Vangelo di Gesù Cristo secondo MATTEO 7

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Capitolo tredicesimo

1 Quel giorno Gesù uscì di casa e si sedette in riva al mare. 2 Si cominciò a raccogliere attorno a lui tanta

folla che dovette salire su una barca e là porsi a sedere, mentre tutta la folla rimaneva sulla spiaggia.

3 Egli parlò loro di molte cose in parabole.

E disse: “Ecco, il seminatore uscì a seminare. 4 E mentre seminava una parte del seme cadde sulla strada e

vennero gli uccelli e la divorarono. 5 Un’altra parte cadde in luogo sassoso, dove non c’era molta terra; subito

germogliò, perché il terreno non era profondo. 6 Ma, spuntato il sole, restò bruciata e non avendo radici si

seccò. 7 Un’altra parte cadde sulle spine e le spine crebbero e la soffocarono. 8 Un’altra parte cadde sulla

terra buona e diede frutto, dove il cento, dove il sessanta, dove il trenta. 9 Chi ha orecchi intenda”.

10 Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero: “Perché parli loro in parabole?”.

11 Egli rispose: “Perché a voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. 12 Così a

chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. 13 Per questo parlo

loro in parabole: perché pur vedendo non vedono, e pur udendo non odono e non comprendono. 14 E così si

adempie per loro la profezia di Isaia che dice:

Voi udrete, ma non comprenderete,

guarderete, ma non vedrete.

15 Perché il cuore di questo popolo

si è indurito, son diventati duri di orecchi,

e hanno chiuso gli occhi,

per non vedere con gli occhi,

non sentire con gli orecchi

e non intendere con il cuore e convertirsi,

e io li risani.

16 Ma beati i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché sentono. 17 In verità vi dico: molti profeti e

giusti hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, e non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, e non

l’udirono!

18 Voi dunque intendete la parabola del seminatore: 19 tutte le volte che uno ascolta la parola del regno e non

la comprende, viene il maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato

lungo la strada. 20 Quello che è stato seminato nel terreno sassoso è l’uomo che ascolta la parola e subito

l’accoglie con gioia, 21 ma non ha radice in sé ed è incostante, sicché appena giunge una tribolazione o

persecuzione a causa della parola, egli ne resta scandalizzato. 22 Quello seminato tra le spine è colui che

ascolta la parola, ma la preoccupazione del mondo e l’inganno della ricchezza soffocano la parola ed essa

non dà frutto. 23 Quello seminato nella terra buona è colui che ascolta la parola e la comprende; questi dà

frutto e produce ora il cento, ora il sessanta, ora il trenta”.

Questa parabola viene raccontata da Gesù dopo aver subìto il rifiuto dei suoi contemporanei. Egli ha

annunciato il regno di Dio, l’intervento di Dio in favore del suo popolo, ed è stato contestato. Proclamando

questa parabola ci insegna che, nonostante l’apparente insuccesso della sua missione, ci sono anche coloro

che l’hanno riconosciuto e accolto: i piccoli, i peccatori, i discepoli.

Gesù ha rivoluzionato i criteri della predicazione corrente (farisaica) comunicando il messaggio di Dio a ogni

sorta di persone. Non si è rivolto solo ai “buoni” o ai “migliori” (il terreno buono del v. 8), ma a tutti. La sua

missione non è stata coronata da successi immediati, ma non si è arreso davanti alle delusioni; ha sempre

continuato a sperare e a portare avanti la sua opera. Il seminatore Gesù ha pensato di avere sempre davanti

a sé un terreno buono, altrimenti non vi avrebbe sparso il seme. Egli ha creduto che anche gli abitanti di

Ninive e gli stessi abitanti di Sodoma e di Gomorra avrebbero potuto cogliere con profitto la parola di

salvezza (Mt 11,23-24; 12,41), per questo non l’ha rifiutata a nessuno e l’ha offerta a tutti. Egli che è stato

chiamato l’amico dei peccatori (Mt 11,19) e che vede i pubblicani e le prostitute al primo posto nel regno dei

cieli (Mt 21,31-32), ha dimostrato che anche il terreno più infruttuoso può diventare buono. La parabola

annuncia una legge che sottostà alla nuova economia della salvezza: il successo nasce dall’insuccesso, la

croce è garanzia di risurrezione.

Ogni pagina del vangelo può essere letta in due dimensioni: la situazione originaria del tempo di Gesù e la

sua attualizzazione nel tempo della Chiesa. L’insegnamento della parabola del seminatore, secondo la

situazione originaria del tempo di Gesù, non riguarda anzitutto gli ascoltatori, ma i predicatori. La parabola

attira l’attenzione sul lavoro del seminatore, un lavoro abbondante, senza misura, senza distinzioni, che in

un primo momento sembra inutile, infruttuoso, sprecato. Ma il fallimento è solo apparente: nel regno di Dio

non c’è lavoro inutile, non c’è spreco. Il lavoro della semina non deve essere calcolato: bisogna seminare

senza risparmio e senza distinzioni. Noi non sappiamo quali terreni daranno frutto: per questo non possiamo

anticipare il giudizio di Dio.

La frase finale: ” Chi ha orecchi, intenda ” è un grido di risveglio. È un avvertimento e un comando a non

perdere il significato della parabola e le sue conseguenze nella vita dell’ascoltatore.

Matteo non ci trasmette solo la parabola, ma ci offre anche un’attualizzazione che trasforma la parabola

indirizzata ai predicatori in una catechesi per i convertiti. La spiegazione si rivolge ai fedeli e insiste sulla

necessità delle disposizioni interiori perché la Parola ascoltata sia capita e porti frutto. Le disposizioni più

importanti sono l’apertura e la sensibilità ai valori del regno di Dio, il coraggio di fronte alle persecuzioni, la

costanza o perseveranza, la resistenza allo spirito maligno e la libertà interiore.

Il mistero del comprendere o del non comprendere (v. 11) ha un riferimento a Dio. I misteri sono conoscibili

solo con l’aiuto di una particolare luce che viene da Dio. Ci si può chiedere in che rapporto stiano tra loro,

secondo Matteo, il credere e il conoscere. Per Matteo la fede è principalmente fiducia riposta interamente

nella persona di Gesù. La conoscenza si fonda sulla fede e viene concessa alla fede.

Non è la prima volta che nella storia della salvezza si verificano insuccessi come quelli di Gesù. Sembra anzi

il destino di tutti i profeti. Gesù ha scelto il linguaggio in parabole perché il popolo d’Israele non ha voluto

“vedere e ascoltare” quanto Gesù aveva annunciato e proposto loro in termini semplici e chiari.

I discepoli, invece, sono chiamati a conoscere in pienezza “i misteri del regno di Dio”, cioè il piano che Dio

ha sull’umanità, rivelato da Gesù stesso attraverso le sue parabole.

La constatazione “a chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”

(v. 12; cf. Mt 25,29) descrive la dinamica paradossale della rivelazione: i discepoli, proprio perché seguono

Gesù, possono giungere a una conoscenza sempre più profonda di essa; le folle, al contrario, non avendo

preso una decisione favorevole nei suoi confronti, si allontanano sempre più dalla logica del Regno.

La seconda parte della risposta di Gesù indica la vera e propria motivazione del suo parlare in parabole (v.

13). Questo linguaggio mette in evidenza l’atteggiamento della folla che, pur vedendo e ascoltando, non

riesce a comprendere. Si tratta di un discernimento che la folla non riesce a fare, proprio perché non ha

deciso di mettersi al seguito di Gesù. Essa non capisce Gesù e di conseguenza non capisce il suo

linguaggio.

Lo scandalo del rifiuto del Messia rientra nel progetto di Dio attestato dalle Scritture. Mentre di solito Matteo

inserisce i testi biblici per offrire al lettore una conferma e un commento, in questo passo pone sulle labbra di

Gesù il testo di Isaia. Proprio l’introduzione attraverso il verbo “compiere” (anapleroo) mostra come

l’incomprensione della folla porta a compimento la parola di Dio.

Nella terza parte della risposta (v. 16) Gesù evidenzia il privilegio dei discepoli. A differenza della folla, essi

possono “vedere e ascoltare”. La motivazione della loro felicità viene preceduta dall’espressione “in verità vi

dico” con la quale Gesù garantisce la certezza della sua affermazione. Egli colloca i suoi discepoli al vertice

di una storia di promesse, i cui destinatari distribuiti in due categorie: “i profeti e i giusti” (v. 17). Questa

espressione associa coloro che hanno annunciato la volontà di Dio, i profeti, e coloro che l’hanno attuata, i

giusti (cfr Mt 10,41; 23,29). Questi sono i rappresentanti della storia biblica. I discepoli sono beati perché

possono conoscere il piano di Dio, che ora viene manifestato da Gesù. Sono essi, e non la sinagoga, la

continuazione del vero Israele.

Gesù che ha dichiarato “beati” i discepoli perché hanno l’opportunità di “vedere e di “sentire” (Mt 13,16-17),

ora precisa che la loro condizione dipende da lui stesso. Egli infatti spiega loro la parabola.

La prima situazione di rifiuto (v. 19) presenta il caso di chi ascolta la parola ma non la comprende. Il

comprendere non è solo il capire, ma l’accogliere in sé, la comprensione profonda e spirituale (Mt 13,51;

16,12; 17,13) perché egli stesso la spiega loro (Mt 13,18.36; 15,17; 17,11-12)

Nel secondo caso (vv. 20-21) la parola viene ascoltata e recepita con gioia. La fase critica è prodotta

dall’instabilità dell’accoglienza, descritta attraverso l’immagine della pianta che non riesce ad avere radici.

L’insuccesso è causato dalle esperienze di tribolazione (Mt 24,9.21.29) e persecuzione, che sono momenti

inevitabili di verifica nel cammino della fede (cf. Mt 8,23-28).

La terza situazione negativa (v. 22) è provocata dalle preoccupazioni materiali di ogni tipo. La ricchezza non

è un male in sé, ma l’inquietudine che essa inevitabilmente genera, relativizza l’unico valore primario ed

essenziale: l’accoglienza della parola del Regno. Il discepolo infatti si distingue per la libertà nei confronti dei

beni materiali (Mt 6,25-34) che, se sopravvalutati, diventano un impedimento nel seguire Gesù (Mt 19-16-

30).

L’accoglienza positiva della parola è sottolineata con l’espressione “fare frutto”. L’immagine del frutto viene

usata spesso per descrivere la fede viva e perseverante (Mt 7,16-20; 13,33; 21, 19.34.41.43).

La perdita nei tre terreni infruttuosi viene largamente ricompensata dal successo della resa del terreno

buono.

24 Un’altra parabola espose loro così: “Il regno dei cieli si può paragonare a un uomo che ha seminato del

buon seme nel suo campo. 25 Ma mentre tutti dormivano venne il suo nemico, seminò zizzania in mezzo al

grano e se ne andò. 26 Quando poi la messe fiorì e fece frutto, ecco apparve anche la zizzania. 27 Allora i

servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: Padrone, non hai seminato del buon seme nel tuo campo?

Da dove viene dunque la zizzania? 28 Ed egli rispose loro: Un nemico ha fatto questo. E i servi gli dissero:

Vuoi dunque che andiamo a raccoglierla? 29 No, rispose, perché non succeda che, cogliendo la zizzania, con

essa sradichiate anche il grano. 30 Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al

momento della mietitura dirò ai mietitori: Cogliete prima la zizzania e legatela in fastelli per bruciarla; il grano

invece riponetelo nel mio granaio”.

La parabola del grano e della zizzania insegna che nel campo del mondo ci sono i buoni e i cattivi e che

esistono in tutti i tempi dei servi impazienti che vorrebbero anticipare il giudizio di Dio. Ma gli uomini non

sanno giudicare perché non conoscono né il metro di Dio né il cuore dell’uomo.

Il bene e il male devono crescere fino alla completa maturazione. Il centro della parabola non sta nella

scoperta della zizzania e neppure nel giudizio finale della separazione del grano dalla zizzania, ma più

propriamente nell’ordine di non stappare la zizzania. La meraviglia e lo scandalo dei servi sta proprio in

questo atteggiamento paziente e lungimirante di Dio.

La Chiesa di tutti i tempi è sempre stata agitata dagli scandali e dai peccati dei cristiani. Per ogni situazione

problematica vale il detto di Paolo: “Non vogliate giudicare nulla prima del tempo, finché venga il Signore.

Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno avrà la sua

lode da Dio” (1Cor 4,5).

Al tempo di Gesù c’erano i farisei che pretendevano di essere santi e perciò si separavano dalla moltitudine

dei peccatori. C’era il movimento di Qumran con la sua idea di rigida santità che esigeva il rifiuto di tutti gli

impuri. C’era Giovanni il Battista che annunciava il messia che avrebbe separato il grano dalla pula (Mt

3,12).

Viene Gesù e si mescola con i peccatori, li accoglie e mangia con loro (cf. Lc 15,2). Addirittura ha un

traditore nel gruppo dei dodici che si è scelto. Possiamo dunque dire che zeloti, farisei e tanti altri

pretendevano che il regno di Dio intervenisse in modo netto, chiaro e definitivo. In questo contesto si capisce

la forza polemica della parabola di Gesù: la politica del regno di Dio è divina, fatta di tolleranza e di

misericordia.

L’elemento della sorpresa da parte dei servitori quando scoprono la zizzania fa pensare che la parabola si

applichi alla comunità cristiana che scopre nel suo seno imperfezioni e controtestimonianze al vangelo.

La Chiesa non deve diventare una comunità di puri e di perfetti, estromettendo i deboli e gli inadempienti.

Buon grano e zizzania devono crescere insieme fino alla mietitura. Anche perché Dio solo sa chi è buon

grano e chi è zizzania.

31 Un’altra parabola espose loro: “Il regno dei cieli si può paragonare a un granellino di senapa, che un uomo

prende e semina nel suo campo. 32 Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande

degli altri legumi e diventa un albero, tanto che vengono gli uccelli del cielo e si annidano fra i suoi rami”.

33 Un’altra parabola disse loro: “Il regno dei cieli si può paragonare al lievito, che una donna ha preso e

impastato con tre misure di farina perché tutta si fermenti”.

34 Tutte queste cose Gesù disse alla folla in parabole e non parlava ad essa se non in parabole, 35 perché si

adempisse ciò che era stato detto dal profeta:

Aprirò la mia bocca in parabole,

proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo.

La parabola del granello di senape presenta il contrasto tra la piccolezza del seme e la grandezza della

pianta che produce: un albero che offre ospitalità agli uccelli. La piccolezza del granellino sottolinea l’aspetto

insignificante e addirittura deludente degli inizi dell’avvento del regno di Dio: la venuta di Gesù corrisponde

ben poco alle attese che gli ebrei avevano nei confronti del messia (cf. Mt 3,13-14; 11,2-3).

La parabola del lievito ci insegna che il regno di Dio è presente nel mondo come un fermento che lo

trasforma totalmente.

Il regno dei cieli non ha gli inizi sognati dagli apocalittici e sperati dal popolo. Esso si inserirà nella storia

quasi inavvertitamente (cfr 11,2-3; 12,20), ma si affermerà ugualmente. Il regno dei cieli è ai suoi inizi storici

un seme di senape, ma non sarà tale al suo stadio finale. La parabola è perciò un annuncio di consolazione

e di conforto per quanti non riescono a vedere nell’opera del Cristo la realizzazione delle attese

messianiche. Essa fa eco alle parole rivolte da Gesù ai discepoli:” Non temete, piccolo gregge, perché

piacque al Padre vostro dare a voi il Regno” (Lc 12,32).

La parabola illustra un fatto (l’azione messianica di Gesù), ma soprattutto enuncia una legge (la

paradossalità dell’agire di Dio). Essa sottolinea non solo che l’affermazione del Regno avviene nonostante i

suoi umili inizi, ma proprio per essi.

Ciò che era uno scandalo è invece il segreto del piano di Dio: la piccolezza e la debolezza non pregiudicano

la riuscita futura ma, anzi, ne sono le condizioni necessarie. La debolezza degli uomini del Regno è la loro

forza, perché solo allora trovano in Dio tutta la loro confidenza e tutto il necessario appoggio. Il Regno sarà

grande nella debolezza (cf. 2Cor 12,9).

Bisogna che i credenti abbandonino i loro appoggi terreni, diventino poveri, umili, deboli per far sì che la

Chiesa acquisti i caratteri voluti dal suo fondatore. Chi riceve il Regno come un granello di senape deve

uniformare il proprio animo alla lezione che viene dal piccolo seme. Ritorna ancora una volta il messaggio

della povertà con cui si apre il discorso della montagna (Mt 5,3).

Il discorso in parabole viene nuovamente e con forza definito come discorso destinato al popolo. Per capirlo

non è necessaria una conoscenza speciale. Il salmo 78,2 viene citato proprio perché identifica nelle “parole”

uno strumento adeguato per rivelare “cose nascoste fin dalla fondazione del mondo”.

Il salmo 78 presenta un abbozzo della storia della salvezza di Israele dall’esodo alla conquista della terra

promessa e all’elezione di Davide. Designando l’esposizione della storia, la parabola ci vuol dire che occorre

comprenderne, con la riflessione e la meditazione, il senso: l’essenza e la fedeltà di Dio, il peccato dell’uomo

e la conseguente esortazione alla fedeltà e all’obbedienza.

Ciò che Cristo proclama risale al tempo che precede la creazione. Per Matteo il regno di Dio è una realtà

preesistente. Nel tempo essa fu affidata a Israele ed è divenuta realtà definitiva in Gesù.

La preesistenza del regno di Dio è confermata da Mt 25,34.

36 Poi Gesù lasciò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si accostarono per dirgli: “Spiegaci la parabola

della zizzania nel campo”. 37 Ed egli rispose: “Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. 38 Il campo

è il mondo. Il seme buono sono i figli del regno; la zizzania sono i figli del maligno, 39 e il nemico che l’ha

seminata è il diavolo. La mietitura rappresenta la fine del mondo, e i mietitori sono gli angeli. 40 Come

dunque si raccoglie la zizzania e si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. 41 Il Figlio dell’uomo

manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti gli operatori di iniquità 42 e

li getteranno nella fornace ardente dove sarà pianto e stridore di denti. 43 Allora i giusti splenderanno come il

sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi, intenda!

I discepoli chiedono esplicitamente la spiegazione della parabola. Segue una spiegazione che si presenta

singolare nella tradizione evangelica.

Anzitutto viene data, come in una lista, l’identificazione di quasi tutti gli elementi della parabola. Si riconosce

già da questa enumerazione che il centro d’interesse della spiegazione è essenzialmente differente da

quello della parabola. In questa si trattava della decisione del padrone di lasciare crescere nel tempo

presente grano e zizzania. Nella spiegazione invece si tratta della mietitura finale, del destino finale del

grano e della zizzania. La spiegazione rende esplicito ciò che nella parabola era implicito: il dramma del

giudizio finale.

La spiegazione della parabola ci insegna che il male non trionferà e che il diavolo e tutti gli operatori di

iniquità saranno condannati.

Infine la parabola ci pone un problema: discernere se siamo veramente figli del Regno o figli del maligno.

44 Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo; un uomo lo trova e lo nasconde di nuovo, poi

va, pieno di gioia, e vende tutti i suoi averi e compra quel campo.

45 Il regno dei cieli è simile a un mercante che va in cerca di perle preziose; 46 trovata una perla di grande

valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra.

Le parabole del tesoro e della perla di grande valore ci ricordano che Gesù è il nostro tesoro: per possedere

lui bisogna essere disposti a lasciare tutto e tutti. Possiamo rappresentarci questo tesoro come un cassone o

un vaso di terracotta pieno di monete d’oro o di argento. Sotterrare tesori nel campo era considerato un

deposito sicuro in tempi di guerra o di incertezza. Tesori nascosti potevano essere dimenticati per la morte

dei legittimi proprietari che portavano con sé il segreto nella tomba.

L’unico modo possibile per il lavoratore del campo per giungere a un possesso giuridicamente non

impugnabile è l’acquisto del campo. Così egli vende tutto ciò che possiede per acquistare il campo e quindi il

tesoro.

Il regno di Dio è un tesoro già presente, sperimentabile, trasmissibile nella parola e nell’opera di Gesù. Esso

viene incontro all’uomo per suscitare la sua gioia. L’uomo vende tutto ciò che ha perché orienta in modo

nuovo la sua vita. Ai tesori della terra sostituisce il tesoro del regno dei cieli.

Il vertice della parabola sta nella decisione dell’uomo davanti alla scoperta del tesoro: egli vende tutto ciò

che ha allo scopo di ottenere il campo e di impossessarsi del tesoro.

Esemplari in questa decisione immediata e senza ripensamenti sono i discepoli che, incontrando Gesù, sono

disposti a lasciare tutto per seguirlo (Mt 4,18-22; 8,21-22; 9,9; 19,16-29).

Si può immaginare con quale affanno si sia messo all’opera e di quanto ridicolo si sia coperto agli occhi dei

benpensanti quest’uomo che vende tutto, casa e averi, per acquistare un pezzo di terra di poco o nessun

valore, com’è ordinariamente in Palestina, brulla e infruttuosa.

Alla stessa derisione sono condannati i figli del Regno. Essi hanno sì acquistato un bene di inestimabile

valore, ma esteriormente, agli occhi degli altri, appaiono dei falliti, degli illusi. La loro ricchezza è sconfinata

ma nascosta, traspare solo dalla grande gioia che trabocca dai loro cuori.

La gioia, segno di ottimismo e di speranza, è il punto culminante del racconto L’espropriazione dei beni non

è stata un sacrificio, ma un guadagno.

Anche nella parabola della perla preziosa viene evidenziato il valore straordinario del regno dei cieli in

rapporto ad ogni altro bene (cfr Mt 6,33). Anche qui il culmine del racconto sta nella decisione presa dal

mercante di vendere tutto quello che possiede per comperarla.

E’ da notare che nella parabola del tesoro nascosto l’uomo lo trova casualmente, mentre nella parabola della

perla preziosa è l’uomo che va in cerca. Nella vita alcuni hanno incontrato Cristo senza averlo cercato (cf. Mt

4,18-22; At, 9,1-9), altri lo hanno cercato, come Nicodemo (Gv 3,1-15). In ogni caso il cuore dell’uomo è

inquieto finché non trova il suo tesoro e la sua perla preziosa che è Cristo.

Essere cristiano è la grazia più grande. Di conseguenza la gioia dovrebbe essere il dato esistenziale

cristiano, affinché non risulti vero l’amaro sarcasmo di Nietzsche: “Dovrebbero rivolgermi uno sguardo più

redento, se vogliono che io creda al loro redentore”.

47 Il regno dei cieli è simile anche a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. 48 Quando

è piena, i pescatori la tirano a riva e poi, sedutisi, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi.

49 Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni 50 e li getteranno nella

fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti.

51 Avete capito tutte queste cose?”. Gli risposero: “Sì”. 52 Ed egli disse loro: “Per questo ogni scriba divenuto

discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose

antiche”.

Il compito della chiesa è la missione, raffigurata mediante la pesca, affidata alla responsabilità dei discepoli

(cf. Mt 4,19), ma l’incarico della cernita, immagine della separazione dei malvagi dai buoni, è affidata agli

angeli (cf. Mt 13,41). Contro ogni tendenza integrista, che sogna una comunità credente di separati e di puri,

Gesù annuncia che il tempo presente è l’ambito della tolleranza e della pazienza senza tendenze

discriminatorie. Dunque compito della chiesa è la missione, non il giudizio.

Gesù termina il suo discorso con una domanda: “Avete capito tutte queste cose?”. La risposta è “sì”. E

siamo noi oggi che dobbiamo rispondere positivamente.

Gesù illustra il senso dell’impegno che la comprensione delle parabole richiede, attraverso un’ultima

parabola: quella di ogni scriba fattosi discepolo del regno dei cieli. Diventare discepolo implica la missione di

insegnare agli altri. Lo scriba è lo specialista della Scrittura; se scopre in Gesù il tesoro nascosto (Mt 13,44),

rinnova tutte le sue concezioni religiose e sa utilizzare egregiamente tutta la ricchezza dell’Antico

Testamento accresciuta e perfezionata dal Nuovo.

I discepoli sono coloro che hanno compreso il messaggio racchiuso nei discorsi di Gesù. Comprendere non

significa solo capire ma accettare, attuare nella propria vita. Se ciò è vero, i discepoli sono diventati i veri

“figli del regno” (v.38) ormai in possesso del tesoro e della perla preziosa. Per tutti questi motivi sono i nuovi

scribi, i maestri nel regno dei cieli.

La risposta dei discepoli è importante non solo per la loro salvezza personale, ma anche per la loro futura

missione nella Chiesa. Essi dovranno insegnare ciò che hanno udito. E potranno farlo con la stessa autorità

di Gesù, solo se lo avranno capito e lo avranno veramente creduto e praticato.

Il cristiano resta per tutta la vita un discepolo, uno scolaro. L’esame deve ancora venire. Nell’immagine del

padrone di casa ci si rivolge particolarmente a quelli che sono attivi nella predicazione e nella catechesi. Essi

devono distribuire il nuovo e l’antico. L’incarico costa fatica e non può essere preso alla leggera.

Matteo incoraggia a riprendere anche gli scritti dell’Antico Testamento, in gran parte dimenticati nella

predicazione. In essi si trovano tante cose importanti da ricordare, che ci aiutano e ci scuotono. Ma il solo

ricordo non basta: ad esso va aggiunta una esegesi guidata dallo Spirito, come fa Matteo nel suo vangelo.

In conclusione, tutte le parabole ci parlano del regno dei cieli; tutte ne rivelano un aspetto ed esprimono in

primo luogo la realtà di Gesù, evento centrale della storia, che segna il definitivo punto di incontro tra il cielo

e la terra.

La parola di Dio, che è Gesù, viene seminata nella terra del mondo per farne germinare e crescere il popolo

di Dio. Il discernimento ultimo tra i buoni e i cattivi è già operato in questo mondo dall’adesione o dal rifiuto

nei confronti di Cristo.

53 Terminate queste parabole, Gesù partì di là 54 e venuto nella sua patria insegnava nella loro sinagoga e la

gente rimaneva stupita e diceva: “Da dove mai viene a costui questa sapienza e questi miracoli? 55 Non è

egli forse il figlio del carpentiere? Sua madre non si chiama Maria e i suoi fratelli Giacomo, Giuseppe,

Simone e Giuda? 56 E le sue sorelle non sono tutte fra noi? Da dove gli vengono dunque tutte queste cose?”.

57 E si scandalizzavano per causa sua. Ma Gesù disse loro: “Un profeta non è disprezzato se non nella sua

patria e in casa sua”. 58 E non fece molti miracoli a causa della loro incredulità.

Il racconto dell’arrivo e dell’insegnamento di Gesù a Nazaret è seguito da cinque domande incredule dei

nazaretani. Essi chiedono da dove ha origine Gesù.

La gente resta strabiliata dall’insegnamento di Gesù. Questa reazione non è ancora ostile, ma indica già

incomprensione nei suoi riguardi. Forse gli abitanti di Nazaret sono venuti nella sinagoga più per studiare il

loro concittadino che per ascoltare con fede la sua parola.

Siccome la sapienza si apprende a scuola o dagli scribi, ma ad essi non risulta che Gesù abbia frequentato

né questa né quelli, la conseguenza è presto tratta: non può avere alcun diritto di arrogarsi quell’autorità che

gli viene riconosciuta per la sua parola e per i suoi gesti potenti.

I nomi dei quattro fratelli di Gesù sono conservati dalla tradizione perché hanno avuto un ruolo nella prima

Chiesa di Gerusalemme, soprattutto Giacomo, noto come il “fratello del Signore”.

La tradizione evangelica, riferita anche da Matteo, conosce il nome della madre di Giacomo e di suo fratello

Giuseppe: Maria (Mt 27,56). Se questa Maria, moglie di Cleofa, è sorella di Maria, madre di Gesù, allora i

due primi “fratelli” sono in realtà suoi cugini (cf. Gv 19,25). Lo stesso si può ragionevolmente pensare anche

degli altri due “fratelli” e delle “sorelle”.

Lo scandalo o crisi di rigetto dei giudei nei confronti di Gesù deriva dalla loro immagine trionfalistica

dell’inviato di Dio. Gesù si appella a un’altra immagine, quella del profeta contestato, rifiutato e perseguitato

da quelli ai quali è inviato. Il proverbio popolare del v.57, citato da Gesù, diventa un annuncio del suo destino

che si colloca nella storia degli inviati di Dio rifiutati e osteggiati dal popolo (cf. Mt 5,11-12; 21,34-35; 23,29-

32).

La conclusione dice espressamente che Gesù non fece molti miracoli nella sua patria a causa dell’incredulità

dei suoi abitanti. Il miracolo infatti è legato all’apertura e alla fiducia dell’uomo. Solo a chi ha adempiuto la

condizione fondamentale di un udire volonteroso e aperto, viene aggiunto tutto il resto.

Gesù non compie miracoli per farsi pubblicità e accaparrarsi una folla di seguaci, ma per confermare

l’esperienza della fede. Solo all’interno di questa logica è comprensibile la sua attività terapeutica.

La ragione dello scandalo, di questo impedimento a credere “ragionevolmente” in Gesù è data dalla

condizione stessa di Gesù: dal fatto di essersi fatto uomo e dell’aver scelto un’esistenza umile e povera.

c.jpegCapitolo quattordicesimo

1 In quel tempo il tetrarca Erode ebbe notizia della fama di Gesù. 2 Egli disse ai suoi cortigiani: “Costui è

Giovanni il Battista risuscitato dai morti; per ciò la potenza dei miracoli opera in lui”.

3 Erode aveva arrestato Giovanni e lo aveva fatto incatenare e gettare in prigione per causa di Erodìade,

moglie di Filippo suo fratello. 4 Giovanni infatti gli diceva: “Non ti è lecito tenerla!”. 5 Benché Erode volesse

farlo morire, temeva il popolo perché lo considerava un profeta.

6 Venuto il compleanno di Erode, la figlia di Erodìade danzò in pubblico e piacque tanto a Erode 7 che egli le

promise con giuramento di darle tutto quello che avesse domandato. 8 Ed essa, istigata dalla madre, disse:

“Dammi qui, su un vassoio, la testa di Giovanni il Battista”. 9 Il re ne fu contristato, ma a causa del

giuramento e dei commensali ordinò che le fosse data 10 e mandò a decapitare Giovanni nel carcere. 11 La

sua testa venne portata su un vassoio e fu data alla fanciulla, ed ella la portò a sua madre. 12 I suoi discepoli

andarono a prendere il cadavere, lo seppellirono e andarono a informarne Gesù.

Il racconto della morte del Battista continua la tematica dell’episodio precedente. Sebbene parli con parole

autorevoli e compia gesti potenti (cf. Mt 13, 54.58; 14,2), Gesù è il profeta contestato e la sua sorte viene

prefigurata da quella del Battista.

Il motivo dell’arresto e dell’uccisione del Battista è ricordato nei vv. 3-4. Un profeta non può essere catturato

se non per il disturbo che arrecano le sue parole o i suoi gesti.

Elia era perseguitato da Acab e da Gezabele (1Re 19-21) perché aveva loro rimproverato l’uccisione di un

innocente cittadino di Samaria e si erano appropriati del suo podere.

Erode aveva sottratto la moglie a suo fratello e aveva ripudiato la propria. Un doppio delitto davanti al quale

Giovanni non ha taciuto. Il “non ti è lecito!” dà un’impostazione concreta alla sua azione missionaria.

Se l’annuncio non viene applicato ai fatti, tradotto nelle situazioni concrete, è, troppe volte, un grido inutile.

Se il Battista e Gesù si fossero accontentati di puntare il dito contro il male e non contro i malfattori, come

fanno i filosofi e non solo i filosofi, non sarebbero finiti in prigione e al patibolo.

13 Udito ciò, Gesù partì di là su una barca e si ritirò in disparte in un luogo deserto. Ma la folla, saputolo, lo

seguì a piedi dalle città. 14 Egli, sceso dalla barca, vide una grande folla e sentì compassione per loro e guarì

i loro malati.

15 Sul far della sera, gli si accostarono i discepoli e gli dissero: “Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda

la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare”. 16 Ma Gesù rispose: “Non occorre che vadano;

date loro voi stessi da mangiare”. 17 Gli risposero: “Non abbiamo che cinque pani e due pesci!”. 18 Ed egli

disse: “Portatemeli qua”. 19 E dopo aver ordinato alla folla di sedersi sull’erba, prese i cinque pani e i due

pesci e, alzati gli occhi al cielo, pronunziò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli e i discepoli li

distribuirono alla folla. 20 Tutti mangiarono e furono saziati; e portarono via dodici ceste piene di pezzi

avanzati. 21 Quelli che avevano mangiato erano circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini.

Il racconto della moltiplicazione dei pani è uno degli episodi maggiormente attestati dai vangeli. L’episodio

ha quindi un elevato grado di attendibilità ed è importante per comprendere la missione di Gesù e il compito

dei discepoli. La folla segue Gesù perché ha bisogno di lui. Ed egli sente compassione per tutta quella

gente. Questo atteggiamento manifesta la misericordia che nasce da una commozione interna, viscerale.

Nel vangelo di Matteo questo atteggiamento caratteristico di Gesù lo spinge a soccorrere il popolo,

chiamando i dodici alla missione (9,36), o guarendo i malati (15,32; 20,34). In questa situazione, la

compassione di Gesù non è solo il movente della sua azione terapeutica, ma anche della donazione dei

pani.

L’atteggiamento dei discepoli ricorda le resistenze e l’incredulità del popolo d’Israele nei confronti della

potenza di Dio che si concretizza in azioni gratuite per l’uomo (Es 16,3-4; 1Re 17,12; 2Re 4,2; Sal 78,19).

Secondo l’uso tradizionale ebraico, Gesù prende il pane e pronuncia la benedizione con la quale si inizia il

pasto.

Il significato eucaristico dell’episodio è sottolineato in modo particolare: il v.19 anticipa in modo preciso il

testo della consacrazione eucaristica. Il modello dell’Antico Testamento di questo racconto è la

moltiplicazione dei pani del profeta Eliseo (2Re 4,42-44). Nelle mani di Gesù il poco diventa molto, ce n’è per

tutti, e ne avanza.

Naturalmente i discepoli non possono saziare la folla. Essi possono ben poco, come vedremo nel seguito del

vangelo a proposito della guarigione del fanciullo epilettico (Mt 17,14-20). Davanti alle folle i discepoli si

trovano a mani vuote. Anche i pastori della Chiesa stanno davanti al popolo a mani vuote: essi possono

solamente distribuire quel pane che Gesù porge loro.

22 Subito dopo ordinò ai discepoli di salire sulla barca e di precederlo sull’altra sponda, mentre egli avrebbe

congedato la folla. 23 Congedata la folla, salì sul monte, solo, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava

ancora solo lassù.

24 La barca intanto distava già qualche miglio da terra ed era agitata dalle onde, a causa del vento contrario.

25 Verso la fine della notte egli venne verso di loro camminando sul mare. 26 I discepoli, a vederlo camminare

sul mare, furono turbati e dissero: “E’ un fantasma” e si misero a gridare dalla paura. 27 Ma subito Gesù parlò

loro: “Coraggio, sono io, non abbiate paura”. 28 Pietro gli disse: “Signore, se sei tu, comanda che io venga da

te sulle acque”. 29 Ed egli disse: “Vieni!”. Pietro, scendendo dalla barca, si mise a camminare sulle acque e

andò verso Gesù. 30 Ma per la violenza del vento, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: “Signore,

salvami!”. 31 E subito Gesù stese la mano, lo afferrò e gli disse: “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?”.

32 Appena saliti sulla barca, il vento cessò. 33 Quelli che erano sulla barca gli si prostrarono davanti,

esclamando: “Tu sei veramente il Figlio di Dio!”.

34 Compiuta la traversata, approdarono a Genèsaret. 35 E la gente del luogo, riconosciuto Gesù, diffuse la

notizia in tutta la regione; gli portarono tutti i malati, 36 e lo pregavano di poter toccare almeno l’orlo del suo

mantello. E quanti lo toccavano guarivano.

Il versetto introduttivo richiama il clima che doveva essersi creato nei discepoli e nella folla dopo il miracolo

dei pani.

L’intervento energico di Gesù sui discepoli e sulla folla lascia comprendere quale piega avesse preso la

situazione. Gli apostoli, trovatisi improvvisamente al centro di una inaudita vicenda, cominciano a ricoprirsi di

una facile gloria e di un’euforia difficilmente controllabile L’evangelista Giovanni ricorda che la gente che

aveva mangiato i pani volevano rapire Gesù per farlo re (Gv 6,14-15). Davanti a questa situazione Gesù fa

imbarcare gli apostoli, manda a casa la gente e sale sul monte a pregare (v. 23; Gv 6,15).

Il monte è il luogo dell’incontro con Dio. Gesù è il Figlio e quindi ha un’esigenza infinita di stare col Padre.

Gesù è uomo e nel confronto con il Padre trova costantemente la chiarezza e il coraggio per compiere la sua

missione.

In questo testo si possono cogliere alcune reminiscenze del cantico di Mosè dopo il passaggio del mare dei

giunchi: il mare che fa affondare, le onde che si innalzano, la mano tesa, il timore e il turbamento (Es 15).

Queste annotazioni ci inducono a leggere questo brano come una teofania rivolta a “quelli della barca”, cioè

alla Chiesa del Risorto. Il Dio salvatore dell’Esodo salva nuovamente il suo popolo. L’episodio è un simbolo

della comunità cristiana perseguitata: essa non deve temere, perché il Signore è presente.

Una riflessione particolare merita l’episodio di Pietro. La sua possibilità di camminare sulle acque dipende

unicamente dalla parola del Signore: “vieni!”, e la sua forza sta tutta nella fede in Gesù. Con la fede ogni

discepolo può ripetere gli stessi miracoli del suo Signore. Ma se la fede viene a mancare, il discepolo torna

ad essere facile preda delle forze del male (rappresentate nella Bibbia dalle acque impetuose).

Il vento rappresenta il momento della prova (Mt 7,25.27) e il mare indica le forze del caos (cf. Gb 7,12; Sal

89,10-11; ecc.) sulle quali Dio esercita il suo potere (Sal 107, 25-30) sia nella creazione (Gen 1,7), sia

nell’esperienza della liberazione (Es 14,15-31).Gesù si rivela alla comunità dei suoi discepoli in mezzo alle

difficoltà di un mare agitato e ne conferma la fede, liberandoli dalla paura e dal dubbio.

L’episodio di Pietro è una specie di catechesi sulla realtà del discepolo invitato ad affidarsi totalmente al suo

Signore anche nelle situazioni che mettono in crisi la sua adesione incrollabile di fede. In questo racconto c’è

certamente un anticipo del rinnegamento e della conversione di Pietro nella burrascosa notte della settimana

di passione (Mt 26,69-75), ma egli è ormai per sempre riabilitato e la sua fede è diventata esemplare come

lo è stata la sua diffidenza.

Solo alla fine la comunità dei discepoli, educata nella fede in mezzo alle sue prove, fa la professione

esplicita di fede in Gesù: “Tu sei veramente il Figlio di Dio”.

Il tema centrale del brano è, dunque, la fede. La situazione di Pietro dimostra chiaramente che la fede in

Gesù non è esclusivamente ragionevolezza o avvedutezza razionale. Credere è osare. Chi osa credere è

sorretto da colui nel quale crede. La fede è obbedienza (vv. 28-29). Chi pratica l’obbedienza della fede

ottiene di partecipare all’essere, ai poteri di Cristo.

Gesù, nonostante la crescente ostilità dei capi, è circondato da innumerevoli persone che nella loro miseria

fisica fanno assegnamento su di lui. Il racconto mette in chiaro che il farsi carico della miseria umana

costituisce un presupposto indispensabile per una trasmissione del vangelo degna di fede.

Il v. 35 precisa che la gente del luogo riconosce Gesù e diffonde la notizia in tutta la regione: il conoscere

Gesù muove all’apostolato.

L’orlo del mantello era destinato a riportare continuamente alla memoria la fedeltà ai comandamenti (Nm

15,37-39). Il profeta Zaccaria aveva annunziato che, nei tempi messianici, dieci uomini (di tutte le lingue del

mondo, secondo la traduzione dei LXX ) avrebbero afferrato un ebreo per il lembo del mantello, dicendo:

“Vogliamo venire con te, perché abbiamo compreso che Dio è con voi” (Zc 8,23 ). E’ probabile che Matteo

pensi a questo testo: nel momento in cui la patria di Gesù non lo riconosce e si chiude alla comprensione del

Regno, i popoli pagani lo riconoscono e gli fanno guarire i loro malati.

La missione di Gesù viene ribadita e ricordata ai discepoli. Egli è un profeta, ma soprattutto è un terapeuta.

L’annuncio del vangelo non è solo la presentazione di una dottrina, ma soprattutto un progetto di salvezza in

cui si realizza la fine del peccato, delle malattie, della sofferenza, del dolore. La lotta al male è il primo

impegno che Gesù si assume e comanda ai suoi discepoli. Dimenticarlo, con la scusa degli impegni

superiori dello spirito, è tradire la volontà di Dio. Il banco di prova della fede proclamata dalla Chiesa è

l’impegno fattivo sul piano umano e storico (cfr Mt 7,21-23; 25,35-46).

Gesù, Signore della natura e della storia, libera dal male e dalla morte, paure che attanagliano e bloccano

l’uomo. Per superare queste angosce bisogna avere una fede adulta che conduce a una visione fiduciosa

della storia che viene portata a compimento da Dio.

catechism illustration, French School late 19th century.JPG

Capitolo quindicesimo

1 In quel tempo vennero a Gesù da Gerusalemme alcuni farisei e alcuni scribi e gli dissero: 2 “Perché i tuoi

discepoli trasgrediscono la tradizione degli antichi? Poiché non si lavano le mani quando prendono cibo!”. 3

Ed egli rispose loro: “Perché voi trasgredite il comandamento di Dio in nome della vostra tradizione? 4 Dio ha

detto:

Onora il padre e la madre

e inoltre:

Chi maledice il padre e la madre sia messo a morte.

5 Invece voi asserite: Chiunque dice al padre o alla madre: Ciò con cui ti dovrei aiutare è offerto a Dio, 6 non

è più tenuto a onorare suo padre o sua madre. Così avete annullato la parola di Dio in nome della vostra

tradizione. 7 Ipocriti! Bene ha profetato di voi Isaia, dicendo:

8 Questo popolo mi onora con le labbra

ma il suo cuore è lontano da me.

9 Invano essi mi rendono culto,

insegnando dottrine che sono precetti di uomini”.

10 Poi riunita la folla disse: “Ascoltate e intendete! 11 Non quello che entra nella bocca rende impuro l’uomo,

ma quello che esce dalla bocca rende impuro l’uomo!”.

12 Allora i discepoli gli si accostarono per dirgli: “Sai che i farisei si sono scandalizzati nel sentire queste

parole?”. 13 Ed egli rispose: “Ogni pianta che non è stata piantata dal mio Padre celeste sarà sradicata. 14

Lasciateli! Sono ciechi e guide di ciechi. E quando un cieco guida un altro cieco, tutti e due cadranno in un

fosso!”. 15 Pietro allora gli disse: “Spiegaci questa parabola”. 16 Ed egli rispose: “Anche voi siete ancora

senza intelletto? 17 Non capite che tutto ciò che entra nella bocca, passa nel ventre e va a finire nella fogna?

18 Invece ciò che esce dalla bocca proviene dal cuore. Questo rende immondo l’uomo. 19 Dal cuore, infatti,

provengono i propositi malvagi, gli omicidi, gli adultèri, le prostituzioni, i furti, le false testimonianze, le

bestemmie. 20 Queste sono le cose che rendono immondo l’uomo, ma il mangiare senza lavarsi le mani non

rende immondo l’uomo”.

Gesù insegna che è la parola di Dio che conta e non le spiegazioni aggiunte degli uomini. L’abilità di

confondere le proprie tradizioni con la volontà di Dio è una malattia religiosa che può manifestarsi

dappertutto, anche nella comunità cristiana. I rimproveri che Gesù rivolge ai suoi interlocutori, citando Isaia,

sono due: una religiosità superficiale anziché una appartenenza profonda a Dio; una morale che smarrisce

l’autentica volontà di Dio nel cumulo delle interpretazioni umane.

Con l’espressione “la vostra tradizione” (v. 3) Gesù prende le distanze dalla tradizione degli antichi, che i

farisei avevano eretto a steccato in difesa della legge. Le dettagliate e scrupolose prescrizioni contenute

nella tradizione orale dovevano impedire le trasgressioni della legge scritta. Servendosi di un esempio, egli

controbatte che essi, per amore della propria tradizione, trasgrediscono il comandamento di Dio. Il quarto

comandamento non si rivolge ai bambini, ma agli adulti. L’onore dovuto ai genitori va inteso in modo

concreto. Secondo una spiegazione rabbinica esso comporta: dar loro da mangiare e da bere, vestirli e

proteggerli, condurli dentro e fuori. Presso gli ebrei il quarto comandamento era ritenuto il più difficile tra i

comandamenti difficili.

Alla citazione di Es 20,12 viene subito aggiunto Es 21,17: “Chi insulta il padre o la madre sia messo a

morte”. Maledire i genitori comporta un danno grave. Ai trasgressori del quarto comandamento è rivolta la

minaccia di morte (Lv 20,9; Pr 28,24). Per primi sono colpiti coloro che hanno istituito la pratica del qorbàn

quale tradizione che si appella a Nm 30,3: “Quando uno avrà fatto un voto al Signore o si sarà obbligato con

giuramento a un’astensione, non violi la sua parola, ma dia esecuzione a quanto ha promesso con la bocca”.

Matteo non riporta il termine qorbàn, ma la formula conclusiva: “Sia offerta sacra ciò che ti è dovuto da me”.

Chi pronunciava questa formula di giuramento alla presenza dei genitori sottraeva loro l’usufrutto dei propri

beni, consacrandoli al tempio. Di fatto, tutto questo non era che una finzione, poiché il figlio non era tenuto a

consegnare al tempio i beni dichiarati qorbàn. La logica che ci sta dietro è che un giuramento, in quanto

servizio prestato a Dio, ha un valore superiore al quarto comandamento. A questo allude il v. 6: “non è più

tenuto a onorare il proprio padre”.

Per Gesù il servizio a Dio e il servizio all’uomo sono indivisibili. Chi intende servire Dio agendo senza amore

si trova sulla strada sbagliata. Recare danno ai genitori richiamandosi al nome di Dio è la degenerazione

della religione. Di fronte alle contraddizioni tra le leggi umane e quelle divine troviamo una facile soluzione

riferendoci al comandamento dell’amore. Tutto ciò che si rivolge contro il comandamento dell’amore è

riprovevole, contrario a Dio, e dev’essere rifiutato.

Citando Isaia 29,13 Gesù si rivolge contro la pietà esteriorizzata e il ritualismo. La vera religione è avere il

cuore presso Dio ed essere totalmente conformi alla sua volontà.

Gesù risponde alla domanda dei farisei e degli scribi: “Perché i tuoi discepoli trasgrediscono la tradizione

degli antichi? Poiché non si lavano le mani quando prendono cibo!”. Egli insegna che il mangiare con mani

non lavate non rende impuro l’uomo. La vera impurità invece viene dal cuore. Il cuore dell’uomo, quale sede

del volere, delle aspirazioni e degli affetti è la fonte da cui il male emerge, si esprime nella vita, lo rende

impuro e avvelena il suo ambiente.

Il male che nasce dal cuore dell’uomo viene esemplificato con un elenco di vizi in sette punti. I farisei e gli

scribi con la loro lavanda rituale delle mani distolgono gli uomini dalla sostanza del problema del male.

Questo è uno dei brani più dirompenti del Vangelo. Sono importanti soprattutto due punti.

– La critica alla religione. Non la critica fanatica e distruttrice, ma quella costruttiva, quella fatta per amore

della vera fede.

– La critica alla tradizione. La tradizione è necessaria, ma non deve rendersi autonoma rispetto al principio

da cui deriva. Le tradizioni corrono il pericolo di essere ritenute più importanti del principio su cui si fondano.

Certe tradizioni possono rendere comodo il cristianesimo. E sono soprattutto le tradizioni comode e redditizie

le più difficili da eliminare in modo radicale.

21 Partito di là, Gesù si diresse verso le parti di Tiro e Sidone. 22 Ed ecco una donna Cananèa, che veniva da

quelle regioni, si mise a gridare: “Pietà di me, Signore, figlio di Davide. Mia figlia è crudelmente tormentata

da un demonio”. 23 Ma egli non le rivolse neppure una parola.

Allora i discepoli gli si accostarono implorando: “Esaudiscila, vedi come ci grida dietro”. 24 Ma egli rispose:

“Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa di Israele”. 25 Ma quella venne e si prostrò dinanzi

a lui dicendo: “Signore, aiutami!”. 26 Ed egli rispose: “Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai

cagnolini”. 27 “E’ vero, Signore, disse la donna, ma anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla

tavola dei loro padroni”. 28 Allora Gesù le replicò: “Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come

desideri”. E da quell’istante sua figlia fu guarita.

Dopo l’aspra controversia con i farisei e gli scribi, ai quali aveva rimproverato l’ipocrisia e la lontananza da

Dio, Gesù incontra in terra pagana una donna che gli dimostra una grande fede.

I discepoli, come al solito (cfr Mt 14,15; 19,13), non amano il prossimo, non vogliono seccature e chiedono a

Gesù di mandare via la donna, escludendo così un intervento di soccorso e reagendo sgarbatamente alle

sue grida.

In questo brano sono messi a confronto Israele e i pagani. Gesù dimostra di essere il vero Messia d’Israele

perché sa di essere inviato, nel suo cammino terreno, solo a questo popolo.

Con questo episodio Gesù insegna che il vangelo della salvezza è aperto anche ai pagani. Ma la salvezza di

Dio deve seguire un itinerario storico e geografico prima di raggiungere la totalità dei popoli.

Gesù chiede alla donna cananea il riconoscimento della priorità d’Israele alla salvezza, perché questa è la

volontà di Dio manifestata attraverso la storia e le scelte dell’Antico Testamento.

Il dialogo didattico tra Gesù e la cananea culmina nella fede. La fede in Gesù deciderà il cammino d’Israele e

dei popoli.

29 Allontanatosi di là, Gesù giunse presso il mare di Galilea e, salito sul monte, si fermò là. 30 Attorno a lui si

radunò molta folla recando con sé zoppi, storpi, ciechi, sordi e molti altri malati; li deposero ai suoi piedi, ed

egli li guarì. 31 E la folla era piena di stupore nel vedere i muti che parlavano, gli storpi raddrizzati, gli zoppi

che camminavano e i ciechi che vedevano. E glorificava il Dio di Israele.

32 Allora Gesù chiamò a sé i discepoli e disse: “Sento compassione di questa folla: ormai da tre giorni mi

vengono dietro e non hanno da mangiare. Non voglio rimandarli digiuni, perché non svengano lungo la

strada”. 33 E i discepoli gli dissero: “Dove potremo noi trovare in un deserto tanti pani da sfamare una folla

così grande?”. 34 Ma Gesù domandò: “Quanti pani avete?”. Risposero: “Sette, e pochi pesciolini”. 35 Dopo

aver ordinato alla folla di sedersi per terra, 36 Gesù prese i sette pani e i pesci, rese grazie, li spezzò, li dava

ai discepoli, e i discepoli li distribuivano alla folla. 37 Tutti mangiarono e furono saziati. Dei pezzi avanzati

portarono via sette sporte piene. 38 Quelli che avevano mangiato erano quattromila uomini, senza contare le

donne e i bambini. 39 Congedata la folla, Gesù salì sulla barca e andò nella regione di Magadàn.

Questo testo rimanda alle profezie di Isaia per il tempo messianico (Is 35,5-6). Solo una comunità risanata e

liberata dai suoi mali può essere invitata alla festa messianica, anticipata nel segno del pane distribuito a

tutti con abbondanza.

Nel vangelo di Matteo il monte è il luogo della rivelazione di Dio, sia mediante la parola (5,1; 28,16), sia

attraverso i gesti di soccorso (14,23). Gesù realizza qui quanto aveva promesso nel brano delle beatitudini: i

poveri, gli afflitti e gli affamati trovano la consolazione e la sazietà.

Egli ha compassione per il popolo che lo segue da tre giorni e ha esaurito le provviste di cibo. Questa

compassione è attribuita spesso a Gesù dal vangelo di Matteo che lo presenta come il messia

misericordioso. E’ una commozione interna e viscerale, un sentire profondo e intenso che spinge Gesù a

soccorrere il suo popolo mediante la missione dei dodici (9, 36), le guarigioni (14,13; 20,24) e la

moltiplicazione del pane (14,14).

La fame e la miseria sono un male, e Gesù comanda ai suoi discepoli di combatterle, segnalando loro con

fatti concreti la direzione da seguire. Egli ha cominciato, i suoi discepoli devono portare a termine la sua

opera. Se l’azione dei cristiani non distrugge i mali che tormentano la vita dell’uomo, non ricalca quella del

Cristo.

Gesù recita la benedizione sul pane, atto proprio del capofamiglia, che riconosce così Dio quale datore dei

beni per il sostentamento dell’uomo. La sequenza dei verbi prendere, benedire, spezzare, dare costituisce la

natura delle benedizioni ebraiche e allude all’ultima cena.

I cristiani che partecipano alla cena del Signore o che rileggono il miracolo della moltiplicazione del pane

sono chiamati a spezzare con Gesù il pane e la stessa vita per gli altri.

Il cristiano, saziato dal Cristo, offrirà a tutti l’abbondanza dei beni ricevuti: la pace, la felicità, l’amicizia con

Dio e con i propri fratelli. La beneficenza materiale e spirituale instaura il regno di Dio sulla terra.

La Chiesa deve prendersi cura anche del benessere materiale degli uomini, e ciò si contrappone alle

interpretazioni spiritualizzanti del cristianesimo. Nella pratica dovrebbe essere riscoperta l’unità del

significato del pasto fraterno e del pasto eucaristico.

Vangelo di Gesù Cristo secondo MATTEO 7ultima modifica: 2011-02-27T17:07:00+01:00da meneziade
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