LA SETTIMANA DI PASSIONE, IL GIOVEDI’
I preparativi dell’ultima cena
§ 535. Spuntò il giovedì, che era il primo giorno degli Azimi quando immolavano la Pasqua (Marco, 14,12); perciò in quel giorno si dovevano provvedere le cose necessarie alla celebrazione del solenne rito anche da parte della comitiva di Gesù (§ 495), giacché per questo rito Gesù avrebbe dovuto rimanere quella notte a Gerusalemme e rinunziare a ritirarsi a Bethania sul monte degli Olivi come le notti precedenti. Gli dissero quindi i discepoli: Dove vuoi che andiamo a preparare affinché (tu) mangi la Pasqua? Gesù allora inviò Pietro e Giovanni (Luca, 22, 8) dicendo loro: Andate nella città e vi si fara’ incontro un uomo che porta una brocca d’acqua; seguitelo, e dove egli sia entrato direte al padron di casa: “Il maestro dice: Do v’e’ la mia stanza ove (io) mangi la Pasqua insieme con i miei discepoli?”. Ed egli vi mostrerà una sala superiore grande, provvista di tappeti, pronta; e ivi preparate per noi (Marco, 14, 13-15). Il segno dato ai due Apostoli era abbastanza singolare, perchè l’ufficio di attingere e trasportare l’acqua era riservato ordinariamente alle donne. I due s’attennero al segno: entrando in città, certamente per la porta situata sopra la piscina del Siloe (§ 428) e di fronte al monte degli Olivi, incontrarono effettivamente l’uomo dalla brocca; avendo poi essi seguito costui alla casa ov’era diretto, il padrone mise a loro disposizione la sala di cui Gesù aveva parlato. Non c’è da dubitare che quel padrone fosse persona affezionata a Gesù; probabilmente l’aveva ricevuto altre volte a casa sua. Chi sarà stato questo ignoto discepolo? Più che al cauto Nicodemo (§§ 288, 420) o a Giuseppe di Arimatea (§ 615), il pensiero corre al padre o ad altro parente di Marco, la cui casa dopo la morte di Gesù diventò luogo abituale d’adunanza per i cristiani di Gerusalemme (§ 127); se poi si potesse provare che quel misterioso giovanetto il quale sfuggì nudo di mano alle guardie del Gethsemani era appunto Marco (§ 561), si avrebbe conferma che il padrone della casa era suo parente, tanto più che questo racconto della preparazione della Pasqua è più minuto e circostanziato nel vangelo di Marco che in quello di Matteo. Se il nome di questo discepolo fu tenuto occulto dagli evangelisti è ben possibile che ciò avvenisse per una ragione prudenziale, analoga a quella per cui i Sinottici omisero l’intero racconto della resurrezione di Lazaro (§ 493). Così pure, per una elementare prudenza, Gesù inviò a preparare la cena Pietro e Giovanni, ma non Giuda, l’amministratore comune a cui sarebbe spettato quell’ufficio: il traditore era occupato nel frattempo a ordire il suo tradimento, e questa sua tenebrosa cura non doveva essere ancor più facilitata dalla prematura indicazione del luogo ove doveva tenersi il supremo convegno. Del resto l’opinione secondo cui l’ultima cena ebbe luogo nella casa di Marco non è nuova, ed ha pure in suo favore una rispettabile tradizione. Verso il 530 l’arcidiacono Teodosio descrivendo la sua visita a Gerusalemme, quando parla della chiesa della Saneta Sion ritenuta universalmente come il luogo dell’ultima cena. E questa affermazione doveva fondarsi su un’antica tradizione; infatti nello stesso secolo VI, il monaco cipriota Alessandro comunica che una tradizione già antica ai suoi tempi affermava che la casa in cui ebbe luogo l’ultima cena fu appunto quella di Maria madre di Marco, ove il maestro era solito albergare ogni volta che veniva a Gerusalemme, e inoltre che l’uomo della brocca sarebbe stato appunto Marco. E’ questo il luogo ove la tradizione, già dal secolo IV, ha collocato l’odierno Cenacolo, all’estremità sud-occidentale della Città Alta. Compiuti durante la giornata i preparativi, in quella stessa sera si tenne la cena. Ma qui s’inconfra una famosa questione cronologica che riguarda sia il giorno dell’ultima cena, sia quello successivo nel quale avvenne la morte di Gesù; è la questione di sapere quali giorni, non della settimana, ma del mese fossero questi due giorni.
La questione cronologica
§ 536. Quanto al giorno della settimana non sorge alcun dubbio, perché tanto i Sinottici quanto Giovanni mettono l’ultima cena al giovedì e la morte al venerdì seguente. La divergenza sta nella collocazione di questi due giorni nel mese Nisan, perché dai Sinottici risulterebbe che il giovedì dell’ultima cena era il 14 Nisan e perciò il venerdì della morte era il 15, mentre da Giovanni risulterebbe che il giovedì era il 13 Nisan e il venerdì il 14. I Sinottici infatti mettono l’ultima cena nel giorno quando immolavano la Pasqua (Marco, 14, 12; cfr. Luca, 22, 7), ossia in cui si faceva l’immolazione dell’agnello pasquale che era prescritta per il pomeriggio del 14 Nisan (§74) perciò l’ultima cena sarebbe stata la cena dell’agnello pasquale celebrata da Gesù al giorno prescritto; essendo poi egli morto il giorno seguente, questo giorno sarebbe stato il 15 Nisan in cui cadeva la Pasqua ebraica. Giovanni invece narra che Gesù morì nella parasceve della Pasqua ( Giov., 19, 14), ossia nel giorno precedente alla Pasqua e prima che in quei giorno i Giudei avessero celebrato il rito dell’agnello e mangiato la Pasqua: essi infatti non entrarono nel pretorio (di Pilato) per non contaminarsi ma per mangiare la Pasqua (Giov., 18, 28), riuscendo in quello stesso giorno a far condannare Gesù e ad ucciderlo; in tal caso Gesù morì il 14 Nisan, e l’ultima cena da lui celebrata la sera precedente non era legalmente la cena dell’agnello pasquale. La seguente tabella mostrerà il consenso e il dissenso fra i Sinottici e Giovanni in questo punto.
§ 537. Senonché i Sinottici stessi, con talune loro fuggevoli allusioni, inducono a fare ulteriori ed importanti considerazioni. Stando alla loro cronologia, Gesù fu arrestato nella notte fra il 14 e il 15 Nisan, e le varie peripezie del suo processo terminate con la condanna e l’esecuzione di questa cominciarono già alle prime ore del 15 Nisan per prolungarsi fino al pomeriggio di quel giorno. Ora, tutto ciò s’imbatté in una difficoltà gravissima ed evidentissima, cioè nel carattere supremamente festivo che aveva quella notte e quel giorno: in quella notte si mangiava l’agnello pasquale col solenne cerimoniale già visto (§ 75) e da turbe innumerevoli affluite a Gerusalemme da ogni paese; e in quel giorno poi, che era la Pasqua (15 Nisan), era rigorosamente prescritta l’astensione da ogni lavoro (Esodo, 12, 16; Levitico, 23, 7), e valevano per esso le norme del riposo del sabbato anche se in realtà quel giorno non fosse un sabbato. E’ pertanto storicamente inconcepibile che gli avversari di Gesù, per quanto colmi di odio contro di lui, trascurassero la cena pasquale di quella notte e violassero il riposo festivo di quel giorno per compiere tutto ciò che era necessario al processo, alla condanna e alla sua esecuzione. E infatti la sconfinata meticolosità che vedemmo più volte applicata al riposo sabbatico non avrebbe permesso varie azioni che troviamo compiute in queste poche ore: ad esempio che coloro i quali in quella notte arrestarono Gesù trasportassero armi ed altri oggetti (Matteo, 26, 47), e che accendessero il fuoco proprio in casa del sommo sacerdote (Luca, 22, 55); ovvero che durante quel santissimo giorno di Pasqua vi fosse un uomo come Simone il Cireneo che veniva dal campo, dove era stato certamente a lavorare (Marco, 15, 21); oppure che si comprasse una sindone, come fece Giuseppe di Arimatea (Marco, 15, 46); o anche che si preparassero aromi ed unguenti, come fecero le pie donne (Luca, 23, 56). Tutte queste azioni erano altrettante violazioni del riposo festivo; se perciò si considerano sommate tutte insieme, portano alla conclusione che quella notte non era sacra e quel giorno non era santissimo né di riposo per molti Giudei se non per tutti – e quindi che costoro non avevano mangiato l’agnello pasquale la sera del giovedì come Gesù, né celebravano la Pasqua il venerdì. Questa conclusione è tanto più importante, in quanto estratta da informazioni offerte dai soli Sinottici. Si aggiunga a conferma un’altra osservazione. Gesù muore nel pomeriggio del venerdì, che secondo i Sinottici sembra essere il giorno di Pasqua (15 Nisan). Appena egli è morto, Giuseppe di Arimatea si affretta a seppellirlo in quello stesso pomeriggio, perché col tramonto sarebbe cominciato il riposo del successivo sabbato (Marco, 15, 42 segg); così pure dal canto loro le pie donne prepararono in quel pomeriggio gli aromi e gli unguenti per la venerata salma, ma giunta la sera passarono inoperose il sabbato conforme il comandamento (Luca, 23, 56). Tutto ciò sarebbe regolarissimo riferendosi al riposo del vero sabbato settimanale: ma se in quel venerdì ormai tramontato, in cui era morto Gesù, era anche caduta la Pasqua, questa solennità portava con sé egualmente il riposo festivo; e allora come mai e perché mai affrettarsi tanto nel pomeriggio di quel venerdì, se già in esso vigeva un riposo anche più solenne in virtù della solennità pasquale? Quindi anche da questo lato, ed egualmente per notizie offerte dai Sinottici, ritornerebbe la conclusione che pure Giuseppe di Arimatea e le pie donne non celebravano la Pasqua in quel venerdì, il quale perciò non era per essi il 15 Nisan. In realtà la divergenza fra i Sinottici e Giovanni, stando ai semplici dati ricavati da essi, è inconciliabile; se si seguono i Sinottici Gesù sembra morto il 15 Nisan, se si segue Giovanni è morto il 14 Nisan.
§ 538. I tentativi per comporre la divergenza sono stati molti, sebbene parecchi di essi non avessero neppure l’ombra di fondamento storico. In tale condizione si ritrova, ad esempio, l’ipotesi secondo cui in quell’anno i Giudei avrebbero ritardato di un giorno la Pasqua trasportandola al 16 Nisan, per aver agio di processare ed uccidere Gesù, mossi unicamente dall’odio contro di lui, mentre Gesù avrebbe mangiato l’agnello pasquale al tempo prescritto; questa ipotesi, proposta già in antico da Eusebio di Cesarea e recentemente da alcuni moderni, ha il torto di essere antistorica in quanto dimentica il tenacissimo attaccamento che gli avversari di Gesù avevano alle loro tradizioni, e che non avrebbe ceduto il passo neppure al loro odio contro Gesù e ciò, senza rilevare l’assurdità che siffatto spostamento della Pasqua in odio a Gesù sarebbe stato decretato in poche ore, imposto a folle enormi che non conoscevano neppure di nome Gesù, e perfino a persone a lui benevole quali Giuseppe di Arimatea e le pie donne. Altra soluzione che non risolve nulla è quella secondo cui Giovanni, allorché dice che i Giudei non entrarono nel pretorio per non contaminarsi ma per mangiare la Pasqua, alluderebbe alla consumazione delle altre offerte del ciclo pasquale, ma non a quella dell’agnello che i Giudei avrebbero già mangiato nella stessa sera che Gesù. Senonché, anche astraendo dal fatto che rimarrebbe egualmente la difficoltà del riposo violato, questa soluzione è dimostrata falsa dall’uso rabbinico dell’espressione mangiare la Pasqua, la quale si riferisce costantemente all’agnello pasquale. Fra quegli studiosi moderni che vogliono trovare nel IV vangelo tutte narrazioni allegoriche ha incontrato molta fortuna la soluzione che ritiene come storica soltanto la cronologia dei Sinottici e considera invece la cronologia del IV vangelo come risultato di una accomodazione dogmatico-allegorica; Gesù sarebbe morto in realtà il 15 Nisan, giorno della Pasqua ebraica, giorno dell’immolazione dell’agnello pasquale, soltanto per significare che egli è il simbelico agnello pasquale del Nuovo Testamento che ha definitivamente sostituito l’antica vittima della Pasqua ebraica, conforme al principio dogmatico di S. Paolo: (Quale) nostra Pasqua fu immolato Cristo (I Cor., 5, 7). Senonché, chi non si lasci abbagliare dalle apparenze, questa soluzione apparirà non meno antistorica di altre. Essa infatti passa sopra, con fallace indifferenza, agli importantissimi accenni che già rilevammo dagli stessi Sinottici, i quali su questo argomento sono considerati storici dagli stessi seguaci di tale soluzione. Se Gesù morì il 15 Nisan e se quel giorno era Pasqua, perché mai molti Giudei non osservavano in quel giorno il riposo festivo come incidentalmente ma sicuramente abbiamo appreso dai Sinottici? Sarebbero forse allegorici in altra maniera anche i Sinottici? O non piuttosto la presunta cronologia allegorica del IV vangelo è storica non meno di quella dei Sinottici? Quanto all’unica ragione positiva addotta, cioè la coincidenza della immolazione dell’agnello pasquale con la morte di Gesù, è ragione più speciosa che soda; anzi, esaminata più da vicino, sembrerebbe piuttosto una difficoltà in contrario che una ragione in favore. Se Gesù è morto secondo i Sinottici il 15 Nisan ed ha celebrato la cena pasquale la sera del 14, Giovanni aveva ogni motivo allegorico per conservare questa cronologia e non già per mutarla; infatti, secondo essa, Gesù avrebbe istituito l’Eucaristia proprio mentre i Giudei celebravano la cena pasquale, ed è appunto l’Eucaristia il rito unico e perenne che nella Chiesa cristiana ha sostituito i vari riti sacrificali del giudaismo; perciò Giovanni, che giustamente è riconosciuto anche dagli avversari come l’evangelista del Cristo “pane di vita” (§ 373, nota), poteva attenersi tranquillamente alla cronologia dei Sinottici ritrovandovi pienamente appagata la sua inclinazione dogmatico-allegorica. E invece, secondo il suo solito, Giovanni ha ritoccato in parte quella cronologia, mettendo in miglior luce quanto era stato accennato vagamente dai Sinottici stessi. In tal caso non parlerebbe in lui il testimonio oculare e prediletto, piuttosto che il presunto allegorizzante?
§ 539. In questa vecchia e intricata questione i recenti e proficui studi degli antichi documenti rabbinici hanno aperto una nuova via, che è forse la buona. Già avemmo occasione di rilevare quanto fossero empirici ed incerti i mezzi con cui ai tempi di Gesù si fissava il calendario giudaico, e come questo calendario fosse di una elasticità appena concepibile per noi moderni (§ 180); ebbene, appunto da questa elasticità potrebbe dipendere la divergenza fra i Sinottici e Giovanni, consistendo essa nel collocare il venerdì della morte di Gesù o al 14 o al 15 Nisan. Se quel venerdì fu insieme il 14 e il 15 Nisan – ossia se alcuni Giudei lo computavano come il 14 e altri come il 15 – sarebbe conciliata la divergenza, perché i Sinottici si riferirebbero ai Giudei che consideravano quel venerdì come 15 Nisan, mentre Giovanni si riferirebbe agli altri che lo consideravano come il 14 Nisan. Troviamo infatti che, ai tempi di Gesù, si agitava una seria controversia fra Sadducei e Farisei a proposito della data della Pentecoste, e per conseguenza anche della Pasqua essendo le due feste ricollegate fra loro. I partigiani della famiglia di Boeto (§ 33), influentissima nel ceto sacerdotale e sadduceo, sostenevano che la Pentecoste doveva celebrarsi sempre di domenica; ma poiché i 50 giorni d’interstizio fra la Pasqua e la Pentecoste (§ 76) si cominciavano a contare da quel giorno dell’ottava Pasquale nel quale si offriva nel Tempio il primo manipolo di spighe, perciò essi sostenevano che l’offerta del manipolo doveva farsi sempre nella domenica di detta ottava. I Farisei al contrario sostenevano che la Pentecoste poteva celebrarsi in qualunque giorno settimanale; quindi l’offerta del manipolo doveva farsi sempre al giorno immediatamente successivo alla Pasqua, cioè al 16 Nisan, qualunque giorno settimanale esso fosse. Stante questa divergenza i Boetani e in genere i Sadducei usavano spostare il calendario, specialmente nei casi in cui la Pasqua (15 Nisan) fosse caduta di venerdì ovvero di domenica. Nel caso di Pasqua al venerdì, essi posticipavano il calendario d’un giorno e facevano cadere in quel venerdì l’immolazione dell’agnello e la cena pasquale (14 Nisan), nel sabbato la Pasqua (15 Nisan), e nella domenica l’offerta del manipolo (16 Nisan). Nel caso di Pasqua alla domenica anticipavano d’un giorno e facevano cadere in quella domenica l’offerta del manipolo (16 Nisan), nel precedente sabbato la Pasqua (15 Nisan), e nel precedente venerdì l’immolazione dell’agnello (14 Nisan). Questo spostamento di calendario si otteneva facilmente, anche mediante piccoli sotterfugi, approfittando dell’empirismo con cui si regolava la fissazione del calendario e di cui già trattammo (§ 180). A questa accomodazione dei Sadducei non acconsentivano però i Farisei; i quali, non preoccupandosi del giorno settimanale in cui cadeva la Pentecoste, celebravano il rito dell’agnello, quello della Pasqua e quello del manipolo, nei giorni in cui effettivamente cadevano. Si produceva quindi una scissione fra coloro che celebravano questi riti. La gran massa del popolo, dominata dai Farisei, li seguiva anche nella fissazione cronologica di questi riti. AI contrario le classi aristocratiche, più legate al ceto sacerdotale, seguivano la fissazione dei Boetani e dei Sadducei. Ogni gruppo seguiva la propria cronologia, non curandosi del gruppo opposto; tuttavia non dovevano mancare molti individui i quali o per ragioni di comodità seguivano la cronologia del gruppo non loro, ovvero non appartenendo a rigore a nessun gruppo sceglievano fra le due alternative quella che meglio piaceva.
§ 540. Ora, applicando questi dati al caso di Gesù, si trova una corrispondenza sorprendente. L’anno in cui Gesù mori, la Pasqua cadeva regolarmente al venerdì. Perciò i Sadducei, conforme alla loro norma, posticiparono il calendario d’un giorno per ottenere che l’offerta del manipolo cadesse alla domenica. I Farisei invece si attennero al calendario regolare, respingendo la posticipazione dei Sadducei e celebrando l’offerta del manipolo al sabbato. Il popolo si divise fra le due correnti. La seguente tabella mostrerà nelle prime due colonne la differenza di datazione della festività pasquale tra i Sadducei e i Farisei, nelle ultime due colonne le rispettive posizioni degli evangelisti (cfr. tabella al § 536): Si noti come Giovanni concordi col calendario mensile dei Sadducei, e invece i Sinottici concordino con quello dei Farisei. Infatti l’ultima cena di Gesù fu certamente la cena legale dell’agnello, e fu tenuta aI giovedi nello stesso tempo che la tenevano i Farisei e in maggioranza quei del popolo; i quali consideravano quel giorno come il 14 Nisan, e il seguente venerdì come il 15 ossia la Pasqua. Ma la preponderanza del Sinedrio, che condannò Gesù, era composta di Sadducei (§ 58); i quali perciò consideravano quel giovedì come il 13 Nisan, e di conseguenza ritardavano la cena dell’agnello al venerdì seguente e la Pasqua al sabbato seguente. Così si comprende anche perché nel venerdì della morte di Gesù non osservassero il riposo festivo, sebbene quel giorno cadesse la Pasqua; era Pasqua per i Farisei, ma non per molti altri che per una ragione o l’altra seguivano il calendario dei Sadducei. In conclusione, i Sinottici si riferiscono al calendario mensile seguito da Gesù in accordo con i Farisei, pur accennando chiaramente al disaccordo di altri; Giovanni invece si riferisce al calendario seguito dai sinedristi Sadducei; condannatori ufficiali di Gesù, pur supponendo già noto che il calendario seguito da Gesù era differente. ~ assolutamente sicura questa spiegazione della vecchia questione? No, giacché rimangono ancora taluni punti oscuri, che qui sarebbe eccessivo elencare. Tuttavia a noi sembra la più fondata storicamente, soprattutto perché tiene conto della elasticità del calendario contemporaneo; la quale elasticità è una realtà storica di primaria importanza perché essa, come entra per qualche parte nelle famose controversie sorte nel cristianesimo primitivo a proposito della celebrazione della Pasqua cristiana, così ancora oggi spiega le divergenze cronologiche che si riscontrano a proposito di costumanze islamiche fra Arabi, anche di regioni confinanti, formandosi il loro calendario sull’osservazione diretta della luna.
Denunzia del traditore
§ 541. Che in quella cena pasquale di Gesù sia avvenuto qualcosa di straordinario, Giovanni lo esprime con quella sua maniera singolare fatta di velate allusioni, che però era capita benissimo dagli esperti uditori della sua catechesi: Sapendo Gesu’ che venne l’ora di lui affinché passasse da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi, quelli (ch’erano) nel mondo, (sino) in fine (Giov., 13, 1). Queste parole possono considerarsi come un nuovo piccolo prologo che Giovanni premette al racconto della passione: Gesù, che ha sempre amato i suoi, adesso dimostra il suo amore (sino) in fine, non solo cronologicamente sino alla fine della sua vita, ma molto più intensivamente sino al fine raggiungibile, sino all’estremo limite possibile dell’amore stesso. Accennando all’amore (sino) in fine vuole forse l’evangelista spirituale alludere all’istituzione dell’Eucaristia che egli solo non narra? E’ possibilissimo (§ 545). D’altra parte anche l’evangelista discepolo di Paolo accenna a questo amore, quando narra che a principio della cena Gesù, vedendosi circondato dai suoi discepoli, esclamò verso di essi: Di (gran) desiderio desiderai mangiare questa Pasqua con voi prima che io patisca. Vi dico infatti che piu’ non la mangerò fino a che (essa) sia compiuta nel regno d’iddio (Luca, 22, 15-16). Torna qui l’idea che la passione è per il Messia la condizione necessaria per il suo ingresso alla gloria: questa gloria, poi, sarà il trionfo del regno di Dio simboleggiato in un banchetto eterno. Nell’ultima cena fu certamente seguito il solito rito della cena pasquale – che descrivemmo altrove (§ 75) – con le quattro coppe rituali di vino, con il pane azimo, le erhe agresti e l’agnello arrostito, sebbene non tutte queste cose siano ricordate dagli evangelisti. Gesù in quella comitiva fungeva da padre di famiglia; perciò benedisse egli la prima coppa, ed aggiunse: Prendete ciò e dividete(lo) fra voi; vi dico, infatti, non berrò da adesso del prodotto della vite fino a che il regno d’iddio sia venuto (ivi, 17-18). In relazione al precedente simbolo del banchetto eterno, il regno di Dio è qui simboleggiato in un simposio eterno. La cena era pertanto cominciata, ma non tutti i convitati erano pienamente soddisfatti: non sarebbero stati uomini della loro nazione e del loro tempo, se parecchi di loro non si fossero mostrati scontenti del posto che occupavano a tavola desiderandone uno più onorifico (§ 457). Quella brava gente aveva tutta una grande stima di sé, e avvenne anche una gara fra loro, riguardo a chi di essi appaia esser maggiore (ivi, 24); la disputa non era nuova, ma un vago accenno di Giovanni (13, 2-5) potrebbe far sospettare che questa volta la disputa fosse provocata da pretensioni di Giuda Iscariota: appunto il traditore avrebbe suscitato la gelosia degli altri Apostoli pretendendo uno dei posti più onorifici, e ciò conforme a un fenomeno frequente nei traditori che, spinti dalla dissimulazione, pretendono preferenze e particolari riguardi. A quella umiliante scenata Gesù dovette rispondere a parole come più o meno già aveva risposto alle altre contese di preminenza avvenute nel passato fra gli Apostoli (§ § 408, 496), ma questa volta volle aggiungere anche una risposta con i fatti (Giovanni, 13, 4 segg.). Vedendo che nonostante le sue esortazioni all’umiltà i brontolii ringhiosi di quei materialoni non cessavano, egli si leva dal suo divano, depone le vesti, si cinge al grembo d’un pannolino, e preso un catino con acqua comincia a lavare i piedi ai commensali: i più umili schiavi erano incaricati di questo ufficio, e potevano compierlo agevolmente perché i commensali erano distesi sui divani col busto verso la tavola e i piedi sporgenti dall’altra parte all’infuori (§ 341). Al vedere il maestro abbassatosi a quel servigio, gli Apostoli rimasero interdetti e accettarono passivamente la lavanda come un’umiliazione: neppure Giuda osò protestare. Solo Pietro, che probabilmente fu il primo a cui si rivolse Gesù, protestò dicendo: Signore, tu mi lavi i piedi? – E Gesù a lui: Ciò che io faccio, tu adesso non sai; lo saprai in seguito. – Ma Pietro non cede: Non mi laverai i piedi in eterno! – Gesù replica: Se non t’avrò lavato, non avrai parte con me. – A questa risposta l’irruente Pietro salta all’altro eccesso: Signore, lavami non solo i piedi, ma anche le mani e il capo! – Gesù allora conclude: Chi si è lavato non ha bisogno di lavarsi (se non i piedi), ma è mondo interamente; e voi siete mondi, ma non tutti. Trasalì Giuda a quest’allusione? Forse no; il traditore dovette contentarsi all’udire che il suo delitto restava ancora occulto ai suoi colleghi. Ma la cosa non fini li.
§ 542. Terminata la lavanda dei piedi, Gesù indossò nuovamente le sue vesti e riprese posto a tavola sul suo divano. Egli occupava certamente il posto più onorifico, e la contesa testé sorta fra gli Apostoli era stata motivata del desiderio di occupare i divani piu vicini a lui. Poiché la tavola era a semicerchio e i divani erano disposti radialmente all’esterno del semicerchio, si può ragionevolmente congetturare che Gesù occupasse il divano centrale al vertice del semicerchio; ma da quanto accennano gli evangelisti risulta che i divani più vicini a Gesù erano occupati da Pietro, Giovanni e Giuda Iscariota. Immaginandosi pertanto i commensali sdraiati sui divani e appoggiati col gomito sinistro verso la tavola, Gesù ch’era al centro doveva avere alle sue spalle Pietro, che così occupava il secondo posto nel grado onorifico; dall’altro lato, cioè davanti al petto di Gesù, doveva stare sdraiato Giovanni, che così poteva appoggiare il capo sul petto del maestro; Giuda Iscariota sta subito appresso a Giovanni, di modo che Gesù stendendo il braccio poteva senza difficoltà giungere a dargli un boccone di cibo. Schematicamente, dunque, la posizione dei commensali attorno alla tavola doveva presentarsi come nella figura della pagina di fronte. Ripresa la cena, non c’era tuttavia serenità fra i commensali: gli Apostoli erano rimasti turbati dall’affermazione di Gesù che essi non tutti erano mondi, e desideravano qualche schiarimento in proposito. Anche Gesù dal canto suo desiderava tornar sopra quell’argomento, non tanto per la giusta curiosità di coloro ch’erano mondi, quanto per la non richiesta purificazione di colui ch’era l’unico immondo: con quell’infelice bisognava ancora fare un tentativo, offrirgli un ultimo salvataggio. Perciò, quando si riprese a mangiare, Gesù parlando ancora genericamente citò un passo del Salmo (41, 10 ebr.): Chi mangia il pane mio alzò contro di me il suo calcagno (Giov., 13, 18; cfr. Marco, 14, 18). E, detto ciò, egli fu turbato nello spirito, aggiungendo senza nominare alcuno: In verità, in verità vi dico, che uno di voi mi tradirà. Fu uno sgomento generale. Proprio in quella serata cosi solenne e così affettuosa, si poteva parlare di tradimento? Proprio fra quei dodici uomini che si erano dati anima e corpo al maestro, si poteva dissimulare un traditore? Tutti allora con veemenza impetuosa, non senza una punta di sincero risentimento, domandarono a gara al maestro: Sono forse io, Signore? Gesù confermò nuovamente senza dir nomi, ma facendo risaltare la qualità particolarissima del traditore: Uno dei dodici! Chi intinge con me nel vassoio! (Marco, 14, 20). Tutti i commensali infatti, stendendosi dal loro divano, in tingevano il pane e le erbe amare in vassoi comuni che contenevano la salsa pasquale (§ 75), e ciascuno poteva servire a circa tre persone: probabilmente quello in cui intingeva Gesù serviva pure a Giovanni e a Giuda. Ma anche quest’ultima indicazione fu interpretata in senso vago dagli Apostoli, quasicché equivalesse alla precedente espressione uno dei dodici e designasse in genere chi intingeva in un vassoio qualsiasi della tavola comune: invece, probabilmente, Gesù aveva alluso al vassoio suo proprio. Ad ogni modo fra i commensali c’era colui che aveva ben capito, e appunto riferendosi a lui Gesù aggiunse parole che vollero essere l’ultimo spasimato grido di esortazione, l’estrema segnalazione dell’abisso: Poiché il figlio dell’uomo se ne va, conforme e’ scritto circa lui: guai però a quell’uomo da cui il figlio dell’uomo e’ tradito! Buona cosa (sarebbe) per lui, se non fosse nato quell’uomo!
§ 543. A questo punto Giuda non poteva più tacere; il suo silenzio, fra l’ansia trepidante dei molti, l’avrebbe da se stesso denunziato. Calmo, misurato, ma non senza un leggiero tremito nella voce, egli allora domandò come tutti gli altri: Sono forse io, Rabbi? Il traditore era sdraiato poco distante dal tradito; le teste dei due, rivolte verso la tavola, erano anche più vicine che non il resto dei loro corpi. Alla domanda di Giuda, che dovette passare inosservata ai più dei commensali, Gesù fece il supremo tentativo per la salvezza di lui; colse forse un momento in cui Giovanni, commensale intermedio, era sollevato col busto e badava altrove, e allora rispose sommessamente a Giuda: Tu (l’)hai detto! Era un modo ebraico per dare una risposta afferrnativa. Oramai non c’era più nulla da fare; il traditore sapeva di essere conosciuto come tale. Scegliesse lui: o consumare il tradimento svelato, o implorare il perdono dal sempre venerato maestro (§ 533). La sommessa risposta data da Gesù a Giuda era sfuggita agli altri commensali, salvo forse a Giovanni. Perciò il desiderio dì sapere qualcosa di preciso sul tradimento e sul traditore era vivissimo in tutti, e specialmente nel generoso Pietro. Costui non osò interrogare Gesù, per timore forse di ricevere una risposta severa come altre volte; tuttavia per giungere al suo intento egli trovò sagacemente la via buona, rivolgendosi a Giovanni. Il discepolo prediletto occupava il divano immediatamente a destra di Gesù cosicché, stando ambedue sdraiati ed appoggiati sul gomito sinistro, Gesù rivolgeva il seno verso Giovanni e di costui si poteva dire che era adagiato… nel seno di Gesu’ (in Giov., 13, 23); Pietro invece stava sul divano a Sinistra di Gesù, e Gesù gli voIgeva le spalle né lo vedeva direttamente. Però Pietro, approfittando della sua situazione, fece un cenno a Giovanni incitandolo a domandare a Gesù chi fosse il traditore di cui parlava; la manovra del resto era semplicissima, perché Pietro si era alzato sul busto, e attirata cosi l’attenzione di Giovanni gli avrà espresso il proprio desiderio a cenni, fatti più in alto della persona di Gesù ch’era ripiegato sul gomito sinistro. L’evangelista giovanetto comprese subito il desiderio di Pietro, e a sua volta fece una piccola manovra suggeritagli dal suo confidente cuore d’amico prediletto; giratosi egli per metà sul suo corpo, si puntò non più sul gomito sinistro ma sul destro, e così ritrovandosi anche più vicino al divano di Gesù appoggiò confidenzialmente la sua testa sul petto del maestro e stette a guardarlo negli occhi dal sotto in su, come un bambino reclinato sul seno del babbo e che aspetti una grazia. Quindi, sommessamente gli domandò: Signore, chi e? La domanda del piccolo amico prediletto fu esaudita, ma per il dsgraziato amico che franava verso l’abisso si ebbe ancora un ultimo riguardo. Nei pasti comuni degli Orientali antichi e anche dei moderni – era un gesto di cortesia offrire a un commensale un boccone bell’e preparato, cioè un frammento di pane che, chi usava la cortesia, staccava dalla focaccia comune, arrotolava, intingeva nel vassoio ove tutti intingevano, e così porgeva al convitato avvicinandoglielo alla bocca. Alla richiesta dunque di Giovanni, Gesù rispose: E’ quello a cui io intingerò il boccone e glie(lo) darò. E staccato un pezzo di pane, lo intinse e dette a Giuda. Il traditore ancora non era stato svelato, se non segretamente al fido Giovanni, e a quella cortesia di Gesù egli poteva ancora rinsavire; ma, impassibile, Giuda trangugiò il boccone senza dir nulla, mostrando con ciò d’aver fatto la sua scelta definitiva. E dopo il boccone – commenta qui il testimonio oculare e consapevole di quella scena – allora entrò in lui il Satana. Tuttavia Giuda stesso non resisté più oltre; si alzò dal suo divano per uscire. Gli dice pertanto Gesu’ “Ciò che fai, fa’ presto”. Ma nessuno dei commensali capì ciò, a che (scopo) glie(lo) disse. Alcuni infatti credevano che, siccome Giuda teneva la cassetta (§ 502), Gesu’ gli dicesse “Compra le cose di cui abbiamo bisogno per la festa”, ovvero, che desse qualcosa ai poveri. Preso pertanto il boccone, colui uscì subito. Era notte. E il traditore, uscito fuori, s’immerse nella sua doppia notte.
Istituzione dell’Eucaristia
§ 544. A questo punto, il banchetto pasquale doveva esser molto avanzato, e prossimo alla fine forse la seconda coppa era quasi consumata, e fra poco si doveva mescere la terza coppa (§ 75). A un tratto Gesù compié un’azione insolita, non contemplata dal rito della cena pasquale. Prese egli una focaccia di pane azimo e, dopo aver pronunziata una formula di benedizione, ne staccò dei pezzi che distribuì agli Apostoli dicendo: Prendete, mangiate; questo e’ il corpo mio, che per voi (e’) dato. Ciò fate nel mio ricordo.Poco dopo, probabilmente quando fu versata alla fine della cena la terza coppa rituale, egli prese un calice pieno di vino temperato e, avendo parimente reso grazie, ne fece bere a tutti dicendo: Bevete da esso tutti. Questo calice (e’) il nuovo testamento nel sangue mio, che per molti (e’) versato. Ciò fate, quante volte (ne) beviate, nel mio ricordo. Quale impressione facesse personalmente sugli Apostoli questa doppia azione di Gesù non ci vien detto dai Sinottici, ma ciò non significa gran che; d’assai maggior importanza è invece l’impressione e l’effetto permanente che ne ricevette tutta la primissima società cristiana, la quale fu l’interprete sotto ogni aspetto più autorevole di quella doppia azione di Gesù e delle parole che l’accompagnarono. E qui, per riscontrare i fatti storici, abbiamo a nostra disposizione due eccellenti specole d’osservazione, poste a una certa distanza l’una dall’altra. Circa venticinque anni dopo l’ultima cena di Gesù, Paolo scriveva ai cristiani di Corinto quella sua lettera (I Cor., 11, 23-29) ove l’Eucaristia è presentata come rito stabile e abituale, come rito per cui il fedele che vi partecipava mangiava veramente il corpo e beveva veramente il sangue di Gesù, come rito infine ricollegato direttamente con la doppia azione di Gesù nell’ultima cena e con la sua morte redentrice. Nessun dubbio che questo insegnamento di Paolo, da lui già trasmesso negli anni precedenti ai fedeli di Corinto (ivi, il, 23), fosse stato trasmesso anche alle altre comunità da lui catechizzate e si trovasse in pieno accordo con la catechesi degli altri Apostoli; questa, insomma, era la maniera in cui la catechesi primitiva e la liturgia primitiva interpretavano e rinnovavano la doppia azione compiuta da Gesù nell’ultima cena. Un quarantennio più tardi della lettera di Paolo incontriamo un’altra specola che funziona in maniera differente ma non meno precisa: è il IV vangelo, il solo vangelo che non racconti l’istituzione dell’Eucaristia. Già sappiamo che questo silenzio è più eloquente, in qualche modo, di un racconto effettivo (§§ 378-383); ma qui si può aggiungere un’altra considerazione. Anche dato e non concesso che autore del IV vangelo sia, non l’apostolo Giovanni, ma uno sconosciuto mistico solitario, questo autore molto probabilmente conosceva la lettera di Paolo, indubbiamente conosceva gli scritti dei Sinottici, certissimamente era edotto della liturgia eucaristica diffusa alla fine del secolo i ovunque era una comunità cristiana; egli dunque, della fede dei suoi tempi, è un testimonio silenzioso ma non meno efficace, in quanto serba silenzio sull’istituzione ma ne mette in sommo rilievo gli effetti spirituali col suo discorso sul pane vivo (§ 387 segg.): del resto oggi ciò è ammesso anche da studiosi radicali (§ 373, nota). In conclusione l’autore del IV vangelo concorda pienamente con la catechesi di Paolo e con quella dei Sinottici, e le conferma accettandole in parte silenziosamente, e in parte mettendole in accurato rilievo.
§ 545. Tornando ora agli Apostoli e all’impressione immediata che ricevettero dalle parole di Gesù, bisogna riconoscere che fu un’impressione meno nuova di quanto sembrerebbe a prima vista; anzi, in qualche modo, essa fu la risoluzione di un vecchio enigma che s’agitava nelle menti di quegli uomini. L’antico discorso sul pane vivo non solo non era stato giammai da essi dimenticato, ma piuttosto di tempo in tempo aveva dovuto riaffacciarsi alle loro menti come un’arcana promessa rimasta tuttora inadempiuta. In verità, in verità vi dico, se non mangiate la carne del figlio dell’uomo e beviate il sangue di lui, non avete vita in voi stessi… La carne mia è vero nutrimento, e il sangue mio e’ vera bevanda: chi mangia la mia carne e beve il mio sangue in me rimane e io in lui… chi mangia me, egli pure vivrà per me. Questo e’ il pane disceso dal cielo, ecc. Affermazioni di questo genere aveva fatte Gesù a Cafarnao molti mesi prima, ma fino all’ultima cena egli non aveva offerto maniera ai suoi discepoli di eseguire questo comando cosl essenziale per avere vita in se stessi. E in qual maniera, poi, avrebbe egli reso “molle” un discorso così duro (§ 382)? In qual maniera avrebbe reso umano e spirituale un banchetto che sembrava da antiopofagi? La “durezza” delle affermazioni aveva scandalizzato molti discepoli di Gesù, i quali lo avevano abbandonato: i dodici invece gli erano rimasti fedeli, perché il maestro aveva parole di vita eterna; tuttavia nei molti mesi trscorsi quelle parole ancora non erano state avverate, e certamente i dodici più d’una volta si saranno domandati dubbiosi se il maestro non si era dimenticato della piomessa, ovvero in che maniera l’avrebbe mantenuta. Improvvisamente, quella notte, essi vedono il maestro distribuire pane e vino, dicendo “Questo è il mio corpo”;”Questo e’ il mio sangue”. Con tale doppia azione e doppia affermazione il vecchio enigma era risolto, l’antica promessa era mantenuta, e il vero significato dell’azione e dell’affermazione appariva mirabilmente chiaro alla luce del discorso sul pane vivo: l’apparente pane e l’apparente vino allora distribuiti erano in realtà il corpo e il sangue del maestro. Chi pertanto abbia presente lo stile sentenzioso e riflesso di Giovanni troverà possibilissimo che, quando egli afferma aver Gesù amato i suoi (sino) in fine, con questa frase alluda appunto all’istituzione dell’Eucaristia da lui non raccontata (§ 541).
§ 546. Un’azione così importante di Gesù, compiuta da lui in circostanze cosi solenni, e per dippiù divenuta la base della vita religiosa della Chiesa fin dalla prima generazione cristiana, non poteva non attirare la particolarissima attenzione degli studiosi radicali. Gesù ha realmente compiuto la doppia azione e pronunziato la doppia affermazione dell’ultima cena? Ciò che i Sinottici e Paolo narrano su questo argomento è realmente storico, ovvero ha di storico soltanto un piccolo nucleo, ingrandito più tardi e travisato dall’elaborazione della prima generazione cristiana? Ebbe Gesù intenzione d’istituire un vero rito stabile da rinnovarsi in seguito dai suoi discepoli, ovvero fece una semplice azione simbolica la quale valeva solo in quanto fatta da lui in quelle circostanze, ma senza ch’egli comandasse di rinnovare l’azione in seguito? Queste ed altre domande concomitanti che furono proposte non riguardano soltanto l’Eucaristia in sé ma investono l’intera operosità di Gesù, che sarà valutata differentemente a seconda di come si risponde a queste domande. Se si accetta infatti il racconto dei Sinottici e di Paolo come sta, bisogna riconoscere che Gesù attribuiva alla sua morte un valore di redenzione (il corpo mio che per voi è dato;… il sangue mio che per molti e’ versato); bisogna anche ammettere che egli intendeva fondare una particolare religione, con un suo ben distinto rito, il quale ricordasse perennemente la morte redentrice del fondatore (ciò fate… nel mio ricordo). Ora, queste ed altre conseguenze smentivano più o meno ampiamente le interpretazioni che della figura e opera di Gesù davano le teorie contemporanee, da quella della Scuola liberale a quella degli escatologisti il mellifluo predicatore dell’universale paternità divina immaginato dai liberali (§ 204 segg.) non pensava certamente alla sua morte come a un vero sacrifizio di redenzione per l’umanità; tanto meno il visionario ritrovato dagli escatologisti poteva preoccuparsi di fondare una particolare religione con un ben distinto rito che sopravvivesse alla catastrofe del « secolo » presente (§ 209 segg.). Per salvare dunque le teorie bisognava dimostrare che Gesù non ha affatto istituito l’Eucaristia; e per ottenere ciò bisognava sottoporre a una vigile interpretazione i racconti dei Sinottici e di Paolo. Ora, noi già sappiamo che le vigili interpretazioni degli studiosi radicali si riducono, immancabilmente, a ripudiare come aggiunti e tardivi quei passi che non s’inquadrano in una preconcetta teoria; ma in questo caso, meglio forse che in ogni altra questione dei vangeli, appare chiaramente la ferrea necessità della logica per cui, quando in siffatti testi si cominci a negare una parte, si finisce inevitabilmente a negare e ripudiare tutto quanto.
§ 547. Si cominciò dunque col negare che Gesù avesse comandato agli Apostoli di rinnovare in seguito il rito, rendendolo un rito perenne; poiché infatti il gruppo di Matteo e di Marco non riferisce le parole ciò fate… nel mio ricordo, se ne concluse che tali parole no un’aggiunta posteriore introdotta dal gruppo di Paolo e di Luca, e quindi da ripudiarsi. Rimaneva però ancora molto, cioè che il corpo di Gesù per voi e’ dato, che il calice del suo sangue è il nuovo testamento ed è per molti versato: rimaneva insomma l’idea della morte redentrice del Cristo. Ma anche questo molto fu man mano ripudiato con lo stesso procedimento: si decretò che erano tutte aggiunte posteriori, dovute all’influenza delle elaborazioni teologiche di Paolo. E vero che pure nel gruppo di Matteo e di Marco si trova che il sangue del Cristo è il sangue del (nuovo) testamento e che per molti e’ versato in remissione di peccati. Ma ciò che dimostrava? Nulla. Anche questo era da ripudiarsi, come un’aggiunta dovuta all’influenza di Paolo. Rimanevano quindi, come primitive, le sole parole Questo e’ il corpo mio; Questo è il sangue mio, pronunziate alludendo ai convito messianico, presentando il pane e il vino come simbolo di quel convito, ma senza relazione alla sua imminente morte. Eppure, anche dopo queste amputazioni, restavano ancora seri dubbi. Erano proprio primitive e genuine ambedue quelle affermazioni risparmiate? Ci si ripensò sopra, e si finì per concludere che non potevano essere risparruiate asnbedue. Alla nuova amputazione offrì pretesto il fatto che, tra la congerie di codici antichissimi e tutti sostanzialmente uniformi, ve n’era uno – il disputatissimo codice di Beza – suffragato da pochi altri di antiche versioni, nel quale il racconto di Luca è ridotto a queste parole: E preso il pane, avendo reso grazie (lo) spezzò e dette loro dicendo: “Questo e’ il corpo mio”; tutto il resto è ivi omesso, compresa la distribuzione del vino e le relative parole. Questo – si disse – era il racconto primitivo: la sola presentazione del pane, senza alcuna contrapposizione del pane-corpo al vino-sangue, ossia senza l’idea della morte, e naturalmente senza il comando di rinnovare il rito in seguito. Rimaneva cosi il pane insieme con la sua presentazione. Eppure anche questo rudere superstite non soddisfece, se non altro perché troppo esigno e insignificante. Che cosa, insomma, aveva Gesù inteso fare presentando il pane come suo corpo? Non aveva egli mangiato centinaia di volte il pane insieme con i suoi discepoli? Ovvero quella volta il pasto comune aveva un significato particolare come pasto di haberuth, di « colleganza » (§ 39)? Ma in tal caso il suo significato particolare gli proveniva dalla morte imminente di Gesù, e quindi si ritornava alla già respinta relazione con la morte. No, con tutte le precedenti amputazioni non si era ottenuto nulla di sicuro; per trovare un terreno storico più sodo e spazioso bisognava scendere alla liturgia della Chiesa primitiva, e ricercare che cosa intendessero fare quei primi cristiani compiendo il rito dell’Eucaristia e attribuendone l’istituzione a Gesù. E, in primo luogo, era un rito di provenienza giudaica o straniera? Si ricercò nel giudaismo tardivo, ma non se ne trasse nulla di soddisfacente. Fu applicato il metodo della Storia comparata delle religioni (§ 214). Si pensò a primitivi riti di totemismo e di teofagia; più accuratamente s’investigarono i riti di Iside ed Osiride, e l’emofagia dei culti di Sabazio e di Dioniso; un’attenzione anche maggiore si portò ai misteri Eleusini e ai banchetti di Mithra. Certamente si trovarono notizie peregrine e si fecero osservazioni importanti su questi riti pagani; ma quando si giunge al vero nodo della questione, ossia alle loro relazioni col rito eucaristico del cristianesimo primitivo, si presero anche lucciole per lanterne e si affermò che una zanzara è uguale in tutto a un’aquila dal momento che ambedue hanno le ali e volano e si nutrono di sangue. Soprattutto, poi, queste dotte ricerche parvero come tanti voli fatti in aria, lontano dal terreno della realtà storica: prima di pensare a Iside ed Osiride e ad altre infiltrazioni orientali, bisognava infatti fare i conti con S. Paolo e vedere se egli lasciava il tempo materiale al penetrare di tali infiltrazioni nel cristianesimo.
§ 548. S. Paolo infatti scrive la sua lettera ai Corinti nell’anno 56, ma egli stesso dice di avere ammaestrato oralmente i Corinti sul rito eucaristico in precedenza (§ 544), ossia quando aveva fondato quella comunità cristiana. Ciò era avvenuto nell’anno 51. Ma anche quest’anno è troppo tardivo per la nostra questione, perché in quel tempo Paolo possedeva gia riguardo all’Eucaristia la sua dottrina ben definita e certamente concorde con la catechesi e con la dottrina delle altre comunità: ossia egli la possedeva già prima del 50, a meno d’un ventennio dall’ultima cena di Gesù. Ma anche da questo ventennio sono da togliersi altri anni. Solo verso il 36 Paolo, fino allora intransigente fariseo, passa nel numero dei perseguitati discepoli del Cristo; ma naturalmente ancora per parecchio tempo egli rimane nella penombra e mena una vita o del tutto solitaria o semipubblica fra l’Arabia, Damasco e Tarso. Soltanto col primo grande viaggio missionario Paolo diventa una figura di primo piano nel cristianesimo primitivo, ma è il viaggio che comincia tra il 44-45 per terminare nel 49; siamo con ciò al periodo, testé accennato, in cui Paolo già possedeva una dottrina ben definita riguardo all’Eucaristia. Ora, troppe e troppo inverosimili cose sarebbero da ammassarsi, secondo l’ipotesi radicale, in questo decennio che va dal 36 al 45 circa, per potersi ammettere quell’ipotesi. In primo luogo che Paolo, indomabile avversario dell’idolatria ieri come Fariseo e oggi come discepolo del Cristo, prenda appunto dall’idolatria quello che sarà il fondamentale rito liturgico del cristianesimo; inoltre che egli abbia, in quei suoi primi anni, tanta autorità da diffonderlo nelle chiese cristiane della più diversa origine; poi, che egli riesca cosi rapidamente in questa diffusione da ottenere che già prima del 50 il rito fosse comune, fondamentale, unico. No: questa non è storia; sono voli di fantasia, guidata da preconcetti ma non dai documenti. La pagina di Paolo sull’Eucaristia è tale documento da troncare tutti codesti voli; essa, debitamente illuminata dall’operosità dei primi anni cristiani di Paolo, dimostra che l’apostolo ha desunto la sua dottrina eucaristica dalla chiesa di Gerusalemme, verso la quale egli ha tenuto sempre fisso lo sguardo e nella quale si è recato anche più volte in persona nel decennio suddetto. E la chiesa di Gerusalemme era quella dov’era avvenuta l’ultima cena di Gesù. La forza di questo elementare ragionamento è stata sentita anche nel campo degli studiosi radicali, almeno dai più logici e franchi tra essi. E allora non è rimasto altro che fare l’ultimo passo nella via della negazione, ricorrendo al solito metodo di dichiarare aggiunta e tardiva la pagina di Paolo. E anche questo passo è stato fatto: il racconto paolino dell’Eucaristia è stato dichiarato falso e interpolato, per la sola ma decisiva ragione che non si accorda con la teoria preconcetta (§ 219). Qualunque studioso sereno giudicherà sul carattere scientifico di questi procedimenti.
Predizione del rinnegamento di Pietro
§ 549. La cena era finita con la recita della seconda parte dell’HalleI (cfr. hymno dicto; Matteo, 26, 30; Marco, 14, 26) e con la consumazione della quarta coppa. Ma la comitiva s’intrattenne ancora molto tempo nella sala della cena, come si usava nella notte di Pasqua (§ 75); durante questo lungo indugio avvenne, secondo Luca (22 31 segg.) e Giovanni (13, 36 segg.) la predizione della dispersione degli Apostoli e del rinnegamento di Pietro, che secondo Matteo e Marco semhrerebbe avvenuta dopo l’uscita dalla sala. A un certo punto Gesù, rivoltosi agli Apostoli, mestamente dice loro: Voi tutti prenderete scandalo in me in questa notte; sta scritto infatti “Percoterò il pastore, e saranno disperse. le pecore del gregge” (cfr. Zacharia, I 3, 7). Ma dopo che io sia risorto, vi precederò nella Galilea. Era un’altra ancora di quelle tetre previsioni che davano tanto sui nervi agli Apostoli. La loro insofferenza apparve subito sul viso a parecchi, e specialmente all’impetuoso Pietro. Ma Gesù non cambia tono; anzi, voltandosi proprio verso Pietro, soggiunge: Simone! Simone! Ecco il Satana cercò di voi (altri), per vagliar(vi) come (si vaglia) il grano. Ma io pregai per te affinché non venga meno la tua fede; e tu, una volta tornato addietro, conferma i tuoi fratelli. Al bravo Pietro queste parole non piacquero affatto: egli voleva un gran bene a Gesù e, qualunque tentativo avesse fatto Satana, non avrebbe mai commesso contro il maestro alcuna vigliaccheria da cui sarebbe tornato addietro. Il dispiacere di Pietro si colori anche di un certo risentimento, e in un dialoghetto con Gesù di cui gli evangelisti riportano frasi staccate egli disse fra altro: Se tutti si scandalizzeranno in te, io non mai mi scandalizzerò! – Signore! Con te sono pronto ad andare in carcere e a morte! Nessuno, certamente, avrebbe pensato a richiamare in dubbio la sincerità di Pietro quando parlava cosl; tuttavia Gesù, calmo e paziente, gli dette la seguente risposta, riportata da Marco (14, 30) che l’avrà udita centinaia di volte da Pietro stesso quando predicava: in verità ti dico che tu oggi, questa notte, prima che (il) gallo abbia cantato due volte, mi avrai rinnegato tre volte. Questo era troppo per Pietro! Un fiume di proteste e d’attestazioni eruppe allora dalla sua bocca; Marco, volendo forse usare un certo riguardo al suo padre spirituale, accenna a questo fiume dicendo che Pietro parla in maniera sovrabbondante e ripeteva che, seppure avesse dovuto morire insieme col maestro, non lo avrebbe rinnegato. Altrettanto, più o meno, dicevano anche gli altri Apostoli. Gesù dal canto suo mostrava di non avere troppa fiducia, non già sulla sincerità, ma sulla sodezza di tutte queste attestazioni, e continuò ad esortarli affinché, come avevano avuto fiducia in lui nel passato, l’avessero anche nella durissima lotta che allora stava per cominciare (Luca, 22, 35-37). A questa esortazione, la focosità bellicosa degli Apostoli divampa anche più. Se è venuto il momento di lottare e combattere, essi sono tutti pronti: o vinceranno a fianco al maestro, o cadranno tutti con le arini in pugno! E passando subito dalle parole ai fatti, rivolgono al loro capitano ciò che sembra quasi un invito a passare in rivista il loro armamento. C’erano in quella sala, forse a caso, due spade. Mostrandole a Gesù, essi gli dicono: Signore, ecco qui due spade! E Gesù con infinita pazienza, forse con un mesto sorriso, risponde: Basta (così). Quante cose rimanevano velate sotto quel Basta così! Fino all’ultimo momento, né gli Apostoli smentivano la loro grossezza di mente nel comprendere, né Gesù abbreviava la sua longanimità di cuore nel tollerare.
Gli ultimi colloqui
§ 550. Il solo Giovanni riferisce questi colloqui, conforme alle sue predilezioni e quasi in compenso di non aver riferito l’istituzione dell’Eucaristia. Né letterariamente né concettualmente questi discorsi potranno mai esser classificati o riassunti. Essi sono un’eruzione impetuosa di sentimenti che non è contenuta né diretta da alcuna norma, ma solo vien giù come scaturisce da un vulcano di amore; e la lava incandescente s’avanza ora pianamente e ora a sbalzi, con progressi e con retroversioni, inonda monticelli e burroni, e travolgendo tutto trasforma ogni zona sommersa in un lago infiammato. L’amore per il Padre celeste: l’amore per i discepoli terrestri. Il Padre, a cui fra ore Gesù ritorna: i discepoli, da cui fra ore egli si allontana. Ma sebbene tanto sublimi, questi colloqui non astraggono dalla realtà umana e terrena, bensi in alcuni punti la seguono minutamente con l’intenzione appunto di farla diventare una realtà transumana e ultraterrena. La piena effusione d’amore era trattenuta ancora da un impedimento, la presenza di Giuda; ma quando costui uscì, Gesu’ disse: “Adesso fu glorificato il figlio dell’uomo, e Iddio fu glorificato in lui; se Iddio fu glorificato in lui, pure Iddio lo glorificherà in lui (stesso) e subito lo glorificherà. Figliolini, ancora un poco sono con voi. Mi cercherete, e come dissi ai Giudei “dove io vado voi non potete venire’” (§ 419), (così) pure a voi dico adesso. Un comandamento nuovo vi do che vi amiate gli uni gli altri; come (io) vi amai, (comando) che pure voi vi amiate gli uni gli altri. In ciò conosceranno tutti che siete miei discepoli, qualora abbiate amore gli uni agli altri”. Con ciò Gesù ha consegnato la tessera di riconoscimento ai propri discepoli. Nell’antichità, sia giudaica sia greco-romana, le varie associazioni o religiose o culturali o d’altro genere avevano spesso una nota distintiva che contrassegnava la loro operosità e serviva quasi da tessera 1di riconoscimento ai propri membri: talvolta, anche, essi si servivano di un motto, di un aforisma, che rispecchiava in qualche modo quella nota distintiva. Qui, per Gesù, la nota distintiva che servirà da tessera di riconoscimento per i suoi seguaci dovrà essere, non la scienza della “tradizione” come per i Farisei né la scienza dei numeri come per i Pitagorici né altre scienze o altre pratiche come per altre associazioni, bensi la scienza e la pratica dell’amore. Perciò egli ha chiamato questo suo precetto un comandamento nuovo, perché in realtà nessun fondatore di precedenti associazioni aveva pensato di assegnarlo e distribuirlo ai propri seguaci come tessera di riconoscimento. Se alla civiltà d’allora Roma aveva contribuito creando la Forza e il Diritto; se, anche prima, la Grecia aveva elargito all’umanità la Bellezza e la Sapienza; se, proprio in quell’epoca, le varie religioni orientali diffondevano nel mondo greco-romano correnti mistiche d’indole varia: nessuno ancora aveva importato come forza sociale l’amore, perché l’”amore”, nel più ampio senso – ossia la carità – ancora non era staton “inventato”. E la novità di questo elemento allora importato fece grande impressione sui contemporanei. E’ noto il passo di Tertulliano che, descrivendo questa impressione, riferisce le esclamazioni dei pagani riguardo ai cristiani: “Guarda come si amano fra loro!” (essi in/atti si odiano fra loro). “E come son pronti a morir l’uno per l’altro” (essi infatti sono anche piu’ pronti ad ammazzarsi l’un altro). D’ora innanzi la futura società umana dovrà fare i conti con questa novità inventata e importata da Gesù, e il vero progresso umano sarà misurato in ragione di quanto la legge dell’”amore-carità” sarà realmente obbedita.
§ 551. Dopo un dialogo con Pietro e con Tommaso, Gesù continuò: “In verità, in verità vi dico, chi ha fede in me le opere che io faccio anch’egli farà, e maggiori di queste farà perché io vado al Padre; e ciò che chiediate in nome mio lo farò, affinché sia glorificato il Padre nel Figlio: se mi chiederete alcunché in mio nome” io (lo) farò. Se mi amate, custodite i miei comandamenti. E io pregherò il Padre ed (egli) vi darà un altro difensore affinché sia insieme con voi in eterno, (cioe’) lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede nè conosce; voi (invece) lo conoscete, perché presso voi rimane ed in voi sarà. Non vi lascerò orfani: verrò a voi. Ancora un poco e il mondo non mi vede piu’; voi invece mi vedete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi conoscerete che io (sono) nel Padre mio, e voi in me, e io in voi. Chi ha i miei comandamenti e li custodisce, questi è colui che mi ama; colui poi che mi ama sarà amato dal Padre mio, ed io l’amerò e manifesterò me stesso a lui”. All’udire tutto ciò i poveri Apostoli non potevano non sentirsi quasi del tutto smarriti, e dovevano brancolare fra quei concetti come in mezzo ad una nebbia luminosa. Una nuova domanda, fatta questa volta da Giuda (Taddeo), svia alquanto il discorso; poi Gesù riprende: “Pace lascio a voi, la pace mia do a voi: non come il mondo (la) dà, io (la) do a voi. Non si turbi il vostro cuore nè si sgomenti. Udiste che io vi dissi “vado, e (poi) vengo a voi”; se mi amaste, godreste che io vado al Padre, perché il Padre e’ maggiore di me. E adesso ve (l’)ho detto prima che avvenga, affinché quando sia avvenuto crediate. Non parlerò piti con voi di molte cose, perché il principe del mondo sta per venire; e in me non ha nulla, bensì (ciò accade) affinché il mondo conosca che io amo il Padre e come il Padre mi comandò cosi faccio. Sorgete: partiamo di qua “ E’ molto probabile che questo invito a partire dal cenacolo non fosse immediatamente eseguito, giacché la vera uscita dalla città è segnalata molto più tardi, a colloqui finiti (Giov., 18, 1); fu dunque quasi un generico ricordo che bisognava abbandonare quel luogo di calda intimità, quell’ultimo convegno di Gesù con i suoi diletti prima della morte. Ma, come suole avvenire in occasione di distacchi supremi, quel primo appello a partire fu seguito da un altro indugio amoroso in cui Gesù seguitò a parlare, provocato forse da questo o quello dei presenti: frattanto il prediletto dei discepoli attentissimamente raccoglieva le sue parole e se le imprimeva nella vigile memoria, per ripeterle più tardi come evangelista spirituale (§§ 167 segg., 290).
§ 552. Immediatamente infatti dopo l’appello alla partenza, Gesù continua: “Io sono la vite vera, e il Padre mio e’ il viticultore… Io sono la vite, voi i tralci; chi rimane in me e io in lui, costui porta molto frutto, perché senza me non potete far niente. Se alcuno non rimanga in me sarà gettato fuori come il frascame e si disseccherò, e lo raccoglieranno in fasci e getteranno nel fuoco e brucerà; qualora (invece) rimaniate in me le mie parole rimangano in voi, domandate ciò che vogliate e sarà (dato) a voi. In ciò fu glorificato il Padre mio, che portiate molto frutto e siate miei discepoli. Come amò me il Padre, anch’io amai voi: rimanete nel mio amore. Qualora custodiate i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho custodito i comandamenti del Padre mio e rimango nell’amore di lui. Di queste cose ho parlato con voi affinché il mio gaudio sia in voi e il gaudio vostro sia compiuto. Questo e’ il coinandamento mio, che vi amiate gli uni gli altri come (io) vi amai: maggiore di questo nessuno ha un amore, che taluno la sua vita (ri)metta in pro dei suoi amici. Voi siete amici miei, qualora facciate ciò che io vi comando. Non vi dico piu’ servi, perché il servo non sa che cosa fa il suo signore: vi ho detti invece amici, perché tutte le cose che udii dal Padre mio resi note a voi… Queste cose vi comando” che vi amiate gli uni gli altri. Se il mondo vi odia, conoscete che ha odiato me prima di voi. Se foste dal mondo, il mondo amerebbe la (sua) proprietà; perché invece non siete dal mondo bensi io vi trassi fuori dal mondo, per questo il mondo vi odia… Di queste cose ho parlato a voi affinché non vi scandatizziate. Vi renderanno privi di sinagoga. (§ 430), anzi verrà un’ora in cui chiunque vi uccida creda di ofirire culto a Iddio; e faranno tali cose perché non conobbero il Padre nè me. Tuttavia vi ho parlato di queste cose, affinché quando venga la loro ora vi rammentiate di esse, che io ve (le) dissi; non vi dissi invece queste cose da principio, perché ero con voi. Ma adesso me ne vado a Colui che m’inviò…”. Dopo altre intertogazioni degli Apostoli, Gesù chiude il colloquio dicendo “Di queste cose vi ho parlato, affinché in me abbiate pace: nel mondo avete tribolazione. Tuttavia fatevi coraggio: io ho vinto il mondo”.
§ 553. Dopo questi colloqui con gli Apostoli, l’evangelista spirituale soggiunse immediatamente quel colloquio di Gesù col Padre celeste ch’è designato comunemente dagli studiosi come la “preghiera sacerdotale” (Giov., 17, 1-26). In essa Gesù prega dapprima il Padre per se stesso, per esser da lui glorificato (17, 1-5); quindi per gli Apostoli, perché siano protetti nella loro futura missione (17, 6-19); infine per tutti coloro che crederanno in lui (17, 20-26). E’ la più lunga preghiera di Gesù riportata nei vangeli; e con fine accortezza provvide Giovanni a far si che questo inestimabile tesoro, tralasciato dai Sinottici, non andasse perduto perché egli lo considerò giustamente come riepilogo di tutta l’operosità di Gesù, quasi ultimo fiore di fuoco sbocciato sul sommo vertice della sua vita. Più in su di quel fiore luminoso non c’è che il cielo del Padre: Tali cose parlò Gesu’; ed elevati i suoi occhi al cielo, disse: “Padre” è venuta l’ora. Glorifica il figlio tuo affinché il figlio glorifichi te, conforme gli desti potestà su ogni carne, affinché a tutti coloro che gli hai dati (egli) dia vita eterna. Ora, questa e’ la vita eterna, che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che inviasti, Gesu’ Cristo. Io ti glorificai sulla terra, avendo compiuto l’opera che mi hai data da fare; e adesso tu, Padre, glorifica me presso te stesso con la gloria che avevo, prima che il mondo fosse, presso di te. Manifestai il tuo nome agli uomini che mi desti dal mondo. Tuoi erano e a me li desti, e la tua parola hanno custodita. Adesso sanno che tutte quante le cose che mi hai date sono da te: poiché le parole che desti a me (io) ho date a loro, ed essi (le) ricevettero e conobbero veramente che da te uscii e credettero che tu m’inviasti. Io per essi prego: non per il mondo prego, ma per quelli che mi hai dati perché sono tuoi; e tutte le cose mie sono tue, e le tue (sono) mie e sono stato glorificato in esse. E (io) non sono piu’ nel mondo – mentre essi sono nel mondo – e io vengo a te. Padre santo, custodiscili nel nome tuo che mi hai dato, affinché siano una sola cosa come noi. Quando ero con loro, io li custodivo nel nome tuo che mi hai dato, e feci guardia, e nessuno di essi perì se non il figlio della perdizione affinché s’adempisse la Scrittura. Ma adesso vengo a te, e queste cose parlo nel mondo affinché abbiano il gaudio mio compiuto in se stessi. Io ho dato a loro la tua parola, e il mondo li odiò perché (essi) non sono dal mondo come io non sono dal mondo. Non prego che (tu) li tolga dal mondo, bensì che li custodisca dal male: dal mondo non sono (essi), come io non sono dal mondo. Santificali nella verità: la tua parola è verità. Come (tu) inviasti me nel mondo, anch’io inviai essi nel mondo; e per essi io santifico me stesso, affinché siano anch’essi santificati ne(lla) verità. Non prego però per questi soltanto, ma anche per quelli che credono in me mediante la loro parola, affinché tutti siano una sola cosa come tu Padre (sei) in me e io in te, affinché anche essi siano in noi, affinché il mondo creda che tu m’inviasti. Io pure la gloria che mi hai data ho data ad essi, affinché siano una sola cosa come noi (siamo) una sola cosa. Io in essi e tu in me, affinché siano consumati in uno affinché conosca il mondo che tu inviasti me e amasti essi come amasti me. Padre, quei che mi hai dati voglio che dove sono io anch’essi siano come me, affinché vedano la gloria mia che mi hai data, perché mi amasti prima della creazione del mondo. Padre giusto, ancorché il mondo non ti conobbe, io invece ti conobbi, e costoro conobbero che tu m’inviasti; e resi noto ad essi il tuo nome e (lo) renderò noto, affinché l’amore col quale mi amasti sia in essi ed io in essi ».