Vangelo di Gesù Cristo secondo MATTEO 6

annunciation1.jpgCapitolo undicesimo

1 Quando Gesù ebbe terminato di dare queste istruzioni ai suoi dodici discepoli, partì di là per insegnare e

predicare nelle loro città.

2 Giovanni intanto, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, mandò a dirgli per

mezzo dei suoi discepoli: 3 “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?”. 4 Gesù rispose:

“Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: 5 I ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, i

lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l’udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella, 6 e

beato colui che non si scandalizza di me”. 7 Mentre questi se ne andavano, Gesù si mise a parlare di

Giovanni alle folle: “Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? 8 Che cosa

dunque siete andati a vedere? Un uomo avvolto in morbide vesti? Coloro che portano morbide vesti stanno

nei palazzi dei re! 9 E allora, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, vi dico, anche più di un profeta.

10 Egli è colui, del quale sta scritto:

Ecco, io mando davanti a te il mio messaggero

che preparerà la tua via davanti a te.

Giovanni aveva annunciato il Messia in questi termini: “Colui che viene dopo di me è più potente di me e io

non sono degno neanche di portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito santo e fuoco. Egli ha in mano il

ventilabro, pulirà la sua aia e raccoglierà il suo grano nel granaio, ma brucerà la pula con un fuoco

inestinguibile”(Mt 3,11-12). L’attività di Gesù non rispecchia questa presentazione. Egli è sì “più potente” di

Giovanni, ma più potente nell’amore. Egli si rivolge a tutti con amore e misericordia. Non castiga i peccatori,

ma li perdona (Mt 9,2).

Gesù risponde a Giovanni proprio presentando le sue opere che sono la causa dei dubbi del Battista, dei

suoi discepoli e di tutti coloro che aspettano il Dio giudice invece del Dio salvatore (Mt 1,21). Richiamandosi

a Is 29,18-19; 35,5-6; 6,1, Gesù annuncia una concezione di Dio e della salvezza diversa da quella di

Giovanni. Il Dio diventato uomo in Gesù di Nazaret è diverso da come se l’aspettavano Giovanni e i giudei di

allora, ma è anche tanto diverso da come ce l’aspettiamo noi quando lo pensiamo nella linea della potenza

invece che nella linea dell’amore.

Il vangelo della croce, il vangelo di Gesù che ama gli uomini fino alle estreme conseguenze dando la vita per

i peccatori, mette a dura prova la fede di tutti. Lo scandalo dell’amore infinito di Dio, che lo porta alla croce,

scandalizza Giovanni il Battista prima ancora di scandalizzare Pietro (Mt 16,21-23). Beati quelli che non si

scandalizzano delle scelte fatte da Dio, le scelte dell’amore. Beati quelli che si convertono dalla falsa

immagine di Dio e credono nel Dio del vangelo (Mc 1,15).

Per essere nel numero dei beati che non si scandalizzano di Gesù bisogna entrare nel numero di quei

“poveri” ai quali “è predicata la buona novella” (Mt 11,5; Is 61,1). L’azione che Gesù rivolge ai poveri, ai

piccoli, agli insignificanti è la chiave per comprendere “il vangelo del Regno” (Mt 9,35).

Non deve meravigliare se Gesù è una bellissima sorpresa per tutti. Anche Giovanni il Battista “il più grande

tra i nati di donna” (v. 11) rimane frastornato. E non poteva essere diversamente. Era un uomo. E anche il

più grande degli uomini rimane sempre infinitamente al di sotto di ciò che si può dire sul conto di Dio e di ciò

che ci si può attendere da Dio.

Gesù riconosce in Giovanni un uomo fermo e inflessibile nel proclamare la verità di Dio anche davanti ai

potenti della terra (Mt 14,3-12), un uomo povero e ascetico come tutti i grandi inviati di Dio (Mt 3,4). Giovanni

è colui che ha preparato la via al Signore Gesù (Mt 3,3). Per questo Gesù tributa a Giovanni un giudizio di

massimo rispetto proclamandolo “più che un profeta” e “il più grande tra i nati di donna”.

11 In verità vi dico: tra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il Battista; tuttavia il più piccolo

nel regno dei cieli è più grande di lui. 12 Dai giorni di Giovanni il Battista fino ad ora, il regno dei cieli soffre

violenza e i violenti se ne impadroniscono. 13 La Legge e tutti i Profeti infatti hanno profetato fino a Giovanni.

14 E se lo volete accettare, egli è quell’Elia che deve venire. 15 Chi ha orecchi intenda.

Il discorso su Giovanni però continua. Gesù riprende con l’espressione “in verità vi dico” che serve a dare

rilievo e importanza a quanto segue: “Tra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il Battista;

tuttavia il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui” (v. 11). Gesù passa dalla realtà umana (lo stato di

figlio di donna) alla realtà di figlio di Dio che solo i “piccoli” possiedono. Con questa affermazione Gesù

sconvolge totalmente la concezione di ciò che è grande e di ciò che è piccolo. La vera grandezza è la

piccolezza. Il vero “più piccolo” nel regno dei cieli è proprio il Signore Gesù, il quale non si presenta come il

giudice adirato annunciato dal Battista (Mt 3,6-12), ma come il Servo che solidarizza con i peccatori e dà la

sua vita per loro (Mt 3,3-17; 12,15-21; 20,28).

Gesù esprime il suo giudizio sul Battista. La grandezza di Giovanni non consiste soprattutto nell’austerità

della sua vita e nella fortezza del suo carattere, ma nell’aver preparato la via davanti al Cristo.

Giovanni Battista è inserito nella linea di continuità con i profeti dell’Antico Testamento, i quali hanno

preparato la via a Gesù. In questo senso è il più grande: perché in lui l’attesa d’Israele trova il suo

compimento. Ma vi è al tempo stesso una rottura: il regno dei cieli. divenuto vicino agli uomini in Gesù, è di

una novità assolutamente radicale; in questo senso il più piccolo nel regno dei cieli, cioè il discepolo di Gesù,

è più grande di lui. Si passa così dalla realtà umana (lo stato di figlio nato da donna) alla realtà divina (lo

stato di figlio del Padre) che solo i piccoli possono comprendere.

Ciò che Giovanni deve scoprire, e con lui gli ascoltatori di Gesù di tutti i tempi, è che Gesù sconvolge

totalmente la concezione di ciò che è grande e di ciò che è piccolo: la vera grandezza è la piccolezza, quello

scomparire che si manifesta nell’atteggiamento di Gesù. Il vero “più piccolo” nel regno dei cieli è proprio

Gesù, la cui autorità sovrana non assume i tratti del giudice adirato (cfr l’annuncio del Battista in Mt 3,8-12),

ma quello di un servitore che si impegna con gli uomini e patisce con essi (cfr Mt 3,13-17; 20,28).

“Dai giorni di Giovanni Battista fino ad ora il regno dei cieli soffre violenza, e i violenti se ne impadroniscono”

(v. 12) è un’espressione interpretata in vari modi. Può trattarsi: 1. della santa violenza di coloro che si

impadroniscono del regno dei cieli a prezzo di dure rinunce; 2.della violenza malvagia di coloro che

pretendono di stabilire il Regno con le armi (gli zeloti); 3. della tirannia delle potenze demoniache, o dei loro

fautori terreni, che pretendono di conservare l’impero di questo mondo e impedire l’affermazione del regno di

Dio. Infine alcuni traducono: “il regno dei cieli si fa strada con violenza”, cioè si stabilisce con forza a dispetto

di tutti gli ostacoli.

Senza nulla togliere alle varie interpretazioni, il contesto di Matteo consiglia la terza là dove dice: “Guai a voi

scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti agli uomini; perché così voi non vi entrate, e non

lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrarci” (Mt 23,13).

L’interpretazione cristiana del Battista identifica Giovanni con l’atteso Elia quale precursore del Messia (Ml

3,23-24; Sir 48,10). Il rifiuto del Battista da parte degli scribi e dei farisei è intimamente legato col rifiuto di

Gesù da parte degli stessi (Mt 11,19). Chi rifiuta il Messia, rifiuta anche colui che l’ha preceduto. Il destino

del Messia è anche il destino del suo precursore (Mt 17,12).

Questa parte del discorso si conclude con un grido di risveglio (v. 15). L’uomo della Bibbia è ascoltatore

della Parola. Ascoltando egli giunge alla fede, non ascoltando si rende colpevole.

Gesù ha pienamente riconosciuto il Battista e la sua opera e gli ha tributato un giudizio di massimo rispetto

definendolo “più che un profeta” e “il più grande tra i nati di donna”.

16 Ma a chi paragonerò io questa generazione? Essa è simile a quei fanciulli seduti sulle piazze che si

rivolgono agli altri compagni e dicono:

17 Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato,

abbiamo cantato un lamento e non avete pianto.

18 E’ venuto Giovanni, che non mangia e non beve, e hanno detto: Ha un demonio. 19 E’ venuto il Figlio

dell’uomo, che mangia e beve, e dicono: Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei

peccatori. Ma alla sapienza è stata resa giustizia dalle sue opere”.

Di fronte a Giovanni che è “più che un profeta” (Mt 11,9) e a Gesù che è il Messia, “questa generazione”

recalcitra come dei monelli che si rifiutano di stare al gioco. L’espressione “questa generazione” designa tutti

coloro che sono incapaci di udire, di vedere e di giudicare adeguatamente. Gesù rimprovera agli uomini di

“questa generazione” di essere come bambini capricciosi che vogliono essere lasciati in pace, che non

vogliono essere sollecitati a fare delle scelte. Rifiutano un atteggiamento e anche il suo contrario, criticano

una proposta e anche l’altra: e questo è la prova della loro insincerità e della loro cattiva volontà.

I canti di gioia che invitano alla danza simboleggiano l’opera di Gesù, la sua comunione conviviale con i

peccatori. Le lamentazioni indicano il Battista e la sua vita ascetica. Entrambi hanno incontrato il rifiuto di

“questa generazione”.

La generazione del rifiuto ha preso la scusa dalla vita austera del Battista per muovergli l’accusa di essere

un ossesso. L’accusa rivolta a Gesù si riferisce alla sua comunione conviviale con i pubblicani e i peccatori

(Mt 9,11), che manifestava la sua offerta di grazia per tutti e la sua misericordia. Il rimprovero “mangione e

beone” equivale a buono a nulla, fannullone, parassita.

Di fronte a un giudizio così offensivo, duro e umiliante, Gesù ha una giustificazione da presentare: le sue

opere. Matteo parla delle opere della sapienza e dice che la sapienza personificata è Cristo (cfr 1Cor 1, 24.

30).

“Ma alla sapienza è stata resa giustizia dalle sue opere” (v. 19). La sapienza designa l’azione di Dio nella

creazione e nella storia (cf. Sir 24; 42,15-25; Sap 10,1-11) ed esprime la volontà di Dio (Sap 9,13-18) che si

lascia conoscere attraverso lo Spirito del Signore. Questa allusione alla sapienza ricorda Sir 18,1-4 dove il

Signore viene proclamato giusto proprio per le sue opere.

I rapporti di Gesù con i peccatori, l’accoglienza riservata loro – espressione della benevola volontà di Dio a

cui egli si attiene nell’operare – diventano uno scandalo. Lo scandalo nasce dal fatto che egli col suo

comportamento abbatte i muri che essi avevano accuratamente eretti tra sé e gli altri a salvaguardia dei loro

privilegi.

20 Allora si mise a rimproverare le città nelle quali aveva compiuto il maggior numero di miracoli, perché non

si erano convertite: 21 “Guai a te, Corazin! Guai a te, Betsàida. Perché, se a Tiro e a Sidone fossero stati

compiuti i miracoli che sono stati fatti in mezzo a voi, già da tempo avrebbero fatto penitenza, ravvolte nel

cilicio e nella cenere. 22 Ebbene io ve lo dico: Tiro e Sidone nel giorno del giudizio avranno una sorte meno

dura della vostra. 23 E tu, Cafarnao,

sarai forse innalzata fino al cielo?

Fino agli inferi precipiterai!

Perché, se in Sòdoma fossero avvenuti i miracoli compiuti in te, oggi ancora essa esisterebbe! 24 Ebbene io

vi dico: Nel giorno del giudizio avrà una sorte meno dura della tua!”.

I contemporanei di Gesù, che non hanno voluto credere alle sue parole, non si sono lasciati persuadere

neppure dalle sue opere prodigiose. Il rifiuto delle città del lago strappa a Gesù un’esclamazione di

sofferenza e di indignazione, come un lamento che sale alle labbra di fronte a una disgrazia che poteva

essere evitata.

Le città fortificate della Galilea furono le prime ad essere assediate ed espugnate dai romani, fin dal 67,

durante la rivolta del 67-70, che culminò nella distruzione di Gerusalemme.

L’evangelista ci vuole ricordare la maggiore prontezza dei pagani nell’accogliere il vangelo in confronto con il

popolo di Israele. L’alternativa al giudizio di condanna è la conversione a Cristo. Non esiste una terza

possibilità. Il rifiuto cosciente della fede rende l’uomo colpevole.

25 In quel tempo Gesù disse: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto

nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. 26 Sì, o Padre, perché così è

piaciuto a te. 27 Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno

conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare.

L’opera di Gesù è presentata come rivelazione di Dio. Le “cose” che il Padre ha rivelato ai piccoli sono

l’intero vangelo, cioè quella nuova comprensione di Dio e della sua volontà che è manifestata nei

comportamenti e nelle parole di Gesù. I sapienti e gli intelligenti, ai quali il Padre ha tenuto nascoste queste

cose, sono i rabbini e i farisei che restano ciechi di fronte alla chiarezza delle parole di Gesù e irritati perché

predica ai poveri.

I piccoli non sono i bambini, ma gli uomini senza cultura, senza competenza nelle scienze religiose.

Concretamente, al tempo di Gesù, erano i poveri popolani disprezzati cordialmente dagli scribi e dai farisei.

Di essi dicevano: “Un ignorante non può sfuggire al peccato e un uomo dei campi non può appartenere a

Dio”.

Questo brano contiene un forte richiamo alla conversione rivolto a tutti, ma specialmente ai teologi. La

rivelazione della sapienza di Dio non incontra l’uomo nella sua sapienza e assennatezza, ma dove smette di

fare affidamento sulla propria sapienza. Dio dona la sua rivelazione a modo suo. Il cuore umano trova riposo

quando accoglie come dono la bontà e l’amore di Dio e quando percorre deciso il cammino nel quale Cristo

l’ha preceduto: il cammino della croce.

28 Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. 29 Prendete il mio giogo sopra di voi e

imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. 30 Il mio giogo infatti

è dolce e il mio carico leggero”.

Gli affaticati e gli oppressi sono coloro che penavano sotto le pesanti prescrizioni della legge e che si

sentivano smarriti davanti alla dottrina difficile e complicata dei rabbini. Gesù invita tutti costoro a cercare nel

suo vangelo la vera volontà di Dio: una volontà esigente, ma lineare e semplice, alla portata di tutti. Gesù si

definisce mite e umile di cuore. Mite significa l’atteggiamento di Gesù nei confronti degli uomini, un

atteggiamento lineare, coraggioso ma non violento; misericordioso, tollerante, pronto al perdono, ma anche

severo ed esigente. Umile indica l’atteggiamento ubbidiente e docile alla volontà del Padre: un

atteggiamento interiore, libero e voluto.

Il “riposo” che Gesù offre, corrisponde alla promessa biblica di pace e felicità. Al seguito di Gesù, la volontà

di Dio non è più un giogo oppressivo e duro, ma genera già ora quella pace gioiosa promessa agli umili e ai

miti, garanzia della salvezza definitiva. Gli insegnamenti degli scribi e dei farisei, invece, sono “pesanti

fardelli che impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito” (Mt 23,4)

e producono allontanamento da Dio e disperazione di potersi salvare.

Al contrario, il “carico” di Gesù è leggero; la religione cristiana non consiste nell’osservanza della legge

giudaica ma nell’entrare nel rapporto del Figlio con il Padre assumendo l’atteggiamento dei piccoli. Tutti

coloro che sono disillusi da ogni forma di religione che non salva e appesantisce la vita sono invitati a

seguire Gesù che porta al mondo la religione vera e definitiva.

Gesù si presenta ” mite e umile di cuore”. Mite significa il suo atteggiamento accogliente e misericordioso

verso gli uomini. Umile di cuore indica il suo atteggiamento ubbidiente alla volontà del Padre.

Gesù non è un maestro autoritario. Egli non impone agli altri i pesi che prima non ha portato lui. Il giogo è

“suo” perché l’ha portato lui per primo ed è “leggero” perché non contiene ordini assurdi e impossibili. Lo

ricordava Pietro nell’assemblea degli apostoli e degli anziani a Gerusalemme: “Or dunque, perché

continuate a tentare Dio, imponendo sul collo dei discepoli un giogo che né i nostri padri né noi siamo stati in

grado di portare? Noi crediamo che per la grazia del Signore Gesù siamo salvati…” (At 15,10-11). E la prima

lettera di Giovanni ci assicura: “I suoi comandamenti non sono gravosi” (1Gv 5,3).

Bibbia.jpgCapitolo dodicesimo

1 In quel tempo Gesù passò tra le messi in giorno di sabato, e i suoi discepoli ebbero fame e cominciarono a

cogliere spighe e le mangiavano. 2 Ciò vedendo, i farisei gli dissero: “Ecco, i tuoi discepoli stanno facendo

quello che non è lecito fare in giorno di sabato”. 3 Ed egli rispose: “Non avete letto quello che fece Davide

quando ebbe fame insieme ai suoi compagni? 4 Come entrò nella casa di Dio e mangiarono i pani

dell’offerta, che non era lecito mangiare né a lui né ai suoi compagni, ma solo ai sacerdoti? 5 O non avete

letto nella Legge che nei giorni di sabato i sacerdoti nel tempio infrangono il sabato e tuttavia sono senza

colpa? 6 Ora io vi dico che qui c’è qualcosa più grande del tempio. 7 Se aveste compreso che cosa significa:

Misericordia io voglio e non sacrificio, non avreste condannato individui senza colpa. 8 Perché il Figlio

dell’uomo è signore del sabato”.

Gesù riporta il sabato alla sua vera funzione di spazio dell’azione di Dio nella storia dell’uomo. La vera

misura dell’osservanza del sabato, cioè del proprio rapporto con Dio, non è il culto con tutte le sue

prescrizioni ma la misericordia che si manifesta nelle opere d’amore verso i bisognosi.

Gesù è il figlio dell’uomo signore del sabato: è lui l’inviato di Dio autorizzato a dirci cosa Dio vuole o non

vuole, che cosa è più importante o meno importante. Per Dio la realtà più importante è l’uomo. L’uomo è più

importante del tempio e più importante del sabato (Mt 2,27).

I farisei di allora e quelli di tutti i tempi partivano da un principio che sembra assolutamente giusto, ma che è

completamente sbagliato: Dio è superiore all’uomo, quindi prima viene l’onore di Dio, poi il bene dell’uomo.

A questo ragionamento soggiace la convinzione che l’onore di Dio, che è amore, possa trovarsi in conflitto

col bene dell’uomo. La gloria di Dio, invece, è sempre il bene dell’uomo, come ci ricorda sant’Ireneo: “La

gloria di Dio è l’uomo vivente”. La signoria di Dio, padrone del sabato, si manifesta nell’amore e quindi la

vera osservanza del sabato dev’essere una celebrazione dell’amore di Dio per l’uomo e dell’uomo verso il

suo simile.

La religione non consiste nell’osservanza arida e ossessiva della legge, ma nell’accogliere la misericordia di

Dio e nel donarla agli altri. I farisei non hanno misericordia verso i discepoli di Gesù che hanno fame. La

misericordia che si preoccupa della fame del prossimo è più importante del sacrificio, cioè dell’osservanza

puramente letterale della legge del sabato.

Il comandamento dell’amore è il criterio sul quale vanno valutati tutti gli altri: o sono manifestazioni d’amore o

decadono. Il sabato (la domenica per noi cristiani) dev’essere il giorno della misericordia accolta e donata.

9 Allontanatosi di là, andò nella loro sinagoga. 10 Ed ecco, c’era un uomo che aveva una mano inaridita, ed

essi chiesero a Gesù: “E’ permesso curare di sabato?”. Dicevano ciò per accusarlo. 11 Ed egli disse loro:

“Chi tra voi, avendo una pecora, se questa gli cade di sabato in una fossa, non l’afferra e la tira fuori? 12 Ora,

quanto è più prezioso un uomo di una pecora! Perciò è permesso fare del bene anche di sabato”. 13 E rivolto

all’uomo, gli disse: “Stendi la mano”. Egli la stese, e quella ritornò sana come l’altra. 14 I farisei però, usciti,

tennero consiglio contro di lui per toglierlo di mezzo.

La prima parte del capitolo 12 è centrata sul problema del sabato. La questione è importante perché il

sabato ha un posto essenziale nella religione ebraica. A. J. Heschel scrive: “Il sabato è un pegno della

superiorità dello spirito sull’universo e del sacro sul bene… Il sabato è ben più di un giorno, di un nome dato

al settimo giorno della settimana. È l’eternità nel tempo, il sottosuolo spirituale della storia”. Gesù ritrova le

radici del giudaismo, restituendo il sabato alla sua funzione di spazio spirituale dell’azione di Dio nella storia

dell’uomo. Riducendo la pratica del sabato a una casistica del lecito e del proibito, non si rispetta la realtà

del sabato. Non il culto con tutte le sue prescrizioni, ma la misericordia dà la vera misura dell’osservanza del

sabato. Il pensiero di Gesù è racchiuso in tre affermazioni: “Ora io vi dico che qui c’è qualcosa più grande

del tempio” (12,6); “Il Figlio dell’uomo è signore del sabato” (12,8); “Quanto è più prezioso un uomo di una

pecora” (12,12). La seconda affermazione è cristologica: è arrivato il Figlio dell’uomo: è lui il profeta

autorizzato a dirci che cosa Dio vuole o non vuole, che cosa è più importante o meno importante. La prima e

la terza affermazione invece, ricordano che per Dio la realtà più importante è l’uomo. È questo il punto più

nuovo del ragionamento di Gesù. Se i sacerdoti possono infrangere la regola del sabato per svolgere il loro

servizio al tempio, quanto più la si può infrangere per fare del bene all’uomo: l’uomo è più grande e più

importante del tempio. E se è lecito estrarre dalla fossa una pecora, di sabato, è certamente più lecito fare

del bene a un uomo, di sabato. I farisei partivano da un principio che può sembrare tanto ovvio: Dio è

superiore all’uomo, quindi prima l’onore di Dio, poi il bene dell’uomo. E questo è un errore teologico primario,

grave, che sta alla sorgente di tante deduzioni sbagliate. Si supponeva infatti che l’onore di Dio, che è

amore, possa trovarsi in conflitto con il bene dell’uomo. La gloria di Dio, invece, è sempre il bene dell’uomo.

La signoria di Dio si manifesta nell’amore. E l’osservanza del sabato deve essere una celebrazione di questo

amore per l’uomo, non una smentita. Con la sua presenza, nella quale il regno di Dio si è fatto vicino agli

uomini, Gesù universalizza il tempio e il sabato: con lui tutta la terra diventa tempio e la totalità del tempo

diventa sabato.

“I farisei però, usciti, tennero consiglio contro di lui per toglierlo di mezzo”. Decidono di uccidere Dio perché

ama l’uomo.

15 Ma Gesù, saputolo, si allontanò di là. Molti lo seguirono ed egli guarì tutti, 16 ordinando loro di non

divulgarlo, 17 perché si adempisse ciò che era stato detto dal profeta Isaia:

18 Ecco il mio servo che io ho scelto;

il mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto.

Porrò il mio spirito sopra di lui

e annunzierà la giustizia alle genti.

19 Non contenderà, né griderà,

né si udrà sulle piazze la sua voce.

20 La canna infranta non spezzerà,

non spegnerà il lucignolo fumigante,

finché abbia fatto trionfare la giustizia;

21 nel suo nome spereranno le genti.

La notizia della decisione dei farisei di far morire Gesù ci introduce nella comprensione della sua

messianicità: egli non è il messia spettacolare, ma il Servo sofferente del Signore, “mite e umile di cuore” (Mt

11,29) e benevolo verso tutti i malati e i peccatori.

Egli non affronta direttamente i suoi avversari, ma si ritira. Questo è lo stile di Gesù quando viene minacciato

(Mt 4,12; 14,13). Egli non desidera lo scontro frontale perché non è venuto per sconfiggere l’uomo, ma per

salvarlo.

La missione di Gesù non corrisponde alle attese di un messia vincente e acclamato. Egli porta a

compimento tutte le promesse della storia della salvezza come Servo sofferente del Signore usando

unicamente i mezzi dell’amore.

I verbi del testo di Isaia “non contenderà, non griderà, non spezzerà, non spegnerà” ci assicurano che Gesù

non ha fatto del male a nessuno. Il suo amore per gli uomini non gli ha permesso di essere come lo

avrebbero voluto il Battista e i suoi connazionali: pieno di zelo nel combattere i nemici, insignito di tutti i

poteri, battagliero, travolgente. E’ stato invece mite, umile, buono e comprensivo con tutti.

Egli non è un conquistatore di popoli che travolge tutto e tutti, ma salva la vita e rianima la speranza dei più

deboli.

L’umanità malata e peccatrice non ha bisogno di urla e di minacce, ma di conforto e di misericordia.

Gesù è la manifestazione della bontà di Dio per tutti gli uomini (cf. Tt 2,11).

22 In quel tempo gli fu portato un indemoniato, cieco e muto, ed egli lo guarì, sicché il muto parlava e vedeva.

23 E tutta la folla era sbalordita e diceva: “Non è forse costui il figlio di Davide?”. 24 Ma i farisei, udendo

questo, presero a dire: “Costui scaccia i demòni in nome di Beelzebùl, principe dei demòni”.

25 Ma egli, conosciuto il loro pensiero, disse loro: “Ogni regno discorde cade in rovina e nessuna città o

famiglia discorde può reggersi. 26 Ora, se satana scaccia satana, egli è discorde con se stesso; come potrà

dunque reggersi il suo regno? 27 E se io scaccio i demòni in nome di Beelzebùl, i vostri figli in nome di chi li

scacciano? Per questo loro stessi saranno i vostri giudici. 28 Ma se io scaccio i demòni per virtù dello Spirito

di Dio, è certo giunto fra voi il regno di Dio. 29 Come potrebbe uno penetrare nella casa dell’uomo forte e

rapirgli le sue cose, se prima non lo lega? Allora soltanto gli potrà saccheggiare la casa. 30 Chi non è con me

è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde. 31 Perciò io vi dico: Qualunque peccato e bestemmia

sarà perdonata agli uomini, ma la bestemmia contro lo Spirito non sarà perdonata. 32 A chiunque parlerà

male del Figlio dell’uomo sarà perdonato; ma la bestemmia contro lo Spirito, non gli sarà perdonata né in

questo secolo, né in quello futuro.

Per due volte Matteo parla delle guarigioni operate da Gesù, sottolineandone il carattere universale

(“tutti”;12,15) e il significato messianico (un indemoniato cieco e sordomuto: 12,12; cf. 11,5). Gesù tuttavia

rifiuta una propaganda prematura (12,16) mentre le folle, fuori di sé, intuiscono in lui qualcosa del Messia:

“Non è forse costui il figlio di Davide?” (12,23). Come l’indemoniato guarito anch’esse cominciano a

riacquistare la vista e la parola. Gesù è veramente il servo di cui parlava Isaia, il prediletto di Dio, colui che

ha ricevuto l’unzione dello Spirito per annunziare a tutti i popoli del mondo la giustizia, ossia il diritto divino

che regola i rapporti di Dio con gli uomini e si esprime essenzialmente con la rivelazione e con la vera

religione che ne deriva. È lui il giudice promesso, ma non si impone come un conquistatore o un oppressore

di popoli; al contrario, la sua azione benefica e attenta ad ogni segno di apertura e di accoglienza, al minimo

segno di vita, costituisce un segno di speranza universale.

Di fronte ai miracoli di Gesù avviene una divisione: da una parte la folla, dall’altra i farisei. L’accaduto è lo

stesso, ma il giudizio è diverso perché il giudizio non è fatto in base all’accaduto, ma è determinato

dall’interno, dal cuore dell’uomo e le valutazioni sono guidate da qualcosa che le precede. Ogni uomo valuta

gli avvenimenti alla luce del suo cuore. Nel linguaggio semitico il cuore è il nocciolo della personalità, il punto

centrale che determina il pensiero, gli atteggiamenti, i giudizi. Per Gesù il primo dovere è di tenere pulito il

cuore, prima ancora di seguirne i dettami. Perché non si tratta solo di fare cose di cuore, se il cuore è cattivo,

ma di fare cose che provengono da un cuore retto, capace di intuire il disegno di Dio e di valutare

rettamente. La religione e la morale non sono solo questione di intelligenza, ma soprattutto questione di

amore alla verità. Se questo amore manca, l’uomo è cieco di fronte a Cristo e alle sue proposte. È alla luce

di questi pensieri che possiamo comprendere il testo: “Qualunque peccato e bestemmia sarà perdonato agli

uomini, ma la bestemmia contro lo Spirito Santo non sarà perdonata. A chiunque parlerà male del Figlio

dell’uomo sarà perdonato; ma la bestemmia contro lo Spirito, non gli sarà perdonata né in questo secolo né

in quello futuro” (12,31-32). Vi è una chiusura alla verità che non lascia più la possibilità di ravvedimento e

come tale è imperdonabile. Non si può perdonare chi non vuole essere perdonato. La differenza tra la

bestemmia contro il Figlio dell’uomo (che può essere perdonata) e la bestemmia contro lo Spirito Santo (che

non sarà perdonata) consiste in questo: di fronte a Gesù che si dichiara Figlio di Dio, ma che si presenta

uomo come noi, si può capire il rifiuto e c’è posto ancora per la buona fede: il rifiuto di Cristo non è dunque

necessariamente il rifiuto della verità conosciuta; ma c’è anche una forma di rifiuto contro la quale Dio non

può far niente, cioè il rifiuto stesso del perdono. Bestemmiare contro lo Spirito Santo, rifiutare cioè

volontariamente la rivelazione quando la si è sentita come un pressante invito nel fondo del cuore, è

affermare di non avere bisogno di salvezza: ed è questo che condanna definitivamente l’uomo (12,32-37).

La “bestemmia” di cui si parla qui è una presa di posizione definitiva: manifesta il fondo marcio (12,33) o

malvagio (12,34-35) dell’uomo che non si espone al perdono di Dio e che si permette di giudicare

negativamente l’opera di Dio attribuendola addirittura al diavolo.

33 Se prendete un albero buono, anche il suo frutto sarà buono; se prendete un albero cattivo, anche il suo

frutto sarà cattivo: dal frutto infatti si conosce l’albero. 34 Razza di vipere, come potete dire cose buone, voi

che siete cattivi? Poiché la bocca parla dalla pienezza del cuore. 35 L’uomo buono dal suo buon tesoro trae

cose buone, mentre l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae cose cattive. 36 Ma io vi dico che di ogni parola

infondata gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio; 37 poiché in base alle tue parole sarai

giustificato e in base alle tue parole sarai condannato”.

Scopriamo qui la profondità di significato del termine “parola” come atto e opera decisiva che esprime la

decisione dell’uomo che scaturisce dalla sua realtà più profonda (12,35).

L’uomo va visto come un tutto: pensiero, parola e azione, in ultima analisi, sono inscindibili.

Un albero si riconosce dai frutti; la parola è il frutto del cuore e il cuore è la radice dell’uomo. La parola è qui

il riconoscimento o il rifiuto del regno di Dio conosciuto attraverso lo Spirito nella persona di Gesù.

L’orientamento che viene assunto di fronte al Cristo rende l’uomo buono; e questo orientamento verrà

definitivamente manifestato nel giudizio finale. E come la sapienza è proclamata giusta dalle sue opere (Mt

11,19) così la parola dell’uomo lo proclama giusto o lo condanna: giusto se accoglie Gesù, condannato se lo

rifiuta.

38 Allora alcuni scribi e farisei lo interrogarono: “Maestro, vorremmo che tu ci facessi vedere un segno”. Ed

egli rispose: 39 “Una generazione perversa e adultera pretende un segno! Ma nessun segno le sarà dato, se

non il segno di Giona profeta. 40 Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il

Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra. 41 Quelli di Nìnive si alzeranno a giudicare

questa generazione e la condanneranno, perché essi si convertirono alla predicazione di Giona. Ecco, ora

qui c’è più di Giona! 42 La regina del sud si leverà a giudicare questa generazione e la condannerà, perché

essa venne dall’estremità della terra per ascoltare la sapienza di Salomone; ecco, ora qui c’è più di

Salomone!

Alcuni scribi e farisei chiedono a Gesù di vedere un segno. Evidentemente chiedono un segno più

convincente di quelli che egli ha compiuto finora. Ma Gesù rifiuta sdegnosamente questa pretesa: non darà

loro alcun segno, se non il segno di Giona profeta.

Nella interpretazione di Matteo il segno di Giona profeta è la risurrezione: “come Giona rimase tre giorni e tre

notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra” (12,40).

Ma fatta questa precisazione, il pensiero va subito in un’altra direzione: cioè all’accoglienza che ha la

predicazione di Gesù.

Il confronto è seguito da una severa condanna e dalla constatazione che l’evangelista ha già fatto altre volte:

i pagani sono più disponibili dei giudei alla parola di Dio e alla conversione.

Gesù scaccia i demoni e dimostra che questo è il segno dell’arrivo del regno di Dio vittorioso sulle forze del

male. Tuttavia il tempo di satana continua. Una volta scacciato, torna.

Gesù avverte che la venuta del regno di Dio non sottrae gli uomini dalla possibilità di ricadere sotto il

dominio di satana. Di fronte alla venuta di Gesù, satana intensifica i suoi attacchi e, se gli riesce di ritornare

là donde Cristo l’aveva scacciato, ci si trova in una condizione peggiore di prima. Come appunto avvenne ai

contemporanei di Gesù.

Il rimprovero di Gesù: “generazione malvagia e adultera” si riferisce all’idea dell’alleanza con Jahwè, che

Israele non ha rispettato, diventando così una meretrice. Con la richiesta di un segno i farisei dimostrano di

essere tali. Essa è l’espressione della mancanza di fede e dell’abbandono dello sposo Jahwè. Il rimprovero

appare limitato al gruppo degli scribi e dei farisei, anche se finisce per riguardare tutto il popolo (17,17).

Gesù, nel riferirsi ancora alla figura di Giona e appellandosi al giudizio finale, condanna questa generazione

di cui i capi sono responsabili. Se alla predicazione di Giona gli abitanti di Ninive, pur essendo pagani, si

sono convertiti, alla predicazione di Gesù il popolo d’Israele non ha dato alcun segno di conversione. E nel

giudizio finale gli abitanti di Ninive, in maniera paradossale, giudicheranno l’incredulità del popolo eletto da

Dio, Israele.

Il secondo annuncio di giudizio ricorre all’episodio biblico della ” regina del sud” (1Re 10,1-13; 2Cr 9,1-12),

anch’essa pagana, la quale è venuta da molto lontano per ascoltare la sapienza di Salomone. I giudei hanno

potuto ascoltare un profeta ben più grande di Giona e un maestro ben più sapiente di Salomone, e non si

sono convertiti.

43 Quando lo spirito immondo esce da un uomo, se ne va per luoghi aridi cercando sollievo, ma non ne trova.

44 Allora dice: Ritornerò alla mia abitazione, da cui sono uscito. E tornato la trova vuota, spazzata e adorna.

45 Allora va, si prende sette altri spiriti peggiori ed entra a prendervi dimora; e la nuova condizione di

quell’uomo diventa peggiore della prima. Così avverrà anche a questa generazione perversa”.

Alcuni scribi e farisei chiedono a Gesù di vedere un segno. Evidentemente chiedono un segno più

convincente di quelli che egli ha compiuto finora. Ma Gesù rifiuta sdegnosamente questa pretesa: non darà

loro nessun segno, se non il segno di Giona profeta. Nella interpretazione di Matteo il segno di Giona profeta

è la risurrezione: “come Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo

resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra” (12,40). Ma fatta questa precisazione, il pensiero va subito

in un altra direzione: cioè nell’accoglienza che ha la predicazione di Gesù. Il confronto è seguito da una

severa condanna e dalla constatazione che l’evangelista ha già fatto altre volte: i pagani sono più disponibili

dei giudei alla parola di Dio e alla conversione. Gesù scaccia i demoni e dimostra che questo è il segno

dell’arrivo del regno di Dio vittorioso sulle forze del male. Tuttavia il tempo di satana continua. Una volta

scacciato, torna. Gesù avverte che la venuta del regno di Dio non sottrae gli uomini dalla possibilità di

ricadere sotto il dominio di satana. Di fronte alla venuta di Gesù, satana intensifica i suoi attacchi e se gli

riesce di ritornare là donde Cristo lo aveva scacciato, ci si può trovare in una condizione peggiore di prima.

Come appunto avvenne ai contemporanei di Gesù.

46 Mentre egli parlava ancora alla folla, sua madre e i suoi fratelli, stando fuori in disparte, cercavano di

parlargli. 47 Qualcuno gli disse: “Ecco di fuori tua madre e i tuoi fratelli che vogliono parlarti”. 48 Ed egli,

rispondendo a chi lo informava, disse: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?”. 49 Poi stendendo la mano

verso i suoi discepoli disse: “Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli; 50 perché chiunque fa la volontà del

Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre”.

Il confronto di Gesù con gli scribi e i farisei ci ha mostrato a quale profondità il regno di Dio mette in

questione l’uomo, giudicandolo sulle motivazioni ultime del suo agire. Ora Matteo riporta la nostra attenzione

verso le folle e la parentela di Gesù. L’intervento di Gesù ci presenta di nuovo la rottura che il regno dei cieli

produce nei confronti dei legami umani di parentela. La parentela che viene dal Padre è più importante di

quella che deriva dai legami di sangue: questa è umana e temporale, quella è divina ed eterna.

Una nuova famiglia nasce attorno a Gesù. L’immagine di questa nuova cerchia familiare è rafforzata dal fatto

che Matteo designa Dio col nome di Padre. Chi fa la volontà del Padre come Gesù, diventa per lui fratello,

sorella e madre. Questa comunione ha sopra di sé il Padre celeste e, in mezzo, Gesù come fratello di tutti

(18, 20).

Essere discepoli di Gesù è qualcosa di diverso dal possedere un certificato di battesimo. Il discepolo si

mostra tale compiendo la volontà del Padre, così come Gesù l’ha annunciata. Solo coloro che sono disposti

a impegnarsi totalmente per accogliere e vivere la parola di Gesù appartengono alla famiglia di Gesù.

La fraternità ecclesiale non è frutto di un impegno moralistico o di uno spirito corporativo, ma trae origine e

significato dalla fede in Cristo.

Vangelo di Gesù Cristo secondo MATTEO 6ultima modifica: 2011-02-25T17:05:00+01:00da meneziade
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