1 Venuto il mattino, tutti i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo tennero consiglio contro Gesù, per farlo
morire. 2 Poi, messolo in catene, lo condussero e consegnarono al governatore Pilato.
3 Allora Giuda, il traditore, vedendo che Gesù era stato condannato, si pentì e riportò le trenta monete
d’argento ai sommi sacerdoti e agli anziani 4 dicendo: “Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente”. Ma
quelli dissero: “Che ci riguarda? Veditela tu!”. 5 Ed egli, gettate le monete d’argento nel tempio, si allontanò e
andò ad impiccarsi. 6 Ma i sommi sacerdoti, raccolto quel denaro, dissero: “Non è lecito metterlo nel tesoro,
perché è prezzo di sangue”. 7 E tenuto consiglio, comprarono con esso il Campo del vasaio per la sepoltura
degli stranieri. 8 Perciò quel campo fu denominato “Campo di sangue’ fino al giorno d’oggi. 9 Allora si adempì
quanto era stato detto dal profeta Geremia: E presero trenta denari d’argento, il prezzo del venduto, che i
figli di Israele avevano mercanteggiato, 10 e li diedero per il campo del vasaio, come mi aveva ordinato il
Signore.
I primi due versetti riepilogano il contenuto del capitolo 27. Gesù è condannato a morte. L’organo esecutivo
è il governatore romano. La forza motrice sono i sommi sacerdoti e gli anziani di Israele. Gesù è il giusto
sofferente che è consegnato ai pagani dai capi del suo popolo.
Giuda, dopo aver tradito e venduto Gesù, prova rimorso per quello che ha fatto. Con la restituzione del
denaro intende annullare l’accordo fatto con i sommi sacerdoti (cf. 26,15). La restituzione è collegata alla
confessione del suo peccato di aver consegnato un innocente. Nel Deuteronomio si legge: Sia maledetto chi
si lascia corrompere per uccidere un innocente. E tutto il popolo rispondendo dica: Amen” (Dt 27,25). Nel
contesto di Matteo la confessione del peccato da parte di Giuda ha una duplice funzione: apre la serie delle
asserzioni che attestano l’innocenza di Gesù (cf. vv. 19.24) e attribuisce la colpa ai capi giudei e al popolo.
E’ come un invito a costoro a lasciar stare Gesù. Il che però non avviene. Le espressioni: “Che ce ne
importa? Veditela tu” (v. 4) tentano di scaricare tutta la responsabilità su Giuda.
La reazione di Giuda è la disperazione. Egli getta via i denari nel tempio. Dietro questo gesto dovrebbe
esserci una determinata prassi giuridica. Nel trattato della Mishna Arabin 9,4 è previsto, come direttiva di
Hillel il Vecchio, il caso seguente: entro dodici mesi, chi ha venduto ha il diritto di priorità nel riacquisto di ciò
che è stato venduto. Se chi ha comprato si nasconde per evitare che ciò avvenga, il denaro dev’essere
gettato nell’atrio del tempio. Il compratore allora, se vuole, può riprendersi il suo denaro. In analogia con
questo caso, Giuda getta i denari nel tempio, per annullare la vendita di Gesù.
Il profeta Zaccaria parla di un pastore del popolo che ha cessato il suo servizio, al quale, per offenderlo, è
stata proposta la ricompensa umiliante di trenta denari d’argento. Ma il Signore gli comanda di gettare il
denaro al fonditore del tempio. “E io presi le trenta monete d’argento e le gettai nella casa del Signore al
fonditore” (cf Zc 11,12-13). Allo stesso modo Giuda getta il denaro. Resosi conto che la sua offerta non
viene accettata, si toglie la vita. I capi d’Israele vengono coinvolti nel suo destino.
I sommi sacerdoti raccolgono i denari, ma non li depongono nel tesoro del tempio. La proibizione è suggerita
dal Deuteronomio: “Non porterai nel tempio di Jahvè, tuo Dio, la paga di una prostituta né il salario di un
cane (il pagano infedele)” (Dt 23,19). Su Deuteronomio 23,19, cioè su ciò che si debba fare di questo
denaro, c’è un’ampia discussione rabbinica. Le opinioni si orientano nel senso che lo si debba utilizzare per
necessità pubbliche. Si menzionano strutture quali bagni, cisterne, latrine pubbliche. L’acquisto del cimitero
per stranieri si inquadra in questo contesto.
Matteo è l’unico evangelista a riferire la morte di Giuda. Il suicidio per impiccagione rievoca la morte di
Achitofel, intimo compagno e traditore del re Davide (2Sam 17,23). L’adempimento delle Scritture (Zc 11,11-
13; Ger 18,2-3; 19,1-2 e forse 32,6-15) mostra ancora una volta che il disegno di Dio passa attraverso le
azioni umane, anche le più orribili.
Gesù, che tra i figli d’lsraele è il tesoro nascosto e la perla preziosa (13,44-46), viene venduto per il prezzo di
uno schiavo o di un animale per il sacrificio. Il riferimento di Matteo a Zc 11,12-13 non è di facile
comprensione. Il significato più probabile sembra questo: nel testo di Zaccaria un profeta pastore, inviato da
Dio, fu valutato in Israele trenta sicli d’argento; il Cristo è venduto per la stessa cifra irrisoria. Confrontato con
il testo di Zaccaria, che parla dell’intero Israele, Giuda assume una dimensione tipica: è il simbolo del popolo
di Dio che vende per poco il suo Messia.
Al centro di questo brano non c’è Giuda e il suo destino, ma i sommi sacerdoti e gli anziani. Il fatto
importante non è la fine del discepolo di Gesù, ma il destino teologico del popolo giudaico, il quale non resta
indenne dalle iniziative dei suoi capi. Giuda, invece, col suo riconoscimento dell’innocenza di Gesù, appare
in una luce migliore.
11 Gesù intanto comparve davanti al governatore, e il governatore l’interrogò dicendo: “Sei tu il re dei
Giudei?”. Gesù rispose “Tu lo dici”. 12 E mentre lo accusavano i sommi sacerdoti e gli anziani, non
rispondeva nulla. 13 Allora Pilato gli disse: “Non senti quante cose attestano contro di te?”. 14 Ma Gesù non
gli rispose neanche una parola, con grande meraviglia del governatore.
15 Il governatore era solito, per ciascuna festa di Pasqua, rilasciare al popolo un prigioniero, a loro scelta. 16
Avevano in quel tempo un prigioniero famoso, detto Barabba. 17 Mentre quindi si trovavano riuniti, Pilato
disse loro: “Chi volete che vi rilasci: Barabba o Gesù chiamato il Cristo?”. 18 Sapeva bene infatti che glielo
avevano consegnato per invidia.
19 Mentre egli sedeva in tribunale, sua moglie gli mandò a dire: “Non avere a che fare con quel giusto;
perché oggi fui molto turbata in sogno, per causa sua”. 20 Ma i sommi sacerdoti e gli anziani persuasero la
folla a richiedere Barabba e a far morire Gesù. 21 Allora il governatore domandò: “Chi dei due volete che vi
rilasci?”. Quelli risposero: “Barabba!”. 22 Disse loro Pilato: “Che farò dunque di Gesù chiamato il Cristo?”.
Tutti gli risposero: “Sia crocifisso!”. 23 Ed egli aggiunse: “Ma che male ha fatto?”. Essi allora urlarono: “Sia
crocifisso!”.
24 Pilato, visto che non otteneva nulla, anzi che il tumulto cresceva sempre più, presa dell’acqua, si lavò le
mani davanti alla folla: “Non sono responsabile, disse, di questo sangue; vedetevela voi!”. 25 E tutto il popolo
rispose: “Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli”. 26 Allora rilasciò loro Barabba e, dopo aver
fatto flagellare Gesù, lo consegnò ai soldati perché fosse crocifisso.
Il racconto del processo di Gesù di fronte a Pilato sviluppa il tema della regalità di Gesù: il titolo “re dei
Giudei” appare all’inizio del racconto (27,11) e alla fine (27,29). L’evangelista non perde occasione per
sottolineare che Gesù è innocente. Giuda afferma di aver tradito “sangue innocente” (v. 4), la moglie di
Pilato lo chiama “uomo giusto” (v. l9) e Pilato ne riconosce pubblicamente l’innocenza (v. 25).
Il Cristo che è stato venduto da Giuda per trenta denari, qui viene barattato con Barabba. Pietro ricorderà
questo fatto nel suo discorso al popolo in At 3,13-15: “Voi avete consegnato e rinnegato Gesù di fronte a
Pilato, mentre egli aveva deciso di liberarlo; voi avete rinnegato il Santo e il Giusto, avete chiesto che vi
fosse graziato un assassino, e avete ucciso l’autore della vita”. Scegliendo Barabba che dà la morte invece
di Cristo che dà la vita, essi hanno preferito la morte alla vita. Rifiutare Cristo implica sempre e
necessariamente scegliere Barabba.
Matteo precisa che è tutto il popolo (pas o laós: v. 25), e non solo i capi, che prende su di sé la
responsabilità di cui Pilato cerca invano di liberarsi lavandosi le mani e proclamando: “Non sono
responsabile di questo sangue; vedetevela voi!” (v. 24). Questo grido: “Il suo sangue ricada sopra di noi e
sopra i nostri figli” ha fatto scorrere molto inchiostro e anche molto sangue. Per secoli si è scaricato
sbrigativamente il delitto sulla testa degli ebrei. Ma chi sono in realtà i responsabili della morte di Gesù? Il
sangue di Gesù è stato versato per tutti , in remissione dei peccati (26,28): ogni uomo è responsabile della
morte di Cristo in proporzione dei suoi peccati. Gli evangelisti hanno compreso che la responsabilità della
morte di Gesù non poteva gravare solo sulle spalle di un popolo determinato o di alcuni individui che, come
sottolinea Luca, “non sapevano quello che facevano” (Lc 23,24).
Secondo la concezione biblica, il mondo religioso era diviso in ebrei e gentili. Tutti, ebrei e gentili, sia perché
l’hanno ucciso, sia perché da lui sono stati salvati, hanno preso parte alla morte di Gesù. In realtà solo il
cristiano può essere chiamato deicida perché è il solo a conoscere la vera identità di Gesù Cristo che egli
mette a morte a causa delle sue infedeltà (cfr. Eb 6,6).
Pilato interroga Gesù: “Tu sei il re dei giudei?” La risposta di Gesù: “Tu lo dici” può essere intesa soltanto nel
senso di un sì. Il sì però richiede un’interpretazione: in quale senso va intesa questa rivendicazione?
L’interpretazione si avrà nella scena degli scherni e sulla croce.
I sommi sacerdoti e gli anziani compaiono nel processo come accusatori. Gesù persiste nel silenzio, il che
induce il governatore a invitarlo di nuovo a parlare. Ma Gesù non risponde nemmeno una parola. L’accusa
dei malvagi e il silenzio del giusto sono motivi che si incontrano anche nei salmi che trattano delle sofferenze
del giusto (Sal 37,123; 38,14-16; ecc.). La meraviglia di Pilato fa supporre una certa perplessità. Anche il
fatto che egli parli soltanto con Gesù e non con i capi del popolo fa capire che non è maldisposto verso di lui.
L’interrogatorio subisce una svolta. La festa di Pasqua offre la possibilità di liberare un carcerato. La scelta
del carcerato da graziare dipende dal popolo. Con le parole “quello che volevano” è annunciato l’ingresso
del vero protagonista, il popolo, la cui ressa davanti al governatore è descritta come una ufficiale assemblea
popolare. Ma Pilato limita la possibilità di scelta a due. Il fatto sorprendente sta nel fatto che entrambi si
chiamano Gesù e ambedue hanno un soprannome: Gesù il Barabba e Gesù il Cristo. Barabba significa figlio
del padre. Era il nome che si dava ai figli di padre ignoto. Il Figlio del Padre viene messo a confronto con il
figlio senza padre. E la bilancia pende a favore di quest’ultimo. In un’informazione aggiunta veniamo a
sapere che Pilato ha intuito il motivo che spingeva i capi del popolo ha chiedere la condanna di Gesù:
l’invidia. Anche questo dettaglio fa apparire Pilato in una luce migliore, mentre getta un’ombra cupa sui capi
dei giudei.
Un intermezzo interrompe il corso dell’azione. Ricordiamo che già nei racconti dell’infanzia di Gesù i sogni
vengono interpretati come direttive di Dio (Mt 1,20; 2,12.13.19). Così anche qui Pilato riceve una direttiva
dello stesso genere tramite il sogno che sua moglie ha fatto nella notte precedente. In luogo del contenuto
del sogno, sentiamo parlare soltanto del tormento che esso ha provocato alla donna. Il sogno dunque ha
preannunciato una sventura. La preoccupazione della donna riguarda il marito. Nello svolgimento del
racconto il sogno significa che d’ora in avanti Pilato si convince sempre più dell’innocenza di Gesù.
I sommi sacerdoti e gli anziani che avevano fatto la parte degli accusatori, convincono la folla non soltanto a
scegliere Barabba, ma anche a chiedere la morte di Gesù. Pilato formula la domanda in modo tale da
lasciare ogni decisione al popolo. L’ultima domanda: “Ma che male ha fatto?”, non riceve alcuna risposta. E’
sommersa dall’urlo della folla: “Sia crocifisso!”. A pronunciare la condanna è la folla.
Di fronte al tumulto crescente, il governatore si rende conto di non riuscire ad ottenere nulla e si dichiara
innocente del sangue di Gesù. La lavanda delle mani di fronte alla folla può essere compresa soltanto
partendo dalle sue premesse bibliche. Echeggia qui il detto del salmo 25,6: “Laverò nell’innocenza le mie
mani”. Per comprendere questa espressione si può portare a confronto il rito dell’espiazione di
Deuteronomio 21,1-9 che doveva essere eseguito quando si trovava qualcuno che era stato ucciso e non se
ne conosceva l’assassino. Gli anziani della città dovevano uscire e versare in un ruscello il sangue di una
giovenca sgozzata, lavarsi le mani e dichiarare: “Le nostre mani non hanno versato questo sangue e i nostri
occhi non hanno visto nulla”. Sullo sfondo c’è la concezione arcaica del sangue versato che, come un potere
malefico, minaccia l’autore dell’omicidio e tutti coloro che entrano in contatto con il sangue. Considerati su
questo sfondo, il gesto e le parole di Pilato vogliono allontanare da lui il potere malefico del sangue versato.
Egli considera la morte di Gesù un’ingiustizia e in tal modo dichiara pubblicamente che Gesù è innocente. La
frase di Pilato ci richiama alla mente il versetto 4 nel quale Giuda, i sacerdoti e gli anziani cercano di liberarsi
dal “sangue innocente” di Gesù. La frase di Pilato alla folla –uméis ópsesthe – può essere tradotta in due
modi: “Vedetevela voi!”, e questa traduzione va preferita, anche a motivo della concordanza del v. 4:
“Veditela tu!”. Ma potrebbe essere tradotta anche: “Lo vedrete!”. In quest’ultimo senso sarebbe riferita alla
distruzione di Gerusalemme, avvenuta nei mesi di agosto e settembre dell’anno 70 d.C. Il grido della folla
invoca su di sé e sulla propria discendenza la sventura connessa al sangue versato del Cristo Gesù.
Nel testo che abbiamo letto, tutto il popolo d’Israele viene dichiarato responsabile del sangue di Cristo. Ma
dobbiamo anche ricordare che Gesù nell’ultima cena aveva indicato il suo sangue come sangue
dell’alleanza versato per tutti in remissione dei peccati (26,28). Quindi il sangue di Gesù è stato versato
anche per la remissione di questo peccato di cui il popolo dei giudei è responsabile. Il perdono dei peccati
riguarda tutti e quindi anche gli ebrei. Se poi teniamo presente che il sangue di Cristo è stato versato per la
remissione dei peccati di tutti, allora dobbiamo concludere che ognuno è colpevole della morte di Cristo per il
fatto di esser peccatore. Ognuno per la sua parte.
27 Allora i soldati del governatore condussero Gesù nel pretorio e gli radunarono attorno tutta la coorte. 28
Spogliatolo, gli misero addosso un manto scarlatto 29 e, intrecciata una corona di spine, gliela posero sul
capo, con una canna nella destra; poi mentre gli si inginocchiavano davanti, lo schernivano: “Salve, re dei
Giudei!”. 30 E sputandogli addosso, gli tolsero di mano la canna e lo percuotevano sul capo. 31 Dopo averlo
così schernito, lo spogliarono del mantello, gli fecero indossare i suoi vestiti e lo portarono via per
crocifiggerlo.
La scena degli oltraggi al re dei giudei (vv. 27-31) è l’eco di quella che Cristo profeta aveva subito davanti al
sinedrio (26,67-68) e si prolunga fino al Calvario, come indica il verbo “schernire” ripreso tre volte da Matteo
(vv. 29-31,41). Matteo sottolinea il carattere ridicolo e mostruoso: il re mite e umile (21,5), rivestito di un
mantello scarlatto (vv. 28.31), coronato di spine e con uno scettro di canna in mano è selvaggiamente
schernito e picchiato: la profezia del Servo sofferente (Is 52,13—53,12) si realizza. La regalità di Gesù
appare in tutto il suo vero splendore e nel suo vero senso soltanto nel contesto della passione della croce.
La regalità di Dio, apparsa in Gesù, è diversa dagli schemi umani: è tanto diversa da sembrare una burla.
Gesù l’aveva già detto in 20,25-28: “I capi delle nazioni, voi lo sapete, dominano su di esse e i grandi
esercitano su di esse il loro potere. Non così dovrà essere tra voi; ma colui che vorrà diventare grande tra
voi, si farà vostro servo, e colui che vorrà essere il primo tra voi, si farà vostro schiavo; appunto come il Figlio
dell’uomo, che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti”. C’è
dunque una differenza radicale tra la regalità del mondo e quella di Cristo; fra le manifestazioni della prima e
quelle della seconda. La regalità del mondo si manifesta nella potenza, nell’imposizione, nella salvezza di
sé; quella di Cristo nel servizio, nell’amore, nella salvezza degli altri. Il mondo non capisce la regalità di
Cristo, la rifiuta come una burla. Cristo crocifisso è scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani (1Cor 1,23).
Ma anche i cristiani (per amore del Maestro, per renderlo meno… sbagliato, più amabile, più accettabile !!!)
tentano di modificare la regalità di Gesù per farla simile a quella dei re di questo mondo. Le scene più crude
del vangelo sono diventate opere d’arte e la croce di Cristo un gingillo di materiali preziosi.
Il Cristo sfigurato e oltraggiato è la massima espressione del fatto che nell’uomo Gesù si è manifestato Dio.
Lasciandosi oltraggiare e sfigurare dagli uomini, egli restaura per essi quell’immagine di Dio che l’uomo deve
diventare.
32 Mentre uscivano, incontrarono un uomo di Cirene, chiamato Simone, e lo costrinsero a prender su la
croce di lui. 33 Giunti a un luogo detto Gòlgota, che significa luogo del cranio, 34 gli diedero da bere vino
mescolato con fiele; ma egli, assaggiatolo, non ne volle bere. 35 Dopo averlo quindi crocifisso, si spartirono le
sue vesti tirandole a sorte. 36 E sedutisi, gli facevano la guardia. 37 Al di sopra del suo capo, posero la
motivazione scritta della sua condanna: “Questi è Gesù, il re dei Giudei”.
38Insieme con lui furono crocifissi due ladroni, uno a destra e uno a sinistra.
39 E quelli che passavano di là lo insultavano scuotendo il capo e dicendo: 40 “Tu che distruggi il tempio e lo
ricostruisci in tre giorni, salva te stesso! Se tu sei Figlio di Dio, scendi dalla croce!”. 41 Anche i sommi
sacerdoti con gli scribi e gli anziani lo schernivano: 42 “Ha salvato gli altri, non può salvare se stesso. È il re
d’Israele, scenda ora dalla croce e gli crederemo. 43 Ha confidato in Dio; lo liberi lui ora, se gli vuol bene. Ha
detto infatti: Sono Figlio di Dio!”. 44 Anche i ladroni crocifissi con lui lo oltraggiavano allo stesso modo.
Le esecuzioni capitali avvenivano davanti alla porta della città. Il fatto che Simone sia costretto a prendere
su di sé la croce di Gesù vuol dire che fino a quel momento Gesù l’aveva portata da solo. A causa della
grave flagellazione subita, ora non ce la fa più. Simone è costretto a prestare questo servizio, come usavano
fare i soldati della potenza occupante obbligando la popolazione civile a tali servizi umilianti (cf. Mt 5,4).
Obbligato a camminare a fianco di un condannato a morte, Simone deve essersi sentito disonorato. Per la
comunità cristiana egli costituisce un testimone importante dell’avvenimento. Infatti più tardi divenne
probabilmente cristiano, come fa pensare il fatto che nel Vangelo di Marco 15,21 viene presentato come
persona nota ai lettori del Vangelo in quanto padre di Alessandro e Rufo. Il luogo dell’esecuzione è il
Golgota che viene tradotto luogo del cranio. nome che forse deriva dalla forma a cranio della roccia che
costituiva il Golgota.
Era usanza presso gli ebrei porgere al condannato una bevanda inebriante, perché potesse sopportare
meglio i tormenti. Per questa usanza ci si richiama al libro dei Proverbi 31,6: “Date bevande inebrianti a chi
sta per morire e il vino a chi ha l’amarezza nel cuore”. Matteo con la sua formulazione allude al salmo 68,22:
“Mi diedero il fiele come nutrimento, e per la mia sete mi dissetarono con aceto”. Gesù assaggia la bevanda
ma non la beve.
Anche la spartizione delle vesti per sorteggio è modellata sul salmo 22,19: “Si divisero le mie vesti, sul mio
vestito gettarono la sorte”. L’annotazione che i soldati stavano seduti e facevano la guardia, prepara
l’episodio della guardia al sepolcro (vv. 62-66). Il Gesù crocifisso e morto è rimasto costantemente sotto la
sorveglianza dei soldati.
Era usanza rendere nota pubblicamente la colpa del condannato. In Matteo la dichiarazione di colpa diventa
proclamazione: “Questi è Gesù, il re dei giudei”. Soltanto a questo punto del racconto veniamo a saper che
assieme a Gesù sono crocifissi due malfattori. I malfattori costituiscono la corte di questo re. La scena
ricorda il quarto carme del Servo di Jahvè: “E’ stato annoverato tra i malfattori” (Is 53,12).
Tre gruppi di derisori lanciano contro Gesù i loro scherni. Qui il testo ha un verbo specifico per ciascun
gruppo: i passanti bestemmiano, i membri del sinedrio scherniscono, i due crocifissi insultano. Nell’Antico
Testamento lo scuotere il capo è un’espressione di disprezzo. Un passo particolarmente vicino a questo,
riferito a Gerusalemme devastata, è il libro delle Lamentazioni 2,15: “Tutti coloro che passano per la via…
scuotono il capo”. L’invito a salvare se stesso allude al potere di Gesù. L’invito a scendere dalla croce è
l’ultima richiesta di un segno che i non credenti rivolgono a Gesù.
A Matteo preme far notare che i rappresentanti di tutti e tre i gruppi del sinedrio hanno preso parte agli
scherni. Essi ripetono e ampliano le parole beffarde di coloro che hanno appena parlato. Si rifanno ai
miracoli di Gesù (“ha salvato gli altri”) e, riferendosi alla sua rivendicazione messianica, lo chiamano re
d’Israele. La richiesta espressa dai componenti del sinedrio, che Gesù dia un segno scendendo dalla croce,
viene congiunta alla dichiarazione di essere pronti a credere in lui. A conclusione richiamano la fiducia in
Dio, che Gesù aveva sempre proclamato, e aggiungono, come motivazione, ciò che egli aveva affermato:
“Sono Figlio di Dio”.
L’espressione dei membri del sinedrio costituisce il riscontro negativo rispetto al riconoscimento del
centurione e dei suoi soldati (v. 54). Anche i due crocifissi si uniscono agli altri schernitori. Gesù soffre in
totale solitudine.
45 Da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio si fece buio su tutta la terra. 46 Verso le tre, Gesù gridò a gran
voce: “Elì, Elì, lemà sabactàni?”, che significa: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. 47 Udendo
questo, alcuni dei presenti dicevano: “Costui chiama Elia”. 48 E subito uno di loro corse a prendere una
spugna e, imbevutala di aceto, la fissò su una canna e così gli dava da bere. 49 Gli altri dicevano: “Lascia,
vediamo se viene Elia a salvarlo!”. 50 E Gesù, emesso un alto grido, spirò.
51 Ed ecco il velo del tempio si squarciò in due da cima a fondo, la terra si scosse, le rocce si spezzarono, 52 i
sepolcri si aprirono e molti corpi di santi morti risuscitarono. 53 E uscendo dai sepolcri, dopo la sua
risurrezione, entrarono nella città santa e apparvero a molti. 54 Il centurione e quelli che con lui facevano la
guardia a Gesù, sentito il terremoto e visto quel che succedeva, furono presi da grande timore e dicevano:
“Davvero costui era Figlio di Dio!”.
55 C’erano anche là molte donne che stavano a osservare da lontano; esse avevano seguito Gesù dalla
Galilea per servirlo. 56 Tra costoro Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo e di Giuseppe, e la madre dei
figli di Zebedèo.
Matteo collega la croce e la morte di Gesù a dei segni straordinari. Prima della sua morte si estende su tutta
la terra una tenebra che dura tre ore. Cosa significa questa tenebra? Il giudizio di Dio come in Amos 8,9 e
Geremia 15,9? La fine come in Matteo 24,29? Oppure il cordoglio di Dio? Forse è da preferire quest’ultimo
significato: la tenebra significa la con-passione e il lutto di Dio.
Le ultime parole del crocifisso corrispondono alle prime parole del salmo 22. Emesse come un grido, esse
manifestano il carattere incalzante di questa preghiera. Gesù si rivolge a Dio con un grido in cui lamenta
l’abbandono di Dio. Per capire bene il significato di questo grido occorre tener presente che il salmo descrive
sì la sofferenza mortale di Cristo, ma che nella parte conclusiva il lamento si trasforma in lode,
ringraziamento profezia di salvezza per tutti i popoli del mondo e annuncio di risurrezione: “Lodate il Signore,
voi che lo temete, gli dia gloria la stirpe di Giacobbe, lo tema tutta la stirpe di Israele; perché egli non ha
disprezzato né sdegnato l’afflizione del misero, non ha nascosto il suo volto, ma, al suo grido d’aiuto, lo ha
esaudito… Ricorderanno e torneranno al Signore tutti i confini della terra, si prostreranno davanti a lui tutte
le famiglie dei popoli… E io vivrò per lui, lo servirà la mia discendenza: si parlerà del Signore alla
generazione che viene; annunceranno la sua giustizia; al popolo che nascerà diranno: “Ecco l’opera del
Signore”. (vv. 24-32).
Nei vv. 47-49 la reazione di alcuni astanti si basa sul malinteso che Gesù abbia invocato Elia. Il profeta Elia
era considerato dai giudei un soccorritore efficace nei momenti di bisogno e quindi anche in pericolo di
morte.
Gesù muore emettendo ancora una volta un alto grido: Il significato del grido va visto nel fatto che la morte
del Figlio di Dio dev’essere annunciata a tutto il mondo.
Il velo del tempio che si squarcia significa che ora è possibile guardare a quanto sta dietro di esso. Nel
tempio c’erano due cortine, una esterna, che nascondeva l’ingresso del santuario e una interna che
nascondeva il Santo dei santi. Quest’ultima poteva essere varcata soltanto una volta all’anno e solamente
dal sommo sacerdote nella festa dell’espiazione. Di questo avvenimento sono possibili due interpretazioni.
La prima: si tratta di un segno di minaccia, perché annuncia la fine del culto del tempio. Con la morte di
Gesù il tempio ha perso ogni significato. Questa interpretazione è in linea con 23,38; 24,2; 27,40. La
seconda: si tratta di un segno di promessa, poiché rappresenta il libero accesso nel Santo dei santi acquisito
mediante la morte di Gesù, il libero accesso a Dio per tutti. Queste due interpretazioni vanno appaiate, non
contrapposte. L’accesso aperto ai pagani, al quale si farà riferimento subito dopo, è conseguenza
dell’eliminazione del culto nazionale legato al tempio.
La morte di Gesù è descritta da Matteo proprio come una teofania, contraddistinta dal terremoto quando
Gesù spira (vv. 51.54) e nel momento in cui risuscita (28,2-4). Dio spacca le rocce e apre i sepolcri. Forse su
questo testo ha influito Zaccaria 14,4, secondo cui nel giorno del Signore il monte degli Ulivi si fenderà. Ma
soprattutto sullo sfondo c’è Ezechiele 37. Il riferimento immediato è al v. 12:” Ecco, apro i vostri sepolcri e vi
risuscito dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nella terra d’Israele”. La morte di Gesù rivela il suo
senso manifestando la gloria di Dio che risveglia gli uomini alla vita (27,52-53). La teofania della morte
adempie la visione del battesimo. Lì la voce dal cielo aveva proclamato: “Questo è il mio Figlio, il prediletto”
(3,17). Qui, il centurione confessa: “Veramente costui era Figlio di Dio” (v. 54). È attraverso la sua morte che
il Messia, intronizzato dal Padre nel battesimo, adempie la sua missione e svela la sua realtà divina. In
questo brano udiamo per due volte la “grande voce” di Gesù che si abbandona a Dio con un grido di lucida e
straziante fiducia, riprendendo il salmo 22, e che lascia lo Spirito. Il Figlio prediletto di Dio, fatto uomo, non
può riconoscere la sua filiazione che mettendosi nelle mani del Padre, con un abbandono di tutto il suo
essere nella nuda realtà della morte. L’ultima tentazione che ha affrontato sulla croce: “Salva te stesso, se
sei il Figlio di Dio” (v. 40), Gesù la supera non salvando se stesso, ma abbandonando la sua salvezza nelle
mani del Padre. Gesù in croce ha pregato: “Dio mio….” (v. 46). Il credente vede in questa invocazione
l’adempimento della situazione del giusto sofferente che parla secondo il salmo 22; lo scettico ironizza su
questo appello tardivo al profeta Elia; l’uomo compassionevole presenta una spugna imbevuta di “posca”,
una bevanda dissetante dei soldati romani. Gli evangelisti vedono in quest’ultimo gesto l’adempimento del
salmo 69,21 e Matteo forse allude anche a colui il quale avrà dato da bere al re, giudice delle genti (25,35-
37).
La teofania avviene nel quadro di un terremoto nel momento in cui Gesù “lascia lo Spirito”. Senza dubbio qui
c’è un richiamo alla visione di Ezechiele 37, ove le ossa inaridite riprendono vita durante un terremoto (Ez
37,7), mentre il profeta “profetizza allo Spirito” (Ez 37,9): le tombe si aprono e Jahvè ne fa risalire il popolo
che conduce verso la terra d’Israele (Ez 37,12); con questo segno possono riconoscere Jahvè (Ez 37,6.13).
Per Matteo il dono che Gesù fa del suo Spirito dà l’impulso alla risurrezione di ogni uomo; i corpi dei “santi
assopiti” si risvegliano per entrare non più nella terra dell’effimera benedizione che era il suolo d’Israele, ma
nella “città santa” la Gerusalemme dei risuscitati, ove si realizzano definitivamente le promesse di Dio. Nel
momento della morte di Gesù, solo Matteo menziona già la sua risurrezione, aggiungendo che trascina con
sé “i corpi dei santi”. Il velo del tempio si squarcia (v. 51) perché ormai è inutile velare la presenza divina,
perché essa si manifesta ed è riconosciuta nella morte del Figlio di Dio. Il grido del centurione e di quelli che
con lui custodivano Gesù (v. 54) mostra che anche i pagani possono ora accedere alla conoscenza di Dio
evocata da Ezechiele 37,6.13.14.
La morte di Gesù riguarda tutti i popoli del mondo. Il centurione pagano è il loro rappresentante nel
riconoscere che Gesù, il crocifisso, è Figlio di Dio. Ma non solo il centurione (come in Marco 15,39), ma
anche i soldati che erano con lui riconoscono la vera identità di Gesù. Nel contesto, il loro riconoscimento
costituisce l’antitesi positiva alle bestemmie dei rappresentanti del popolo giudaico, i quali avevano preso le
distanze dal re d’Israele e avevano beffardamente messo in dubbio la sua pretesa di essere il Figlio di Dio. Il
centurione e i suoi soldati rappresentano il nuovo popolo di Dio, la Chiesa, che professa la propria fede nella
morte e risurrezione di Gesù come fondamento della nostra salvezza. Questa scena è forse ispirata al salmo
22,8: “Ricorderanno e ritorneranno al Signore tutti i confini della terra, si prostreranno davanti a lui tutte le
famiglie dei popoli”.
Parte costitutiva della professione di fede è il seguire Cristo sulla via della croce. Le discepole che avevano
sostenuto Gesù materialmente, hanno trovato il coraggio di seguirlo fin qui. Esse sono citate come testimoni
oculari dell’avvenimento.
57 Venuta la sera giunse un uomo ricco di Arimatèa, chiamato Giuseppe, il quale era diventato anche lui
discepolo di Gesù. 58 Egli andò da Pilato e gli chiese il corpo di Gesù. Allora Pilato ordinò che gli fosse
consegnato. 59 Giuseppe, preso il corpo di Gesù, lo avvolse in un candido lenzuolo 60 e lo depose nella sua
tomba nuova, che si era fatta scavare nella roccia; rotolata poi una gran pietra sulla porta del sepolcro, se ne
andò. 61 Erano lì, davanti al sepolcro, Maria di Màgdala e l’altra Maria.
Secondo il computo giudaico della giornata, il nuovo giorno ha inizio al tramonto. Nel giudaismo era usanza
seppellire subito i morti. Per i giudei valeva il principio: chi fa trascorrere la notte al defunto senza seppellirlo,
lo profana. Di Gesù morto si prende cura un uomo di nome Giuseppe, di Arimatea, che è presentato come
un uomo ricco e discepolo di Gesù. Egli ripara la colpa di tutti gli altri discepoli. Tutti sono fuggiti e non sono
presenti neanche alla sepoltura del Maestro.
Giuseppe esegue da solo la sepoltura di Gesù. I funerali nel giudaismo avvenivano in forma privata, senza
ministri del culto. Tuttavia l’assenza di qualsiasi forma di accompagnamento da parte di altre persone resta
anche in questo caso espressione dell’abbandono del Crocifisso.
Le due donne, Maria di Magdala e l’altra Maria, sono testimoni oculari della sepoltura di Gesù e del luogo del
suo sepolcro. La sepoltura di Gesù è il passaggio dall’umiliazione alla gloria della risurrezione. La tomba
garantisce la realtà della sua morte. L’interesse per il corpo di Gesù è interesse per la risurrezione corporea.
La morte di Gesù è un fatto reale. Questa realtà si esprime correttamente attraverso la sepoltura. Gesù è
sepolto nel momento in cui gli ebrei si mettono a tavola per mangiare la cena pasquale. Giuseppe di
Arimatea chiede a Pilato e ottiene il corpo di Gesù. Viene a prendere il corpo (v. 59) rispondendo al
comando rivolto da Gesù ai discepoli durante l’ultima cena: “Prendete, mangiate, questo è il mio corpo”
(26,6). La pasqua vera è la morte e la risurrezione di Gesù.
62 Il giorno seguente, quello dopo la Parasceve, si riunirono presso Pilato i sommi sacerdoti e i farisei,
dicendo: 63 “Signore, ci siamo ricordati che quell’impostore disse mentre era vivo: Dopo tre giorni risorgerò.
64 Ordina dunque che sia vigilato il sepolcro fino al terzo giorno, perché non vengano i suoi discepoli, lo
rubino e poi dicano al popolo: È risuscitato dai morti. Così quest’ultima impostura sarebbe peggiore della
prima!”. 65 Pilato disse loro: “Avete la vostra guardia, andate e assicuratevi come credete”. 66 Ed essi
andarono e assicurarono il sepolcro, sigillando la pietra e mettendovi la guardia.
Questo brano è un dialogo tra i capi ebrei e Pilato. Al centro del dialogo sta l’annuncio cristiano della
risurrezione di Cristo il terzo giorno, che viene ripetutamente enunciato proprio dai capi dei giudei.
All’annuncio della risurrezione viene contrapposta la tesi giudaica del furto di cadavere. Pilato è preso tra
l’incudine e il martello. L’ordine che è costretto a impartire è in relazione con il suo comando di concedere il
cadavere di Gesù per la sepoltura (v. 54). Egli deve porre rimedio al guaio che ha combinato.
L’episodio della guardia al sepolcro permette a Matteo di introdurre il racconto della risurrezione. Saranno
proprio le guardie ad essere i testimoni della risurrezione; esse correranno ad annunciare l’accaduto ai
sacerdoti (28,11). I sommi sacerdoti e i farisei avevano chiesto un segno a Gesù. Ed egli aveva reagito
dando loro il segno di Giona (16,4): “Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così
il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra” (12,40). Nell’intervento presso Pilato i capi
giudei qualificano queste parole di Gesù come “impostura” che potrebbe alimentarne una ancor più
pericolosa, quella dei discepoli che annunciano la risurrezione di Gesù dai morti.