SAN GIROLAMO

6. S. GIROLAMO (Sofronio Eugenio Girolamo, Stridone, 347 – Betlemme, 420)

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6. 1. – LA PERSONA E L’OPERA.

S. Girolamo, autore della Vulgata, il testo ufficiale in latino della Bibbia, ha fatto notare che è un autore difficile, dalla produzione copiosa e varia, dalla personalità non univoca, la  cui biografia, purgata da dicerie ed invenzioni fantastiche, si deve ad un altro intellettuale rigoroso, suo emulo, Erasmo da Rotterdam (XVI sec.)

Che sia nato a Stridone (340 circa), nell’odierna Slovenia è irrilevante, secondo Erasmo. Per la vastità degli interessi e per la varietà delle sue esperienze esistenziali, che lo portarono in giro per il mondo, consentendogli di comprendere e palare greco, latino, ebraico, aramaico, siriano ed arabo, S.Girolamo è considerato da Erasmo cittadino del mondo, non diversamente da Omero.

Due motivi intanto si possono considerare costanti nella vita di S. Girolamo, ascesi e letteratura. Trasferitosi presto a Roma per completare i suoi studi, fu allievo del famoso grammatico Elio Donato e amico di Rufino, ma il fervore religioso, l’inquietudine interiore, che lo rendeva rigido e talora collerico lo spinsero ad abbracciare la vita monastica e a trasferirsi, con decisione immediata nei deserti dell’ Oriente, sempre tormentato da un dissidio interiore: “…stabilitomi nel deserto, in quella vasta solitudine, che, bruciata dal calore del sole, offre ai monaci una squallida dimora, ho pensato di prender parte ai piaceri di Roma!…io, che, per timore della Geenna (l’inferno) mi ero condannato da solo a questa prigione, in compagnia soltanto di scorpioni e di belve, spesso credevo di essere tra danze di fanciulle….e così, privato d’ogni aiuto, giacevo ai piedi di Gesù, li bagnavo con le lacrime, li asciugavo coi capelli, e domavo la carne ribelle con settimane di digiuno…E, dopo molte lacrime…mi sembrava di essere tra le schiere degli angeli”.

Ma eccolo di nuovo a Roma, segretario di Papa Damaso e affascinato dalle letture ciceroniane e dai contatti con alcuni personaggi femminili appartenenti all’aristocrazia romana, non libero dai tormenti dello spirito: “E così io, sciagurato, digiunavo per poi leggere Cicerone. Dopo frequenti veglie notturne…prendevo in mano Plauto. E se talvolta, ritornato in me, iniziavo a leggere i poeti, mi faceva orrore quel linguaggio rozzo…”. Da Papa Damaso ricevette l’incarico di revisionare le “Veteres latinae”, le traduzioni approssimative della Bibbia circolanti, che si concluse con l’edizione della “Vulgata” il testo canonizzato tuttora in vigore.

Oggetto di critiche per il suo linguaggio spesso caustico e mordace: “…mi viene riferito che alcuni uomini di poco conto mi criticano acerbamente… <perché> io avrei cercato di fare alcune modifiche ai Vangeli! Di tipi simili potrei non curarmene affatto….ma per non sentirmi ridire che sono superbo…incassino questa risposta: penso di non avere uno spirito così ottuso e di non essere così grossolanamente zotico (l’unica qualità che essi ritengono santità…quasi che l’essere del tutto ignoranti li costituisca giusti), fino al punto di azzardarmi a correggere la parola del Signore…”, lasciò definitivamente l’Europa, stabilendosi a Betlemme, dove fondò alcune comunità monastiche, destinate a divenire importanti centri di cultura, e dove morì nel 420.

Nella meditazione di Betlemme abbandonò definitivamente ogni rapporto con l’esterno dedicandosi completamente allo studio dei classici e delle Scritture, esacerbato  dalle dicerie per la familiarità con la nobile matrona romana Paola appartenente ad una ricca e nobile famiglia patrizia, la quale, dopo la morte del marito, consacratasi alla preghiera, dopo che lo aveva ospitato a Roma, lo aveva seguito a Betlemme insieme col figlio Eustachio, intenzionata ad abbracciare la vita monastica. “…Un nutrito stuolo di vergini mi è stato attorno sovente. Ad alcune di loro ho spiegato, con una certa franchezza, i testi sacri…Questa scuola le aveva portate ad essere assidue, l’assiduità alla familiarità, la familiarità alla confidenza. Parlino dunque loro: hanno mai notato in me un atteggiamento non conveniente ad un Cristiano?”

Una figura di uomo e di intellettuale quella di S. Girolamo, non univoca, ma varia, dinamica e nello stesso tempo  coerente, che permette, se non erro, di essere definita moderna.

6.  2. –  BIOGRAFIA E AGIOGRAFIA.

De viris illustribus.

Nella prefazione del De viris illustribus Girolamo si dichiara emulo di Svetonio Tranquillo, autore latino di biografie vissuto nel I sec.

Formatosi per gli aspetti culturali alla scuola dell’insigne grammatico latino Elio Donato, e per gli aspetti dottrinali alle letture del dottore della chiesa Gregorio di Nazianzo, Girolamo apprese dall’uno il metodo di ricerca basato sulla comparazione sincronica, dall’altro il fervore apologetico. Sicchè nel De viris illustribus intese trattare degli “scrittori della chiesa” fino al quattordicesimo anno dell’imperatore Teodosio, con l’idea di comporre non solo una “storia” della chiesa, sul modello del Brutus di Cicerone, ma di dimostrare soprattutto “quanti e quali uomini l’hanno fondata, edificata, adornata”,  perché i detrattori “cessino di tacciare la nostra fede unicamente di rozza semplicità, ma piuttosto riconoscano la loro ignoranza”: l’attacco è specificamente rivolto ai filosofi neoplatonici Celso, Porfirio e Giuliano, dichiaratamente anticristiani.

Non nega intanto la difficoltà dell’impresa, rispetto ai biografi classici, in quanto quelli avevano a disposizione “antiche storie ed annali”, “un vasto prato”, da cui ricavare “una piccola ghirlanda”, egli invece, dovendo trattare di vite di santi, di agiografie, non aveva come maestro se non se stesso, “il peggiore, come si dice”. Per altro, a prescindere dalla Storia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea, una fonte importante, ma generica, l’unico riferimento possibile era, per Girolamo,  la testimonianza diretta desumibile dall’opera dei rispettivi personaggi, sui quali, tuttavia, egli sospende il giudizio, se ancora viventi; come nella vita di Ambrogio vescovo di Milano, perché non gli si rimproveri “in un senso o nell’altro, o l’adulazione o la verità”. Non diversamente poi il Manzoni, rimanderà “ai posteri l’ardua sentenza”, mantenendo la sua poesia “vergin di servo

encomio e di codardo oltraggio”.

Parlando di se stesso, ci dà un resoconto dettagliato delle numerose opere da lui scritte, precisando, a proposito della traduzione della Bibbia, il metodo da lui seguito: “…ho restituito il Nuovo testamento alla fedeltà dell’originale greco, ho tradotto l’Antico dall’Ebraico

Il carattere erudito dell’opera si manifesta nelle frequenti citazioni di  autori classici, talora, tuttavia con qualche inesattezza o svista, che si giustifica con l’intento primario del lavoro, che è quello manifestamente dichiarato di storia della chiesa. Probabilmente l’accenno a Seneca deve avere contributo alla formulazione di un presunto carteggio con S. Paolo, oggi ritenuto apocrifo. Spesso è anche uno sfoggio di erudizione, non senza una certa forzatura, quando, come nella vita di Ilarione, scomoda fin anche Omero: invocando lo Spirito Santo, perché, come donò al Santo “la virtù di operare miracoli”, così conceda a lui “la voce di raccontarli”, facendo proprio il  pensiero di Sallustio, già diffuso e noto, secondo cui “la virtù di coloro che hanno operato viene considerata tanto grande, quanto hanno potuto levarla in alto con le parole i nobili ingegni”, cita l’aneddoto di Alessandro Magno, che, venuto presso la tomba di Achille, avrebbe esclamato: “Te felice, o giovane, che hai la fortuna di avere un grande banditore delle tue gesta”, alludendo, appunto, ad Omero. Il Foscolo renderà poi universale l’illusione di una poesia eternatrice, anch’egli scomodando Omero, ma senza rasentare il paradosso geronimiano, per cui “Omero, se fosse qui vivo, o proverebbe invidia per il mio argomento o soccomberebbe ad esso”…ma è tanto l fervore apologetico e parenetico…

Nell’elogio funebre di Paola, la nobile matrona romana, la quale lo aveva seguito a Betlemme insieme col figlio Eustachio, abbracciando la vita monastica, si lascia andare ad un’ eloquenza, che sfocia nella stesura, come epigrafe tombale,  di eleganti esametri, che introduce con il famoso graziano “Exegi monumentum aere perennius” (Ho elevato un monumento più duraturo del bronzo): in essi si esalta la stirpe antica della matrona, che, prima tra i romani, seguì la povertà di Cristo a Betlemme; ora riposa nella “greppia” di Cristo.

Hic prae –sepe tu-um,// Chri-st’, atqu’hic-mystica-magi

Munera-portan-tes//homi-nique re-gique de-dere

(Qui è la tua greppia, Cristo, qui i magi portarono mistici doni all’uomo e al dio).

6. 3. – L’ESEGESI BIBLICA IN S. GIROLAMO…E CONTEMPORANEA

L’esegesi dei testi sacri affrontata dai Padri della Chiesa era tutt’altro che un approccio gratuito e approssimativo,  ma uno studio attento e basato su criteri metodologici e neppure privo di trasalimenti e di ansie, come è buona norma per chi si pone di fronte alla ricerca con animo sgombro da preconcetti e con intendimenti scientifici. S. Girolamo, formatosi alle letture classiche, ne assimilò la lezione considerandola positiva solo se propedeutica a quella della Scrittura.

L’esegesi biblica in S. Girolamo nasce con uno scopo ben preciso: “commentare le lettere di Paolo, il Vangelo di Matteo, i Profeti”.

Scopo principale del commentario è la spiegazione (explanatio), l’interpretazione del testo rivelato per  mettere il lettore nelle condizioni di comprendere e apprezzare ciò che legge. L’esegeta ha, per S. Girolamo, legittimità di intervenire sul testo, citando, intanto, le altre interpretazioni, antiche e recenti, ebraiche, greche e latine, ma senza sentirsene vincolato, al fine di presentare l’immensa ricchezza della tradizione non solo cristiana.

Ciò che contraddistingue l’esegesi geronimiana è la “simplicitas” espositiva come scelta di metodo non solo dettato dall’essenzialità della lingua ebraica, ma finalizzato anche  a far risaltare la sublimità della “res”, della sostanza che è la parola rivelata.: “Ecclesia Christi non de Accademia et Lycaeo, sed de vili plebicula  congregata est” (Il popolo di Dio  non è un pubblico di accademici, ma gente semplice). Dei vari metodi di interpretazione: letterale, spirituale e allegorico, su cui si erano espressi gli esegeti antiocheni ed alessandrini, S. Girolamo utilizza, ecletticamente, alcuni principi, e se propende per l’interpretazione letterale, è anche consapevole che “da ogni pagina della Scrittura si sprigiona un significato sublime che va oltre la semplicità della lettera”. “Particolarmente efficace risulta il paragone del senso letterale all’argento e del senso spirituale, più recondito, all’oro. L’esegeta deve tener conto della profondità e complessità del testo sacro. Deve, dunque,  essere uomo di molto studio e di elevata pietà”.

S. Girolamo ribadisce più volte la necessità di leggere l’A. T. alla luce di Cristo:  il senso letterale è quello proprio giudaico, il senso spirituale viene dato da Cristo: è quanto si evince dal commento  al libro di Giona. In Giona, che, fattosi buttare in mare, espia nel corpo di un pesce la colpa per non essersi recato a Ninive a predicare la parola di Dio, S. Girolamo vede Cristo in due momenti della sua Passione e Morte: quando prega il Padre a tenere lontano da lui quel “calice” e  quando, dopo tre giorni nel sepolcro vince la morte.

Non diversamente dalla filologia l’esegesi biblica è andata attestandosi nel corso dei tempi su basi metodologiche e scientifiche, come dimostrano alcune encicliche papali (Providentissimus Deus di Leone XIII, Divino afflante Spiritu di Pio XII) e, più recentemente la Costituzione dogmatica Dei Verbum considerata il capolavoro del Concilio Vaticano II.

Si ricava che, come nel campo della letteratura, così anche per le scritture bibliche, non è possibile ad un lettore, che voglia essere attento, accostarsi ai contenuti senza la mediazione di un’esegesi; d’altra parte l’ignoranza della Bibbia è ignoranza di Cristo: onde la necessità di una esegesi (traduzione e spiegazione) nello stesso tempo fedele ed in un linguaggio accessibile.

Oggi i metodi esegetici sono tutti scientificamente condotti.

Il metodo storico-critico, per esempio, chiarisce, se ce ne fosse bisogno, al lettore moderno che quei testi molto antichi erano destinati a popoli, che parlavano lingue diverse e pensavano in forme diverse; dimostra che essi hanno avuto un lunga preistoria, inestricabilmente legata alla storia di Israele o quella della Chiesa primitiva. Esso tuttavia ha un limite: non va oltre le circostanze storiche che hanno ispirato il racconto biblico e “non si interessa alle altre potenzialità di significato che si sono manifestate nel corso delle epoche posteriori della rivelazione biblica e della storia della Chiesa”.

Nessun metodo scientifico è in grado, purtroppo, di far emergere tutta la ricchezza di significati contenuta nei testi biblici. Essi comprendono un senso letterale, un senso spirituale, un senso allegorico e un  senso pieno, cioè il senso più profondo, voluto da Dio. La Sua Parola è eterna;  si è incarnata in un momento preciso della storia, in un ambiente sociale e culturale ben determinato, ma è destinata a parlare agli uomini e alle donne di tutti i tempi. Fin dal tempo dell’Antico Testamento “Dio ha sfruttato tutte le possibilità del linguaggio umano, ma nello stesso tempo ha dovuto sottomettere la sua Parola a tutti i condizionamenti di questo linguaggio”.

“Il vero rispetto per la Sacra Scrittura esige che si compiano tutti gli sforzi necessari perché si possa cogliere bene il suo significato”. E poichè non è possibile che ogni cristiano faccia personalmente la sua esegesi per meglio comprendere i testi biblici, questo compito è affidato ovviamente agli esegeti.

6. 4. – LA “VULGATA

La traduzione in latino della Bibbia

E’ stata posta l’attenzione sulla complessità del lavoro, che avrebbe richiesto al traduttore un notevolissimo impegno in termini di tempo, non meno che di conoscenze disciplinari e metodologiche.

Papa Damaso, certamente consapevole della mastodonticità del progetto, riconobbe subito in S. Girolamo la persona più capace e preparata per la realizzazione dell’opera: la traduzione nacque in un clima di fermenti culturali,  non tutti favorevoli, che non potevano non portare un contributo positivo alle scelte editoriali di S. Girolamo.

Dalla biografia del Santo sappiamo che fu appassionatissimo di letture latine, al punto da preferirle a quelle della Bibbia, il cui linguaggio gli pareva rozzo ed incolto, rispetto all’eleganza dei testi di Cicerone. Senonché proprio a margine di questa consapevolezza,egli andò confermandosi sempre di più nell’idea che, comunque, il vero Thesaurus stava nella Sacra Scrittura: queste le due componenti che dovevano costituire la base per il lavoro, immane, della traduzione: la conoscenza delle Scritture e la familiarità della lingua latina.

La versione più antica della Bibbia era, ed è tuttora, in greco, nota come Bibbia dei Settanta. Essa risale al III sec. a. C. e fu opera di settanta dotti ebrei che parlavano greco e che lavorarono nella Biblioteca di Alessandria d’ Egitto.
Altre versioni erano la Siriaca, la Samaritana, l’Armena, la Copta, l’Araba.
Importantissima la versione fatta da Origene col titolo di Hexapla, che richiese al traduttore 12 anni di lavoro. L’edizione era disposta su sei colonne: due testi ebraici, uno a caratteri ebraici, uno a caratteri greci, più quattro versioni, tra cui quella dei Settanta.

Prima della traduzione di S. Girolamo circolavano già versioni latine della Bibbia, la principale delle quali era l’ Itala, redatta tra il II e il III secolo. Tutte le versioni precedenti a quella di S. Gerolamo sono indicate con il termine generico di Latina vetus.

La genesi del lavoro di S. Girolamo non è ben chiara. Papa Damaso avrebbe, nel 384, incaricato il suo segretario, S. Girolamo, a rivedere il testo dei Vangeli. All’Antico Testamento lo studioso si accostò per conto suo, forse attratto primieramente dal Libro dei Salmi. Assunse l’onere completo solo dopo la morte di Papa Damaso e il suo trasferimento a Betlemme, quando, frequentando la biblioteca di Cesarea, venne a contatto con l’Exapla di Origene. Nel 390-2 si accinse con un programma organico alla traduzione facendo diretto riferimento al testo ebraico, ma senza trascurare la consultazione di testi greci, per un tempo che si sarebbe protratto per 15 anni.

Alla base della traduzione non c’è, quindi,  semplicemente la curiositas dell’intellettuale di fronte alla varietà dei racconti biblici, ma la preoccupazione dello studioso di darne  una esegesi  fedele ai contenuti, ma dignitosa nell’espressione, in funzione dell’importanza dell’ Hebraica Veritas.

Da qui le ricerche sui metodi della traduzione, che ci danno di S. Girolamo l’immagine di un filologo serio e preparato. Convinto che ogni traduzione è una falsificazione del testo originario, ripropone la questione che già Cicerone aveva affrontato nel De optimo genere oratorum: se sia più giusto tradurre verbum e verbo o sensum de sensu, vale a dire se è più consigliabile una traduzione letterale o una libera, che ne riproduca il senso.

S. Girolamo,  ovviamente,  è per una traduzione che riproduca il senso del testo, soprattutto per la Sacra Scrittura, in cui l’ordo verborum (l’ordine delle parole) è un mistero. Il traduttore deve prima fare suo il pensiero dell’originale per poi rivestirlo di una espressione linguistica diversa, evitando la kakozelìa, il cattivo gusto derivante dall’ eccessivo, pedante letteralismo: è sicuramente consigliabile, per S. Girolamo, lasciare intradotti  termini o nessi idiomatici che non trovano riscontro nella lingua di destinazione: si pensi alle parole amen o salom, con cui gli Ebrei erano soliti concludere un discorso, augurandosi un felice e pacifico esito per il futuro: melius non interpretata ponere, quam vim eorum interpretatione tenuare (meglio lasciare come sono alcune parole, che ridurne con la traduzione la forza espressiva).

S.Girolamo, così, dopo “le finezze di Quintiliano, l’eloquenza di Cicerone, la gravità di Frontone, la soavità di Plinio”, imparò l’ebraico “stridente” ed “aspirato”: “So io cosa ho patito.- dice lo

studioso –  Ora ringrazio il Signore perché dal seme amaro di tali studi raccolgo frutti saporosi”.

La Vulgata, per ironia della sorte chiamata con un nome, cui mai S. Girolamo avrebbe pensato per il suo lavoro, non ebbe vita facile, se si pensa che fin anche S. Agostino espresse riserve. Affermatasi con questo nome nel ‘600 nell’ ambiente di Isidoro di Siviglia, solo dal Concilio di Trento (1546) fu adottata come testo ufficiale della chiesa cattolica, tale restando sostanzialmente nelle edizioni successive fino al Concilio Vaticano II (1962-65).

Il difficilissimo lavoro di un’edizione critica della Vulgata, cominciato nel 1907, su iniziativa di Papa Pio X, da un’équipe di Benedettini, fu portato avanti da Papa Pio XI con la fondazione dell’ Istituto dell’Abbazia di S. Girolamo, cui si deve l’attuale testo critico: Biblia sacra iuxta latinam vulgatam versionem ad codicum fidem edita, della quale oggi si consulta l’Editio minor, pubblicata a Stoccarda nel 1969.

SAN GIROLAMOultima modifica: 2011-04-14T13:49:00+02:00da meneziade
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