepoli: “Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua
croce e mi segua.
25 Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà.
26 Qual vantaggio infatti avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà la propria anima? O che
cosa l’uomo potrà dare in cambio della propria anima? 27 Poiché il Figlio dell’uomo verrà nella gloria del
Padre suo, con i suoi angeli, e renderà a ciascuno secondo le sue azioni. 28 In verità vi dico: vi sono alcuni
tra i presenti che non morranno finché non vedranno il Figlio dell’uomo venire nel suo regno”.
Il punto centrale del brano è questo: ogni atteggiamento deve porsi in riferimento a Gesù. Nessuna rinuncia
è chiesta per se stessa, ma solo per il Cristo. I tre verbi (rinunciare a se stessi, prendere la croce e seguire
Gesù) indicano in che cosa consiste essere discepoli di Gesù.
La rinuncia a se stessi esige che il discepolo non cerchi più se stesso, ma viva per Cristo e per i fratelli.
Prendere la propria croce significa andare fino alle estreme conseguenze della vita cristiana. Seguire Cristo
non è un fatto puramente esteriore, ma un’adesione del cuore e della mente.
L’espressione: “Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la
troverà” non è un invito a disprezzare la vita, ma a spenderla per amore.
La frase: “Quale vantaggio avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà la propria vita?” evoca
l’opposizione tra la salvezza che cerca l’uomo nel possesso di sé e delle cose e la salvezza offerta da Dio
che consiste nel dono di sé e delle cose.
Giocare tutta la propria vita su Cristo non è un atto eroico di orgoglio, ma un gesto di umiltà profonda di chi
accetta di ricevere la propria vita da un Altro.
Il v. 27 parla del giudizio in base alle opere. La persona operante riceverà la ricompensa per ciò che è
diventata vivendo secondo il vangelo.
La venuta del Figlio dell’uomo nel suo regno (v. 28) è la parusia (la venuta finale), nella quale la sua
sovranità si imporrà definitivamente. Ma qui l’accento è posto sulla promessa, rivolta ad alcuni, “che non
moriranno prima di vedere il Figlio dell’uomo venire nel suo regno”. Con queste parole Matteo annuncia la
teofania (manifestazione di Dio) della trasfigurazione che segue immediatamente nel capitolo 17.
1 Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un
alto monte. 2 E fu trasfigurato davanti a loro; il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide
come la luce. 3 Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui. 4 Pietro prese allora la
parola e disse a Gesù: “Signore, è bello per noi restare qui; se vuoi, farò qui tre tende, una per te, una per
Mosè e una per Elia”. 5 Egli stava ancora parlando quando una nuvola luminosa li avvolse con la sua ombra.
Ed ecco una voce che diceva: “Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo”. 6
All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. 7 Ma Gesù si avvicinò
e, toccatili, disse: “Alzatevi e non temete”. 8 Sollevando gli occhi non videro più nessuno, se non Gesù solo.
9 E mentre discendevano dal monte, Gesù ordinò loro: “Non parlate a nessuno di questa visione, finché il
Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti”.
Questa prima parte del capitolo 17 presenta una teofania, una manifestazione di Dio, annunciata alla fine del
capitolo precedente: “In verità vi dico: vi sono alcuni tra i presenti che non morranno finché non vedranno il
Figlio dell’uomo venire nel suo regno” (Mt 16,28).
L’espressione “dopo sei giorni” che introduce il brano pare riferirsi a Es 24,16, dove “dopo sei giorni”, cioè il
settimo giorno, “Dio chiamò Mosè dalla nube, sulla montagna del Sinai”. Anche qui è su una montagna
elevata e in disparte che Gesù, nuovo Mosè che libera il suo popolo, conduce i tre discepoli.
Elia è considerato, come Mosè, il prototipo e il precursore del Messia: è sulla montagna di Dio che egli trovò
e rafforzò le radici del suo profetismo (1Re 19,8).
Queste due grandi figure dell’Antico Testamento sono presenti presso Gesù trasfigurato non solo come
simboli della Legge e dei Profeti, ma come estremi mediatori dell’alleanza. Rappresentano così l’inizio e la
fine della storia che si adempie in Gesù.
Pietro, con il suo intervento, vorrebbe fissare questa storia in un luogo preciso (v.4). La voce e la nube glielo
impediscono: alle tende costruite da mano d’uomo si sostituisce la presenza autentica di Dio, simboleggiata
dalla nube, segno della dimora di Dio o shekinah (cfr Es 40,34-35; 1Re 8,10-12; Ez 10,3-4; Sal 18,12) e la
voce dei discepoli lascia il posto a una voce che viene dai cieli. Il sole e la luce di cui Gesù è rivestito
manifestano che la realtà del cielo è presente in lui.
Le parole proferite dalla voce riprendono alla lettera quelle della visione del battesimo di Gesù: “Questi è il
mio Figlio, il prediletto, nel quale mi sono compiaciuto” che sono l’amalgama di tre citazioni dell’Antico
Testamento (Sal 2,7; Gen 22,2; Is 42,1). Matteo qui aggiunge: “Ascoltatelo!”, e questo evoca probabilmente
il profeta “simile a Mosè” che Dio avrebbe suscitato: “Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, fra i
tuoi fratelli, un profeta pari a me; a lui darete ascolto” (Dt 18,15).
Alla fine il racconto si concentra su Gesù “solo”, perché egli è l’adempimento dell’Antico Testamento, che in
lui assume la sua consistenza e la realtà unica, partecipando alla quale tutta la storia umana prende senso e
valore.
Perché i discepoli possano scoprire questo centro unico che è Gesù, è necessario che egli venga presso di
loro e li tocchi per conferire loro la salvezza.
La trasfigurazione è avvenuta affinché i tre discepoli che ritroveremo nel Getsemani (Mt 26,37) facessero
l’esperienza della regalità escatologica di Gesù attraverso la sua sofferenza. Dio concede loro, per un
istante, di anticipare la Pasqua. Ma si tratta di un anticipo fugace e provvisorio: la strada da percorrere è
ancora quella della croce.
Gesù chiede ai discepoli di non parlare di questa visione perché la sua vera identità messianica può essere
capita solo dopo la sua risurrezione.
Comprendendo chi è Gesù, i discepoli comprendono anche chi è Giovanni Battista, chi è Mosè, chi è Elia: è
nel confronto con il Cristo che tutto e tutti trovano la loro giusta dimensione e la loro esatta collocazione.
Il racconto della trasfigurazione va lasciato nel suo contesto. Il contesto parla della morte di Gesù, di una
morte violenta (Mt 16,21-25; 17,12). Così anche la scena della trasfigurazione tratta della morte, “del fatto
che si deve disprezzare la morte e considerarla soltanto come un passaggio da questa abitazione di lavoro e
di servizio alla gloria di una vita migliore” (Lutero).
L’imperativo “ascoltatelo!” ci mette in guardia dal fraintendimento del racconto: “Ascoltatelo, anche se verrà
crocifisso”. Anche il vangelo secondo Luca ha questo significato di morte e di risurrezione: “Mosè ed Elia
parlavano del suo prossimo esodo che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme” (9,31).
10 Allora i discepoli gli domandarono: “Perché dunque gli scribi dicono che prima deve venire Elia?”. 11 Ed egli
rispose: “Sì, verrà Elia e ristabilirà ogni cosa. 12 Ma io vi dico: Elia è già venuto e non l’hanno riconosciuto;
anzi, l’hanno trattato come hanno voluto. Così anche il Figlio dell’uomo dovrà soffrire per opera loro”. 13
Allora i discepoli compresero che egli parlava di Giovanni il Battista.
La venuta di Elia a preparare e ad aprire con la sua predicazione l’era messianica era predetta da Ml 3,23.
Non si tratta di un ritorno fisico di Elia, ma dell’apparizione di un profeta che avrebbe ricalcato le orme del
grande predicatore dell’ottocento a.C. In questo senso non era difficile dire che era già venuto nella persona
di Giovanni Battista.
Nel vangelo di Matteo infatti Giovanni viene identificato con Elia (11,14) e descritto con caratteristiche che
appartengono al profeta come la cintura di pelle (3,4; cf. 2Re 1,8). Non solo la sua missione ha lo scopo di
preparare la venuta del Signore (11,10), ma anche la sua morte violenta e ingiusta prefigura il destino del
Cristo, che deve patire ed essere crocifisso.
I discepoli capiscono che Elia è lo stesso Giovanni Battista, che lancia l’appello definitivo alla conversione
prima della venuta del Signore.
14 Appena ritornati presso la folla, si avvicinò a Gesù un uomo 15 che, gettatosi in ginocchio, gli disse:
“Signore, abbi pietà di mio figlio. Egli è epilettico e soffre molto; cade spesso nel fuoco e spesso anche
nell’acqua; 16 l’ho già portato dai tuoi discepoli, ma non hanno potuto guarirlo”. 17 E Gesù rispose: “O
generazione incredula e perversa! Fino a quando starò con voi? Fino a quando dovrò sopportarvi?
Portatemelo qui”. 18 E Gesù gli parlò minacciosamente, e il demonio uscì da lui e da quel momento il
ragazzo fu guarito.
19 Allora i discepoli, accostatisi a Gesù in disparte, gli chiesero: “Perché noi non abbiamo potuto scacciarlo?”.
20 Ed egli rispose: “Per la vostra poca fede. In verità vi dico: se avrete fede pari a un granellino di senapa,
potrete dire a questo monte: spostati da qui a là, ed esso si sposterà, e niente vi sarà impossibile.
Il brano si articola sull’impotenza dei discepoli di guarire il fanciullo a causa della loro poca fede (v. 20), nel
mezzo di una generazione senza fede (v. 17) e conclude presentando la potenza della vera fede (v. 20).
Per Matteo questo ragazzo è simbolo del popolo d’Israele incredulo (cf. Dt 32, 5) che non ha percepito la
presenza di Dio in mezzo a sé (v. 17).
I discepoli non possono scacciare il demonio con le loro forze, ma solo con la potenza di Dio. La fede è
l’unico mezzo per mettersi in contatto con Dio e usufruire della sua potenza.
Matteo richiama la parabola del granello di senapa (13,31-32) la cui crescita va molto al di là delle attese
iniziali.
Questo testo sembra contenere una contraddizione. Gesù rimprovera i discepoli per la loro poca fede e poi
dice che un granellino di fede sposta le montagne.
Alcuni codici non parlano di poca fede (oligopistía), ma di “nessuna fede” o di “incredulità”. Comunque si
voglia leggere il testo, si tratta nel primo caso di “nessuna fede” o di “poca fede” esitante, contraddittoria e
dubbiosa; nel secondo caso si parla di un granellino di fede autentica.
22 Mentre si trovavano insieme in Galilea, Gesù disse loro: “Il Figlio dell’uomo sta per esser consegnato nelle
mani degli uomini 23 e lo uccideranno, ma il terzo giorno risorgerà”. Ed essi furono molto rattristati.
24 Venuti a Cafarnao, si avvicinarono a Pietro gli esattori della tassa per il tempio e gli dissero: “Il vostro
maestro non paga la tassa per il tempio?”. 25 Rispose: “Sì”. Mentre entrava in casa, Gesù lo prevenne
dicendo: “Che cosa ti pare, Simone? I re di questa terra da chi riscuotono le tasse e i tributi? Dai propri figli o
dagli altri?”. 26 Rispose: “Dagli estranei”. E Gesù: “Quindi i figli sono esenti. 27 Ma perché non si
scandalizzino, va’ al mare, getta l’amo e il primo pesce che viene prendilo, aprigli la bocca e vi troverai una
moneta d’argento. Prendila e consegnala a loro per me e per te”.
La grande tristezza dei discepoli deriva dalla loro incapacità di comprendere che la risurrezione, già
annunciata nella trasfigurazione (Mt 17,1-8), dev’essere preceduta necessariamente dalla sofferenza e dalla
morte. E’ ancora e sempre questione di poca fede.
I veri figli di Dio (quelli che riconoscono in Gesù il Figlio prediletto del Padre) sono liberi dalle imposte per il
tempio perché Gesù, che è più importante del tempio (Mt 12,6), li libera da esse. Ma Gesù tiene conto del
rischio dello scandalo che un tale atteggiamento potrebbe provocare.
Questo brano inoltre sottolinea, attraverso l’unica moneta che paga la tassa per Gesù e per Pietro, il destino
comune che lega Pietro al suo Signore.
La nostra realtà di figli di Dio non ci dispensa dalle mediazioni umane; si tratta di scoprire, nel profondo delle
schiavitù quotidiane della nostra condizione di uomini, il modo nel quale il Figlio di Dio ci ispira di viverle
come figli liberi.
1 In quel momento i discepoli si avvicinarono a Gesù dicendo: “Chi dunque è il più grande nel regno dei
cieli?”. 2 Allora Gesù chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: 3 “In verità vi dico: se non vi
convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. 4 Perciò chiunque diventerà
piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli.
5 E chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio, accoglie me.
6 Chi invece scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli
fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare. 7 Guai al mondo per
gli scandali! E’ inevitabile che avvengano scandali, ma guai all’uomo per colpa del quale avviene lo
scandalo!
8 Se la tua mano o il tuo piede ti è occasione di scandalo, taglialo e gettalo via da te; è meglio per te entrare
nella vita monco o zoppo, che avere due mani o due piedi ed essere gettato nel fuoco eterno. 9 E se il tuo
occhio ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te; è meglio per te entrare nella vita con un occhio
solo, che avere due occhi ed essere gettato nella Geenna del fuoco.
10 Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli nel cielo vedono
sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli.
Alla domanda dei discepoli: “Chi è il più grande nel regno dei cieli” (v. 1), Gesù non risponde direttamente,
ma compie anzitutto un gesto simbolico, che è già di per sé una risposta sconvolgente alle loro prospettive
arriviste. Ci troviamo catapultati in una comunità in cui l’ordine delle grandezze è invertito, perché il bambino
accolto si rivela essere Gesù in persona: “Chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio,
accoglie me” (v. 5).
I rapporti tra di noi si impostano correttamente solo mediante la conversione e un atteggiamento umile verso
Dio (v. 3). Quando ci scopriamo poveri e piccoli davanti a Dio, allora capiamo che la domanda posta all’inizio
dai discepoli non ha più senso. “Chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel
regno dei cieli” (v. 4).
Il punto di arrivo di ogni vera conversione è il diventare come i bambini. Ciò non significa ritornare
nell’infanzia o, peggio, nell’infantilismo, ma mettersi davanti a Dio come bambini di fronte al padre. Questa
situazione è considerata dal vangelo un’esigenza indispensabile di umiltà che permette tutte le crescite.
Diventare come un bambino e percepire che il Padre ci chiama sempre a crescere, è diventare ciò che
dobbiamo essere: dei piccoli, dei poveri, dei beati (v. 3) che aspettano tutto dalla sua grazia. Questa “umiltà
attiva”, che ha in Dio la sua origine e deve stare alla base della comunità cristiana, è un cammino coraggioso
verso la croce come quello di Gesù. Consiste nel prendere il posto che è realmente il nostro.
Umiliarsi, diventare piccoli non è un ideale ascetico di timido nascondimento o di rassegnata sottomissione,
ma un concreto servizio di Dio e del prossimo. Se Gesù si identifica con il piccolo, chi vorrà ancora essere
grande? Piccolo è colui che non conta, colui che serve. Il primo posto nella comunità cristiana è riservato a
lui. L’autorità deve mettere i piccoli al primo posto nella sua considerazione e nei suoi programmi. E tutti, se
vogliono stare nella comunità cristiana, che è il regno di Dio, devono diventare piccoli, mettendosi in
atteggiamento di servizio.
Dunque, per entrare nella comunità cristiana, per rimanervi e ancor più per affermarsi, non bisogna salire,
ma tornare indietro (convertirsi) o discendere, non sentirsi grandi, ma farsi piccoli. Più la creatura si svuota di
sé, più si rende idonea ad essere riempita da Dio.
La base di misura dei cristiani non è la grandezza o la potenza, ma l’umiltà (v. 4). Essa è un atteggiamento
interiore che si manifesta all’esterno ed è il segreto per la buona riuscita dei rapporti comunitari. Colui che è
piccolo è un vero discepolo di Cristo ed è un vero membro della comunità, perché non pone ostacoli
all’accoglienza e alla costruzione del regno di Dio.
Nel discorso della montagna (5,3) Matteo aveva presentato la Chiesa dei poveri, qui presenta la Chiesa dei
piccoli, che è una continuazione e un ampliamento della medesima. Purtroppo, anche nella Chiesa di Dio
non sempre si vive fedelmente e integralmente il vangelo. San Giacomo scriveva: “Fratelli miei, non
mescolate a favoritismi personali la vostra fede nel Signore nostro Gesù Cristo, Signore della gloria.
Supponiamo che entri in una vostra adunanza qualcuno con un anello d’oro al dito, vestito splendidamente,
ed entri anche un povero con un vestito logoro. Se voi guardate a colui che è vestito splendidamente e gli
dite: “Tu siediti qui comodamente”, e al povero dite: “Tu mettiti in piedi lì”, oppure: “Siediti qui ai piedi del mio
sgabello”, non fate in voi stessi preferenze e non siete giudici dai giudizi perversi? Ascoltate, fratelli miei
carissimi: Dio non ha forse scelto i poveri nel mondo per farli ricchi con la fede ed eredi del regno che ha
promesso a quelli che lo amano? Voi invece avete disprezzato il povero!” (2,1-5).
Qui si prende in considerazione l’istigazione a rinnegare il cristianesimo. Presumibilmente il detto si riferisce
al contrasto della comunità cristiana con la sinagoga. Scandalizzare o essere scandalizzato è di una gravità
tale che la minaccia di affogamento nel mare è meno grave della sorte che attende chi provoca gli scandali.
La macina girata da asino è una grossa pietra con un foro in mezzo che veniva inserita in un piolo di pietra
ed era fatta ruotare con la forza di un asino per macinare i cereali.
La necessità degli scandali (v. 7) non è una cieca fatalità di fronte alla quale Gesù e i discepoli si dichiarano
impotenti; è la condizione storicamente inevitabile del mondo dopo la caduta, partendo dalla quale si
manifesta la pazienza di Dio nei suoi riguardi. Lo scandalo ha molti temi e volti. Ne sono vittime i piccoli, che
hanno bisogno di aiuto e talvolta sono sconcertati. Scandalo nella Chiesa è l’atmosfera non adatta a far
risuonare un appello qualitativo all’imitazione di Cristo. Scandalo è il cristianesimo stantio. Scandalo è vivere
secondo le categorie del mondo e non secondo quelle del Vangelo. E la responsabilità di questi scandali e di
queste situazioni gravano sulle coscienze di uomini concreti che siamo noi e gli altri.
Il male opera nel mondo. In ultima analisi, esso è legato al diavolo, come Matteo ha già illustrato nella
spiegazione della parabola della zizzania (Mt 13,36ss). Il male opera contro la Chiesa e anche dentro la
Chiesa. E durerà fino alla fine, perché soltanto allora saranno eliminati “tutti gli scandali e tutti gli operatori di
iniquità” (Mt 13,41).
Assecondando gli istinti della concupiscenza che biblicamente ha sede nel corpo o si serve del corpo,
l’uomo imbocca una strada che allontana da Dio e dalla vita eterna (vv. 8-9). L’uomo ha cento mani per
prendere e nessuna per dare; mille piedi per seguire le sue perversioni e nessun piede per seguire il
Signore. Se con gli altri dobbiamo essere tolleranti, con noi stessi dobbiamo essere determinati nel togliere
tutto ciò che fa cadere noi ed è occasione di caduta per gli altri. Dobbiamo eliminare ciò che è male per
“entrare nella vita” e non buttare via la nostra esistenza nell’immondizia.
L’occhio è il desiderio che ci porta verso tutto e che porta dentro di noi tutto: è la finestra del cuore. Abbiamo
mille occhi per vedere le tentazioni al male e nessun occhio per contemplare il Signore. Dobbiamo cavarci i
mille occhi che ci fanno vedere gli oggetti del nostro egoismo e tenere l’unico occhio che ci rende liberi per
amare e servire.
Dio è dalla parte dei piccoli. Chi disprezza i piccoli e i poveri, disprezza Dio. Un simile atteggiamento provoca
il forte richiamo di Gesù: “Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli!” (v. 10) e l’intervento
immediato del Padre in loro difesa: egli ha disposto uno schieramento di angeli a servizio e a difesa dei suoi
bambini, dei suoi “piccoli”. Tramite i propri angeli che vedono la faccia di Dio, essi possono far giungere fino
a lui i torti e le ingiustizie che ricevono. Chi tocca i suoi “piccoli”, tocca Dio.
Il valore dei “piccoli” davanti a Dio è sottolineato dal riferimento ai loro angeli che vedono sempre la faccia
del Padre che è nei cieli. Nella tradizione giudaica gli angeli “che stanno davanti a Dio”, chiamati “angeli del
volto”, sono quelli di primo grado, incaricati di compiti speciali in ordine alla protezione degli eletti (cf. 1
Enoch 40,1-10).
Sul v. 10 è fondata la credenza degli angeli custodi (cf. At 12,15).
12 Che ve ne pare? Se un uomo ha cento pecore e ne smarrisce una, non lascerà forse le novantanove sui
monti, per andare in cerca di quella perduta? 13 Se gli riesce di trovarla, in verità vi dico, si rallegrerà per
quella più che per le novantanove che non si erano smarrite. 14 Così il Padre vostro celeste non vuole che si
perda neanche uno solo di questi piccoli.
La parabola della pecora smarrita ci insegna ad essere solleciti verso la sorte dei “piccoli”, di considerarli
importanti e di andare alla loro ricerca quando si perdono. Questa cura pastorale viene fondata
teologicamente sullo stile di Dio Padre.
Piccolo è colui che non conta, colui che serve. Il primo posto nella comunità è per costoro. L’autorità deve
mettere i piccoli al primo posto nella sua considerazione e nei suoi programmi. E tutti, se vogliono stare nella
comunità cristiana, devono mettersi in atteggiamento di servizio. Scandalizzare i piccoli è impedire loro di
credere in Gesù. Il Padre vuole che nessun peccatore si perda.
Lo scopo di questa parabola è di spingere la comunità cristiana, che trascura i peccatori ed è tentata di
ripiegarsi pigramente su se stessa, a mettersi senza esitazione alla ricerca degli smarriti, dei cristiani che
hanno dimenticato il primitivo fervore e la coerenza con gli ideali del vangelo. Chiunque è in pericolo ha la
precedenza assoluta su tutto e su tutti a essere soccorso.
Le parole di Gesù sottolineano ripetutamente “anche uno solo di questi piccoli” (vv. 6.10.14) per insegnarci
non solo a capovolgere i criteri mondani riguardo alla grandezza, ma anche nei confronti della quantità:
anche uno solo conta!
La parabola della pecora smarrita ci riguarda personalmente perché è la nostra storia. Qualche volta siamo
la pecora smarrita, altre volte siamo mandati a cercare la pecora smarrita che è il prossimo. Possiamo
sperare di raggiungere la nostra salvezza soltanto se ci preoccupiamo anche della salvezza degli altri.
15 Se il tuo fratello commette una colpa, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato
il tuo fratello; 16 se non ti ascolterà, prendi con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola
di due o tre testimoni. 17 Se poi non ascolterà neppure costoro, dillo all’assemblea; e se non ascolterà
neanche l’assemblea, sia per te come un pagano e un pubblicano. 18 In verità vi dico: tutto quello che
legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo e tutto quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto
anche in cielo.
19 In verità vi dico ancora: se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il
Padre mio che è nei cieli ve la concederà. 20 Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in
mezzo a loro”.
Nel brano della correzione fraterna e della preghiera concorde Matteo sviluppa l’iniziativa di colui che vuole
aiutare il peccatore a ritrovare la comunione fraterna. L’espressione “tuo fratello” (vv. 15.21) manifesta
l’intenzione teologica di Matteo: la Chiesa è una comunità di fratelli.
Il passo da compiere si esprime in una triplice gradazione: se il colloquio da solo a solo non porta il frutto
sperato, si potrà fare appello ai fratelli e solo in ultima istanza si deve ricorrere a tutta la comunità.
Alla luce della parabola precedente (vv. 12-14: la pecora perduta), il triplice passo va inteso come uno sforzo
per riportare nella comunità colui che si era allontanato: è una traduzione umana della pazienza di Dio.
Colui che rifiuta dev’essere considerato come un pagano o un pubblicano, ossia come persona di fronte alla
quale i fedeli si trovano impotenti. Nei confronti di questo fratello che rifiuta di ascoltare, il cristiano ha ancora
un dovere da compiere, il più importante: affidarlo alle mani del Padre, riconoscendo che l’aiuto di cui
necessita sorpassa totalmente le possibilità della comunità. Dove falliscono gli uomini può riuscire Dio.
La Chiesa è dunque una comunità nella quale i fratelli sono responsabili della fede dei loro fratelli. Ma
questa comunità dipende meno dagli sforzi umani, che possono finire in un insuccesso, che dal Padre che è
nei cieli: è lui il Pastore che va in cerca della pecora perduta.
L’espressione “Io sono in mezzo a loro” (v. 20) richiama l’inizio del vangelo (1,23: Gesù è il “Dio con noi”) e
la fine (28,20: “Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del tempo”). Con questa frase Matteo ci indica dove
possiamo trovare Dio e fare un’autentica esperienza della sua presenza: dove c’è la comunità riunita nel suo
nome, lì c’è Dio.
21 Allora Pietro gli si avvicinò e gli disse: “Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca
contro di me? Fino a sette volte?”. 22 E Gesù gli rispose: “Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte
sette.
23 A proposito, il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi. 24 Incominciati i conti, gli
fu presentato uno che gli era debitore di diecimila talenti. 25 Non avendo però costui il denaro da restituire, il
padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, con i figli e con quanto possedeva, e saldasse così il
debito. 26 Allora quel servo, gettatosi a terra, lo supplicava: Signore, abbi pazienza con me e ti restituirò ogni
cosa. 27 Impietositosi del servo, il padrone lo lasciò andare e gli condonò il debito. 28 Appena uscito, quel
servo trovò un altro servo come lui che gli doveva cento denari e, afferratolo, lo soffocava e diceva: Paga
quel che devi! 29 Il suo compagno, gettatosi a terra, lo supplicava dicendo: Abbi pazienza con me e ti
rifonderò il debito. 30 Ma egli non volle esaudirlo, andò e lo fece gettare in carcere, fino a che non avesse
pagato il debito.
31 Visto quel che accadeva, gli altri servi furono addolorati e andarono a riferire al loro padrone tutto
l’accaduto. 32 Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: Servo malvagio, io ti ho condonato tutto
il debito perché mi hai pregato. 33 Non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho
avuto pietà di te? 34 E, sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non gli avesse restituito
tutto il dovuto. 35 Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al
vostro fratello”.
Pietro ritiene di entrare ampiamente nello spirito di Gesù perdonando sette volte. Anche i rabbini
discutevano questa questione; partendo da Amos (2,4), da Giobbe (33,29) e dalla triplice preghiera di
Giuseppe (Gen 50,17) pensavano che si potesse arrivare a perdonare fino a tre volte.
La risposta di Gesù è chiara. Rovesciando il canto di Lamech: “Sette volte sarà vendicato Caino, ma
Lamech settanta volte sette” (Gen 4,24), Gesù svela le risorse insospettate di misericordia generate
dall’avvento del regno dei cieli.
Davanti a Dio tutti siamo debitori insolvibili. La parabola di oggi ci insegna che il perdono di Dio è il motivo e
la misura del perdono fraterno. Dobbiamo perdonare senza misura perché Dio ci ha perdonato senza
misura. Il perdono ai fratelli è segno dell’efficacia del perdono di Dio in noi: se non perdoniamo, non abbiamo
accolto realmente il perdono di Dio. Il servo è condannato perché tiene il perdono per sé e non permette che
il suo perdono diventi gioia per gli altri. Bisogna imitare il comportamento di Dio (Mt 5,43-48).
Il fondamento del mio rapporto con l’altro è l’imitazione del rapporto che Dio ha con me. Gesù ha detto di
amarci a vicenda come lui ha amato noi (Gv 13,34); e Paolo dice di graziarci l’un l’altro come il Padre ha
graziato noi in Cristo (Ef 4,32).
La giustizia di Dio non è quella che ristabilisce la parità, secondo la regola: chi sbaglia, paga. E’ una giustizia
superiore, propria di chi ama, che è sempre in debito verso tutti: all’avversario deve la riconciliazione, al
piccolo l’accoglienza, allo smarrito la ricerca, al colpevole la correzione, al debitore il condono.
Diecimila era la cifra più grossa in lingua greca e il talento la misura più grande. Diecimila talenti è una cifra
enorme. Il talento corrisponde a 36 kg di metallo prezioso. Diecimila talenti corrispondono a 360 tonnellate di
oro o di argento. Un talento è pari a 6.000 giornate lavorative; 10.000 talenti è pari a 60.000.000 di stipendi
quotidiani. Per pagare questo debito il servo dovrebbe lavorare circa 200.000 anni. La cifra esagerata è in
realtà una pallida idea di ciò che Dio ci ha dato.
Cento danari corrispondono allo stipendio di cento giornate lavorative. Una cifra discreta, ma del tutto
trascurabile rispetto al debito appena condonato di diecimila talenti.
Pensare al proprio debito condonato ci rende tolleranti verso gli altri e magnanimi. Perdonare è una
questione di cuore: è ricordare l’amore che il Padre ha per me e per il fratello.
Capitolo diciannovesimo
1 Terminati questi discorsi, Gesù partì dalla Galilea e andò nel territorio della Giudea, al di là del Giordano. 2
E lo seguì molta folla e colà egli guarì i malati.
3 Allora gli si avvicinarono alcuni farisei per metterlo alla prova e gli chiesero: “E’ lecito ad un uomo ripudiare
la propria moglie per qualsiasi motivo?”. 4 Ed egli rispose: “Non avete letto che il Creatore da principio li creò
maschio e femmina e disse: 5 Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i
due saranno una carne sola? 6 Così che non sono più due, ma una carne sola. Quello dunque che Dio ha
congiunto, l’uomo non lo separi”. 7 Gli obiettarono: “Perché allora Mosè ha ordinato di darle l’atto di ripudio e
mandarla via ?”. 8 Rispose loro Gesù: “Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le
vostre mogli, ma da principio non fu così. 9 Perciò io vi dico: Chiunque ripudia la propria moglie, se non in
caso di concubinato, e ne sposa un’altra commette adulterio”.
10 Gli dissero i discepoli: “Se questa è la condizione dell’uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi”. 11
Egli rispose loro: “Non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è stato concesso. 12 Vi sono infatti
eunuchi che sono nati così dal ventre della madre; ve ne sono alcuni che sono stati resi eunuchi dagli
uomini, e vi sono altri che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli. Chi può capire, capisca”.
Gesù parte dalla Galilea. Secondo il racconto di Matteo non vi ritornerà più durante la sua vita terrena. La
Giudea, la provincia meridionale, è il suo nuovo campo d’azione. A questa regione appartengono anche
Gerico e Gerusalemme che ora costituiscono la sua meta (Mt 20–21). Anche per Matteo, Gerusalemme è
anzitutto il luogo in cui ha compimento il cammino di Gesù.
In termini generici si parla della sua attività di guaritore anche in questo territorio, per ricordarci che egli non
solo esige la misericordia, ma la esercita di persona, incessantemente.
Con la domanda dei farisei sul divorzio appare lo scacco dell’amore in seno alla coppia. E’ questa infatti la
prima cellula dove “due sono uniti nel nome di Cristo” (Mt 18,20). L’intervento dei farisei mette sotto accusa
Gesù e la novità del Regno.
La domanda “E’ lecito a un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?” è importante. Al tempo di
Gesù l’interpretazione di Dt 24,1 contrapponeva i seguaci di due scuole rabbiniche, quella di Hillel che
ammetteva il divorzio per qualsiasi motivo, e quella di Shammai che richiedeva, come minimo, una cattiva
condotta comprovata, anzi, un adulterio da parte della moglie.
La risposta di Gesù supera subito la disputa interpretativa tra i seguaci di Hillel e di Shammai. Alla maniera
rabbinica, egli cita i brani di Gen 1,17 e 2,24 situando così la discussione a livello superiore: quello della
volontà del Creatore. La distinzione tra i sessi trova quindi la sua origine nel Creatore: è più un’intenzione
creatrice vissuta e rivelata che un semplice fenomeno di natura.
Gesù cita Gen 2,24: “L’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una
carne sola” (v. 5) per sottolineare che è la volontà creatrice di Dio che unisce l’uomo e la donna. Quando si
uniscono, è Dio che li unisce: la congiunzione dell’uomo e della donna è l’effetto della parola di Dio.
La risposta di Gesù è quindi chiara: per volontà esplicita di Dio creatore il matrimonio è indissolubile, non si
può divorziare per nessun motivo. Un testo di Malachia (2, 13-16) dichiarava già prima di Cristo che ripudiare
la propria moglie è rompere l’alleanza di Dio con il suo popolo (cf. anche Os 1-3; Is 1, 21-26; Ger 2,3; 3,1.6-
12; Ez 16 e 23; Is 54,6-10; 60-62).
Questa risposta di Gesù pare tuttavia in contraddizione con la legge di Mosè, che permetteva di dare un
attestato di divorzio. Gesù, nuovo Mosè, riporta con forza la questione nei suoi giusti termini: all’amore di Dio
che fa alleanza con l’uomo e gli dà la capacità di superare la durezza del cuore (v. 8), cioè la mancanza di
docilità alla parola di Dio. La legge espressa in Gen 1,27 e 2,24 non è mai stata modificata o abolita.
Di fronte a questo “amore impossibile” i discepoli reagiscono violentemente: “Se questa è la condizione
dell’uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi” (v. 10). Essi indietreggiano davanti all’insopportabile
esigenza dell’indissolubilità del matrimonio: impossibile da capire dagli uomini chiusi alla rivelazione di Dio,
ma possibile per quelli che ricevono da Dio la grazia di capire.
Agli eunuchi per nascita o resi tali dagli uomini, Gesù aggiunge una terza categoria: quelli “che si sono fatti
eunuchi per il regno dei cieli” (v. 12). L’eunuco è colui che non può compiere l’atto della generazione. Gli
eunuchi per il regno dei cieli sono, anzitutto, coloro che, separati dal coniuge, continuano a vivere nella
continenza, saldamente fedeli al vincolo matrimoniale.
Anche là dove la legge di Mosè permetteva qualche indulgenza, il regno dei cieli esige e promette la
comunione indissolubile d’amore in seno alla coppia e disapprova ogni atto che tende a distruggere l’unità
sacra del matrimonio come è stata istituita dal Creatore.
13 Allora gli furono portati dei bambini perché imponesse loro le mani e pregasse; ma i discepoli li
sgridavano. 14 Gesù però disse loro: “Lasciate che i bambini vengano a me, perché di questi è il regno dei
cieli”. 15 E dopo avere imposto loro le mani, se ne partì.
Questo brano sull’accoglienza dei bambini illumina ulteriormente il brano precedente sull’indissolubilità del
matrimonio.
Per entrare nel regno dei cieli bisogna diventare come bambini (Mt 18,3-4), ma i discepoli non l’hanno capito
perché respingono i bambini con la stessa incomprensione con cui altri ripudiano la propria sposa.
Solo Gesù può donare l’amore fedele e accogliente, ma per accoglierlo bisogna diventare piccoli, entrando
nella logica della fede.
Nell’agire di Gesù si nota una dedizione diretta e immediata ai bambini. E’ un aspetto caratteristico della sua
attività. Sullo sfondo della posizione insignificante del bambino questo atteggiamento va visto come offerta di
grazia a coloro che non hanno nulla e come una critica ai pregiudizi del mondo degli adulti.
Il bambino viene preso seriamente come interlocutore di Dio. L’essenza dell’essere bambini sta in questo:
soltanto l’amore fornisce al bambino il criterio di misura di ciò che gli è vicino e di ciò che gli è estraneo.
“Anche se gli si mostrasse una regina con il suo diadema, egli preferirebbe la sua mamma anche se fosse
vestita di stracci” (san Giovanni Crisostomo). Coloro che sono diventati come bambini preferiscono il loro
Signore umiliato e morto in croce a tutte le lusinghe del mondo.
I bambini si aprono con spontaneità alla benedizione di Dio che Gesù dona loro. Con ciò viene comunicata
loro, già ora, una felicità sincera.
16 Ed ecco un tale gli si avvicinò e gli disse: “Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita
eterna?”. 17 Egli rispose: “Perché mi interroghi su ciò che è buono? Uno solo è buono. Se vuoi entrare nella
vita, osserva i comandamenti”. 18 Ed egli chiese: “Quali?”. Gesù rispose ” Non uccidere, non commettere
adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, 19 onora il padre e la madre, ama il prossimo tuo come te
stesso”. 20 Il giovane gli disse: “Ho sempre osservato tutte queste cose; che mi manca ancora?”. 21 Gli disse
Gesù: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi
vieni e seguimi”. 22 Udito questo, il giovane se ne andò triste; poiché aveva molte ricchezze.
Per avere parte alla vita eterna bisogna vivere secondo Dio, secondo i suoi comandamenti.
La povertà evangelica richiesta a questa persona non è un consiglio, ma un ordine, altrettanto impellente
quanto quello dell’amore indissolubile che rende eunuchi per il regno dei cieli.
La povertà non rappresenta una via migliore e più sicura, che si può percorrere se si vuole e che Gesù si
accontenterebbe di raccomandare, ma la condizione assoluta della perfezione obbligatoria, ogni volta che il
mantenimento dei beni diventa un ostacolo alla salvezza.
Anche qui, come nel brano precedente, non si tratta direttamente di un appello alla vita religiosa o di
speciale consacrazione – anche se l’episodio può servire a illustrarla – ma di un invito rivolto ad ogni uomo a
ricevere l’amore e a viverlo nel distacco, ad abbandonare la parte che si possiede per ricevere il tutto che
Gesù offre.
La risposta data a Gesù da questo tale: “Ho sempre osservato tutte queste cose” (v. 20) è un atto di
presunzione. Il comandamento dell’amore del prossimo, che egli afferma di osservare, richiede la volontà di
donazione e di impegno totali, separandosi dai beni e donando il ricavato ai poveri. Ma egli “aveva molte
ricchezze” (v. 22).
La rinuncia ai possedimenti non è richiesta per motivi di santità, come a Qumran, o come espressione di
autodominio, come avveniva presso i cinici o gli stoici, ma assume il carattere specificamente cristiano di
espressione dell’amore del prossimo, che dona ciò che ha ai poveri.
L’assicurazione della ricompensa, un tesoro nei cieli, resta salvaguardata dal malinteso dell’”io ti do affinché
tu mi dia”, se viene intesa nel suo vero significato, come ricompensa di grazia.
Questo tale rifiuta l’invito a seguire Gesù perché non accetta le condizioni poste dal Maestro. La tristezza
che lo affligge ha le sue radici nell’amore di sé e del mondo.
23 Gesù allora disse ai suoi discepoli: “In verità vi dico: difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli. 24 Ve
lo ripeto: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli”. 25 A
queste parole i discepoli rimasero costernati e chiesero: “Chi si potrà dunque salvare?”. 26 E Gesù, fissando
su di loro lo sguardo, disse: “Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile”.
27 Allora Pietro prendendo la parola disse: “Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa
dunque ne otterremo?”. 28 E Gesù disse loro: “In verità vi dico: voi che mi avete seguito, nella nuova
creazione, quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, sederete anche voi su dodici
troni a giudicare le dodici tribù di Israele. 29 Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o
madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna.
30 Molti dei primi saranno ultimi e gli ultimi i primi”.
Il tale di cui parla questo brano del vangelo aveva chiesto a Gesù che cosa doveva “fare” per “avere” la vita
eterna (v. 16); nella sua risposta ai discepoli, Gesù rovescia la prospettiva: bisogna “lasciare” per “avere” (v.
29).
Questa impossibilità di farsi piccoli per entrare nel Regno è sottolineata da Gesù (vv. 23-24) e ripresa dai
discepoli costernati: “Chi si potrà dunque salvare?” (v. 25).
Gesù insiste: “Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile” (v. 26; cf. Gen 18,14; Gb 42,2; Zc
8,6). Il Regno non è un bene che si guadagna o si possiede; bisogna riceverlo come dono da Dio.
Siamo nel cuore della Rivelazione del Regno e della scelta che richiede (cf. Mt 16,23): o si muore a se stessi
per ricevere tutto da Dio o si rende impossibile in noi la venuta del regno dei cieli. L’uomo, ricco o povero,
non può salvare se stesso, ma deve accogliere la salvezza come dono di Dio.
Pietro pone la domanda circa la ricompensa riservata a coloro che seguono Cristo. Egli non chiede solo per
sé, ma per tutti. La domanda è umanamente comprensibile, ma insensata, perché non tiene conto che la
ricompensa divina è sempre grazia. Il seguire Gesù conduce alla partecipazione della sua gloria in paradiso.
Con la domanda di Pietro, Matteo prepara la parabola che segue (Mt 20,1-16).
Lutero, commentando questo brano in una predica del 1517, diceva: “Senza la rinuncia alle cose, non si
ottiene nulla”.