Chi ha fede e anche chi si interroga sul senso dell’ultimo orizzonte difficilmente accetta che la ragione sia ingabbiata in confini invalicabili
Il volto del Dio nascosto intriga i pensanti: la ferita ineludibile del dolore e della morte, la ricerca di senso spinge verso l’ultimo orizzonte. La ragione ebbra di sé, giovane nella scoperta della sua audacia come mai forse era stata prima del “sole meridiano” dell’Illuminismo, non tollera confini. L’emancipazione diventa anche emancipazione da Dio. E questi – il Trascendente, l’Uno, l’Amato, l’Atteso dei secoli – è ridotto tutt’al più ad essere «il Signore del nulla». Ma anche il nulla ha una storia: e narrare «la storia del nulla» è forse narrare il doppio fondo dell’anima occidentale, i meandri della ragione indagante, le frontiere inquietanti dell’altrove. Il sole della modernità e il paesaggio da esso rischiarato non escludono insomma «il fiore nero» (Hegel), metafora di ciò che è irriducibile alla ragione, il vitale che sfugge a ogni sistema, l’ulteriorità che resta altra, inesplorabile, inesplorata. C’è chi cerca allora «i paradisi del nulla», i giardini della primavera di un Dio minore, fatto a misura della ragione che sa e sola può sapere. In questo chiuso orizzonte tutto diventa troppo corto e troppo breve: la sete di totalità della ragione forte ispira la violenza dei totalitarismo e segna il loro, il suo tramonto. Tutto diventa debole: l’«ontologia del declino» è il canto flebile di un mondo senza fondamento e senza patria. «Essere, nulla, amore» sono ormai equivalenti: nulla diviene - tutto è – la differenza scompare, la vita / la morte regna su tutte le cose. Vanamente i «debolismi del pensiero» propongono isole di riscatto nell’invito ad accondiscendere all’inevitabile caduta del mondo. E’ questo il nichilismo? E quale nichilismo? Resta ancora qualcosa per cui vivere e amare?
E’ allora che la ragione riconosce il suo limite: volendo tutto fondare, si è scoperta essa stessa infondata. «Stupore della ragione» è l’approdo della più severa disciplina del pensiero, della filosofia spinta fino in fondo. E’ forse lì che la ragione meglio può avvertire il tremito di un passaggio, il fremere di una voce di silenzio: «l’ultimo Dio» (Heidegger) non viene prima, ma oltre la ragione, oltre le avventure delle suo pretese, oltre i naufragi delle sue violenze. Nelle profondità nascoste del desiderio, nella capacità di elaborare sogni diurni, la ragione si riconosce assunta e superata da un orizzonte altro, più grande: «il principio speranza» riaccende la possibilità dell’esodo, l’attesa di una patria intravista, anche se non posseduta. Sul piano speculativo la ragione indagante oltre se stessa si ferma meditante sull’abisso «dell’Inizio»: indicibile, ineludibile sponda. Filosofia come utopia: è questo il destino che si apre? Uno stare nel “non luogo”, un essere esuli senza alcuna patria da rimpiangere o da sognare? O la sfida del nichilismo, il suo conturbante assedio esige altri approdi, altre vie da esplorare verso il «Dio possibile»? Fra il chiuso mondo della ragione presuntuosa e il vasto, inesauribile orizzonte che si affaccia alla ragione aperta e interrogativa, fra «Totalità e Infinito», fede e ragione si incontrano su un nuovo confine, dove tutto è in gioco, e la domanda metafisica si incontra / risolve nella domanda etica. Oltre il declino della parola, oltre il trionfo e la caduta della verbosità ideologica, un nuovo spazio è possibile per la domanda su Dio: quale?
Non quello dell’«aut-aut»: escludersi è la forma della violenza, perfino dell’amore violento. Sembra che per Dio nessun altro amore potrebbe avere pretese, se non la “violenta” carità. Ma è proprio così? E’ proprio l’alternativa radicale la via cercata dal Dio che si rivela? O il fatto stesso del suo rivelarsi dice il desiderio di un possibile, impossibile amore, per noi impossibile, da Lui reso possibile? Non è allora l’«aut-aut» la forma del rapporto che il destinarsi divino all’uomo nella rivelazione sembra volere, ma l’«et-et»: e questo inteso non come il compromissorio tener tutto insieme, anche l’incomprensibile, bensì come l’alto, costoso tenersi sul filo dell’arco di fiamma che unisce i poli asimmetrici, senza confusione o mescolanza, ma anche senza divisione o separazione, in un’insopprimibile reciprocità. Chi sono i protagonisti di questo agone? L’intera tradizione ebraico-cristiana ci dice che essi non esistono “in vitro”: fede e ragione sono sempre incarnate in una cultura, in un tempo, in uomini e donne di carne, lacrime e sangue. Qual è dunque la ragione di cui parliamo oggi? E quale la fede, non astrattamente considerata, ma letta nella storia reale dei suoi testimoni? E qual è l’incontro che si profila possibile, non tanto come bilancio di un cammino compiuto, quanto come orizzonte, attesa e promessa di un cammino da compiere? E come da questo incontro si fa luce per pensare la sfida più alta, e riconoscere una possibile via verso il Mistero? La «ragione aperta» può ascoltare le parole e gli eventi dove l’Altro si dice come sorgente di vita e non di morte, riconoscendo la dignità infinita dell’uomo davanti a Dio, ritto fra il vento e sole, messo in grado di amare, fra il dono e l’impegno, fra la preghiera e l’azione. Le vele si aprono oltre il libro verso il vasto mare della vita, del tempo di tutti: e l’esercizio del pensiero si fa sfida a vivere la ricerca e l’esperienza dell’oltre. A pensare ancora la fede, senza negligenze e senza fughe. A spingere ancora la ragione alla soglia del suo cosciente stupore. A fare il passo di un possibile, impossibile amore verso Colui che è venuto, viene e verrà.