S. AMBROGIO

4. – S.AMBROGIO (Aurelio Ambrogio, Treviri, 339 – Milano,  397)

 

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4. 1 – L’INTELLETTUALE E LA ROMA IMPERIALE DEL IV SEC.

 

La figura di S. Ambrogio è da mettersi  in relazione con l’ambiente della Roma Imperiale del IV sec., periodo storico caratterizzato da una profonda crisi della Istituzioni, che si rifletteva  sul costume e sulla società civile, toccando anche la questione morale e molti aspetti del Cristianesimo dibattuti sul terreno dell’ Ortodossia.

L’opera di S. Ambrogio si pose come antidoto allo sfascio completo dell’Impero Romano, già ormai diviso tra Impero Romano d’Occidente, destinato tuttavia a cadere da lì a qualche secolo, e l’Impero Romano d’Oriente, destinato invece ad una vita alquanto più lunga (circa un millennio).

Ecco quindi la personalità di Ambrogio, proveniente da una potente famiglia romana (il padre era Prefetto del Pretorio per le Gallie), che a Roma studia Grammatica e Retorica per essere destinato ad incarichi pubblici importanti e di prestigio, che in effetti consegue, ottenendo l’incarico di Governatore della Liguria e dell’Emilia, una grande fetta dell’Italia settentrionale, con sede a Milano.

Apprezzato per la fermezza e l’equilibrio nell’esercizio dei suoi doveri amministrativi, in un periodo in cui la corruzione e l’accaparramento smodato delle ricchezze erano assai diffusi, con la conseguente creazione di frange di povertà notevoli per numero ed indigenza, fu acclamato, prima ancora di ricevere il battesimo, vescovo della città di Milano. E’ sorprendente come nell’arco di due mesi bruciò, per così dire, le tappe della sua carriera ecclesiastica: battezzato il 30 novembre del 374, fu ordinato sacerdote la settimana seguente e il 7 dicembre consacrato vescovo.

Velocissima anche la sua formazione cristiana: ancora ignaro di dottrina, ebbe come guida per le conoscenze dogmatiche e pastorali un sacerdote di formazione neoplatonica, Simpliciano. La perfetta conoscenza della lingua latina e della lingua greca gli permise poi di approfondire per conto suo il pensiero degli autori cristiani latini e greci, trovando così la via verso l’acquisizione  dell’Ortodossia e ponendosi in posizione di contrasto nei confronti delle eresie che proliferavano in quell’epoca.

La sensibilità umana di S. Ambrogio traspare dalla sua intensa produzione  letteraria, soprattutto  quella che ne mette in luce i profondi principi morali e l’ispirazione poetica, il De officiis ministrorum e le riflessioni sui Salmi, che preludono all’Innografia, il contributo più originale che il vescovo di Milano dette allo sviluppo delle forme liturgiche nella chiesa occidentale. Viene così rivendicata al canto di lode una funzione non marginale nell’atto di culto e soprattutto una più incisiva manifestazione dell’adesione alla fede, che la chiesa greca aveva già da tempo adottata: leggiamo in Expl. Psalm., I,  9-10 “…il salmo (= il canto) è benedizione del popolo, inno di lode del popolo, applauso generale, parola universale, voce della chiesa, canora professione di fede, devozione piena di autorevolezza, gioia della liberazione, grido dell’allegrezza, esultanza della gioia. (Il salmo) mitiga l’ira, respinge l’angoscia, solleva dal pianto. Arma nella notte, magistero nel giorno, scudo nel timore, festa nella santità, immagine nella quiete, pegno della pace e della concordia…. Quanta fatica in chiesa per ottenere silenzio, quando si leggono le letture! Quando parla uno tutti gli altri fanno chiasso. Quando si legge il salmo, è lui stesso a procurarsi da solo il silenzio: tutti parlano e nessuno fa chiasso. Il salmo, lo cantano i re senza l’alterigia del potere, … si canta il salmo in casa,…lo si apprende senza fatica,… congiunge chi è separato, unisce chi è discorde, riconcilia chi è offeso… (è) ammaestramento per chi si accosta alla fede, conferma per chi l’ ha già perfetta; servizio degli angeli, milizia celeste, sacrificio spirituale. Al salmo anche i sassi rispondono; al canto del salmo anche i cuori di sasso si inteneriscono: noi vediamo piangere i più insensibili, piegarsi anche gli spietati.

Gareggia nel salmo la dottrina con la bellezza. Viene cantato per diletto, e insieme viene appreso come conoscenza. Infatti i comandamenti più violenti non durano nell’animo, ma quello che si riceve con soavità, una volta penetrato nell’intimo, non conosce amnesie”.

E’ solo un riferimento all’originalità e alla genialità di questo Padre della chiesa, che ai testi sacri si accostò non soltanto con spirito strettamente esegetico, ma per scoprirne la bellezza e penetrarne i significati reconditi al di là dei simboli e delle allegorie in cui spesso essi si presentano.

 

4. 2. – PAROLA DI DIO E GIUSTIZIA SOCIALE

De Nabuthae historia

 

Nella vasta mole degli scritti di Sant’Ambrogio il De Nabuthe è classificato tra le opere esegetiche, quelle cioè in cui si dà una spiegazione concettuale di episodi della Bibbia e, in questa direzione, i Padri della Chiesa, nella migliore stagione della Patristica, dettero un contributo fondamentale al chiarimento dei fondamenti della Teologia e dell’antropologia cristiane.

Il De Nabuthe presenta un’esegesi particolare rispetto alla tipologia dell’opera esegetica, non l’indagine dotta e filologicamente approfondita, ma il messaggio concreto, che fluisce dall’immediatezza della lettura. Come anche nel De Tobia e nel

De Helia et ieiunio, scritti riconducibili allo stesso genere, nel De Nabuthe piuttosto che l’approfondimento dottrinale delle questione trattata, ad Ambrogio interessano le tematiche sottese: l’uso della ricchezza nel De Nabuthe, l’esercizio dell’usaura nel De Tobia e gli eccessi della crapula nel De Helia.

Ambrogio affronta il tema dell’uso delle ricchezze in perfetta coerenza col messaggio evangelico, ma soprattutto col suo stile di vita.

Si legge, a proposito del Santo Milanese, che egli cominciò ad insegnare prima ancora di “avere appreso”. Quando dalle cariche civili, degnamente e responsabilmente rivestite, passò alle cariche ecclesiastiche, con un salto repentino, che lo vide Vescovo prima di essere battezzato, catturò con l’esemplarità del suo operare i fedeli, come aveva catturato la società civile da lui amministrata,

spogliandosi di tutti i suoi beni, che donò ai poveri.

Il fatto tuttavia di avere lasciato usufruttuari a vita i suoi familiari non toglie nulla all’importanza del gesto, anzi apre la strada ad una questione complementare sul terreno ideologico circa l’uso delle ricchezze e la visione che Ambrogio ebbe della proprietà privata.

In effetti la portata del messaggio umano, anche a prescindere da quello ecclesiale, del Vescovo di Milano fu talmente grande, che riempì non solo i suoi tempi, ma anche quelli successivi, fino ai contemporanei, sicché fu preso a campione di egualitarismo in tutti quei processi di elaborazione del pensiero socialista, spesso con appropriazioni indebite ed esagerate, da cui con difficoltà si cerca di liberarlo, senza escludere un certo radicalismo del suo pensiero, per ricondurlo nel giusto alveo della dottrina cristiana.

Il De Nabuthe si richiama all’episodio del Libro dei Re dell’A.T. (21). Naboth era un piccolo proprietario terriero, la cui vigna era stata adocchiata dal re Achab, che tuttavia non riuscì ad alienarsela, a farla propria, né col danaro, né con l’offerta di altri campi; solo con la calunnia la regina Gezabele riuscì ad usurpare quel terreno e donarlo al marito: Naboth fu ingiustamente accusato di disobbedienza al re e a Dio e fatto lapidare.

L’episodio biblico offre a S. Ambrogio l’occasione di puntualizzare il suo discorso sulla ricchezza, la quale non è condannata in sé: condannate sono la cupidigia e la miseria morale che portano all’accaparramento smodato delle ricchezze; condannata è l’arroganza, insensibile alla povertà e assetata di potere, per ottenere il quale si macchia addirittura di reati.

Il potere, l’arroganza offendono Dio.

Si è richiamata l’attenzione su due passi significativi del De Nabuthe in cui Ambrogio cita per esemplificare il suo pensiero due passi biblici: Is. 5, 8Fin dove volete arrivare, o ricchi, con le vostre insane cupidigie? Vorrete forse essere i soli ad abitare la terra?… La terra è stata creata in comune per tutti, ricchi e poveri…”, e Sir. 4, 8Quando elargisci al bisognoso, tu non dai del tuo al bisognoso, ma gli rendi il suo…, tu restituisci un debito”.

Dio ha creato tutti gli uomini uguali: è l’avidità che ha creato le differenze: la proprietà privata non corrisponde al disegno di Dio sul Creato, ma è conseguenza della caduta nel peccato da parte dei nostri progenitori. Tuttavia, pur essendo una usurpatio, essa è per Ambrogio un male necessario, quando non si macchia di ingiustizia, quando non è accaparramento indebito, quando si apre agli altri con equità distributiva.

Dice Ambrogio in Expl. Ps. 118, 8, 2: “… Dio nostro ha voluto che questa terra fosse proprietà comune di tutti gli uomini e che fornisse frutti che fossero di tutti. Ma l’avidità ha ripartito i diritti di proprietà. E’ giusto allora che, se rivendichi per te un qualche possesso privato di ciò che in realtà è stato attribuito in comune al genere umano, anche a tutti gli altri esseri animati, è giusto che almeno tu ne spruzzi qualche goccia sui poveri, se non vuoi negare addirittura i mezzi di sussistenza a coloro con i quali avresti una comunanza di diritto”.

Il De Nabuthe fu concepito da Ambrogio in un preciso momento della storia dell’Impero Romano, riunificato per un breve periodo di tempo da Teodosio per poi dividersi definitivamente con i sui figli, Arcadio e Onorio, in Impero d’Oriente col primo e Impero d’Occidente col secondo. Si trattava per la Chiesa di collocarsi in una giusta posizione a cavallo degli eventi storici, rinunciando all’apotaxia, a tirasi cioè fuori dal mondo,  ed entrando  anzi con diritto nelle questioni del mondo, non certo per imporre una linea all’ordine sociale, ma almeno per presentare un suo chiarimento, una sua posizione precisa, criticando l’ordine, o meglio il disordine sociale, che si andava sempre più incancrenendo.

Il rapporto del Vescovo di Milano con gli imperatori che si succedettero  in breve periodo di tempo fu di grande prestigio  per il Santo e per la Chiesa, aprendo la strada al delinearsi della nuova entità storica del Sacro Romano Impero.

 

4. 3. – I TRATTATI SULLA VERGINITA’

 

Il tema della verginità fu un argomento su cui i pensatori cristiani puntarono l’attenzione sin dalle prime origini della storia della chiesa. Si può dire anzi che l’argomento si innestò e fu per così dire la prosecuzione di un fenomeno già esistente nella cultura pagana: basti pensare al ruolo che nel collegio dei pontefici ebbero in ambiente romano le Vestali, le sacerdotesse votate alla castità, cui era affidata la custodia del fuoco sacro nel tempio della dea Vesta: un ruolo importantissimo se si prescinde dal significato simbolico del fuoco e si pensa alla perpetuità dell’Imperium, della potenza di Roma, di cui le Vestali erano in realtà le custodi.

Sul tema della verginità si sono toccati aspetti della quotidianità circa la scelta della verginità oggi, il rapporto tra scelta verginale e scelta matrimoniale, la dimensione matrimoniale della vita verginale e verginale della vita matrimoniale, la libertà, il femminismo.

Le vergini sono modello del Vangelo. Tre erano le tipologie femminili svincolate dai legami familiari, la vergine, la vedova e la diaconessa, tutte e tre legate dall’ideale della continenza e della preghiera, ideali altissimi non basati di certo sul “disprezzo del matrimonio”. Delle tre categorie infatti è la vedova che incarna al più alto grado l’ideale della continenza e si fa maestra di verginità alla vergine, che quell’ideale sublima ancor prima del matrimonio.

E’ emerso subito il significato spirituale della verginità, in quanto scelta di libertà non in odio delle nozze, non ritenute quindi “ontologicamente cattive”. In questo senso i Padri della chiesa andarono anche oltre il pensiero degli Stoici, dei Neopitagorici e dello stesso Platone, che vedevano nel corpo, in quanto schiavo dei cibi, delle bevande e dei piaceri venerei,  la contaminazione dell’anima.

S. Ambrogio nei circa vent’anni del suo Episcopato scrisse quattro opuscoli sulla verginità, De virginibus, De virginitate, De institutione virginis, Exhortatio virginitatis. In tutti e quattro la vergine è considerata un “genus humanum” particolare, nel quale l’integrità, più che integrità fisica è “integrità della mente”, che fonda le sua radici in una più diretta ed immediata somiglianza con Cristo, figlio di Dio. La parola “sacramentum”, con cui il Vescovo di Milano indica l’umanità e il corpo di Cristo “diventa comprensivo anche della vergine cristiana”.

Il passaggio dalla verginità come valore etico-spirituale alla verginità nel suo significato cristologico-ecclesiale è immediatamente consequenziale in S. Ambrogio. La verginità è un “dono dall’alto” e non è una “virtù a sé stante”; è strettamente legata alla “somiglianza del Verbo incarnato”; la vergine vive in terra la vita celeste. Come Cristo immolando il suo corpo ha redento l’umanità, allo stesso modo la vergine non annulla la sua verginità ma la “immola”.

S. Ambrogio vede nella verginità “la femminilità portata al suo stato più puro”: la donna quindi non è seduttrice dell’uomo, ma auxilium, aiuto a superare gli istinti di bestialità propri della natura umana e dominarli. La vergine insegna ad avere il possesso del proprio corpo.

Ma la funzione della vergine va ben oltre la dimensione ecclesiale.

In S. Ambrogio, la vergine cristiana presenta anche altre dimensioni, quella della maternità, quella della povertà e quella della testimonianza.

Il Vescovo di Milano riconosce nella vergine una maternità, “anche se non ha figli”: il parto della vergine è un parto delle labbra. Quando parla la vergine cristiana “esprime il mondo della chiesa, di Gesù Cristo e, coinvolgendo gli altri, lo partorisce in loro. La sua parola, simile alla parola divina, di cui si nutre, genera vita….Nella scelta verginale la donna matura la maternità insita nel suo essere donna, sino a raggiungere una semplicità di espressione totale: il suo stesso dire ha la capacità di partorire vita”. Una maternità quella della vergine che si esplicitava in quei tempi col prendersi concretamente cura dei bambini abbandonati.

Il darsi completamente alla chiesa implicava altresì il voto di povertà, la rinuncia al possesso dei beni materiali per metterli a disposizione dei poveri, cosa che le vergini cristiane praticavano quotidianamente, non sdegnando anche di tendere la mano, quando il frutto del loro lavoro non era sufficiente alle aspettative e alle richieste dei poveri.

Ne consegue la terza dimensione della verginità, la testimonianza di fede. Analogamente alla testimonianza dei martiri, in un tempo in cui per fortuna erano cessate le persecuzioni cruente, le vergini cristiane, come del resto anche i monaci, erano diventati i nuovi martiri, i testimoni dei più alti valori del Cristianesimo, la mitezza, l’umiltà e la carità.

 

4. 4. – GLI  INNI


 


“Ad galli canticum”

 

“Aeterne rerum conditor

noctem diemque qui regis

et tmporum da tempora

ut alleves fastidium,

praeco diei iam sonat,

noctis profundae pervigil,

nocturna lux viantibus,

a nocte noctem segregans.

Hoc excitatus lucifer

solvit polum caligine

hoc omnis erronum chorus

viam nocendi deserit.

Hoc nauta vires coligit

pontique mitescunt freta,

hoc ipse petra ecclesiae

canente culpam diluit.

Surgamus ergo strenue,

gallus iacentes excitat,

et somnolentos increpat,

gallus negantes arguit.

Gallo canente spes redit,

aegris salus refunditur,

mucro latronis conditur,

lapsis fides revertitur.

Iesu, labantes respice

et nos videndo corrige:

si respicis, lapsus cadunt

fletuque culpa solvitur.

Tu lux rifulge sensibus

mentisque somnum discute.

te nostra vox primum sonet,

et ora solvamus tibi


.


 


 

A Sant’Ambrogio (340-397) può attribuirsi la costituzione di uno dei primi repertori del canto cristiano d’Occidente, noto appunto come ambrosiano. Un repertorio di chiara ispirazione orientale, come testimoniano gli scritti di S. Agostino, che supera indenne la definitiva codificazione del canto cristiano, nota come gregoriano, sotto l’egida del potere carolingio, che sopravvive ai severi decreti tridentini e che ancor oggi è eseguito, pur contaminato da diverse e antiche espressioni del canto cristiano. Fondamentale nel repertorio ambrosiano è la pratica degli inni, libere composizioni poetiche ricche di metafore e valori semantici che rimandano all’Antico e al Nuovo Testamento con riferimento precipuo alla storia della salvezza dell’uomo.

.C’è un’efficace definizione che S. Agostino (enarr. in ps., 148,17) dà dell’inno: “un canto, una lode, una lode di Dio”. Da quindi un breve ma puntuale percorso storico dell’innologia cristiana occidentale.

Questa prende l’avvio dalle composizioni di Ilario di Poitiers (315-367), il quale, nel suo esilio in Oriente, conosciuti gli inni che eretici ed ortodossi componevano per diffondere la loro dottrina, al suo ritorno in Occidente pensò di servirsene allo stesso scopo, in polemica con l’arianesimo. Lo stile è però approssimativo e rozzo e gli argomenti dogmatici sono trattati in modo tecnico ed incomprensibile per i fedeli.

Nell’infuocato clima di resistenza del cattolicesimo milanese al dilagante arianesimo, durante la Settimana Santa del 386, Ambrogio compose e fece cantare in chiesa i suoi primi inni con ben altro effetto sul popolo dei fedeli. Ne Le Confessioni (9, 6, 14 e 7, 15) S. Agostino scrive: “Quanto io piansi a sentire i tuoi inni e i tuoi cantici, intimamente commosso dai soavi accenti di cui risuonava la tua Chiesa! Quelle voci si riversavano nelle mie orecchie e la verità stillava nel mio cuore e ne ridondava un grande slancio di pietà e sgorgavano le lacrime e io tutto ne godevo.” E prosegue, dandoci dell’inno una definizione puntuale e significativa sulla scorta di quanto osservato in S Ambrogio: la funzione consolatoria e l’esecuzione corale.

Ma quante e quali sono le composizioni ascrivibili ad Ambrogio?

E’ una vexata questio quella dell’autenticità degli inni ambrosiani. E’ certo che quattro sono gli inni di sicura attribuzione perché attestati da S. Agostino: Aeterne rerum conditor (da eseguirsi al canto del gallo), Iam surgit ora tertia (da eseguirsi all’ora terza), Deus creator omnium (all’ora dell’accensione delle lampade) e Intende qui regis Israel (per il Natale).

L’innodia ambrosiana, sintesi delle tradizioni inniche giudaica, greca e latina, è per unanime consenso degli studiosi una delle creazioni poetiche più originali e perfette del cristianesimo latino. Gli inni di Ambrogio, composti in scorrevoli dimetri giambici, sono caratterizzati da uno stile semplice e chiaro, dalla predilezione per le immagini concrete e il simbolismo tratto dalla quotidianità, non privi di riferimenti all’ortodossia cristiana. In essi l’elemento dottrinale (talora polemico) s’intreccia con quello agiografico, la celebrazione delle grandi festività si accompagna al ringraziamento e alla preghiera delle varie ore del giorno e delle varie festività.

Soprattutto S. Ambrogio si attiene ai fatti della vita terrena del Salvatore e insiste sulla sua nascita e sulla sua morte per affermare l’umanità e la divinità di Cristo.

Le strofe ambrosiane manifestano gusto classicheggiante di equilibrio e semplicità.

“Aeterne rerum coditor” è cantato alla fine della notte, nell’ora che precede l’alba e il sorgere del sole, ed è perciò titolato Ad galli cantum. La sua struttura si dispone, pertanto, intorno ai due fatti evocati dal canto del gallo: il fenomeno naturale e quotidiano del levar del giorno e il diniego di Gesù da parte di Pietro, le sue lacrime e il perdono al mattino del venerdì. Nella prima parte (strofe 1-4) si loda la Creazione della luce, nella seconda (strofe 5-8) si canta la salvezza accordata al primo degli Apostoli.

La prima metà dell’inno è una celebrazione lirica della storia della salvezza. La seconda metà è la preghiera, l’invocazione a Cristo redentore del mondo. Tale struttura di base l’inno cristiano conserverà per sempre (v. gli inni manzoniani).

L’inno ambrosiano è un felice connubio dell’inno classico, componimento lirico corale destinato alla celebrazione della divinità (V. Inni omerici, Callimaco, ecc.) e i contenuti biblici, alla lce della migliore poesia latina (Virgilio).

Se il ricorso alla lirica classica conferisce alta dignità letteraria ai testi, Ambrogio e i suoi seguaci non dimenticano di trasformarne il messaggio poetico e umano in profondi valori di esegesi pastorale e di ricreazione spirituale.

S. AMBROGIOultima modifica: 2011-04-10T13:46:00+02:00da meneziade
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